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CHUCK PALAHNIUK DIARY (Diary, 2003) A mio nonno, Joseph Tallent, che mi ha detto di essere qualsiasi cosa volessi essere. 1910-2003 21 giugno tre quarti di luna Oggi ha chiamato un signore da Long Beach. Ha lasciato un lungo messaggio in segreteria, sussurrando e gridando, parlando lentamente e poi veloce, imprecando e minacciando di chiamare la polizia, di farti arrestare. Oggi è il giorno più lungo dell'anno, anche se ormai tutti i giorni lo sono. Il tempo previsto per oggi è inquietudine crescente seguita da terrore conclamato. L'uomo che ha chiamato da Long Beach, dice che gli è sparito il bagno. 22 giugno Quando leggerai queste parole sarai più vecchio di quanto ricordavi. Il nome ufficiale delle tue macchie senili è lentiggini iperpigmentate. Il termine anatomico ufficiale per definire una ruga è ritide. Le grinze che hai nella parte superiore della faccia, le ritidi che ti solcano la fronte e gli occhi, sono solchi dinamici, detti anche linee facciali iperfunzionali e provocati dal movimento dei muscoli sottostanti. Le rughe nella parte inferiore della faccia sono ritidi statiche, provocate dal sole e dalla gravità. Ma diamoci un'occhiata allo specchio. Guardati la faccia con attenzione. Guardati gli occhi, la bocca. Ciò che credi di conoscere meglio. La tua pelle è composta essenzialmente da tre strati. Quello che puoi toccare è lo strato corneo, fatto di cellule piatte morte sospinte in superficie dalle nuove cellule che crescono al di sotto. Ciò che provi al tatto, quella sensazione oleosa, è il film lipidico, il rivestimento di olio e sudore che ti protegge da germi e funghi. Subito sotto c'è il derma. Poi uno strato di
grasso. Sotto il grasso ci sono i muscoli del volto. Forse tutto questo lo ricordi ancora dall'accademia delle belle arti, corso di Anatomia Umana 201. Ma forse no. Quando sollevi il labbro superiore - quando mostri l'incisivo, quello che ti ha rotto il custode del museo - ecco: è il tuo muscolo elevatore del labbro superiore in azione. Il muscolo del ghigno. Mettiamo che tu senta puzza di urina vecchia, stantia. Mettiamo che tuo marito si sia appena suicidato sulla vostra auto familiare. Mettiamo che tu debba metterti lì a ripulire il suo piscio dal sedile del conducente con una spugna. Mettiamo che tu debba continuare a guidare il rottame arrugginito e puzzolente per andare al lavoro, con tutti che ti guardano, tutti che sanno, perché è l'unica macchina che hai. Ti dice niente? Quando una persona normale, una persona normale e innocente che certo meritava qualcosa di molto meglio, quando questa persona torna a casa dopo una giornata passata a servire ai tavoli e trova suo marito morto asfissiato in macchina, con la vescica che perde, e si mette a urlare, ecco: quello non è altro che il suo muscolo orbicolare della bocca teso allo stremo. Il solco profondo che va dagli angoli della bocca al naso si chiama plica nasolabiale. C'è chi la chiama "ruga del sorriso". A mano a mano che invecchi, il cuscinetto di grasso che hai nelle guance, il termine anatomico ufficiale è bolla adiposa zigomatica, scivola sempre più in basso, fino ad assestarsi contro la piega nasolabiaìe, trasformando la tua faccia in un ghigno permanente. Giusto un piccolo corso per rinfrescare la memoria. Passo dopo passo. Un ripassino. Casomai non ti riconoscessi. Adesso corruga la fronte. Ecco: questo è il muscolo triangolare che tende verso il basso gli angoli del muscolo orbicolare della bocca. Mettiamo che tu sia una dodicenne che a suo padre voleva un bene dell'anima. Una piccola preadolescente che del suo papà ha bisogno più che mai. Che era convinta che suo padre ci sarebbe stato sempre. Mettiamo che ogni sera tu vada a letto e pianga, stringendo gli occhi così forte che ti si gonfiano. La superficie "a buccia d'arancia" del tuo mento, quelle piccole protuberanze increspate, sono provocate dal muscolo mentoniero. Il muscolo del "broncio". Quelle linee corrugate che vedi ogni mattina, sempre più profonde, diramarsi dagli angoli della bocca fin quasi a sfiorare il mento, ec-
co: quelle si chiamano rughe della marionetta. Le pieghe tra le sopracciglia sono solchi glabellari. Il modo in cui le tue palpebre gonfie ricadono in avanti è detto ptosi. Le tue ritidi periorbitali laterali, le cosiddette "zampe di gallina", peggiorano di giorno in giorno e tu hai soltanto dodici anni, che cazzo. Non fingere di non sapere di che parlo. Della tua faccia. E adesso sorridi. Se ci riesci ancora. Ecco: questo è il tuo muscolo grande zigomatico. Ogni contrazione ti dischiude la carne, proprio come i nastri che tengono aperte le tende della finestra del tuo soggiorno. Come le funi che aprono il sipario di un teatro, ogni tuo sorriso è un debutto. Una prima. Tu che sveli te stesso. Ora sorridi come sorriderebbe una madre anziana dopo che il suo unico figlio si è suicidato. Sorridi e accarezza la mano di tua nuora e di sua figlia adolescente, di' loro di non preoccuparsi, che davvero, alla fine, tutto si sistemerà. Continua a sorridere e raccogliti i lunghi capelli grigi con un fermaglio. Vai a giocare a bridge con le attempate signore amiche tue. Incipriati il naso. L'enorme orrendo malloppo di grasso che ti vedi penzolare sotto il mento, la cosiddetta pappagorgia che ogni giorno diventa più grossa e tremolante, ecco: quello è grasso submentoniero. L'anello raggrinzito di rughe che ti circonda il collo è il muscolo platisma. Il lento scivolare dell'intero viso, del mento e del collo, è dovuto alla gravità che trascina verso il basso il sistema muscoloaponeurotico superficiale. Ti dice niente? Se ora come ora ti senti un po' confuso, cerca di rilassarti. Non ti preoccupare. Basta che tu sappia che questa è la tua faccia. Ciò che credi di conoscere meglio. I tre strati della tua pelle. Le tre donne della tua vita. L'epidermide, il derma e il grasso. Tua moglie, tua figlia e tua madre. Se stai leggendo queste parole, bentornato alla realtà. Ecco che cosa ha prodotto tutto il magnifico, illimitato potenziale della tua gioventù. Tutte quelle aspettative disattese. Ecco cos'è che hai fatto della tua vita. Ti chiami Peter Wilmot. Basta che tu capisca che razza di patetico sacco di merda sei diventato.
23 giugno Chiama una signora da Seaview per dire che il suo ripostiglio per la biancheria è scomparso. Lo scorso settembre casa sua aveva sei stanze da letto e due ripostigli. Ne è sicura. Adesso invece ce n'è solo uno. Viene ad aprire la sua casa al mare per l'estate. Arriva in macchina, dalla città, con i bambini e la tata e il cane. Sono lì con tutti i bagagli, e gli asciugamani non ci sono più. Spariti. Puf. Triangolodellebermudati. Dalla sua voce sulla segreteria, dal modo in cui stride facendosi acuta, acutissima, trasformandosi in una sirena antiaerea alla fine di ogni frase, capisci che trema come una foglia, ma più che altro è spaventata. Dice: «Cos'è, una specie di scherzo? Per favore, mi dica che qualcuno l'ha pagata per fare una cosa del genere». La sua voce sulla segreteria dice: «Glielo chiedo per favore. Io la polizia non la chiamo. Ma lei lo rimetta al suo posto, d'accordo?». Dietro la sua voce, tenue in sottofondo, si sente quella di un bambino che dice: «Mamma?». La donna, allontanandosi dal ricevitore, dice: «Adesso si sistema tutto». Dice: «Niente panico». Il tempo previsto per oggi è tendenza alla negazione in aumento. La sua voce sulla segreteria dice: «Mi richiami, d'accordo?». Lascia il suo numero di telefono. Dice: «Per favore...». 25 giugno Immaginati una lisca di pesce come la disegnerebbe un bambino: lo scheletro di un pesce, con la testa da una parte e la coda dall'altra. In mezzo, la lunga spina dorsale attraversata dalle costole. È il genere di scheletro di pesce che immagineresti in bocca a un gatto dei cartoni animati. Immaginati questo pesce come un'isola ricoperta di case. Immaginati il genere di case-castello che disegnerebbe una bambina cresciuta in una roulotte: grandi case in pietra, ciascuna con una foresta di camini, ciascuna una catena montuosa di tetti, ali e torri e timpani diversi, tutti che salgono fino al parafulmine che sta in cima. Tetti d'ardesia. Elaborate recinzioni in ferro battuto. Case da sogno, gonfie di bovindi e abbaini. Tutt'intorno, alberi di pino perfetti, roseti e marciapiedi di mattonelle rosse. Il sogno borghese di una bimba bianca con le pezze al culo.
L'isola intera era esattamente ciò che una bambina cresciuta in un parcheggio per roulotte - diciamo in un buco sperduto come Tecumseh Lake, Georgia - avrebbe sognato. Questa bambina, quando la mamma era al lavoro, accendeva tutte le luci della roulotte. Si sdraiava sull'arruffato tappeto arancione a pelo lungo del soggiorno. Il tappeto puzzava come se qualcuno avesse pestato una cacca di cane. In certi punti l'arancione si scioglieva in nero per via delle bruciature di sigaretta. Il soffitto era macchiato d'umidità. La bambina incrociava le braccia sul petto, e immaginava di vivere in un posto del genere. Succedeva a quell'ora tarda della notte, quando le orecchie raccolgono ogni suono. Quando vedi più cose tenendo gli occhi chiusi che non aperti. Lo scheletro di pesce. Dalla prima volta che tenne in mano una matita colorata, lei non disegnò nient'altro. Mentre questa bambina cresceva, forse la sua mamma a casa non c'era mai. Il papà non l'aveva mai conosciuto, e forse la mamma faceva due lavori. Uno in una schifosa fabbrica di isolanti in vetroresina, l'altro a servire cibo nella mensa di un ospedale. È ovvio che questa bambina sognasse un posto come quest'isola, dove nessuno lavora se non per tenere pulita la casa o raccogliere mirtilli selvatici e oggetti sulla spiaggia. Ricamare fazzolettini. Creare composizioni di fiori. Dove le giornate non cominciano con la sveglia e non si concludono con la televisione. Lei immaginò queste case, ogni casa, ogni stanza, il bordo intagliato della mensola di ogni caminetto. Il motivo geometrico di ogni parquet. Lo immaginò dal nulla. La linea curva di ogni lampada o rubinetto. Ogni piastrella, lei se la vide davanti agli occhi. La immaginò, a notte fonda. Ogni motivo di tappezzeria. Ogni scandola e scala e grondaia, lei la disegnò con i pastelli. La colorò con le matite. Di ogni marciapiede di mattonelle e di ogni siepe di bosso, lei fece uno schizzo. Inserì il rosso e il verde con gli acquarelli. Vide, immaginò, sognò tutto quanto. Lo desiderò enormemente. Da quando riuscì a impugnare una matita, disegnò sempre la stessa cosa. Immaginati questo pesce con la testa rivolta a nord e la coda rivolta a sud. La spina dorsale è attraversata da sedici costole, che si diramano sia a est che a ovest. La testa è la piazza del paese, con il traghetto che va e viene dal porto, ovvero la bocca del pesce. L'occhio del pesce sarebbe l'hotel, e intorno a quello l'alimentari, il ferramenta, la biblioteca e la chiesa. La bambina dipinse le strade con il ghiaccio che copre gli alberi spogli. Aggiunse uccelli che facevano ritorno portando ramoscelli di giunco marino e aghi di pino per costruirsi il nido. Poi piante di digitale in fiore, più al-
te delle persone. Poi girasoli più alti ancora. Poi spirali discendenti di foglie e il suolo sottostante bitorzoluto di noci e castagne. Vedeva tutto così chiaramente. Riusciva a figurarsi ogni stanza di ogni casa. E più riusciva a immaginare quest'isola, meno il mondo reale le piaceva. Più riusciva a immaginare la gente, meno la gente reale le piaceva. Specialmente la sua mamma hippie, che era sempre stanca e odorava di patate fritte e fumo di sigarette. La cosa giunse al punto che Misty Kleinman rinunciò per sempre alla prospettiva di essere una persona felice. Si chiamava Misty Kleinman. E casomai non fosse nei paraggi quando leggerai queste parole, sappi che era tua moglie. Casomai non stessi semplicemente facendo il finto tonto, sappi che quella poveretta di tua moglie all'anagrafe faceva Misty Marie Kleinman. Quella povera, stupida bambina quando disegnava un falò sulla spiaggia riusciva a sentire il gusto delle pannocchie di granoturco e dei granchi bolliti. Se disegnava il giardino aromatico di una casa, riusciva a sentire l'odore del rosmarino e del timo. Eppure, più diventava brava a disegnare, più la sua vita peggiorava. Finché nulla del suo mondo reale le andò più bene. Finché non sentì di non appartenere più ad alcun luogo. Nessuno andava bene, nessuno era abbastanza raffinato, abbastanza reale. Non i ragazzi delle superiori. Non le ragazze. Niente era reale quanto il suo mondo immaginato. Finché non si ritrovò dallo psicologo della scuola, e a rubare dalla borsetta della madre soldi da spendere in droga. Perché la gente non dicesse che era pazza, decise di incentrare la sua vita sull'arte, invece che sulle visioni. In realtà desiderava soltanto possedere le capacità necessarie per documentarle. Per rendere il suo mondo immaginato sempre più esatto. Sempre più reale. E all'accademia conobbe un ragazzo di nome Peter Wilmot. Conobbe te, un ragazzo che veniva da un posto chiamato Waytansea Island. E vedendo l'isola per la prima volta, arrivando da qualsiasi posto del mondo, uno pensa di essere morto. Di essere morto e finito in paradiso, per sempre al sicuro. La spina dorsale del pesce è Division Avenue. Le costole del pesce sono strade, innanzitutto Alder Street, un isolato a sud della piazza del paese. Poi vengono Birch Street, Cedar Street, Dogwood, Elm, Fir, Gum, Hor-
nbeam, tutte quante in ordine alfabetico, fino a Oak Street e Poplar Street, appena prima della coda del pesce. Lì, l'estremità meridionale di Division Avenue diventa prima ghiaia, poi sterrato, e quindi scompare tra gli alberi di Waytansea Point. Non è una descrizione scadente. È esattamente così che appare il porto quando per la prima volta arrivi in traghetto dalla terraferma. Stretto e lungo, il porto sembra la bocca di un pesce, che aspetta di inghiottirti in una vicenda biblica. Se hai tutta la giornata, Division Avenue puoi percorrerla a piedi da cima a fondo. Puoi fare colazione al Waytansea Hotel, poi spostarti a sud di un isolato, raggiungendo la chiesa di Alder Street. Poi casa Wilmot, l'unica casa nel braccio est di Birch Street, con i suoi oltre sei ettari di prato che scendono fino al bordo dell'acqua. Poi la Burton House di East Juniper Street. I terreni boscosi fitti di querce, ogni albero alto e contorto come un fulmine ricoperto di muschio. Il cielo su Division Avenue, in estate, è verde di densi e mobili strati di foglie d'acero e quercia e olmo. Arrivando qui per la prima volta uno pensa che tutte le sue speranze e i suoi sogni si siano realizzati. Che vivrà per sempre felice e contento. Il punto è che, per una bambina che ha sempre e soltanto vissuto in una casa con le ruote, questo appare come il luogo speciale e sicuro in cui vivrà amata e accudita per sempre. Per una bambina che un tempo si sedeva su un tappeto ruvido con una scatola di matite colorate o di pastelli a disegnare queste case, case che non aveva mai visto. A disegnare il modo in cui le immaginava, con le verande e le vetrate colorate. Per questa bambina, vedere un giorno quelle case dal vero. Proprio quelle case lì. Case che, ne era convinta, avrebbe sempre e soltanto immaginato... Dalla prima volta che riuscì a disegnare, la piccola Misty Marie conobbe gli umidi segreti delle fosse biologiche dietro ogni casa. Seppe che i fili elettrici nei muri erano vecchi, isolati con stracci e tesi attraverso tubature di ceramica e condotti di ceramica. Fu in grado di disegnare l'interno di ogni porta d'ingresso, dove ogni famiglia dell'isola segnava il nome e la statura di ciascun figlio. Persino dalla terraferma, dal molo del traghetto a Long Beach, a tre miglia d'acqua marina di distanza, l'isola sembra un paradiso. Con quei pini di un verde così scuro da sembrare neri, le onde che si infrangono contro le rocce brune, ha l'aria di essere tutto ciò che lei potrebbe mai desiderare. Protezione. Silenzio e solitudine.
Oggigiorno è esattamente questa l'impressione che l'isola suscita in un sacco di persone. Un sacco di ricchi estranei. Per questa bambina che non ha mai nuotato in nulla di più grosso della piscina del parcheggio roulotte, accecata dal troppo cloro, giungere a bordo del traghetto nel porto di Waytansea, con gli uccelli che cantano e il sole che si riflette splendente dalle tante file di finestre dell'hotel. Sentire l'oceano accarezzare i fianchi del frangiflutti, e il sole così caldo e il vento pulito tra i capelli, l'odore delle rose in piena fioritura... del timo e del rosmarino... Questa patetica adolescente che non aveva mai visto l'oceano era già stata in grado di dipingere i promontori e le scogliere che svettavano alti sulle rocce. E alla perfezione. Povera, piccola Misty Marie Kleinman. Questa bambina giunse qui da sposa, e tutta l'isola venne ad accoglierla. Quaranta, cinquanta famiglie, tutte sorridenti e in attesa del loro turno di stringerle la mano. Un coro di bambini delle elementari cantò. Le lanciarono il riso. Ci fu una grande cena in suo onore all'hotel, e tutti quanti brindarono a lei con lo champagne. Dalle colline in alto sopra Merchant Street, le finestre del Waytansea Hotel, tutti e sei i piani, le file di finestre e verande a vetri, lo zigzag delle file di abbaini nel tetto ripido, ogni cosa osservò il suo arrivo. Tutti osservarono Misty che veniva a vivere sull'isola, in una delle grandi case nell'ombrosa e verdeggiante pancia del pesce. Bastò un'occhiata a Waytansea Island perché Misty Kleinman capisse che era valsa la pena di prendere il largo dalla madre operaia. Dalle cacche di cane e dal tappeto a pelo lungo. Giurò di non rimettere mai più piede nel parcheggio roulotte. Mise il suo progetto di diventare pittrice in attesa. Il punto è che, da bambina, ma anche quando sei un pochino più grande, quando magari hai vent'anni e ti sei iscritta all'accademia, del mondo reale non sai niente. Se una persona dice di amarti, tu vuoi assolutamente crederle. Se dice di volerti sposare e portare a vivere su un'isola perfetta, in paradiso. In una grande casa di pietra in East Birch Street. Se dice che vuole soltanto renderti felice. E che no, in tutta sincerità, non ti torturerà mai a morte. E la povera Misty Kleinman si disse che non era una carriera d'artista ciò che desiderava. Ciò che davvero desiderava, che aveva sempre desiderato, era la casa, la famiglia, la pace. Poi arrivò a Waytansea Island, dove tutto era così perfetto.
Poi venne fuori che si era sbagliata. 26 giugno Chiama un uomo dalla terraferma, da Ocean Park, per lamentarsi del fatto che gli è sparita la cucina. È naturale non accorgersene subito. Quando per un po' di tempo vivi nello stesso posto - una casa, un appartamento, un paese - è inevitabile che finisca per sembrarti troppo piccolo. Ocean Park, Oysterville, Long Beach, Ocean Shores: sono tutte cittadine sulla terraferma. La donna che non trova più il ripostiglio. Il signore a cui è sparito il bagno. Tutte queste persone sono messaggi in segreteria, gente che si è fatta fare qualche lavoro di ristrutturazione nelle case delle vacanze. Posti di terraferma, popolo dell'estate. Se hai una casa da nove stanze che vedi solo due settimane all'anno, può darsi che ti ci voglia qualche stagione per renderti conto che ne manca un pezzo. La maggior parte di queste persone possiede almeno cinque o sei case. Ma non si tratta di vere case. Più che altro sono investimenti. Questa gente possiede appartamenti in condomini e residence. Case a Londra e a Hong Kong. C'è uno spazzolino da denti che li aspetta in ogni fuso orario. Un mucchio di vestiti sporchi in ogni continente. La voce che si lamenta dalla segreteria telefonica di Peter dice che prima c'era una cucina con i fornelli a gas. Un doppio forno incastonato in una parete. Un frigorifero grosso, a due ante. Ascoltando le sue rimostranze, tua moglie Misty Marie annuisce, come a dire che sì, da queste parti tante cose una volta erano diverse. Una volta per prendere il traghetto bastava andare al molo. Parte ogni mezz'ora, terraferma e ritorno. Ogni mezz'ora. Adesso devi fare la fila. Aspettare il tuo turno. Startene seduto lì nel parcheggio in mezzo a un sacco di estranei con le loro macchine sportive luccicanti che non puzzano d'urina. Il traghetto fa in tempo ad andare e venire tre o quattro volte prima che a bordo ci sia posto per te. E per tutto il tempo tu te ne stai seduto al sole, al caldo, in mezzo a quell'odore. Solo per andarsene dall'isola ci vuole una mattinata intera. Una volta bastava presentarsi al Waytansea Hotel e ti davano subito un tavolo accanto alle finestre, nessun problema. Una volta a Waytansea Island non vedevi rifiuti in giro. Né traffico. Né tatuaggi. Piercing al naso. Siringhe abbandonate dal mare sul bagnasciuga. Preservativi usati e appic-
cicaticci nella sabbia. Cartelloni pubblicitari. Graffiti con i loghi delle multinazionali. L'uomo di Ocean Park ha detto che la sua sala da pranzo è tutta una boiserie di quercia impeccabile con tappezzeria a righine azzurre. Lo zoccolo e le cornici e le modanature corrono da un angolo all'altro senza una giuntura, senza un'interruzione. Lui ha provato a bussare, e la parete è un solido muro a secco intonacato su struttura in legno. Al centro di questa parete perfetta. È lì che lui giura ci fosse la porta della cucina. Al telefono, l'uomo di Ocean Park dice: «Magari mi sbaglio, ma una casa deve avere una cucina, giusto? Non è così? Non c'è scritto nel regolamento edilizio o da qualche altra parte?». La donna di Seaview si è accorta del ripostiglio scomparso solo quando è rimasta senza asciugamani puliti. L'uomo di Ocean Park ha detto di aver preso un cavatappi dalla credenza della sala da pranzo. Con quello ha praticato un piccolo foro nel punto in cui ricordava dovesse esserci la porta della cucina. Poi ha preso un coltello dalla credenza e ha allargato il buco un altro po'. Il suo portachiavi ha una piccola torcia, e così lui ha appoggiato la guancia contro la parete e ha guardato dentro il buco. Ha aguzzato la vista, e nel buio c'era una stanza con delle parole scritte sulle pareti. Ha socchiuso gli occhi lasciando che la vista si abituasse, e in quel buio è riuscito a leggere soltanto dei frammenti. "... mettete piede sull'isola e morirete..." dicevano le parole. "... fuggire da questo posto il più velocemente possibile. Uccideranno tutti i figli di Dio se è questo che occorre per salvare i loro..." Nel punto in cui dovrebbe esserci la cucina le scritte dicono: "... tutti quanti voi massacrati...". L'uomo di Ocean Park dice: «È il caso che lei venga a vedere quello che ho trovato». La sua voce sulla segreteria telefonica dice: «Ne vale la pena, anche solo per come sono scritte». 28 giugno La sala da pranzo del Waytansea Hotel si chiama Sala del legno e dell'oro, questo per via dei rivestimenti in noce e delle tappezzerie di broccato dorato. La mensola del camino è in legno di noce intagliato con alari di ottone levigato. Bisogna tenere il fuoco acceso anche quando il vento soffia dalla terraferma; in quei casi il fumo torna indietro e fuoriesce nella sala. Fuliggine e fumo scivolano fuori finché bisogna togliere le batterie a tutti i
rilevatori di fumo. A quel punto, l'intero hotel odora un po' come se stesse andando a fuoco. Ogni volta che qualcuno chiede il tavolo nove o il dieci, quelli accanto al camino, e poi attacca a lamentarsi per il fumo o perché fa troppo caldo, e chiede di cambiare tavolo, bisogna bere. Basta un sorso di quello che hai sottomano. Per quella povera cicciona di tua moglie va benissimo lo sherry da cucina. Ecco un giorno qualunque nella vita di Misty Marie, regina degli schiavi. L'ennesimo giorno più lungo dell'anno. È un gioco che può fare chiunque. Questo in particolare non è altro che il coma privato di Misty. Un paio di drink. Un paio di aspirine. E via da capo. Nella Sala del legno e dell'oro, di fronte al camino ci sono delle finestre che dominano la costa. Il mastice dei vetri è mezzo secco e sbriciolato, tanto che il vento freddo spiffera all'interno. Le finestre trasudano. La condensa della sala si raccoglie sul vetro e gocciola formando una pozza, finché il pavimento si inzuppa e la moquette comincia a puzzare come una balena arenata da due settimane su una spiaggia in pieno luglio. Quello che si vede fuori è un orizzonte stracolmo di cartelloni pubblicitari, le stesse marche, fast food, occhiali da sole, scarpe da ginnastica, che vedi stampate sui rifiuti lungo la linea dell'alta marea. Dentro ogni onda vedi galleggiare mozziconi di sigaretta. Ogni volta che qualcuno chiede il tavolo quattordici, quindici o sedici, quelli accanto alle finestre, e poi protesta per gli spifferi freddi e la puzza della moquette viscida e bagnata, quando piagnucolano per avere un altro tavolo, tu devi bere. Il popolo dell'estate. Per questa gente il vero Santo Graal è il tavolo perfetto. Il posto del potere. La collocazione. Il posto in cui siedono non vale mai quanto quello in cui non sono seduti. C'è tanta di quella gente che ad attraversare la sala ti becchi gomitate e colpi d'anca nello stomaco. Borsettate. Prima di proseguire, forse è il caso che tu ti copra meglio. Che prenda un altro po' di vitamina B. Magari anche qualche cellula cerebrale in più. Se stai leggendo queste parole in un luogo pubblico, fermati, e riprendi soltanto quando avrai indosso la tua biancheria migliore. E prima ancora, forse è il caso che ti metta in lista per un trapianto di fegato.
Hai già capito dove voglio arrivare. Ecco che fine ha fatto la vita di Misty Marie Kleinman. Esiste un'infinità di modi per suicidarsi senza morire-morire. Ogni volta che arriva qualcuno dalla terraferma con un gruppo di amici, tutti magri e abbronzati e sospiranti di fronte ai legni intagliati, alle tovaglie bianche, ai vasi di cristallo pieni di rose e felci e a tutte le anticaglie in silverplate, ogni volta che qualcuno dice «Ma insomma! Dovreste servire tofu invece che vitello!», tu bevi. Queste donne magre. Nei fine settimana potrebbe capitarti di vedere un marito, basso e tozzo, talmente sudato che lo spray camuffante nero che si spruzza sulla pelata gli cola dietro il collo. Spessi fiumi di melma scura che gli macchiano il colletto della camicia. Ogni volta che una delle testuggini del posto arriva accarezzandosi il filo di perle intorno al collo avvizzito, che si tratti della vecchia signora Burton o della signora Seymour o della signora Perry e, vedendo una donna dell'estate magra come un chiodo e abbronzata occupare quello che è il suo tavolo prediletto fin dal 1865, dice «Misty, come hai potuto? Lo sai che il martedì e il giovedì vengo sempre a pranzo. Misty, da te proprio...», in quei casi devi bere due volte. Quando il popolo dell'estate ti chiede bevande a base di caffè con schiuma di latte o posate in argento chelato o spruzzatine di carruba tritata o qualsiasi cosa a base di soia, tu bevi. Se non ti lasciano la mancia, bevi di nuovo. Le donne dell'estate. Si mettono tanto di quell'eyeliner nero che sembra abbiano gli occhiali. Mettono la matita per le labbra marrone scuro, poi mangiano, e il rossetto dentro la matita se ne va. Quel che rimane è una tavolata di bambine magre, tutte con un anello di sporco intorno alla bocca. Le loro unghie lunghe e ricurve hanno la tinta pastello delle mandorle di Giordania. Quando anche in estate devi attizzare il camino che fa fumo, togliti un capo d'abbigliamento. Quando piove e le finestre tremano per le raffiche di vento freddo, aggiungi un capo d'abbigliamento. Un paio di drink. Un paio di aspirine. E via da capo. Quando la madre di Peter si presenta con tua figlia Tabbi e pretende che tu serva tua suocera e tua figlia come se fossi la loro schiava personale, bevi un paio di volte. Quando entrambe siedono al tavolo otto e nonna Wilmot dice a Tabbi «Tua madre sarebbe un'artista famosa, se solo ci pro-
vasse», tu bevi. Le donne dell'estate, con i loro anelli di diamanti e i ciondoli e i polsini da tennis, tutti quei diamanti opachi e unticci di crema solare, quando ti chiedono di cantargli Tanti Auguri, tu bevi. Quando tua figlia dodicenne alza gli occhi e ti chiama «Signora» invece che mamma... Quando sua nonna Grace dice: «Misty, tesoro, avresti più soldi e più dignità se ricominciassi a dipingere...». Facendosi sentire da tutta la sala... Un paio di drink. Un paio d'aspirine. E via da capo. Ogni volta che Grace Wilmot ordina la selezione deluxe di bocconcini da tè con formaggio morbido e caprino e noci, il tutto impastato in una crema vellutata da spalmare su pan tostato sottile come carta, per poi dare un paio di morsi e lasciarli lì e farli pagare, insieme con una teiera di Earl Grey e una fetta di torta di carote, far pagare tutto questo a te che lo scopri soltanto quando ricevi un assegno-paga da settantacinque centesimi per via di tutti i conti addebitati, e certe settimane ti ritrovi persino in debito con il Waytansea Hotel e ti rendi conto di essere una mezzadra intrappolata nella Sala del legno e dell'oro forse per il resto della sua vita, in quei casi bevi cinque volte. Ogni volta che la sala da pranzo è affollata e ognuna delle sedie di broccato dorato è occupata da donne, isolane o di terraferma, tutte intente a lamentarsi perché il traghetto impiega troppo tempo e sull'isola c'è poco parcheggio e una volta mica ci voleva la prenotazione per pranzare lì e come mai certa gente non se ne sta a casa perché è davvero troppo, troppo, tutti quei gomiti e quelle voci stridule, bisognose, che chiedono indicazioni e chiedono latte di origine non animale e prendisole taglia quaranta, e il camino che deve fiammeggiare sempre e comunque perché la tradizione dell'hotel vuole così, e allora tu ti togli un altro capo d'abbigliamento. Se a questo punto non sei ancora ubriaca e nuda, vuol dire che non sei stata attenta. Quando Raymon l'aiuto cameriere ti becca nella cella frigorifera mentre ti porti alla bocca una bottiglia di sherry e dice: «Misty, cariño. Saliud!». Quando succede questo, tu fagli un brindisi con la bottiglia e di': «Alla morte cerebrale di mio marito. Alla figlia che non vedo mai. A casa nostra, che prossimamente finirà nelle mani della chiesa cattolica. A quella svitata di mia suocera, che spiluzzica tartine al brie e cipollotti...» poi aggiungi: «Te amo, Raymon».
Dopodiché fatti una bevuta extra. Ogni volta che un qualche fossile raggrinzito discendente di una famiglia bene dell'isola cerca di spiegarti che lei di cognome fa Burton però sua madre era una Seymour e suo padre un Tupper e che la madre di suo padre era una Carlyle perciò questo in qualche modo la rende tua cugina-nipote di secondo grado, dopodiché ti piazza una mano fredda, molliccia e grinzosa sul polso mentre tu cerchi di raccogliere i piatti sporchi di insalata e dice «Misty, ma come mai non dipingi più?» e tu ti vedi vecchia, sempre più vecchia, con la vita che precipita nel tritarifiuti, bevi due volte. Quello che all'accademia non ti insegnano è che non bisogna mai, per nessun motivo al mondo, dire in giro che una volta volevi fare l'artista. E invece dovrebbero, anche solo per prepararti al fatto che per il resto della tua vita la gente ti torturerà dicendo che da bambina adoravi disegnare. Che adoravi dipingere. Un paio di drink. Un paio d'aspirine. E via da capo. Per la cronaca, oggi nella sala da pranzo dell'hotel a quella poveretta di tua moglie cade per terra un coltello da burro. Quando si china a raccoglierlo, qualcosa si riflette sulla lama argentata. Sono parole scritte sotto il ripiano del tavolo sei. Mettendosi carponi, lei solleva il bordo della tovaglia. Sul legno, accanto ai chewing-gum secchi e alle caccole, c'è una scritta: "Non farti fregare di nuovo". È a matita, e dice: "Scegli un libro a caso dalla biblioteca". L'immortalità artigianale di chissà chi. La sua onda lunga. La sua vita postuma. Per la cronaca, il tempo previsto per oggi è sbronza parziale con occasionali rovesci di disperazione e fastidio. Il messaggio sotto il tavolo sei, la scritta a matita appena visibile, porta una firma: Maura Kincaid. 29 giugno luna nuova A Ocean Park, l'uomo viene ad aprire la porta con in mano un bicchiere di vino, un qualche vino arancione chiaro che riempie il bicchiere fino al dito indice poggiato su un lato. Indosso ha un accappatoio di spugna bianco con la parola "Angel" ricamata sul bavero. Porta una catena d'oro impigliata nei peli grigi del petto e odora di polvere d'intonaco. Nell'altra mano stringe la torcia. L'uomo beve il vino fino al dito medio, e il suo viso è
tondo, con il mento coperto da una barbetta scura e ispida. Le sopracciglia sono talmente schiarite o depilate che sembra non ci siano nemmeno. Per la cronaca, ecco come si sono conosciuti il signor Angel Delaporte e Misty Marie. All'accademia impari che il dipinto di Leonardo da Vinci, La Gioconda, non ha le sopracciglia perché furono l'ultimo dettaglio che l'artista aggiunse. Stendendo colore fresco su quello già asciutto. Nel diciassettesimo secolo, un restauratore usò il solvente sbagliato e le cancellò per sempre. Poco oltre la porta c'è una pila di valigie, di quelle in pelle vera, e l'uomo indica qualcosa oltre quelle, all'interno della casa, con la torcia, e dice: «Dica a Peter Wilmot che la sua grammatica è atroce». Il popolo dell'estate. Misty Marie gli spiega che i muratori lasciano sempre delle scritte nei muri. È la stessa idea che viene a qualsiasi uomo, scrivere il suo nome e la data prima di sigillare il muro con il cartongesso. A volte ci lasciano il quotidiano del giorno. È tradizione lasciare una bottiglia di birra o di vino. Gli operai che costruiscono i tetti scrivono sull'impalcato prima di ricoprirlo di carta catramata e scandole. C'è chi scrive sul rivestimento delle intelaiature prima di applicare lo stucco o il cartongesso. Il loro nome e la data. Una piccola parte di loro stessi, perché in futuro qualcuno la scopra. Magari un pensiero. Siamo stati qui. Tutto questo l'abbiamo costruito noi. Un promemoria. Chiamatelo uso o superstizione o feng shui. È una sorta di dolce immortalità senza pretese. La storia dell'arte insegna che papa Pio V chiese a El Greco di coprire alcuni nudi dipinti da Michelangelo sul soffitto della Cappella Sistina. El Greco accettò, ma solo a patto di poter ridipingere l'intero soffitto. Ti insegnano che El Greco è famoso esclusivamente per via del suo astigmatismo. Per quello distorceva i corpi umani, perché non ci vedeva bene, e quindi allungava braccia e gambe a tutti, e divenne famoso per via dell'effetto drammatico. Artisti famosi, lavoratori edili: tutti vogliamo lasciare la nostra firma. La nostra onda lunga. La nostra vita postuma. Tutti quanti vogliamo spiegarci. Nessuno vuole essere dimenticato. Quel giorno a Ocean Park, Angel Delaporte fa vedere a Misty la sala da pranzo, la boiserie e la tappezzeria a righine azzurre. A metà di una parete c'è un buco frastagliato di carta lacera e arricciata e polvere d'intonaco. I muratori, gli dice Misty, a volte cementano un ciondolo, una medaglietta religiosa con annessa catenina, all'interno dei camini, per impedire
agli spiriti malvagi di calarsi attraverso la canna fumaria. I muratori del Medioevo sigillavano un gatto vivo nei muri di un nuovo edificio perché portava bene. Oppure una donna, sempre viva. Per dare all'edificio un'anima. Misty osserva il bicchiere di vino. Parla con quello, e non con la faccia dell'uomo, lo segue con lo sguardo sperando che lui se ne accorga e le offra da bere. Angel Delaporte appoggia il suo viso tondo, le sopracciglia depilate sul foro e dice: «... la gente di Waytansea Island vi ucciderà come ha fatto con tutti gli altri...». Si tiene la piccola torcia vicinissima alla testa in modo da illuminare il buio. L'ottone appuntito e l'argento delle chiavi gli ciondolano all'altezza della spalla, luccicanti come bigiotteria. Dice: «Dovrebbe vedere cosa c'è scritto qui dentro». Lentamente, come un bambino che impara a leggere, Angel Delaporte scruta il buio e dice: «... ora vedo mia moglie lavorare al Waytansea Hotel, pulire stanze e trasformarsi in una cazzo di cicciona sciatta con la divisa di plastica rosa...». Il signor Delaporte dice: «... Torna a casa e le sue mani puzzano come i guanti di lattice che deve mettersi per raccogliere i vostri preservativi usati... i suoi capelli biondi sono diventati grigi e puzza delle schifezze che deve usare per pulire i vostri cessi quando si infila nel letto accanto a me...». «Uhm» dice, e beve il vino fino all'anulare. «Ha sbagliato la posizione del modificatore sintattico.» Legge: «... Ha le tette flosce come due carpe morte. Non facciamo sesso da tre anni...». Scende un tale silenzio che Misty si sforza di emettere una risatina. Angel Delaporte le porge la torcia. Beve il suo vino arancione chiaro fino al punto in cui tiene il mignolo appoggiato contro il bicchiere, con un cenno della testa indica il buco nel muro e dice: «Guardi con i suoi occhi». Il suo mazzo di chiavi è così pesante che Misty deve contrarre il muscolo per sollevare la minuscola torcia, e quando avvicina l'occhio al forellino scuro le parole dipinte sul muro antistante dicono: "... morirete maledicendo il giorno in cui avete messo piede su..." Il ripostiglio scomparso di Seaview, il bagno scomparso di Long Beach, la stanza da letto di Oysterville. Ogni volta che la gente si mette a curiosare in giro, è questo che trova. Sempre lo stesso delirio di Peter. Il tuo solito vecchio delirio.
"... morirete e il mondo sarà un posto migliore per..." In tutte queste case di terraferma nelle quali Peter ha lavorato, in tutti questi investimenti. Scritte e sigillate al loro interno ci sono sempre le stesse porcherie. "... morirete tra terribbili urla di..." E alle sue spalle, Angel Delaporte le dice: «Faccia presente al signor Wilmot che ha sbagliato a scrivere terribili». La povera Misty glielo spiega, al popolo dell'estate: da un annetto a questa parte il signor Wilmot non era più lui. Aveva un tumore al cervello e non lo ha saputo per... va' a sapere per quanto. Con il viso ancora premuto contro il foro nella tappezzeria, spiega a questo Angel Delaporte che il signor Wilmot aveva fatto certi lavori al vecchio Waytansea Hotel, e adesso le stanze saltano direttamente dal 312 al 314. Dove una volta c'era una stanza, adesso non c'è altro che un corridoio perfetto, impeccabile, con cornice, zoccolo, una presa elettrica nuova ogni due metri circa, un lavoro coi fiocchi. E quest'uomo di Ocean Park fa vorticare il vino nel bicchiere e dice: «Spero almeno che la stanza 313 non fosse occupata». Fuori, in macchina, c'è un palanchino. Potrebbero riaprire la porta in cinque minuti. È muro a secco, nient'altro, spiega lei all'uomo. È il signor Wilmot che è andato via di testa, nient'altro. Quando Misty infila il naso nel buco e aspira, l'odore è quello di un milione di sigarette venute lì a morire. Dentro il buco si sente odore di cannella e polvere e vernice. Da qualche parte nel buio, si sente il ronzio di un frigorifero. Un orologio ticchetta. Scritto in lungo e in largosui muri, sempre lo stesso sproloquio. In tutte queste case estive. Scritto in una grande spirale che parte dal soffitto e serpeggia fino al pavimento, che gira e gira, tanto da costringerti a stare al centro della stanza e ruotare su te stesso finché non hai le vertigini. La nausea. Voglia di vomitare. Nella luce del portachiavi, la scritta dice: "... uccisi, alla faccia dei vostri soldi e dello status..." «Guardi» dice lei. «Ecco il suo fornello. Proprio dove diceva lei.» Poi si fa indietro e gli restituisce la minuscola torcia. Ogni professionista, dice Misty, firma il suo lavoro. Segna il territorio. Gli operai che si occupano delle rifiniture firmano sul sottopavimento prima di posare il parquet o la moquette. Scrivono sui muri prima di mettere la tappezzeria o le piastrelle. Ecco cosa c'è dentro tutte le pareti, un archivio di immagini, preghiere, nomi. Date. Una capsula del tempo. Oppure,
peggio ancora, tubi di piombo, amianto, muffe tossiche, fili difettosi. Tumori al cervello. Bombe a orologeria. Prove del fatto che nessun investimento può essere tuo per sempre. Cose che vorresti non sapere, ma che non ti azzardi a dimenticare. Angel Delaporte, la faccia premuta contro il foro, legge: "... amo mia moglie e mia figlia...". Legge: "... non starò a guardare mentre la mia famiglia viene umiliata sempre di più da spregevoli parassiti come voi...". Si appoggia contro il muro, la faccia che si torce contro il foro, e dice: «La calligrafia è davvero avvincente. Il modo in cui scrive la lettera "t" in "mettere piede" e "cicciona sciatta", con il trattino che si allunga fino a coprire l'intera parola. Significa che in realtà è un uomo molto affettuoso, molto protettivo. Dice: «Vede la "y" di "Waytansea"? Da quella gambetta così pronunciata si capisce che è preoccupato per qualcosa». Sfregando la faccia contro il foro, Angel Delaporte legge: "... Waytansea Island ucciderà tutti i figli di Dio fino all'ultimo, se è questo che occorre per salvare i nostri...". Dice che le "I" maiuscole così sottili e appuntite dimostrano che Peter ha una mente vivace e acuta, ma che è terrorizzato a morte dalla madre. Le chiavi tintinnano mentre fa girare la piccola torcia e legge: "... ho ballato con il vostro spazzolino da denti ficcato su per il culo sporco...". La sua faccia si allontana di scatto dalla tappezzeria e dice: «È vero, quello è il mio fornello». Finisce ciò che è rimasto del vino, facendoselo sciaguattare in bocca, rumorosamente. Deglutisce, dice: «Ero certo di avere una cucina». La povera Misty si scusa. Dice che gli riaprirà la porta. Il signor Delaporte probabilmente oggi pomeriggio vorrà andare a farsi una pulizia dei denti. Più un'antitetanica, magari. E perché no? Una gammaglobulina. Con un dito, il signor Delaporte sfiora una grossa macchia umida accanto al foro nella parete. Si porta il bicchiere di vino alla bocca e incrociando gli occhi lo scopre vuoto. La macchia scura e umida sulla tappezzeria blu. La sfiora. Poi fa una smorfia e si pulisce il dito sul fianco dell'accappatoio e dice: «Io mi auguro che il signor Wilmot abbia una gran bella assicurazione e parecchi soldi da parte». «Il signor Wilmot da un po' di tempo è in ospedale privo di sensi» dice Misty. Lui si sfila un pacchetto di sigarette dalla tasca dell'accappatoio, lo scuote facendone uscire una e dice: «Quindi ora la sua ditta di ristrutturazioni la gestisce lei?».
E Misty tenta di ridere. «In realtà io sarei la cazzo di cicciona sciatta» dice. E l'uomo, il signor Delaporte, dice: «Mi scusi?». «Sono la signora Wilmot.» Misty Marie Wilmot, l'unico e inimitabile mostro, la stronza bisbetica in carne e ossa. Gli dice: «Stamattina, quando lei ha chiamato, stavo lavorando al Waytansea Hotel». Angel Delaporte annuisce, guardando il bicchiere vuoto. Il vetro sudato e imbrattato di impronte digitali. Solleva il bicchiere verso di lei e dice: «Vuole che le porti qualcosa da bere?». Si volta a guardare il punto in cui lei ha premuto il viso contro la parete della sua sala da pranzo, e dove si è lasciata sfuggire una lacrima che gli ha macchiato la tappezzeria a righine azzurre. L'impronta umida del suo occhio, delle zampe di gallina intorno all'occhio, del suo muscolo orbicolare dietro le sbarre. Mentre in una mano tiene la sigaretta ancora spenta, con l'altra prende la cintura di spugna bianca e si mette a sfregare la macchia umida. E dice: «Le darò un libro. Si intitola Grafologia. Parla di analisi della scrittura». E Misty, la quale davvero credeva che casa Wilmot e i suoi sei ettari di terreno su Birch Street fossero sinonimo di per sempre felici e contenti, Misty dice: «Non è che le interessa affittare una casa per l'estate?». Guarda il suo bicchiere di vino e dice: «Una grande, vecchia casa in pietra. Non sulla terraferma, ma sull'isola». E Angel Delaporte volta la testa, lancia un'occhiata a Misty, ai suoi fianchi, quindi ai seni dentro la divisa rosa, infine al volto. Socchiude gli occhi, scuote la testa un pochino e dice: «Non si preoccupi, non ha ancora i capelli così grigi». Sulla guancia, sulla tempia e tutto intorno all'occhio è incipriato di calce bianca. E Misty, tua moglie, allunga un braccio verso di lui con le dita della mano aperte. Il palmo rivolto verso l'alto, la pelle irritata e rossa. Gli dice: «Ehi, se non crede che sono io» dice, «annusi la mano». 30 giugno Quella poveretta di tua moglie corre dalla sala da pranzo alla sala da musica, afferra candelieri d'argento, piccoli orologi da caminetto dorati e figurine in porcellana di Meissen, e infila tutto quanto in una federa. Misty
Marie Wilmot, dopo essersi sciroppata il turno delle colazioni, sta ora saccheggiando la grande casa Wilmot di Birch Street. Come un accidenti di ladra in casa sua, agguanta portasigarette d'argento e portapillole e tabacchiere. Dalle mensole dei caminetti e dai comodini raccoglie saliere e suppellettili d'avorio intagliato. Si trascina dietro la federa pesante e sferragliante, piena di salsiere in bronzo dorato e piatti ovali in ceramica dipinta. Ancora con indosso la sua divisa di plastica rosa, e le chiazze di sudore sotto le braccia. La targhetta che porta appuntata al petto fa sì che dei perfetti sconosciuti possano chiamarla Misty. Quella poveretta di tua moglie. Fa lo stesso merdoso lavoro di sua madre, anche lei cameriera in un ristorante. Per sempre infelice e scontenta. Una volta finito, corre a casa a fare i bagagli. Armeggia con un mazzo di chiavi rumoroso quanto la catena di un'ancora. Un mazzo di chiavi che pare un grappolo di acini in ferro. Ci sono chiavi lunghe e chiavi corte. Elaborati passe-partout pieni di dentelli. Chiavi d'ottone e d'acciaio. Alcune sono chiavi a corpo cilindrico, cave come la canna di un fucile, altre sono grosse quanto una pistola, di quelle che una moglie incazzata potrebbe infilarsi nella giarrettiera e usare per uccidere un marito idiota. Misty sta ficcando varie chiavi dentro varie serrature, per vedere se girano. Prova serrature di credenze e armadi. Prova una chiave dopo l'altra. Le ficca dentro e gira. E ogni volta che una serratura scatta e si apre, lei ci butta dentro la federa, gli orologi dorati e i portatovaglioli d'argento e cristallo al piombo, dopodiché richiude la porta. Oggi è giorno di trasloco. L'ennesimo giorno più lungo dell'anno. Nella grande casa di East Birch Street tutti quanti in teoria dovrebbero fare i bagagli, e invece no. Tua figlia scende al pianterreno con un totale di zero cose da indossare per il resto della sua vita. Quella svitata di tua madre sta ancora facendo le pulizie. È in casa da qualche parte che spinge qua e là il vecchio aspirapolvere, a carponi, raccoglie fili e laniccio dai tappeti per poi introdurli nel tubo dell'aspirapolvere. Come se importasse un beneamato accidente l'aspetto del tappeto. Come se prima o poi la famiglia Wilmot dovesse tornare a vivere qui. Quella poveretta di tua moglie, la sciocca ragazza arrivata qui un milione di anni fa da un parcheggio per roulotte della Georgia, non sa da che parte cominciare. Non che la famiglia Wilmot non potesse aspettarselo. Mica uno si trova il fondo fiduciario vuoto dall'oggi al domani. Tutti i soldi di famiglia
scomparsi. È appena mezzogiorno, e lei sta cercando di rimandare il secondo drink. Il secondo non è mai buono come il primo. Il primo è assolutamente perfetto. Un piccolo attimo di respiro. Una cosuccia che le tiene compagnia. Mancano solo quattro ore prima che l'affittuario venga a prendersi le chiavi. Il signor Delaporte. Prima che loro debbano sloggiare. Non è nemmeno un vero drink drink. È un bicchiere di vino, e lei ne avrà bevuto sì e no due sorsi. Eppure, il semplice fatto di sapere che c'è. Che il bicchiere è come minimo ancora mezzo pieno. Dà sollievo. Dopo il secondo drink prenderà un paio d'aspirine. Altri due drink, altre due aspirine, e questo le permetterà di arrivare a fine giornata. Nella grande casa Wilmot di East Birch Street, appena dentro l'ingresso, c'è una cosa che pare un graffito. Tua moglie lo vede mentre sta trascinando in giro la sua federa carica di bottino: alcune parole scarabocchiate sul retro della porta d'ingresso. Segni di matita, nomi e date sulla vernice bianca. Partono all'altezza del ginocchio, sono piccole righe dritte e scure, e lungo ogni riga c'è un nome e un numero. Tabbi, cinque anni. Tabbi, che adesso ha dodici anni e le ritidi periorbitali laterali intorno agli occhi a forza di piangere. Oppure: Peter, sette anni. Ovvero tu, sette anni. Il piccolo Peter Wilmot. Alcuni degli scarabocchi dicono: Grace, sei anni, otto anni, dodici anni. Salgono fino a Grace, diciassette anni. Grace con la sua cadente pappagorgia di grasso submentoniero e il suo muscolo platisma floscio intorno al collo. Ti dice niente? Non ti si accende una lampadina? Queste righe di matita, la cresta di una marea crescente. Gli anni, 1795... 1850... 1979... 2003. Un tempo le matite erano bastoncini sottili di cera mista a fuliggine avvolti nello spago per non macchiare le mani. Prima ci sono solo tacche e iniziali incise nel legno spesso e nella vernice bianca della porta. Alcuni degli altri nomi sul retro della porta non li riconosci. Herbert e Caroline e Edna, un sacco di estranei che hanno abitato qui, sono cresciuti e se ne sono andati. Prima neonati, poi bambini, adolescenti, adulti e infine morti. I tuoi legami di sangue, la tua famiglia, però pur sempre degli estranei. Il tuo retaggio. Spariti, ma non del tutto. Dimenticati eppure ancora
qui, da scoprire. Quella poveretta di tua moglie se ne sta in piedi davanti alla porta d'ingresso, a guardare un'ultima volta quei nomi e quelle date. Tra i quali manca il suo. Misty Marie, la povera bianca con le pezze al culo, con le mani arrossate e il cuoio capelluto rosa che si intravede tra i capelli. Tutta questa storia e questa tradizione che una volta credeva l'avrebbero tenuta al sicuro. Isolata, per sempre. Non è una cosa tipica. Misty non è un'ubriacona. Casomai bisognasse ribadirlo, lei è sottoposta a un sacco di stress. Quarantuno cazzo di anni, e adesso non ha più un marito. Niente laurea. Nessuna esperienza di lavoro degna di questo nome, a parte scrostare i cessi... fare le collanine di mirtilli per l'albero di Natale dei Wilmot... Quello che ha sono una figlia e una suocera da mantenere. È mezzogiorno, e le restano quattro ore per impacchettare tutti gli oggetti di valore della casa. Innanzitutto l'argenteria, i dipinti, le porcellane. Tutto quello che non si può affidare a un affittuario. Tua figlia, Tabitha, scende dal piano di sopra. Dodici anni, e con sé non porta altro che una piccola valigia e una scatola da scarpe chiusa con degli elastici. Niente vestiti invernali, né stivali. In valigia ha infilato giusto cinque o sei prendisole, un po' di jeans e il costume da bagno. Un paio di sandali, le scarpe da ginnastica che ha indosso. Tua moglie intanto ghermisce un antico e puntutissimo modellino di nave, con le vele rigide e ingiallite, le sartie sottili come fili di ragno, e dice: «Tabbi, ti ho detto che non torniamo più». Tabitha, nell'atrio di ingresso, scrolla le spalle. Risponde: «Nonna dice di sì». Nonna è come lei chiama Grace Wilmot. Sua nonna, tua madre. Tua moglie, tua figlia e tua madre. Le tre donne della tua vita. Ficcando nella federa un portapane in silverplate, tua moglie strilla: «Grace!». L'unico suono in casa è il ruggito dell'aspirapolvere che sale da un punto imprecisato nelle viscere del grosso edificio. Dalla sala, forse dalla veranda a vetrate. Tua moglie trascina la federa in sala da pranzo. Afferrando un piatto in porcellana tenera, tua moglie strilla: «Grace, noi due dobbiamo parlare! Subito!». Dietro la porta d'ingresso, il nome "Peter" si arrampica fin dove tua moglie ricorda, appena un po' più in alto del punto che le sue labbra riescono a raggiungere quando ha le scarpe nere con i tacchi alti e si mette in punta
di piedi. Lì c'è scritto Peter, diciott'anni. Gli altri nomi sulla porta, Weston e Dorothy e Alice, sono sbiaditi. Sbavati dalle ditate, ma non ricoperti di nuova vernice. Reliquie. Immortali. L'eredità che Misty sta per abbandonare. Girando una chiave nella serratura di un armadio, tua moglie butta la testa indietro e strilla: «Grace!». Tabbi dice: «Che c'è?». «Questa dannata chiave» dice Misty, «non funziona.» E Tabbi dice: «Fa' vedere». Dice: «Rilassati, mamma. Questa è la chiave per dare la carica alla pendola». E da qualche parte, il ruggito dell'aspirapolvere si zittisce. Fuori, in strada, una macchina passa lenta e silenziosa, con il conducente chino sul volante. Gli occhiali appoggiati sulla fronte, l'uomo protende il collo a destra e sinistra, in cerca di un parcheggio. Stampata sul fianco della macchina c'è una scritta, dice: "Silber International - Per non essere solo se stessi". Dalla spiaggia, una folata di vento solleva tovaglioli di carta e bicchieri di plastica, insieme al tonfo ritmico dei bassi e alla parola "fuck" di un pezzo dance. Accanto alla porta d'ingresso c'è Grace Wilmot, che odora d'olio di limoni e cera per pavimenti. La sua testa di capelli grigi e lisciati si ferma appena più in basso della statura che aveva a quindici anni. Prova del fatto che si sta rimpicciolendo. Potresti prendere una matita e fare un segno dietro la sua testa. Potresti scrivere: "Grace, settantadue anni". Quella poveretta inacidita di tua moglie guarda la scatola di legno che Grace ha in mano. Fatta di legno chiaro coperto di vernice trasparente ingiallita con coprispigoli d'ottone e cardini anneriti dall'ossidazione, la scatola è provvista su ogni lato di gambe pieghevoli che la trasformano in un cavalletto. Grace le porge la scatola, stringendola fra le mani azzurrine e nodose, e dice: «Questi ti serviranno». Scuote la scatola. I pennelli induriti e i vecchi tubetti di vernice essiccata e i pastelli rotti sbatacchiano all'interno. «Per ricominciare a dipingere» dice Grace. «Quando sarà ora.» E tua moglie, che non ha il tempo nemmeno per una crisi isterica, le dice solo: «Lasciala qui». Peter Wilmot, tua madre non serve a un beneamato cazzo. Grace sorride e apre gli occhi, li sgrana. Solleva un po' di più la scatola e dice: «Ma non era il tuo sogno?». Con le sopracciglia inarcate, il muscolo
corrugatore in azione, dice: «Fin da quando eri bambina, non hai sempre desiderato dipingere?». Il sogno di ogni ragazza all'accademia. Dove scopri che esistono le matite a cera e l'anatomia e le rughe. Come mai Grace Wilmot abbia deciso di fare le pulizie, Dio solo lo sa. Quello che loro in teoria dovrebbero fare sono le valigie. Questa casa: le posate in argento sterling, le forchette e i cucchiai grossi come attrezzi da giardino. Sopra il camino della sala da pranzo c'è il ritratto a olio di Un Wilmot Morto. In cantina c'è uno scintillante e velenoso museo di marmellate pietrificate e gelatine, antichi vini fatti in casa, pere d'epoca coloniale fossilizzate in sciroppi color ambra. Rimasugli appiccicosi di ricchezza e tempo libero. Tra tanti oggetti senza prezzo accumulati nel tempo, ecco cos'è che salviamo. Questi manufatti. Questi innesca-ricordi. Souvenir inutili. Niente da poter battere all'asta. Le cicatrici della felicità. Invece di prendere oggetti di valore, qualcosa che si possa vendere, Grace se ne esce con questa vecchia scatola di colori. Tabbi ha la sua scatola da scarpe piena di bigiotteria da poco, quella per quando si mette in ghingheri, spille, anelli e collane. Uno strato di strass e di perle in libertà rotola sul fondo della scatola da scarpe. Una scatola di spilli aguzzi e arrugginiti e vetri rotti. Tabbi è in piedi appoggiata al braccio di Grace. Dietro di lei, alla stessa altezza della testa di Tabbi, la porta dice: Tabbi, dodici anni e c'è la data di quest'anno scritta in pennarello rosa fluorescente. La bigiotteria da poco, la bigiotteria di Tabbi, è appartenuta a questi nomi. Grace con sé ha preso soltanto il suo diario. Il suo diario rilegato in cuoio rosso e qualche abito estivo leggero, perlopiù golfini pastello fatti a maglia e gonne di seta plissettate. Il diario è in cuoio rosso screpolato, chiuso da un lucchettino d'ottone. Stampata in oro sulla copertina c'è la scritta: "Diario". Grace Wilmot dice sempre a tua moglie che dovrebbe cominciare un diario. Grace dice: Ricomincia a dipingere. Grace dice: Forza. Esci, e vacci più spesso all'ospedale. Grace dice: Sorridigli, ai turisti. Peter, quel povero orco accigliato di tua moglie guarda tua madre e tua figlia e dice: «Quattro in punto. A quell'ora il signor Delaporte viene a prendersi le chiavi».
Questa non è casa loro, non più. Tua moglie dice: «Quando la lancetta lunga è sul dodici e quella corta è sulle quattro, tutto quello che non è in valigia o chiuso a chiave non lo vedrete mai più». Nel bicchiere di vino di Misty Marie restano almeno altri due sorsi. E a vederlo lì, sul tavolo della sala da pranzo, ha proprio l'aria di essere la risposta. Ha l'aria della felicità e della pace e del sollievo. L'aria che una volta aveva Waytansea Island. Lì, in piedi davanti alla porta d'ingresso, Grace sorride e dice: «Nessun Wilmot lascia questa casa per sempre». Dice: «E nessun forestiero ci rimane a lungo». Tabbi guarda Grace e dice: «Nonna, quand est-ce qu'on revient?». E sua nonna risponde: «En trois mois», e le accarezza la testa. Poi la tua vecchia e inutile madre riattacca a infilare laniccio nell'aspirapolvere. Tabbi fa per aprire la porta, vuole portare la valigia in macchina. Quel catorcio arrugginito che puzza del piscio di suo padre. Del tuo piscio. E tua moglie le chiede: «Cos'è che ti ha detto la nonna un attimo fa?». E Tabbi si volta indietro a guardarla. Alza gli occhi al cielo e dice: «Oddio, mamma. Rilassati. Ha solo detto che stamattina hai proprio un bell'aspetto». Tabbi mente. Tua moglie non è stupida. Sa benissimo che aspetto ha, ultimamente. A quello che non capisci puoi dare qualunque significato. Poi, quando resta di nuovo da sola, la signora Misty Marie Wilmot, quando nessuno la vede, tua moglie, si alza sulle punte dei piedi e tende le labbra verso il retro della porta. Le sue dita si allargano su anni e antenati. Con la scatola di colori defunti ai suoi piedi, bacia il punto sporco sotto il tuo nome dove una volta dovevano esserci le tue labbra. 1° luglio Per la cronaca, Peter, è proprio una bastardata andare a dire a tutti che tua moglie fa la cameriera d'albergo. Sì, magari due anni fa faceva la cameriera. Ora si dà il caso che sia l'assistente responsabile del personale di sala. È "Impiegata del mese" al Waytansea Hotel. È tua moglie, Misty Marie Wilmot, madre di tua figlia, Tabbi. È quasi, poco ci mancava, per un pelo non ha preso il pre-diploma in belle arti. Vota e paga le tasse. È la cazzo di
regina degli schiavi, e tu sei un vegetale col cervello morto e un tubo su per il culo, in coma, attaccato a un fantastiliardo di costosissimi giocattoli che ti tengono in vita. Caro, dolce Peter, diciamo che non sei nella posizione di dare della cazzo di cicciona sciatta proprio a nessuno. Nei pazienti col tuo tipo di coma, i muscoli si contraggono tutti. I tendini tirano sempre di più. Le ginocchia salgono verso il petto. Le braccia si ripiegano sulla pancia. Nei piedi, i polpacci si contraggono tanto che le dita si torcono verso il basso, e ti viene male solo a guardarle. Nelle mani, le dita si piegano finché le unghie non ti si piantano nei polsi. I muscoli e i tendini si accorciano tutti. I muscoli della schiena, gli erettori spinali, si ritraggono e ti tirano la testa all'indietro al punto che quasi arriva a sfiorarti il culo. Riesci a rendertene conto? Tu tutto contorto e annodato, è per vedere questo che Misty si fa le tre ore di macchina fino all'ospedale. Senza contare il traghetto. È con questo disastro che Misty è sposata. Scrivere questa roba è il momento peggiore della giornata. È stata tua madre, Grace, ad avere la brillante idea che Misty tenesse un diario del coma. Lo facevano i marinai e le loro mogli, ha detto Grace, tenevano un diario per ogni giorno che passavano lontani gli uni dalle altre. È una preziosa tradizione della vita di mare. Una gran bella tradizione di Waytansea Island. Dopo tutti quei mesi separati, quando si riunivano, marinai e mogli si scambiavano i diari per mettersi in pari su cosa si erano persi. Su come crescevano i figli. Che tempo aveva fatto. Ogni cosa veniva annotata. Ecco il tran tran quotidiano con cui tu e Misty vi sareste vicendevolmente annoiati a cena. Tua madre diceva che ti avrebbe fatto bene, che ti avrebbe aiutato a elaborare la guarigione. Un giorno, a Dio piacendo, tu aprirai gli occhi e prenderai Misty tra le braccia, bacerai la tua mogliettina devota, e qui dentro ci saranno tutti gli anni che ti sei perso, trascritti con amorevole dovizia di dettagli, i dettagli di tua figlia che cresce, e di tua moglie che ti desidera, e potrai sederti sotto un albero con una bella gazzosa, divertendoti a recuperare il tempo perduto. Tua madre, Grace Wilmot, farebbe meglio a svegliarsi dal suo, di coma. Caro, dolce Peter. Riesci a rendertene conto? A ciascuno il suo coma. Cosa ti ricorderai di prima, nessuno lo sa. Una possibilità è che la memoria si sia completamente cancellata. Triangolodellebermudata. Hai subi-
to danni cerebrali. Nascerai nuovo di zecca. Diverso, ma lo stesso. Rinato. Per la cronaca, tu e Misty vi siete conosciuti all'accademia. L'hai messa incinta e siete andati a vivere con tua madre su Waytansea Island. Se questa è roba che già sai, passa oltre. Un'occhiata veloce e poi via. Quello che all'accademia non ti insegnano è che la tua vita può finire, quando resti incinta. Esiste un'infinità di modi per suicidarsi senza morire-morire. E casomai te ne fossi dimenticato, tu sei un gran cacasotto. Sei un egoista, un mediocre, un fannullone, uno smidollato pezzo di merda. Casomai non te lo ricordassi, sei stato tu ad accendere quella cazzo di macchina in quel cazzo di garage di merda per tentare da bravo coglione di asfissiarti con i gas di scarico, e comunque no, nemmeno quello ti è riuscito di fare. Sai, per certe cose innanzitutto non guasta avere il serbatoio pieno. Giusto per farti capire in che razza di stato sei, quando la gente rimane in coma per più di due settimane i dottori parlano di stato vegetativo persistente. La faccia ti si gonfia, diventa rossa. I denti cominciano a scivolare via. Se non ti girano ogni tot ore, ti vengono le piaghe da decubito. Oggi che tua moglie scrive questa roba è il tuo centesimo giorno da vegetale. Quanto alle presunte tette di Misty flosce come due carpe morte, da che pulpito. Un chirurgo ti ha infilato un tubo per il cibo nello stomaco. Hai un tubetto sottile nel braccio che serve a misurare la pressione del sangue. Che ti misura l'ossigeno e il biossido di carbonio nelle arterie. Un altro tubo ce l'hai nel collo, per misurare la pressione del sangue nelle vene che lo riportano al cuore. Hai un catetere. Un tubo nello spazio tra i polmoni e la gabbia toracica, per drenare tutti i liquidi che vi si potrebbero raccogliere. Piccoli elettrodi rotondi attaccati al torace che monitorano il cuore. Un paio di cuffie sulle orecchie che emettono onde sonore per stimolare il tronco encefalico. Un tubo che ti hanno ficcato giù per il naso pompa dentro di te l'aria prodotta da un respiratore. Hai un altro tubo attaccato alle vene, da cui gocciolano liquidi e medicine. Perché non secchino, gli occhi te li tengono chiusi con dei cerotti. Giusto perché tu sappia com'è che ti stai pagando tutta questa roba, Misty ha promesso la casa alle suore della Misericordia. La grande e vecchia casa in pietra di Birch Street, con tutti e sei gli ettari di terreno. Nell'istante esatto in cui tu muori la chiesa cattolica si becca gli atti. Cent'anni della tua preziosa storia familiare dritti nelle loro tasche.
Nell'istante esatto in cui tu smetti di respirare, la tua famiglia resta senza un tetto. Ma tranquillo, con il respiratore e il tubo per il cibo e le medicine non morirai. Nemmeno se lo volessi, ci riusciresti. Ti terranno vivo finché non sarai uno scheletro avvizzito con un sacco di macchine che ti pompano dentro aria e vitamine. Caro, dolce, stupido Peter. Riesci a rendertene conto? E poi, quando la gente usa l'espressione staccare la spina, è più che altro un modo di dire. Questi aggeggi hanno l'aria di essere difficili da manomettere. E poi ci sono i generatori di riserva, gli allarmi a prova di guasto, le batterie, i codici segreti a dieci cifre, le password. Per spegnere il respiratore ci vorrebbe una chiave speciale. Un ordine del tribunale, una dichiarazione che escluda la responsabilità per negligenza professionale, cinque testimoni, il consenso di tre dottori. Perciò sta' lì e fai il bravo. Qui nessuno stacca la spina a nessuno finché Misty non ha trovato un modo per cavarsi dal casino in cui l'hai lasciata. Casomai non ricordassi, ogni volta che viene a trovarti Misty indossa una di quelle vecchie spille di bigiotteria che le hai regalato. Se la toglie dalla giacca e allarga l'ago metallico. Che viene sterilizzato con alcol per massaggi, naturalmente. Dio non voglia che ti restino cicatrici o infezioni da stafilococco. Misty ti spinge l'ago della vecchia spilla - molto, molto lentamente - nella carne della mano o del piede o del braccio. Finché l'ago non tocca un osso, o spunta dall'altra parte. Quando esce il sangue, Misty pulisce. Quanta nostalgia. Certe volte, quando ti viene a trovare, Misty l'ago te lo pianta dentro più e più volte. E sussurra: «Riesci a rendertene conto?». Non che in passato tu non ti sia mai trafitto con uno spillo. Sussurra: «Sei ancora vivo, Peter. Che te ne pare di questo?». Tu che sorseggi la tua gazzosa e leggi queste parole sotto un albero tra una decina d'anni, tra cent'anni, devi sapere che la parte migliore di ogni visita è proprio ficcarti dentro quell'ago. Misty ti ha regalato gli anni migliori della sua vita. Misty non ti deve nient'altro che un bel divorzio come si deve. Da bravo spilorcio testa di cazzo quale eri, volevi lasciarle il serbatoio a secco come hai sempre fatto. E come se non bastasse, hai lasciato messaggi minatori nelle case di tutti. Avevi promesso di amare, onorare e rispettare. Dicevi che avresti fatto diventare Misty Marie Kleinman un'artista famosa, e invece l'hai lasciata po-
vera, odiata e sola. Riesci a rendertene conto? Caro, dolce, stupido bugiardo. La tua Tabbi ti manda baci e abbracci. Tra due settimane compie tredici anni. Un'adolescente. Tempo previsto per oggi: parzialmente furibondo con occasionali esplosioni d'ira. Casomai non ti ricordassi, è stata Misty a portarti quegli stivaletti in pelle d'agnello per tenere caldi i piedi. Tu indossi calze ortopediche che spingono il sangue su verso il cuore. Misty mette da parte i tuoi denti a mano a mano che cadono. Per la cronaca, lei ti ama ancora. Se così non fosse, mica si prenderebbe la briga di torturarti. Testa di cazzo che non sei altro. Riesci a rendertene conto? 2 luglio Okay, okay. Cazzo. Per la cronaca, buona parte di questo casino è colpa di Misty. Della povera piccola Misty Marie Kleinman. Del piccolo prodotto di un divorzio, mollato a casa da solo quasi tutti giorni. Al college tutti quanti, tutti i suoi amici del corso di belle arti, le dicevano: Non farlo. No, dicevano i suoi amici. Non Peter Wilmot. Non "il Pisello Ambulante". Eastern School of Art, Meadows Academy of Fine Arts, Wilson Art Institute, girava voce che Peter Wilmot lo avessero cacciato dappertutto. Che ti avessero cacciato. Da ogni singola accademia delle belle arti di ben undici stati diversi. Peter andava lì e poi non si presentava a lezione. Non passava mai tempo nel suo studio. I Wilmot dovevano essere ricchi, perché lui era iscritto da quasi cinque anni, eppure aveva ancora il portfolio vuoto. Peter si limitava a provarci con giovani donne a tempo pieno. Peter Wilmot aveva capelli lunghi e neri, e portava questi maglioncini attillatissimi fatti a punto catenella e color fanghiglia azzurrognola. C'era sempre una spalla mezza scucita, e l'orlo che gli penzolava fin sotto l'inguine. Donne grasse, magre, giovani e vecchie, Peter indossava il suo frusto maglioncino azzurrognolo e ciondolava per il campus tutto il giorno, flir-
tando con ogni studentessa. Peter Wilmot il Viscido. Le amiche di Misty gliel'avevano indicato, un giorno, con quel maglione che si stava disfacendo sui gomiti e in basso. Il tuo maglione. I punti si erano disfatti e c'erano buchi aperti sulla schiena, attraverso cui si vedeva la maglietta nera che Peter portava sotto. La tua maglietta nera. L'unica differenza tra Peter e un barbone malato di mente, curato in day hospital e con un limitato accesso al sapone, erano i gioielli. O forse no. Fondamentalmente si trattava di ignobili spille e collanine vecchie e strane fatte di strass. Tempestate di perle finte e gemme finte, vecchie patacche pungenti di vetro colorato che penzolavano sul davanti del maglione di Peter. Grosse spille da nonna. Una spilla diversa ogni giorno. Certi giorni erano grossi cerchi di smeraldi finti. Poi un fiocco di neve fatto di diamanti e rubini di vetro scheggiati, con le parti metalliche inverdite dal sudore. Dal tuo sudore. Bigiotteria. Per la cronaca, la prima volta che Misty incontrò Peter fu a una mostra di studenti del primo anno, mentre con alcuni suoi amici guardava il dipinto di una casa in pietra grezza. Da un lato la casa si apriva in una grande sala di vetro, una serra piena di palme. Dalle finestre si intravedeva un pianoforte. Si intravedeva un uomo che leggeva un libro. Un piccolo paradiso privato. I suoi amici dicevano quant'era bello, con quei colori e tutto il resto, poi qualcuno disse: «Non ti voltare, il Pisello Ambulante sta venendo qui». Misty disse: «Il cosa?». E qualcuno le disse: «Peter Wilmot». Qualcun altro disse: «Non guardarlo negli occhi». Tutte le sue amiche dissero: Misty, non ti azzardare a incoraggiarlo. Ogni volta che Peter entrava in una stanza, tutte le donne presenti di colpo si ricordavano di avere un impegno. Non che puzzasse, però uno cercava ugualmente di coprirsi il viso con le mani. Non che ti guardasse le tette, però quasi tutte incrociavano le braccia sul petto. Guardando una donna qualsiasi parlare con Peter Wilmot, vedevi il muscolo frontale raggrinzirle la fronte, prova del fatto che era spaventata. Peter teneva le palpebre semichiuse, più da persona arrabbiata che non da qualcuno che cerca di innamorarsi. Poi gli amici di Misty, quella sera alla galleria, si sparpagliarono qua e
là. Poi di colpo fu da sola con Peter e i suoi capelli unti e il maglioncino e la vecchia bigiotteria, lui che si dondolava sui talloni, con le mani sui fianchi, e guardando il quadro le diceva: «Allora?». Senza guardarla le disse: «Pensi di fare anche tu la cacasotto e fuggire come i tuoi amichetti?». Lo disse gonfiando il petto. Aveva le palpebre semichiuse, e la mascella che faceva avanti e indietro. I denti che sfregavano tra loro. Si girò e si lasciò andare contro il muro così forte che il quadro accanto a lui scivolò di sbieco. Si adagiò appiattendo le spalle contro il muro, le mani affondate nelle tasche anteriori dei jeans. Peter chiuse gli occhi e inspirò a fondo. Poi espirò, lentamente, aprì gli occhi e la fissò e disse: «Allora? Che te ne pare?». «Del quadro?» disse Misty. La ruvida casa di pietra. Allungò un braccio e lo raddrizzò. E Peter guardò di lato senza girare la testa. I suoi occhi si spostarono sul dipinto che aveva accanto alla spalla, e disse: «Sono cresciuto nella casa accanto a questa. Il tizio col libro si chiama Brett Petersen». Poi ad alta voce, troppo, disse: «Voglio sapere se mi sposerai». Fu così che Peter chiese la sua mano. Fu così che tu chiedesti la mia mano. Quella prima volta. Veniva dall'isola, le dicevano tutti quanti. Quel gran museo delle cere che è Waytansea Island, tutte quelle famiglie di isolani bene che risalgono al trattato del Mayflower. Quei begli alberi genealogici di una volta, dove tutti erano cugini di secondo grado di tutti. Dove da 200 anni nessuno comprava più una posata. Mangiavano carne a ogni pasto, e tutti i figli sembravano portare gli stessi gioielli vecchi e malconci. La loro sottospecie di dichiarazione di stile regionale. Le loro antiche case di famiglia in pietra e legno svettavano lungo Elm Street, Juniper Street, Hornebeam Street, scolorite dall'aria salata quel tanto che basta. Persino i loro golden retriever endogamici erano tutti uno cugino dell'altro. La gente diceva che a Waytansea Island ogni cosa aveva un po' quell'aria da museo. Il vecchio e strampalato traghetto che poteva trasportare fino a sei automobili. I tre isolati di edifici in mattoni lungo Merchant Street, l'alimentari, la vecchia torre dell'orologio della biblioteca, i negozi. Le assi del rivestimento in legno bianco e le verande che circondavano il vecchio Waytansea Hotel ormai chiuso. La chiesa di Waytansea, tutta granito e ve-
tri colorati. Lì nella galleria dell'accademia, Peter aveva indosso una spilla formata da un cerchio di strass azzurro sporco. Con dentro un cerchio di perle finte. Alcune delle pietre azzurre non c'erano più e i castoni vuoti apparivano appuntiti per via di certi minuscoli dentelli consunti. Il metallo era argento, però tutto storto e annerito. La punta del lungo ago faceva capolino da sotto il bordo e sembrava chiazzata di ruggine. Peter aveva in mano un grosso boccale di birra di plastica con il nome di una qualche squadra sportiva stampato sul fianco, e bevve un sorso. Disse: «Se l'idea di sposarmi non ti sfiora nemmeno non ha senso che ti porti fuori a cena, giusto?». Guardò il soffitto e poi lei e disse: «Trovo che questo approccio risparmi un sacco di tempo a tutti quanti». «Per la cronaca» gli disse Misty, «quella casa non esiste. Me la sono inventata.» Te lo disse, Misty. E tu dicesti: «Quella casa te la ricordi perché è ancora nel tuo cuore». E Misty disse: «Che cazzo ne sai tu di cosa c'è nel mio cuore?». Le grandi case di pietra. Il muschio sugli alberi. Le onde dell'oceano che sibilano e scoppiano ai piedi di scogliere di pietra bruna. Nel suo cuoricino di bianca con le pezze al culo c'era tutto quanto. Forse perché Misty era rimasta lì, forse perché pensavi che fosse grassa e sola, e che non era fuggita, fatto sta che abbassasti gli occhi sulla spilla che portavi al petto e sorridesti. La guardasti e dicesti: «Ti piace?». E Misty disse: «È antica?». E tu dicesti: «Abbastanza». «Che pietre sono?» disse lei. E tu dicesti: «Azzurre». Per la cronaca, non fu facile innamorarsi di Peter Wilmot. Di te. Misty disse: «Da dove viene?». E Peter scosse la testa un pochino, sorridendo al pavimento. Si mordicchiò il labbro inferiore. Guardò intorno a sé la poca gente rimasta nella galleria, con gli occhi socchiusi, poi guardò Misty e disse: «Prometti di non offenderti se ti faccio vedere una cosa?». Misty si voltò indietro, verso i suoi amici; si erano spostati davanti a un dipinto dall'altra parte della sala, però la tenevano d'occhio. E Peter sussurrò, con il sedere appoggiato al muro, si sporse verso di lei e sussurrò: «Per creare vera arte bisogna soffrire». Per la cronaca, una volta Peter chiese a Misty se sapeva come mai le
piacessero le opere d'arte che le piacevano. Come mai una scena di guerra terribile come Guernica di Picasso può essere bella, mentre un dipinto raffigurante due unicorni che si baciano in un giardino fiorito può essere una schifezza. Ma d'altra parte chi mai può spiegare davvero perché una cosa gli piace? Perché la gente fa quello che fa? In quella galleria, mentre i suoi amici la spiavano, uno dei dipinti doveva per forza essere di Peter, e così Misty disse: «Sì, dai. Mostrami un po' di vera arte». E Peter tracannò un po' di birra e le porse il boccale di plastica. Disse: «Ricorda. Hai promesso». Con entrambe le mani si afferrò l'orlo sbrindellato del maglione e lo sollevò. Un sipario che si alza. Una inaugurazione. Il maglione rivelò il suo ventre magro con un ciuffo di peli che risaliva nel mezzo. Poi l'ombelico. I peli si allargavano lateralmente intorno a due capezzoli rosa che cominciavano ad apparire. Il maglione si fermò, nascondendo il volto di Peter, e uno dei capezzoli si tese formando una lunga punta che si innalzava dal petto, rossa e incrostata, appiccicata all'interno del vecchio maglione. «Vedi?» disse la voce di Peter da dietro il maglione. «La spilla mi attraversa il capezzolo.» Qualcuno si lasciò sfuggire un urletto, e Misty si voltò a guardare i suoi amici. Il boccale di plastica le scivolò dalle mani, andando a colpire il pavimento in un'esplosione di birra. Peter lasciò andare il maglione e disse: «Avevi promesso». Era stata lei. L'ago arrugginito affondava in un lato del capezzolo, lo trapassava per intero e fuoriusciva dall'altra parte. La pelle intorno, imbrattata di sangue. I peli appiattiti e appiccicati dal sangue rappreso. Era stata Misty. Era stata lei a urlare. «Faccio un buco diverso ogni giorno» disse Peter chinandosi a raccogliere il boccale. Disse: «Così ogni giorno provo un dolore nuovo». Guardando meglio, intorno alla spilla il maglione era incrostato e scuro di macchie di sangue. Eppure eravamo all'accademia delle belle arti. Misty aveva visto di peggio. O forse no. «Tu» disse Misty, «tu sei pazzo.» Senza un motivo, se non forse lo shock, scoppiò a ridere e disse: «Sul serio. Sei disgustoso». Con i piedi nei sandali, appiccicaticci e inondati di birra. Chi può dire perché le cose ci piacciono? E Peter disse: «Hai mai sentito parlare della pittrice Maura Kincaid?».
Rigirò la spilla che portava conficcata nel petto, per farla scintillare alla luce della galleria. Per farla sanguinare. «O della scuola pittorica di Waytansea?» disse. Perché facciamo quello che facciamo? Misty guardò i suoi amici, e loro guardarono lei, con le sopracciglia inarcate, pronti a correre in suo aiuto. Lei guardò Peter e disse: «Mi chiamo Misty», e gli tese la mano. E lentamente, senza staccarle gli occhi di dosso, Peter alzò le mani e aprì il fermaglio dietro la spilla. Il suo viso fece una smorfia, per un istante ogni muscolo si contrasse. Con gli occhi chiusi e cuciti da grinze di pelle, sfilò il lungo ago dal suo maglione. Dal suo petto. Dal tuo petto. Sporco del tuo sangue. Richiuse la spilla, e gliela appoggiò sul palmo della mano. Disse: «Allora, vuoi sposarmi?». Lo disse con fare provocatorio, come per attaccar briga, come un guanto gettato ai suoi piedi. Come una sfida. Un duello. I suoi occhi le percorsero il corpo per intero, capelli, seni, gambe, braccia e mani, come se Misty Kleinman fosse il resto della sua vita. Caro, dolce Peter, riesci a rendertene conto? E quella piccola idiota del parcheggio roulotte, la spilla la accettò. 3 luglio Angel dice di stringere il pugno. Dice: «Tiri fuori l'indice come se dovesse infilarselo nel naso». Prende la mano di Misty, con il dito puntato, e gliela porta a sfiorare con il polpastrello la vernice nera sul muro. Le muove il dito ripercorrendo la scia di vernice spray nera, i frammenti di frasi e i ghirigori, gli sgocciolamenti e le sbavature, e Angel dice: «Sente qualcosa?». Per la cronaca, sono un uomo e una donna in piedi vicini dentro uno stanzino buio. Ci sono entrati carponi attraverso un buco nel muro, e la proprietaria della casa è fuori che aspetta. Giusto perché in futuro tu lo sappia, Angel ha indosso quel genere di pantaloni attillati di pelle marrone che hanno lo stesso odore del lucido da scarpe. Dei sedili in pelle di un'auto. Del portafoglio intriso di sudore, dopo che te lo sei tenuto nella tasca dietro dei pantaloni guidando in un giorno d'estate caldissimo. L'odore che una volta Misty fingeva di detestare, ecco: è di quello che sanno i pantaloni in pelle di Angel che premono contro di lei.
Di tanto in tanto, da fuori, la proprietaria dà un calcio contro il muro e grida: «Volete dirmi cosa state facendo lì dentro?». Oggi fa caldo e c'è il sole, con qualche nuvola qua e là, e la proprietaria di una casa ha chiamato da Pleasant Beach dicendo di aver ritrovato il suo angolo colazione e che era meglio se qualcuno andava a dare un'occhiata seduta stante. Misty ha chiamato Angel Delaporte, e lui è andato a prenderla all'arrivo del traghetto per poter fare la strada in macchina insieme. Con sé ha portato la macchina fotografica e una borsa piena di obbiettivi e rullini. Angel, come forse ricorderai, vive a Ocean Park. Un indizio? Gli hai sigillato la cucina. Dice che dal modo in cui scrivi le "m", con la prima gobba più larga della seconda, si vede che hai più a cuore la tua opinione che non quella degli altri. Dal modo in cui fai le "h" minuscole, con l'ultimo tratto che torna indietro sotto la gobbetta, si vede che non vuoi mai scendere a compromessi. Si chiama grafologia, ed è una vera e propria scienza, dice Angel. Dopo aver visto queste parole nella sua cucina scomparsa, ha chiesto di vedere qualche altra casa. Per la cronaca, lui dice che dal modo in cui fai le "g" e le "y" minuscole, con l'occhiello inferiore che tende a sinistra, si vede che sei attaccatissimo a tua madre. E Misty gli ha detto che su quello ci ha azzeccato. Lei e Angel sono andati in macchina a Pleasant Beach, e ad aprirgli la porta è venuta una donna. Li ha guardati, con la testa leggermente all'indietro, così che gli occhi li scrutassero dall'alto del naso, il mento proteso in fuori e le labbra serrate e sottili, con i muscoli ai lati delle mandibole, i muscoli masseteri, stretti in due piccoli pugni, e ha detto: «Peter Wilmot è troppo pigro per presentarsi di persona?». Il muscoletto che va dal labbro inferiore al mento, il muscolo mentoniero. Ecco: ce l'aveva talmente contratto che il mento era costellato da un miliardo di minuscole fossette, e ha detto: «Mio marito è da stamattina che fa gargarismi senza sosta». Il mentoniero, il corrugatore, tutti i muscoletti della faccia, sono quelle le prime cose che impari ai corsi d'anatomia dell'accademia. Dopo, riesci a riconoscere un sorriso falso perché il muscolo risorio e il platisma tirano verso il basso il labbro inferiore e lo distendono, dandogli una forma quadrata e scoprendo i denti inferiori. Per la cronaca, essere in grado di capire quando la gente fa solo finta di apprezzarti non è poi una gran capacità.
Nella cucina della donna, la tappezzeria gialla penzola staccata dalla parete intorno a un buco vicino al pavimento. Il pavimento sono piastrelle gialle coperte di giornali e calcinacci. Accanto al buco c'è un sacchetto della spesa gonfio di pezzi di cartongesso rotto. Dal sacchetto affiorano in riccioli nastri di tappezzeria gialla strappata. Gialla e punteggiata di piccoli girasoli arancioni. La donna si è piazzata accanto al buco, con le braccia incrociate sul petto. Ha indicato il buco con un cenno della testa e ha detto: «È lì dentro». Gli operai siderurgici, le ha detto Misty, legano un ramo nel punto più alto di un grattacielo o di un ponte appena costruito per celebrare il fatto che nessuno sia morto durante i lavori. O per portare fortuna al nuovo edificio. Lo chiamano "addobbare l'albero". Una tradizione pittoresca. Gli imprenditori edili sono pieni di superstizioni irrazionali. Misty ha detto alla proprietaria di non preoccuparsi. Con il muscolo corrugatore che le solleva le sopracciglia avvicinandole al di sopra del naso. Il muscolo elevatore che le tende il labbro superiore in un ghigno e le dilata le narici. Il muscolo depressore che le abbassa il labbro inferiore rivelando i denti sotto, la donna dice: «Siete voi che dovreste preoccuparvi». Dentro il buco, su tre lati dello stanzino buio ci sono panche gialle fissate alle pareti, come il séparé di un ristorante ma senza tavolo. È quello che la proprietaria definisce angolo colazione. Il giallo è giallo vinile e le pareti sopra le panche sono giallo tappezzeria. Su tutta la superficie ci sono scritte in vernice spray nera, e Angel sposta la mano di Misty lungo il muro, dove dice: "... salvare il nostro mondo uccidendo questo esercito di invasori..." È la vernice spray nera di Peter, frasi spezzate e scarabocchi. Ghirigori. Il nero avviluppa i quadri in cornice, i cuscini di pizzo, le panche di vinile giallo. Sul pavimento ci sono bombolette vuote con le impronte nere delle mani di Peter, spirali di impronte digitali in vernice che ancora stringono le bombolette. Le parole di vernice spray circondano quadretti di fiori e uccellini. Le parole nere scorrono accanto ai cuscini di pizzo. Le parole corrono tutt'intorno alla stanza in ogni direzione, attraverso il pavimento piastrellato, lungo il soffitto. Angel dice: «Mi dia la mano». E raccoglie le dita di Misty in un pugno chiuso da cui spunta soltanto l'indice teso. Le adagia il polpastrello sulle scritte nere e gliele fa ripercorrere parola per parola.
Con la mano stretta intorno alla sua, guidandole il dito. Con la striscia scura di sudore intorno al colletto e sotto le maniche della camicia bianca. Con il fiato che sa di vino e si raccoglie contro il collo di Misty. Il modo in cui Angel le sta addosso mentre lei ha gli occhi fissi sulle parole nere di vernice. È questa la sensazione che pervade la stanza. Angel le tiene il dito contro il muro, spostando il tocco di Misty lungo le parole di vernice, e dice: «Riesce a sentire ciò che sentiva suo marito?». Secondo i grafologi, se ripercorri con il dito indice la scrittura di un'altra persona, o magari prendi un cucchiaio di legno o un bastoncino del ristorante cinese e ricalchi le sue parole, puoi provare la stessa identica sensazione sperimentata dallo scrittore durante la scrittura. Bisogna studiare la pressione e la velocità della calligrafia, esercitando la stessa pressione esercitata dallo scrittore. Scrivendo rapido come ti sembra che abbia scritto lui, o lei. Angel dice che è esattamente come recitare secondo il Metodo. Quello che lui chiama il Metodo dell'azione fisica di Constantin Stanislavskij. L'analisi della scrittura e il Metodo Stanislavskij: Angel dice che entrambi sono diventati popolari nello stesso periodo. Stanislavskij aveva studiato il lavoro di Pavlov e del suo cane bavoso, e l'opera del neurofisiologo I.M. Sechenov. Prima ancora, la grafologia era stata studiata da Edgar Allan Poe. Tutti quanti cercavano il nesso tra fisicità ed emotività. Tra corpo e mente. Mondo e immaginazione. Tra questo mondo e quell'altro. Mentre il dito di Misty si sposta lungo il muro, lei e Angel ridisegnano le parole: "... l'inondazione di voi, con la vostra fame senza fondo e le vostre pretese rumorose..." Sussurrando, Angel dice: «Se un'emozione può creare un'azione fisica, allora replicando quell'azione fisica è possibile ricreare l'emozione». Stanislavskij, Sechenov, Poe, tutti quanti erano alla ricerca di un metodo scientifico per produrre miracoli a richiesta, dice lui. Un metodo inesauribile per ripetere il caso. Una catena di montaggio per pianificare e fabbricare la spontaneità. Il misticismo che incontra la Rivoluzione industriale. L'odore che resta sullo straccio dopo che hai lucidato gli stivali. È quello l'odore che pervade la stanza. È l'odore dell'interno di una cintura di cuoio pesante. Del guantone di un giocatore di baseball. Del collare di un cane. Il tenue odore vagamente acetoso del cinturino dell'orologio sudato. Il rumore del respiro di Angel, il viso di Misty inumidito su un lato dai suoi sussurri. La mano di Angel rigida e dura come una trappola intorno
alla sua, che gliela stringe. Le unghie delle dita di lui che le affondano nella pelle. E Angel dice: «Senta. Tocchi e mi dica cosa sentiva suo marito». Le parole: "... il vostro sangue è il nostro oro...". Il modo in cui leggere una cosa può essere uno schiaffo in faccia. Fuori dal buco, la proprietaria dice qualcosa. Bussa sulla parete e dice, più forte: «Qualunque cosa dobbiate fare, mi auguro per voi che la stiate facendo». Angel sussurra: «Lo dica». Le parole dicono: "... voi, piaga che si trascina dietro frustrazioni e immondizie...". Costringendo le dita di tua moglie a seguire ogni lettera, Angel sussurra: «Me lo dica». E Misty dice: «No». Dice: «Sono solo follie». Guidando le dita di Misty strette forte nelle sue, Angel la sospinge in avanti facendo pressione con le spalle, e dice: «Sono solo parole. Può dirle». E Misty dice: «Sono cattive. Non hanno senso». Le parole: "... massacrarvi tutti quanti come offerta, ogni quarta generazione...". La pelle di Angel è calda e stringe le sue dita, e lui sussurra: «Allora perché è venuta a vederle?». Le parole: "... le cosce grasse di mia moglie brulicano di vene varicose...". Le cosce grasse di tua moglie. Angel sussurra: «Perché prendersi la briga di venire qui?». Perché il suo caro, dolce, stupido marito prima di suicidarsi non ha lasciato un biglietto. Perché questa è una parte di lui che non ha mai conosciuto. Perché vuole capire chi era. Vuole scoprire cos'è successo. Misty dice ad Angel: «Non lo so». Gli impresari edili all'antica, gli dice, non cominciano mai una casa di lunedì. Solo di sabato. Una volta gettate le fondamenta, ci buttano dentro una manciata di semi di segale. Dopo tre giorni, se i semi non sono germogliati, costruiscono la casa. Seppelliscono una vecchia Bibbia sotto il pavimento, oppure la murano nelle pareti. Lasciano sempre un muro da dipingere finché non arrivano i proprietari. Così il diavolo non sa che la casa è finita finché qualcuno non ci abita già. Da una tasca sul fianco della borsa della macchina fotografica, Angel
prende qualcosa di piatto e argentato, delle dimensioni di un libro tascabile. È una fiaschetta, piatta e luccicante, ha una forma ricurva e sul lato concavo il riflesso di chi guarda è alto e magro. Sul lato convesso invece è tozzo e grasso. La porge a Misty, e il metallo è liscio e pesante, con un tappo rotondo da una parte. Il peso si sposta, e qualcosa all'interno sciaborda. La borsa della macchina fotografica è tessuto ruvido e grigio, coperto di cerniere. Sul lato lungo e sottile della fiaschetta c'è inciso: A Angel - Te Amo. Misty dice: «E lei allora? Perché è venuto qui?». Quando Misty gli prende la fiaschetta di mano, le loro dita si sfiorano. Contatto fisico. Flirt. Per la cronaca, il tempo previsto per oggi è parzialmente sospetto con possibilità di tradimento. E Angel dice: «È gin». Il tappo si svita e si sposta da un lato su un piccolo braccio che lo tiene attaccato alla fiaschetta. Quello che c'è all'interno ha l'odore di un bel momento, e Angel dice: «Beva», e le sue impronte digitali coprono interamente il riflesso alto e magro sulla superficie lucida. Attraverso il buco nel muro, si vedono i piedi della proprietaria che calzano mocassini di pelle scamosciata. Angel piazza la borsa della macchina fotografica a coprire il buco. Da qualche parte al di là di tutto questo, si sentono le onde dell'oceano che a una a una sibilano e scoppiano. Sibilano e scoppiano. I grafologi dicono che nella calligrafia si manifestano i tre aspetti della personalità. Qualsiasi cosa si collochi al di sotto della linea di una parola, per esempio l'occhiello di una "g" o di una "y" minuscola, va riferito al subconscio. Quello che Freud chiamerebbe l'Es. La parte più animale di ognuno. Se tende a destra, significa che sei rivolto al futuro e al mondo che ti circonda. Se invece l'occhiello punta a sinistra, vuol dire che sei bloccato nel passato e concentrato su te stesso. La tua scrittura, il modo in cui cammini per strada, in ogni azione fisica si manifesta tutta la tua vita. Il modo in cui tieni le spalle, dice Angel. È tutta arte. Anche nei gesti che si fanno con le mani, uno non fa che raccontare senza sosta la storia della sua vita. C'è del gin dentro la fiaschetta, di quello buono che senti freddo e sottile scenderti per tutta la gola. Angel dice che l'aspetto delle lettere alte, tutte quelle che si levano al di sopra delle normali "e" o "s" minuscole, ecco: quelle lettere alte si riferiscono all'io più ampio e spirituale. Il super-Io. Dal modo in cui scrivi le
"1" o le "h" o i puntini sulle "i", si vede cos'è che aspiri a diventare. Tutto quello che sta nel mezzo, ovvero la maggior parte delle lettere minuscole, esprime l'ego. Se sono fitte e appuntite o distanziate e tondeggianti. È da lì che emerge il tuo io normale, quello di tutti i giorni. Misty porge la fiaschetta ad Angel e lui beve un sorso. Poi le dice: «Riesce a sentire qualcosa?». Le parole di Peter dicono: "... è con il vostro sangue che preserveremo il mondo per le future generazioni...". Le tue parole. La tua arte. Le dita di Angel si aprono intorno alle sue. Scompaiono nel buio, e si sentono le cerniere della borsa della macchina fotografica aprirsi. Il suo odore di cuoio marrone si allontana da lei, e poi c'è il click e il flash, il click e il flash di lui che scatta fotografie. Angel si capovolge la fiaschetta contro le labbra, e il riflesso di Misty scivola su e giù sul metallo stretto tra le sue dita. Quelle di Misty percorrono le pareti, e le scritte dicono: "Io ho fatto la mia parte. Ho trovato lei...". Dicono: "... uccidere non è compito mio. È lei, il boia...". Per rappresentare fedelmente il dolore, Misty dice che lo scultore Bernini realizzò uno schizzo del proprio volto mentre si bruciava una gamba con una candela. Per dipingere La zattera della Medusa, Géricault andò in un ospedale a ritrarre le facce dei moribondi. Si portò in studio teste e braccia mozzate, per studiare i mutamenti di colore della pelle in decomposizione. La parete tuona. Poi tuona di nuovo, e sotto le dita di Misty il muro a secco e la vernice tremano. Dall'altra parte, la proprietaria sferra un altro calcio contro il muro con le sue scarpe da barca e i fiori e gli uccellini in cornice sbatacchiano contro la tappezzeria gialla. Contro gli scarabocchi di vernice spray nera. Grida: «Dite pure a Peter Wilmot che finirà in galera, per questo». Al di là di tutto questo, le onde dell'oceano sibilano e scoppiano. Continuando a ripercorrere le tue parole con le dita, cercando di sentire ciò che sentivi tu, Misty dice: «Ha mai sentito parlare di una pittrice di queste parti che si chiamava Maura Kincaid?». Da dietro la macchina fotografica, Angel dice: «Ne so poco», e fa scattare l'otturatore. Dice: «Sbaglio o la Kincaid aveva qualcosa a che fare con la sindrome di Stendhal?». E Misty beve ancora, una sorsata rovente, con le lacrime agli occhi. Dice: «È di quello che è morta?».
E continuando a scattare foto, Angel la guarda attraverso la macchina fotografica e dice: «Guardi da questa parte». Dice: «Ha presente quella cosa che ha detto sull'essere un'artista? Quella roba di anatomia? Ecco, mi mostri come dovrebbe essere un sorriso vero». 4 luglio Giusto perché tu lo sappia, la scena è tenerissima. È la festa dell'Indipendenza, e l'hotel è al completo. La spiaggia brulica. L'atrio è affollato di popolo dell'estate, tutti che si muovono disordinatamente, aspettando che dalla terraferma vengano lanciati i fuochi d'artificio. Tua figlia Tabbi ha una strisciolina di nastro adesivo su ciascun occhio. Cieca, avanza nell'atrio tastoni e aggrappandosi alle cose. Va dal camino al banco della reception, sussurrando: «... otto, nove, dieci...», contando i passi che separano un punto di riferimento dall'altro. I forestieri dell'estate trasaliscono, sorpresi dalle sue manine che tastano qua e là. Le sorridono a labbra strette e si allontanano. Questa ragazzina con indosso un prendisole rosa e giallo di stoffa scozzese sbiadita, con i capelli scuri raccolti in una coda da un nastro giallo, è la perfetta figlia di Waytansea Island. Tutta rossetto e smalto rosa. Tutta impegnata in un delizioso gioco d'altri tempi. Le sue mani aperte scorrono lungo un muro, toccano un quadro in cornice, sfiorano una libreria. Fuori dalle finestre dell'atrio, c'è uno scoppio di luce e rumore. Il fuoco d'artificio sparato dalla terraferma, che si inarca nel cielo diretto verso l'isola. Come se l'hotel fosse sotto attacco. Enormi girandole di fiamme gialle e arancio. Rosse esplosioni di fuoco. Scie e scintille blu e verdi. Lo scoppio arriva sempre dopo, come il tuono che segue il lampo. E Misty va da sua figlia e le dice: «Amore, hanno cominciato». Dice: «Apri gli occhi e vieni a vedere». Con gli occhi ancora chiusi dal nastro adesivo, Tabbi dice: «Ho bisogno di memorizzare la stanza finché c'è gente». Spostandosi tastoni tra gli estranei, tutti pietrificati a guardare il cielo, Tabbi conta i passi verso le porte dell'atrio e verso la veranda che sta fuori. 5 luglio Al primo vero appuntamento tra te e Misty, tu le preparasti una tela.
Peter Wilmot e Misty Kleinman insieme, seduti nell'erba alta, in un grande terreno abbandonato. Api e mosche estive che volano tutt'intorno. Seduti su un plaid che Misty aveva portato dal suo appartamento. Misty tira fuori le gambe pieghevoli della sua scatola di colori in legno chiaro coperto di vernice trasparente ingiallita con coprispigoli d'ottone e cardini anneriti dall'ossidazione, trasformandola in un cavalletto. Se questa roba già la ricordi, passa oltre. Se ben ti ricordi, le erbacce erano così alte che dovesti calpestarle per ricavare un nido sotto il sole. Erano le vacanze di primavera, e nel campus tutti sembravano aver avuto la stessa idea. Fabbricare un lettore di compact disc o un computer intrecciando erbe tipiche della zona e rametti. Pezzetti di radici. Baccelli. C'era un sacco di odore di colla, nell'aria. Nessuno lavorava con le tele, nessuno dipingeva paesaggi. Era poco spiritoso. E invece Peter si sedette su quella coperta al sole. Aprì la giacca e sollevò l'orlo del maglione sformato. E sotto, contro la pelle del petto e della pancia, aveva una tela bianca montata con le graffette su un telaio. Invece di metterti la crema solare, ti disegnasti un tratto di carboncino sotto gli occhi e lungo il naso. Una grossa croce nera al centro del viso. Se adesso stai leggendo queste parole, sarai stato in coma per Dio solo sa quanto. L'ultima cosa che questo diario dovrebbe fare è annoiarti. Quando Misty ti chiese come mai avevi portato la tela dentro i vestiti, infilata sotto il maglione a quel modo... Peter disse: «Per essere certo che fosse della misura giusta». Lo dicesti tu. Se ben ti ricordi, saprai che stavi masticando un filo d'erba. Il gusto che aveva. I muscoli delle tue mandibole grossi e quadrati, prima da una parte, poi dall'altra, intanto che te lo rigiravi in bocca. Con una mano frugavi tra le erbacce, scartando pezzi di ghiaia e grumi di terra. Tutti gli amici di Misty intrecciavano le loro stupide erbe. Per creare un qualche apparecchio abbastanza realistico da essere spiritoso. E da non disfarsi. A meno che il risultato non fosse apparso come un vero prodotto di alta tecnologia da intrattenimento preistorica, l'ironia non avrebbe funzionato. Peter le diede la tela bianca e disse: «Dipingi qualcosa». E Misty disse: «Nessuno dipinge-dipinge. Non più». Se tra quelli che conosceva lei c'era qualcuno che ancora si dedicava alla pittura, lo faceva usando sangue o sperma. E dipingeva su cani vivi presi al
canile, o su dessert di gelatina fatti a stampo, mai su vere tele. E Peter disse: «Io scommetto che tu ancora dipingi su tela». «E per quale motivo?» disse Misty. «Perché sono ritardata? Perché non so fare niente di meglio?» E Peter disse: «Dipingi e basta, cazzo». Quelli come loro si presupponeva fossero già al di là dell'arte figurativa. Delle immaginette graziose. Ora dovevano imparare il sarcasmo visivo. Misty disse che pagavano rette troppo care per non praticare le tecniche dell'ironia effettiva. Disse che un'immaginetta graziosa non insegnava niente, al mondo. E Peter disse: «Ma se non siamo nemmeno abbastanza grandi da comprarci una birra. Cosa vuoi che abbiamo da insegnare, al mondo?». Lì, disteso sulla schiena nel loro nido d'erbacce, con un braccio piegato dietro la testa, Peter disse: «Puoi fare tutti gli sforzi che vuoi, ma se non sei ispirato non combini nulla». Casomai non l'avessi notato, da gran coglione che sei, Misty voleva piacerti a tutti i costi. Per la cronaca, il suo vestitino, i sandali e il cappello floscio di paglia: è per te che si era agghindata di tutto punto. Se solo le avessi sfiorato i capelli, li avresti sentiti scricchiolare di lacca. Si era messa tanto di quel profumo Windsong che attirava le api. E Peter sistemò la tela bianca sul suo cavalletto. Disse: «Maura Kincaid non ha mai messo piede in una merdosissima accademia». Sputò un grumo di saliva verde, raccolse un altro filo d'erba e se lo ficcò in bocca. Con la lingua macchiata di verde disse: «Scommetto che se tu dipingessi quello che hai nel cuore, finirebbe appeso in un museo». Quello che aveva nel cuore lei, disse Misty, erano fondamentalmente cazzate idiote. E Peter la guardò e basta. Poi disse: «Che senso ha dipingere ciò che non ami?». Quello che amava lei, gli disse Misty, non si sarebbe mai venduto. La gente non l'avrebbe comprato. Era la teoria di Peter sull'espressione individuale. Il paradosso dell'essere artisti di professione. Il fatto che passiamo la vita a cercare di esprimerci al meglio, ma senza avere niente da dire. Vorremmo che la creatività fosse un sistema di causa ed effetto. Vorremmo risultati. Un prodotto vendibile. Vorremmo che alla dedizione e alla disciplina corrispondessero pari riconoscimenti e gratificazioni. Ci sciroppiamo la routine dell'accademia, il nostro corsettino di diploma in belle arti e ci esercitiamo, ci esercitiamo, ci
esercitiamo. Poi, con tutto il nostro eccellente bagaglio tecnico, non abbiamo niente di speciale da documentare. Secondo Peter, niente ci fa più incazzare di quando un tossico marcio, un fancazzista incallito o un pervertito con la bava alla bocca sforna il capolavoro. Così, per caso. Un idiota che non ha paura di dire cos'è che ama davvero. «Platone» dice Peter, voltandosi a sputare saliva verde tra le erbacce. «Platone diceva: "Colui che si accosta al tempio delle muse privo di ispirazione, illudendosi che le doti d'artigiano possano bastare, resterà per sempre un improvvisatore, e i suoi versi arroganti verranno oscurati dal canto dei folli".» Si ficcò in bocca un altro filo d'erba e masticò, dicendo: «Allora, cos'è che fa di Misty Kleinman una folle?». Le sue case di fantasia e le strade di ciottoli. I suoi gabbiani che volteggiano disegnando cerchi sulle barche dei pescatori d'ostriche di ritorno da secche che lei non ha mai conosciuto. Le fioriere alle finestre traboccanti di bocche di leone e zinnie. Col cazzo che avrebbe dipinto quelle stronzate. «Maura Kincaid» dice Peter «non prese in mano un pennello fino all'età di quarantun anni.» Cominciò a estrarre i pennelli dalla scatola di legno chiaro, torcendone le punte. Disse: «Maura finì sposata a un buon vecchio falegname di Waytansea Island, e insieme ebbero due figli». Tirò fuori i tubetti di colore e li sistemò accanto ai pennelli, sulla coperta. «Solo quando il marito morì» disse Peter. «Fu allora che Maura si ammalò, e gravemente. Di tubercolosi, mi pare. Allora a quarantun anni eri vecchia.» Fu solo quando uno dei suoi figli morì, disse, che Maura Kincaid dipinse il suo primo quadro. Disse: «Forse la gente deve soffrire davvero prima di arrischiarsi a fare ciò che ama». A Misty tutto questo lo dicesti tu. Le dicesti che Michelangelo era un maniaco depressivo che nei suoi dipinti si ritraeva come martire scorticato. Che Henri Matisse aveva dovuto rinunciare alla carriera d'avvocato per via di un'appendicite. Che Robert Schumann cominciò a comporre solo dopo che la mano destra gli si paralizzò e dovette abbandonare pianoforte e carriera concertistica. Ti stavi frugando in tasca, mentre dicevi tutto questo. Cercavi qualcosa. Le parlasti di Nietzsche e della sua sifilide terziaria. Di Mozart e della sua uremia. Di Paul Klee e della sclerodermia che gli indurì a morte muscoli e giunture. Di Frida Kahlo e della spina bifida che le ricopriva le gambe di piaghe sanguinolente. Di Lord Byron e del suo piede equino.
Delle sorelle Brontë e della loro tubercolosi. Di Mark Rothko e del suo suicidio. Di Flannery O'Connor e del suo lupus. L'ispirazione ha bisogno di malattie, ferite, follia. «Secondo Thomas Mann» disse Peter, «"i grandi artisti sono grandi invalidi."» E lì, sulla coperta, appoggiasti qualcosa. Lì, circondata da tubetti di colore e pennelli, posasti una grossa spilla di strass. Grossa quanto un dollaro d'argento, la spilla era fatta di gemme di vetro trasparenti, minuscoli specchi levigati a formare una girandola di giallo e arancio, tutti quanti sbeccati e torbidi. Lì, sul plaid colorato, fu come se la spilla facesse esplodere la luce del sole in scintille. Il metallo era grigio opaco e ghermiva gli strass con minuscoli dentelli. Peter disse: «Hai ascoltato una parola di quello che ho detto?». E Misty raccolse la spilla. Le scintille le si riverberarono dritte negli occhi e lei rimase accecata, abbagliata. Scollegata da tutto quello che c'era, dal sole e dall'erba. «È per te» disse Peter. «Per l'ispirazione.» Il riflesso di Misty appariva frantumato una decina di volte su ogni pietra. Un migliaio di pezzi del suo viso. Ai colori scintillanti che aveva in mano Misty disse: «E raccontami». Disse: «Come morì il marito di Maura Kincaid?». E Peter, con i denti verdi, sputò verde nell'erba alta che li circondava. Con la croce nera sul viso. Si leccò le labbra verdi con la lingua verde, e disse: «Ammazzato». Peter disse: «Lo fecero fuori». E Misty cominciò a dipingere. 6 luglio Per la cronaca, l'orrida vecchia biblioteca, con la tappezzeria che si scolla a ogni giuntura e le mosche morte dentro i lampadari di vetro biancastro opaco appesi al soffitto, tutto quel che ricordi c'è ancora. Sempre che tu riesca a ricordarlo. Lo stesso malandato mappamondo, ingiallito fino a raggiungere una tinta minestrina. I continenti intagliati in luoghi come la Prussia e il Congo belga. C'è ancora il cartello incorniciato che dice: "Chiunque venga sorpreso a deturpare i libri della biblioteca sarà perseguito a norma di legge". La vecchia signora Terrymore, la bibliotecaria, indossa gli stessi tailleur di tweed, solo che ora sul bavero sfoggia una spilla grossa quanto la sua
faccia che dice: "Reinventatevi il futuro con i servizi finanziari Owens!". A quello che non capisci puoi dare qualunque significato. In tutta l'isola la gente indossa spille del genere, oppure magliette, che vendono un messaggio pubblicitario. Ricevono un piccolo premio, oppure del denaro, se si fanno vedere con quelle indosso. Se trasformano i loro corpi in cartelloni pubblicitari. Se indossano cappellini da baseball con su stampati dei numeri verdi. Misty è venuta qui con Tabbi, a cercare libri sui cavalli e sugli insetti che la sua maestra vuole farle leggere prima che cominci le medie, quest'autunno. Niente computer. Niente connessione a Internet né banche dati elettroniche significa niente popolo dell'estate. Vietati i cappuccini. Niente prestito di videocassette e dvd. Nulla è permesso oltre la soglia di un sussurro. Tabbi è andata nella sezione ragazzi, mentre tua moglie si trova nel suo coma personale: la sezione libri d'arte. Quello che ti insegnano all'accademia è che i grandi maestri del passato come Rembrandt e Caravaggio e Van Eyck si limitavano a ricalcare. Disegnavano come la maestra di Tabbi non le lascerebbe mai fare. Hans Holbein, Diego Velàzquez, si sedevano dentro una tenda di velluto, nel buio più totale, e disegnavano il mondo che brillava all'interno attraverso una minuscola lente. O riflesso da uno specchio ricurvo. O, come nello stenoscopio, semplicemente proiettato dentro il loro piccolo spazio buio attraverso un forellino. Proiettando il mondo esterno sullo schermo delle loro tele. Canaletto, Gainsborough, Vermeer, se ne stavano lì al buio per ore o giorni interi, ricalcando edifici e modelli nudi bagnati dalla luce chiara del sole. A volte addirittura stendevano i colori direttamente sopra quelli proiettati, riproducendo la lucentezza di un tessuto drappeggiato in pieghe riflesse. Dipingendo un ritratto fedele nel giro di un pomeriggio. Per la cronaca, Camera Obscura viene dal latino, e ovviamente significa "stanza buia". Dove la catena di montaggio incontra il capolavoro. Una macchina fotografica che usa i colori invece dell'ossido d'argento. La tela invece della pellicola. Passano qui tutta la mattinata, e a un certo punto Tabbi si avvicina alla madre. Tra le mani tiene un libro aperto e dice: «Mamma?». Con il naso ancora sulla pagina dice a Misty: «Tu lo sapevi che per bruciare un corpo umano medio ci vuole un fuoco di almeno 870 gradi e per sette ore di seguito?».
Nel libro ci sono foto in bianco e nero di morti ustionati raggomitolati nella cosiddetta "posizione del pugile", con le braccia carbonizzate raccolte davanti alla faccia. Le mani stringono i pugni, cotte dal calore del fuoco. Pesi piuma, medi e massimi, tutti carbonizzati e neri. Il libro si intitola Cinque studi di medicina legale. Per la cronaca, il tempo previsto per oggi è nervoso disgusto con accenni d'apprensione. La signora Terrymore alza gli occhi dalla scrivania. Misty dice a Tabbi: «Rimettilo a posto». Oggi, in biblioteca, nella sezione libri d'arte, tua moglie sfiora libri a caso nello scaffale consultazione. Senza alcun motivo ne apre uno, e dentro c'è scritto che quando un artista si serviva di uno specchio per proiettare un'immagine sulla tela l'immagine risultava rovesciata. Ecco perché spesso, nei dipinti dei grandi maestri, tutti quanti sono mancini. Quando usavano una lente, l'immagine era capovolta. Qualunque tecnica usassero per vederla, veniva fuori distorta. In questo libro c'è un'antica xilografia che ritrae un artista impegnato a ricalcare una proiezione. Da un lato all'altro della pagina qualcuno ha scritto: "Puoi farlo con la mente". Ecco perché gli uccelli cantano, per segnare il territorio. Ecco perché i cani pisciano. Proprio come sotto il tavolo nella Sala del legno e dell'oro del Waytansea Hotel, il messaggio postumo di Maura Kincaid: "Scegli un libro a caso dalla biblioteca" ha scritto. La sua onda lunga a matita. La sua immortalità artigianale. Quest'altro messaggio è firmato Constance Burton. "Puoi farlo con la mente." A casaccio, Misty prende un altro libro e lascia che si apra da sé. Parla dell'artista Charles Meryon, un brillante incisore francese divenuto schizofrenico e morto in un manicomio. In un'incisione raffigurante il Ministero della Marina francese, un edificio di pietra in stile classico fronteggiato da una fila di alte colonne scanalate, tutto sembra perfetto, finché non noti lo sciame di mostri che scende dal cielo. E sulle nuvole al di sopra dei mostri, a matita, c'è scritto: "Noi siamo la loro esca e la loro trappola". Firmato Maura Kincaid. Con gli occhi chiusi, Misty fa passeggiare le dita lungo i dorsi dei libri sullo scaffale. Sfiorando crinali di cuoio e carta e stoffa, sfila un libro senza nemmeno guardarlo e lascia che le si apra a caso tra le mani. Ecco Francisco Goya, avvelenato dal piombo contenuto nei suoi colori
sfavillanti. Colori che stendeva con le dita, che raccolse da secchi fino a farsi venire un'encefalopatia da piombo, con conseguente sordità, depressione e follia. Sulla pagina c'è un dipinto del dio Saturno che divora i suoi figli, un cupo miscuglio di nero che si dispiega intorno a un gigante dagli occhi indemoniati intento a strappare un braccio a morsi da un corpo decapitato. Nel margine bianco della pagina qualcuno ha scritto: "Se hai trovato questo, puoi ancora salvarti". È firmato Constance Burton. Nel libro successivo, il pittore francese Watteau si ritrae nelle vesti di un pallido e malfermo suonatore di chitarra, che sta morendo di tubercolosi proprio come lui nella vita reale. Nel cielo azzurro della scena c'è scritto: "Non ritrarli". Firmato Constance Burton. Per mettersi alla prova, tua moglie attraversa la biblioteca, oltrepassando la vecchia bibliotecaria che la osserva da dietro un paio di occhialini rotondi con la montatura nera sottile. Tra le braccia Misty ha i libri su Watteau, su Goya, sulla camera obscura, tutti aperti e impilati uno dentro l'altro. Tabbi alza la testa e la guarda da un tavolo disseminato di libri per ragazzi. Nella sezione letteratura, Misty chiude di nuovo gli occhi e cammina, lasciando scorrere le dita sui dorsi dei vecchi libri. Senza alcun motivo, si ferma e ne tira fuori uno. Parla di Jonathan Swift, di come si prese la sindrome di Ménière, che gli rovinò la vita rendendolo sordo e preda di vertigini. Amareggiato, scrisse le cupe satire I viaggi di Gulliver e Una modesta proposta, lasciando intendere che gli inglesi avrebbero potuto sopravvivere sfamandosi con il flusso crescente di bambini irlandesi. Le sue opere migliori. Il libro si apre a una pagina su cui qualcuno ha scritto: "Ti costringerebbero a uccidere tutti i figli di Dio se è questo che occorre per salvare i loro". È firmato Maura Kincaid. Tua moglie appoggia quest'altro libro dentro l'ultimo e richiude gli occhi. Carica di libri, allunga il braccio per toccarne un altro. Misty fa passeggiare le dita di dorso in dorso. Con gli occhi chiusi avanza di un passo, urtando contro un muro morbido che odora di borotalco. Quando apre gli occhi, c'è del rossetto rosso scuro in un volto bianco di cipria. Una visiera verde su una fronte, e sopra una chioma di riccioli grigi. Stampata sulla visiera c'è la scritta: "Soddisfazione totale? Chiama l'1-800-555-1785". Sotto, un paio di occhialini con la montatura nera sottile. Un tailleur di tweed. «Mi scusi» dice una voce, ed è quella della signora Terrymore, la bibliotecaria. È lì in piedi davanti a lei, a braccia conserte.
E Misty indietreggia di un passo. Il rossetto rosso scuro dice: «Le sarei grata se non distruggesse i libri accatastandoli in quel modo». La povera Misty si scusa. Sempre la solita profana. Fa per posare i libri su un tavolo. E la signora Terrymore, rivolgendole i palmi delle mani aperte, le dice: «La prego, lasci, li rimetto a posto io. Per cortesia». Misty dice: non ancora. Dice che vorrebbe prenderli in prestito, e mentre le due donne si contendono fisicamente il carico, un libro scivola fuori e si schianta sul pavimento di piatto. Forte come una sberla in piena faccia. Aprendosi nel punto dove si legge: "Non ritrarli". E la signora Terrymore dice: «Spiacente ma sono libri di consultazione». E Misty dice: no, non è vero. Non tutti. Si leggono le parole: "Se hai trovato questo, puoi ancora salvarti". Attraverso gli occhiali con la montatura nera sottile, la bibliotecaria vede la scritta e dice: «Ogni anno sempre più danni». Si volta a guardare un'alta pendola di noce scuro e dice: «Be', se non le dispiace oggi abbiamo chiuso un po' prima». Confronta l'orario della pendola con quello del suo orologio da polso e dice: «Siamo chiusi da dieci minuti». Tabbi i suoi libri li ha già fatti registrare. Aspetta in piedi accanto alla porta d'ingresso, e dice: «Mamma, sbrigati. Devi andare al lavoro». E con una mano, la bibliotecaria pesca nella tasca del suo tailleur di tweed, estraendone una grossa gomma rosa. 7 luglio Le vetrate colorate della chiesa di Waytansea Island. Misty Marie Kleinman, la piccola bianca con le pezze al culo, sapeva disegnarle prima ancora di imparare a leggere o a scrivere. Prima ancora di scoprire cos'erano le vetrate colorate. Non aveva mai messo piede in chiesa, in nessuna chiesa. Quella piccola senzadio di Misty Kleinman era in grado di disegnare le lapidi del cimitero di Waytansea Point, con tanto di date ed epigrafi, prima ancora di scoprire cos'erano i numeri e le parole. Ora, seduta qui durante la messa, fatica a distinguere nel ricordo ciò che ha immaginato da ciò che ha visto per davvero dopo il suo arrivo. Il panno porpora dell'altare. Le spesse travi di legno con la laccatura annerita. Tutto è come se l'era immaginato da bambina. Ma questo non è possibile.
Grace seduta al suo fianco, che prega. Tabbi seduta subito dopo di lei, entrambe in ginocchio. Con le mani giunte. La voce di Grace, i suoi occhi chiusi e le labbra che mormorano nelle mani. Dice: «Ti prego, fa' che mia nuora torni a dedicarsi all'arte che ama così tanto. Non lasciare che sperperi il meraviglioso talento che Dio le ha donato...». Intorno a loro tutte le antiche famiglie dell'isola, che bisbigliano le loro preghiere. Alle loro spalle, una voce sussurra: «... ti prego, Signore, dai alla moglie di Peter ciò che le occorre per ricominciare a dipingere...». Un'altra voce, quella dell'anziana signora Petersen, prega: «... che Misty ci salvi prima che i forestieri diventino ancora peggio...». Persino Tabbi, tua figlia, sta sussurrando: «Dio, fa' che la mamma si dia una scrollata e ricominci con la pittura...». Intorno a Misty sono inginocchiate tutte le statue di cera di Waytansea Island. I Tupper e i Burton e i Nieman, tutti con gli occhi chiusi e le dita allacciate, tutti che chiedono a Dio di farla dipingere. Tutti convinti che abbia un talento nascosto in grado di salvarli. E Misty, quella poveretta di tua moglie, l'unica persona sana di mente nei paraggi, vorrebbe soltanto... be', vorrebbe soltanto qualcosa da bere. Un paio di drink. Un paio di aspirine. E via da capo. Vorrebbe gridare a tutti quanti di farla finita con le loro stramaledette preghiere. Quando ormai hai raggiunto la mezz'età e hai capito che non sarai mai l'artista grande e famosa che hai sognato di diventare, e che non dipingerai mai qualcosa che sappia toccare e ispirare le persone, che tocchi e commuova sul serio, che cambi loro la vita. Quando hai capito che ti manca il talento. Che ti manca il cervello, o l'ispirazione. Che ti manca tutto ciò che occorre per creare un capolavoro. Se ti rendi conto che nel tuo portfolio ci sono soltanto grandi case di pietra e morbide aiuole fiorite - i sogni nudi e crudi di una ragazzina di Tecumseh Lake, Georgia - se ti rendi conto che qualsiasi cosa tu possa dipingere non farebbe altro che aggiungere merda senza qualità a un mondo che di merda senza qualità già trabocca. Se ti accorgi che hai quarantun anni e che hai già dato fondo al potenziale che il buon Dio ti ha donato, be', salute. Prosit. Cin-cin. Che hai raggiunto il massimo delle tue capacità. Se ti rendi conto che non riuscirai mai a dare a tua figlia un tenore di vita
migliore - Cristo, nemmeno riesci a darle il tenore di vita che ti dava tua madre nel parcheggio roulotte - e questo significa niente college, niente accademie, niente sogni, niente che non sia servire ai tavoli come la mamma... Be', un bel brindisi. E ogni giorno è così, nella vita di Misty Marie Wilmot regina degli schiavi. Maura Kincaid? Constance Burton? La scuola pittorica di Waytansea Island. Loro erano diverse. Erano nate diverse. Di quegli artisti che a guardare loro sembra tutto facile. Il punto è che certa gente ha talento, ma la maggior parte no. Noi, la maggior parte, siamo destinati a finire i nostri giorni senza gloria, senza exploit. Quelli come la povera Misty Marie sono comparse, persone limitate, borderline ma non abbastanza da poter usare i parcheggi per gli handicappati. Da avere dei giochi olimpici tutti per sé. Pagano le loro brave tasse, ma niente menu speciali al ristorante. Niente bagni speciali sovradimensionati. Niente posti a sedere riservati sugli autobus. Niente lobby politiche. No, il compito di tua moglie nella vita sarà sempre applaudire gli altri. All'accademia, una ragazza che Misty conosceva una volta fece girare un frullatore pieno di cemento liquido finché il motore non si bruciò in una nuvola di fumo acre. Era la sua presa di posizione artistica sulla vita della casalinga. Oggi quella ragazza probabilmente vive in un loft e mangia yogurt biologico. È ricca e riesce a incrociare le gambe appoggiando i piedi sulle ginocchia. Un'altra ragazza che Misty conosceva ai tempi dell'accademia mise in scena una pièce in tre atti con dei burattini che teneva in bocca. Praticamente dei costumini che si infilavano sulla lingua. Quelli che non usavi li tenevi dentro le guance, come dietro le quinte di un palcoscenico. Nei cambi scena ti limitavi a chiudere le labbra a mo' di sipario. I denti erano le luci della ribalta e la volta del proscenio. E tu infilavi la lingua nel costume successivo. Dopo una pièce in tre atti, la ragazza aveva la bocca piena di smagliature. Uno stiramento al muscolo orbicolare. Una sera, in una galleria d'arte, mentre si esibiva in una riduzione di La più grande storia mai raccontata, questa ragazza per poco non morì soffocata da un cammello in miniatura che le era finito in gola. Oggi probabilmente fa il bagno nei soldi. Peter, con le sue lodi per le belle casette di Misty, si sbagliava. Peter che
le diceva di nascondersi lì sull'isola e dipingere soltanto ciò che amava, be'... bei consigli del cazzo. I tuoi consigli, le tue lodi. Bella roba del cazzo. A sentire te, Maura Kincaid ha passato vent'anni a lavare pesce per una ditta di scatolame. Ha cresciuto i figli, ha tenuto in ordine il giardino, poi un bel giorno si è seduta davanti a una tela e ha dipinto un capolavoro. La stronza. Niente diploma, niente esercitazioni, però adesso è famosa, e per sempre. Amata da milioni di persone che non la incontreranno mai. Per la cronaca, il tempo previsto per oggi è risentito con occasionali crisi di gelosia furibonda. Giusto perché tu lo sappia, Peter, tua madre è sempre la solita stronza. Lavora part-time in una ditta che si occupa di reperire per i clienti oggetti in porcellana fine i cui modelli sono usciti di produzione. Per caso ha sentito una ricca donna dell'estate, praticamente uno scheletro abbronzato in prendisole tinta pastello di seta lavorata a maglia, dire mentre pranzava: «Che gusto c'è a essere ricchi in questo posto se non c'è niente da comprare?». Da quel giorno Grace si è messa a dare il tormento a tua moglie perché ricominci a dipingere. Per dare ai turisti qualcosa che possano desiderare di possedere. Come se Misty dall'oggi al domani potesse cacare il capolavoro e riguadagnare il patrimonio della famiglia Wilmot. Come se così facendo potesse salvare l'isola. Il compleanno di Tabbi si avvicina - tredici anni, mica noccioline - e i soldi per farle un regalo non ci sono. Misty sta mettendo da parte le mance per tornare a vivere a Tecumseh Lake. Mica possono abitare al Waytansea Hotel in eterno. La gente ricca sta sbranando viva l'isola, e lei non vuole che Tabbi cresca povera, braccata dai ragazzi ricchi con le droghe. Entro la fine dell'estate, Misty pensa che ce la possano fare. Quanto a Grace, Misty non lo sa. Tua madre avrà pure qualche amica con cui può andare a vivere. Altrimenti può sempre farsi dare una mano dalla parrocchia. Dal circolo delle pie donne. Qui in chiesa sei circondato dagli angeli di vetro colorato, tutti quanti trafitti da frecce, squarciati da coltelli, arsi vivi sui roghi, e adesso Misty pensa a te. Alla tua teoria sulla sofferenza come mezzo per raggiungere l'ispirazione divina. Ai tuoi racconti su Maura Kincaid. Se l'infelicità è fonte di ispirazione, allora Misty dovrebbe essere all'apice della sua carriera. Qui, mentre intorno a lei tutta l'isola prega in ginocchio perché dipinga.
Perché diventi la loro salvatrice. Mentre tutt'intorno i santi sorridono e compiono miracoli nel momento del dolore, Misty allunga un braccio per prendere un libretto dei canti. Uno fra decine di vecchi libretti polverosi, alcuni senza copertina, altri da cui spuntano nastrini di raso consunti. Ne prende uno a caso, e lo apre. E niente. Sfoglia le pagine, ma non c'è niente. Solo preghiere e canti religiosi. Niente messaggi segreti scarabocchiati all'interno. Eppure, quando fa per rimetterlo a posto, inciso nel legno del banco, nascosto fino a poco prima proprio dal libretto, un messaggio dice: "Vattene da quest'isola finché sei in tempo". Firmato Constance Burton. 8 luglio Al loro quinto appuntamento, Peter stava preparando il passe-partout e la cornice per il quadro che Misty aveva dipinto. Tu, Peter, tu stavi dicendo a Misty: «Questo. Questo quadro. Finirà appeso in un museo». Il quadro raffigurava un paesaggio con una casa circondata da verande e ombreggiata da alberi. Con le tendine di pizzo alle finestre. Le rose in fiore al di là di una palizzata bianca. Gli uccellini azzurri che volavano attraverso i raggi del sole. Un ricciolo di fumo che si levava da uno dei camini di pietra. Misty e Peter si trovavano in un negozio di cornici vicino al campus, e lei se ne stava in piedi con la schiena rivolta alla vetrina del negozio, per ostacolare la visuale a chiunque tentasse di sbirciare da fuori. Misty e te. Per impedire a chiunque di vedere il suo dipinto. La sua firma era in basso, sotto la palizzata, Misty Marie Kleinman. Mancava solo un faccino sorridente. Un cuoricino al posto del puntino sulla "i" di Kleinman. «Forse in un museo del kitsch» disse lei. Quel quadro era semplicemente una versione migliore di ciò che aveva dipinto fin da bambina. Il suo paese fantastico. E vederlo era peggio che vedere la propria peggior fotografia da nudi, ai minimi storici della forma fisica. Eccolo lì, il dozzinale piccolo cuore di Misty Marie Kleinman. Ecco i sogni zuccherosi della bimba di sei anni povera e sola che sarebbe stata per il resto della sua vita. La sua piccola, patetica anima di bigiotteria.
Il dozzinale piccolo segreto di ciò che la rendeva felice. Misty continuava a voltarsi indietro per accertarsi che nessuno stesse guardando. Che nessuno vedesse la parte più stereotipata e sincera di lei dipinta ad acquarello. Peter, che Dio lo benedica, aveva appena ritagliato il passe-partout e centrato il dipinto al suo interno. Avevi appena ritagliato il passe-partout. Peter piazzò la sega circolare sul banco da lavoro del negozio e tagliò un pezzo di legno per ogni lato della cornice. Quando Peter guardò il dipinto, metà del suo volto sorrise, con il muscolo grande zigomatico che gli sollevava un angolo della bocca. Lui inarcò soltanto il sopracciglio su quel lato. Disse: «La ringhiera della veranda ti è venuta perfetta». Fuori, sul marciapiede, passò una loro compagna dell'accademia. L'ultima "opera" di quella ragazza era imbottire un orsacchiotto di merda di cane. Lavorava con le mani fasciate da guanti di gomma azzurra talmente spessi che quasi non riusciva a piegare le dita. A sentirla, la bellezza era un concetto obsoleto. Superficiale. Un inganno. Mentre lei stava esplorando un filone nuovo. La rielaborazione di un classico tema dadaista. Nel suo studio c'era l'orsacchiotto già sventrato, con la pelliccia finta dispiegata a mo' di autopsia, pronto a diventare un'opera d'arte. Con quei guanti di gomma imbrattati di roba marrone puzzolente, a malapena riusciva a tenere in mano l'ago e il filo da sutura rosso. Il titolo che aveva scelto per quella roba era: Illusioni d'Infanzia. Gli altri ragazzi dell'accademia, figli di famiglie ricche, i ragazzi che viaggiavano e vedevano l'arte vera in Europa e a New York, tutti quanti facevano cose del genere. Un altro compagno di corso di Misty si masturbava, nel tentativo di riempire di sperma un porcellino salvadanaio entro la fine dell'anno. Lui intanto campava delle rendite di un fondo fiduciario. Un'altra ragazza beveva tempere all'uovo di vari colori, quindi dello sciroppo emetico grazie al quale vomitava il suo capolavoro. A lezione ci veniva con un motorino italiano che costava più della roulotte in cui Misty era cresciuta. Nel negozio di cornici, quel mattino, Peter assemblò i lati della cornice. Applicò la colla con leggeri tocchi delle dita nude e praticò in ogni angolo piccoli fori per le viti. Ancora in piedi tra la vetrina e il banco da lavoro, ostacolando la luce con la sua ombra, Misty disse: «Davvero secondo te è valido?». E Peter disse: «Se solo tu sapessi...».
Lo dicesti tu. Peter disse: «Così mi copri la luce. Non ci vedo». «Non voglio spostarmi» gli disse Misty. «Da fuori potrebbero vedere.» Tutta la merda di cane e la sborra e il vomito. Facendo correre il tagliavetro sulla lastra, senza mai staccare gli occhi dalla rotellina tagliente, con una matita infilata fra i capelli dietro l'orecchio, Peter disse: «Solo perché puzzano da far schifo non vuol dire che le loro siano opere d'arte». Spezzando il vetro in due Peter disse: «Esteticamente, la merda è un cliché». Le spiegò che il pittore italiano Piero Manzoni aveva inscatolato la sua merda etichettandola come "100% pura merda d'artista", e la gente se l'era comprata. Peter si fissava le mani con una tale intensità che a Misty venne da fissarle a sua volta. Smise di tenere d'occhio la vetrina, e in quella, alle loro spalle, suonò un campanello. Qualcuno era entrato nel negozio. Un'altra ombra si allungò sul banco da lavoro. Senza alzare gli occhi, Peter disse: «Ehilà». E quest'altro ragazzo rispose: «Ehilà». L'amico poteva avere la stessa età di Peter, era biondo e con un ciuffo di peli sul mento, ma non abbastanza per poterli definire una barba. L'ennesimo studente dell'accademia. L'ennesimo ragazzo ricco di Waytansea Island, lì in piedi, con gli occhi azzurri che osservavano il dipinto sul banco da lavoro. Fece lo stesso mezzo sorriso di Peter, la faccia di uno che scherza sul fatto di avere il cancro. La faccia di chi sta davanti a un plotone d'esecuzione fatto di pagliacci con armi vere. Senza alzare la testa, Peter lucidò il vetro e lo inserì nella cornice nuova di zecca. Disse: «Capito cosa intendevo a proposito del dipinto?». Il suo amico guardò la casa circondata dalle verande, la palizzata e gli uccellini azzurri. Il nome, Misty Marie Kleinman. Con quel mezzo sorriso, scuotendo la testa, disse: «È vero, è la casa dei Tupper». Era una casa che Misty si era immaginata. Che aveva inventato. L'amico portava un orecchino. Un vecchio pezzo di bigiotteria in stile Waytansea Island, come usava tra gli amici di Peter. Sepolto tra i capelli, era fatto di elaborata filigrana dorata intorno a un grosso cuore di smalto rosso, con scaglie di vetro rosso, gemme di vetro intagliato che scintillavano sull'oro. Lui masticava un chewing-gum. Menta, a giudicare dall'odore. Misty disse: «Ciao». Disse: «Io sono Misty». E l'amico la guardò, offrendo anche a lei lo stesso sorriso da condannato.
Masticando la sua gomma disse: «Allora è lei? È lei la leggendaria signorina?». E facendo scivolare il dipinto nella cornice, dietro il vetro, senza rivolgere lo sguardo a nulla che non fosse il suo lavoro, Peter disse: «Mi sa proprio di sì». Continuando a fissare Misty, saltellando con lo sguardo su ogni parte del suo corpo, le mani e le gambe, il volto e i seni, l'amico piegò la testa da un lato e la studiò. Continuando a masticare la gomma disse: «Sicuro che è quella giusta?». La Misty gazza ladra, la Misty principessina, non riusciva a staccare gli occhi dall'orecchino rosso luccicante del ragazzo. Da quel cuore di smalto splendente. Dai lampi di rosso che si riverberavano dai rubini di vetro. Peter montò un pannello di cartone dietro il dipinto e lo sigillò lungo i bordi con del nastro adesivo. Lisciando il nastro con il pollice, sigillandolo, disse: «Il dipinto l'hai visto anche tu». Si interruppe e fece un sospiro, il petto gli si fece grosso e subito si sgonfiò. Poi disse: «Mi sa tanto che è proprio lei». Misty. Che aveva gli occhi inchiodati al groviglio di capelli biondi dell'amico. Il baluginio rosso dell'orecchino erano luci natalizie e candele di compleanno. Colpito dai raggi di sole che entravano dalla vetrina del negozio, l'orecchino era i fuochi d'artificio del 4 di luglio, era un bouquet di rose per San Valentino. Guardandolo scintillare, Misty si dimenticò di avere delle mani, una faccia, un nome. Si dimenticò di respirare. Peter disse: «Che cosa ti avevo detto, amico mio?». Stava guardando Misty, ora, Misty incantata dall'orecchino rosso, e disse: «Davanti ai gioielli antichi non sa resistere». Il ragazzo biondo vide che Misty lo stava fissando, e subito i suoi occhi azzurri si spostarono da un lato, verso ciò che inchiodava lo sguardo di Misty. Nello scintillio di vetro dell'orecchino c'era lo scintillio dello champagne che Misty non aveva mai visto. C'erano le scintille dei falò sulla spiaggia, che risalivano a spirale verso stelle d'estate che Misty poteva soltanto immaginare. Lì dentro c'era il riverbero dei lampadari di cristallo che aveva dipinto nei salotti della sua fantasia. Tutto il desiderio e lo sciocco bisogno di una ragazzina povera e sola. Una parte di lei, una parte stupida e meschina, non l'artista ma l'idiota che era in lei, quell'orecchino lo amava, ne amava lo scintillio vivace e ricco. La lucentezza di una caramella piena di zucchero. Una caramella in un
piatto di vetro intagliato. Un piatto in una casa che non aveva mai visitato. Niente di complesso o profondo. Semplicemente, tutto ciò che siamo programmati per adorare. Lustrini e arcobaleni. Quei braccialetti che avrebbero dovuto insegnarle a ignorare. Il biondo, l'amico di Peter, sollevò una mano a sfiorarsi i capelli, poi l'orecchio. La sua bocca si aprì, così all'improvviso che il chewing-gum gli cadde fuori, sul marciapiede. Il tuo amico. E tu dicesti: «Occhio, bello mio. Ho come l'impressione che me la stai rubando...». E l'amico, le sue dita presero a frugare, a scavare tra i capelli, dopodiché si strappò l'orecchino. Lo schiocco fece sobbalzare tutti. Quando Misty riaprì gli occhi, il biondo le stava porgendo l'orecchino, con gli occhi azzurri pieni di lacrime. Il lobo squarciato penzolava in due lembi, biforcato, con il sangue che gocciolava da entrambe le punte. «Tieni» disse, «prendilo tu.» E gettò l'orecchino verso il banco da lavoro. Oro e finti rubini che atterrando disseminarono scintille rosse e sangue. Il perno della chiusura era ancora avvitato. Così vecchio che dietro era diventato verde. Lui l'aveva strappato talmente di scatto che diversi capelli biondi erano rimasti impigliati. Ognuno dei capelli aveva ancora attaccato il morbido bulbo bianco nel punto in cui era stato sradicato. Con una mano chiusa sull'orecchio, il sangue che gli scorreva tra le dita, il ragazzo sorrise. Con il muscolo corrugatore che gli avvicinava le sopracciglia chiare disse: «Mi spiace, Peter. A quanto pare quello fortunato sei tu». E Peter sollevò il dipinto, incorniciato e rifinito. Con la firma di Misty in basso. La firma della tua futura moglie. La sua piccola anima borghese. Mentre la tua futura moglie già allungava le mani verso la macchia insanguinata di scintille rosse. «Eh, già» disse Peter, «il mio solito culo.» E ancora sanguinante, con una mano a coprirsi l'orecchio, il sangue che gli scorreva giù per il braccio gocciolando dalla punta del gomito, l'amico di Peter indietreggiò di due passi. Allungò l'altra mano verso la porta. Indicò l'orecchino con un cenno del capo e disse: «Tienilo. Come regalo di nozze». E se ne andò. 9 luglio
Questa sera, Misty sta rimboccando le coperte a tua figlia quando Tabbi le dice: «Io e nonna Wilmot abbiamo un segreto». Per la cronaca, nonna Wilmot conosce i segreti di tutti. Durante la messa, Grace siede accanto a Misty e le dà di gomito, le racconta che il rosone donato dai Burton per la loro povera, sfortunata nuora, be'... la verità è che Constance Burton smise di dipingere e bevve fino a uccidersi. Due secoli di vergogne e miserie di Waytansea Island, e tua madre è in grado di ripetere tutto in ogni dettaglio. Le panchine in ferro battuto di Merchant Street, quelle fatte in Inghilterra, sono in memoria di Maura Kincaid, morta affogata nel tentativo di percorrere a nuoto i dieci chilometri che separano l'isola dalla terraferma. La fontana italiana di Parson Street, quella è in onore del marito di Maura. Del marito morto ammazzato, stando a quel che dice Peter. Stando a quel che dici tu. L'intero paese di Waytansea: questo è il loro coma collettivo. Per la cronaca, mamma Wilmot ti manda i suoi affettuosi saluti. Non che per una volta le venga in mente di venirti a trovare. Da sotto le coperte, Tabbi volta la testa versa la finestra e dice: «Possiamo andare a fare un picnic?». Non possiamo permettercelo, ma nell'istante esatto in cui tu muori, mamma Wilmot ha già scelto la fontana, di bronzo e ottone, scolpita a forma di Venere nuda che cavalca una conchiglia con entrambe le gambe sullo stesso lato. Quando Misty ha fatto trasferire tutti quanti al Waytansea Hotel, Tabbi ha portato con sé il cuscino. Tutte e tre hanno portato qualcosa. Tua moglie ha portato il tuo, di cuscino, perché odora di te. Nella stanza di Tabbi, Misty siede sul bordo del letto e pettina i capelli di sua figlia con le dita. Tabbi ha i capelli neri e gli occhi verdi di suo padre. I tuoi occhi verdi. Ha una stanzetta che divide con sua nonna, accanto alla stanza di Misty, nel corridoio della soffitta dell'hotel. Quasi tutte le vecchie famiglie hanno affittato le loro case e si sono trasferite nella soffitta dell'hotel. Nelle stanze tappezzate di rose sbiadite. Con la tappezzeria che si scolla a ogni giuntura. In ciascuna stanza, imbullonati al muro ci sono un lavabo arrugginito e un piccolo specchio. Due o tre letti
in ferro, con la vernice scrostata, i materassi molli e affossati nel mezzo. Sono stanze anguste, sotto soffitti spioventi, dietro finestre piccole, abbaini come file di cucce per cani sul tetto ripido dell'hotel. La soffitta è un baraccamento, un campo profughi per famiglie bianche bene. Gente nata nella bambagia che ora condivide il bagno in comune giù nella hall. Persone che in vita loro non hanno lavorato un solo giorno, quest'estate servono ai tavoli. Come se i soldi di tutti quanti fossero finiti contemporaneamente, ogni isolano di sangue blu quest'estate fa il facchino all'hotel. Pulisce stanze. Lucida scarpe. Lava piatti. Un terziario interamente composto da bionde e biondi con occhi azzurri, capelli lucidi e gambe lunghe. Educati e cordiali e ansiosi di precipitarsi a recuperare un posacenere pulito o declinare una mancia. La tua famiglia - tua moglie e tua figlia e tua madre - tutte quante dormono in letti sfondati di ferro scrostato, sotto soffitti spioventi, accanto alle reliquie in argento e cristallo della loro ex vita signorile. Ti lascio immaginare la situazione, eppure tutte le famiglie dell'isola sorridono e fischiettano. Come se questa fosse una specie d'avventura. Una buffa commedia. Come se stessero soltanto facendo un giro nei bassifondi del terziario. Come se tutto questo fastidioso inchinarsi e scrostare roba non fosse destinato a durare per il resto delle loro vite. Le loro e quelle dei loro figli. Come se di qui a un mese il fascino della novità non fosse destinato a dissolversi. Non è gente stupida. Solo che nessuno di loro è mai stato povero. Mica come tua moglie, che sa cosa vuol dire mangiare frittelle a colazione, pranzo e cena. Mangiare il formaggio delle eccedenze di produzione battuto all'asta dallo stato. Latte in polvere. Portare scarpe con la punta di metallo e timbrare un fottuto cartellino. Seduta qui con Tabbi, Misty dice: «Allora, quale sarebbe questo segreto?». E Tabbi dice: «Non te lo posso dire». Misty le rimbocca le coperte sulle spalle, vecchie lenzuola e coperte d'albergo lavate e rilavate finché non resta altro che un laniccio grigio e l'odore di candeggina. La lampada accanto al letto di Tabbi è il suo abatjour di porcellana rosa dipinto a fiori. Se lo sono portato da casa. Ci sono anche quasi tutti i suoi libri, tutti quelli che ci stavano. Hanno portato i suoi quadri con i pagliacci e li hanno appesi sopra il letto. Il letto di sua nonna è così vicino che allungando un braccio Tabbi riesce a toccare la trapunta fatta con scampoli di velluto provenienti da vestiti di Pasqua e di Natale di cent'anni fa. Sul cuscino di Grace c'è il suo diario ri-
legato in cuoio rosso con la scritta "Diario" in lettere dorate sulla copertina. Chiusi lì dentro, tutti i segreti di Grace. Misty dice: «Non ti muovere, tesoro», e toglie un ciglio dalla guancia di Tabbi. Se lo sfrega tra i polpastrelli. È lungo come le ciglia di suo padre. Come le tue ciglia. Con il letto di Tabbi e quello di sua nonna, due letti gemelli, di spazio non ne resta granché. Mamma Wilmot si è portata il diario. Quello, più il suo cestino da cucito pieno di filo da ricamo. I suoi ferri da calza e gli uncinetti e i telai da ricamo. È una delle cose che può fare standosene seduta nell'atrio con le attempate signore amiche sue, oppure fuori, quando fa bello, sulla passerella in legno che dà sulla spiaggia. Tua madre è proprio come tutte le altre vecchie famiglie bene da trattato del Mayflower, che fanno quadrato con le loro carrozze al Waytansea Hotel in attesa che l'assedio di quegli orribili forestieri abbia fine. Può sembrare stupido, ma Misty si è portata la roba da disegno. La sua scatola di colori e acquarelli in legno chiaro, i suoi fogli e i suoi pennelli, tutto quanto è ammonticchiato in un angolo della sua stanza. E Misty dice: «Tabbi, tesoro?». Dice: «Ti andrebbe, che so, di andare a vivere con nonna Kleinman a Tecumseh Lake?». E Tabbi muove la testa sul cuscino, prima da un lato e poi dall'altro, no, quindi dice: «Nonna Wilmot me l'ha detto, come mai papà era sempre incazzato». Misty le fa: «Non dire "incazzato", per cortesia». Per la cronaca, nonna Wilmot è giù di sotto che gioca a bridge con le sue comari, davanti alla grande pendola nella stanza rivestita in legno accanto all'atrio. Il suono più forte che si sente nella stanza dev'essere il ticchettio del grosso pendolo che fa avanti e indietro. Se non è lì, allora è seduta su una poltrona di pelle rossa accanto al camino dell'atrio, a leggere un libro che tiene in grembo scrutandone le pagine attraverso la sua spessa lente di ingrandimento. Tabbi affonda il mento nel bordo di raso della coperta e dice: «Nonna me l'ha detto, come mai papà non ti ama». E Misty dice: «Ma certo che il tuo papà mi ama». Ma certo che sta mentendo. Fuori dal piccolo abbaino della stanza, le onde si infrangono luccicando sotto le luci dell'hotel. Più in giù, lungo la costa, c'è il profilo scuro di Waytansea Point, una penisola fatta di nient'altro che boschi e scogli protesi verso l'oceano luccicante.
Misty va alla finestra e appoggia le dita sul davanzale, dicendo: «La vuoi chiusa o aperta?». La vernice bianca sul davanzale della finestra è coperta di bolle e tutta scrostata, e Misty la tormenta, conficcandosi scaglie di vernice sotto le unghie. Scuotendo la testa sul cuscino, Tabbi dice: «No, mamma». Dice: «Nonna Wilmot dice che papà non ti ha mai amato per davvero. Ha fatto solo finta, per portarti qui e fartici restare». «Per portarmi qui?» dice Misty. «A Waytansea Island?» Con due dita gratta via le scaglie di vernice bianca staccate. Sotto, il davanzale è di legno marrone laccato. Misty dice: «E cos'altro ti ha detto la nonna?». E Tabbi dice: «Nonna dice che diventerai un'artista famosa». Quello che non impari, nei corsi di teoria dell'arte, è che un complimento eccessivo può fare più male di una sberla in faccia. Un'artista famosa. Misty. Quella cicciona di Misty, la cazzo di regina degli schiavi. La vernice bianca viene via seguendo un disegno, una serie di parole. Una candela di cera, un dito di grasso, o forse della gomma arabica sotto la vernice. In negativo, prende forma un messaggio. Qualcuno, tanto tempo fa, ha scritto qualcosa di invisibile su cui la vernice fresca non riesce a fare presa. Tabbi si afferra alcune ciocche di capelli e ne osserva le punte, così da vicino che le si incrociano gli occhi. Si guarda le unghie e dice: «Nonna dice che dovremmo fare un picnic a Waytansea Point». L'oceano luccica, splendente come la bigiotteria da poco che Peter portava all'accademia. Waytansea Point non è altro che buio. Un vuoto. Un buco in mezzo a tutto il resto. La bigiotteria che tu portavi all'accademia. Misty controlla che la finestra sia ben chiusa, dopodiché si spazzola le scaglie di vernice nel palmo di una mano. All'accademia impari che tra i sintomi dell'avvelenamento da piombo nell'adulto ci sono affaticamento, depressione, debolezza, intontimento. Sintomi che Misty ha accusato per quasi tutta la sua vita adulta. E Tabbi dice: «Nonna Wilmot dice che tutti quanti vorranno i tuoi quadri. Dice che la gente che viene d'estate farà a botte per avere i quadri che fai tu». Misty dice: «Buonanotte, tesoro». E Tabbi dice: «Nonna Wilmot dice che grazie a te saremo di nuovo una famiglia ricca». Annuendo dice: «Papà ti ha portata qui per far diventare l'isola di nuovo ricca».
Con le scaglie di vernice raccolte nella coppa di una mano, Misty spegne la luce. Il messaggio sul davanzale della finestra, dove la vernice è venuta via, lì sotto c'è scritto: "Quando avranno finito con te, morirai". È firmato Constance Burton. Scrostando altra vernice il messaggio prosegue: "Moriamo sempre". Chinandosi a spegnere l'abat-jour di porcellana rosa Misty dice: «Cosa vorresti come regalo di compleanno, la settimana prossima?». E una vocina nel buio, Tabbi, dice: «Voglio un picnic a Waytansea Point. E voglio che ricominci a dipingere». E alla vocina Misty dice: «Dormi bene», poi le dà il bacio della buonanotte. 10 luglio Al loro decimo appuntamento, Misty chiese a Peter se per caso aveva toccato le sue pillole anticoncezionali. Erano nell'appartamento di Misty. Lei stava lavorando a un altro dipinto. La televisione era accesa e sintonizzata su una soap opera in spagnolo. Il nuovo dipinto raffigurava un'alta chiesa costruita con pietre intagliate. Il tetto del campanile era ricoperto di rame ossidato verde scuro. Le vetrate colorate erano intricate come ragnatele. Dipingendo il blu lucente delle porte della chiesa, Misty disse: «Guarda che non sono stupida». Disse: «Molte donne noterebbero la differenza tra una pillola anticoncezionale vera e le caramelline rosa alla cannella con cui le hai sostituite tu». Peter prese l'ultimo dipinto di Misty, la casa con la palizzata bianca, il quadro che aveva incorniciato lui, e se lo infilò sotto il vecchio maglione sformato. Come se fosse gravido di un bambino perfettamente quadrato, prese ad aggirarsi per la casa dondolandosi sulle anche. Con le braccia tese verso il basso, lungo i fianchi, tenendo fermo il quadro con i gomiti. Poi, rapidissimo, scostò un pochino le braccia e il dipinto scivolò fuori. A un soffio dal pavimento, dall'infrangersi del vetro in mille pezzi, Peter lo afferrò con entrambe le mani. Lo afferrasti. Il dipinto di Misty. Lei disse: «Che cazzo fai?». E Peter disse: «Ho un piano». E Misty disse: «Io non ci penso proprio ad avere figli. Voglio fare l'arti-
sta». Alla televisione, un uomo prese a schiaffi una donna facendola cadere per terra, e lei rimase lì, a leccarsi le labbra, con i seni che sobbalzavano dentro un golfino attillato. Doveva essere una poliziotta. Peter non spiccicava una parola di spagnolo. Quello che gli piaceva, delle soap opera in spagnolo, era che alle battute dei personaggi potevi dare qualunque significato. E infilandosi di nuovo il quadro sotto il maglione Peter disse: «Quando?». E Misty disse: «Quando cosa?». Il dipinto scivolò giù, e lui lo afferrò al volo. «Quand'è che farai l'artista?» disse. Un altro motivo per amare le soap opera in spagnolo era la velocità con cui la gente riusciva a risolvere le crisi. Un giorno vedevi un uomo e una donna massacrarsi a colpi di mannaia. L'indomani li ritrovavi inginocchiati in una chiesa con il figlio appena nato. Le mani giunte in preghiera. La gente tollerava dal suo prossimo le cose peggiori, urla e ceffoni. Divorzi e aborti nelle sceneggiature non erano contemplati. Se fosse amore o inerzia, Misty non sapeva dirlo. Dopo il diploma, disse, allora avrebbe fatto l'artista. Una volta messo insieme un po' di materiale e trovata una galleria che lo esponesse. Una volta venduti un po' di pezzi. Misty voleva essere realistica. Magari avrebbe insegnato educazione artistica alle superiori. Oppure poteva fare la disegnatrice tecnica, magari l'illustratrice. Qualcosa di pratico. Non tutti possono diventare pittori famosi. Infilandosi il quadro sotto il maglione, Peter disse: «Potresti diventare famosa». E Misty gli disse dacci un taglio. Una volta per tutte, dacci un taglio. «Perché?» disse lui. «È la verità.» Continuando a guardare la televisione, gravido del dipinto, Peter disse: «Hai così tanto talento. Potresti essere l'artista più famosa della tua generazione». Guardando la pubblicità in spagnolo di un qualche giocattolo di plastica Peter disse: «Con il dono che hai sei condannata a diventare una grande artista. Per una come te gli studi sono una perdita di tempo». A quello che non capisci puoi dare qualunque significato. Il dipinto scivolò fuori, e lui lo afferrò al volo. Disse: «Tu non devi fare altro che dipingere».
Forse è per questo che Misty lo amò. Che ti amò. Perché credevi in lei molto più di quanto lei credesse in se stessa. Ti aspettavi da lei più di quanto lei si aspettasse da se stessa. Dipingendo in oro i pomelli minuscoli dei portali della chiesa, Misty disse: «Può darsi». Disse: «Ma è proprio per quello che non voglio avere figli...». Per la cronaca, a suo modo era stata una cosa carina. Tutte le pillole anticoncezionali rimpiazzate con caramelline a forma di cuore. «Tu sposami» disse Peter. «E diventerai la nuova grande pittrice della scuola di Waytansea.» Maura Kincaid e Constance Burton. Misty gli spiegò che due pittrici non bastano a fare una "scuola". E Peter disse: «Tre, contando te». Maura Kincaid, Constance Burton e Misty Kleinman. «Misty Wilmot» disse Peter, e si infilò il quadro sotto il maglione. Lo dicesti tu. Alla televisione, un uomo urlò diverse volte «Te amo... Te amo...» a una mora con gli occhi castani e lunghe ciglia simili a piume, intanto che la buttava giù dalle scale a calci. Il quadro gli scivolò fuori dal maglione, e di nuovo Peter lo afferrò al volo. Si spostò accanto a Misty che lavorava ai dettagli della grande chiesa di pietra, le macchioline di muschio verde sul tetto, il rosso della ruggine sulle grondaie. E disse: «È esattamente lì, in quella chiesa, che noi due ci sposeremo». E quella sciocca scioccherellina di Misty gli disse che la chiesa se l'era inventata. Che non esisteva. «Questo lo dici tu» disse Peter. La baciò su un lato del collo e sussurrò: «Tu sposami, e vedrai che l'isola ti regalerà il più grande matrimonio che si sia visto da cent'anni a questa parte». 11 luglio Al piano di sotto è mezzanotte passata, e nell'atrio non c'è nessuno all'infuori di Paulette Hyland, dietro il banco della reception. Grace Wilmot direbbe che Paulette è una Hyland per matrimonio, ma che prima era una Petersen benché sua madre sia una Nieman del ramo Tupper. Un tempo questo voleva dire un sacco di soldi su entrambi i fronti della famiglia. Ora
Paulette fa l'impiegata alla reception. Sul lato opposto dell'atrio, sprofondata nel cuscino di una poltrona di pelle rossa, c'è Grace, che legge accanto al camino. L'atrio del Waytansea sono decenni di roba tutti accatastati. Un giardino. Un parco. Il tappeto di lana è verde muschio su piastrelle di granito estratto nei dintorni. La moquette blu che scende dalle scale è una cascata che scorre su pianerottoli, una rapida a ogni gradino. Alberi di noce, piallati e levigati e rimontati, formano una foresta di colonne perfettamente quadrate, file dritte di alberi scuri e lucidi che sorreggono una volta vegetale di foglie e amorini di gesso. Al soffitto è appeso un lampadario, un corposo raggio di luce che irrompe in questa radura. Visti dal basso, tutti quei cosini di cristallo appaiono piccoli e scintillanti, ma quando monti in cima a una scala per pulirli, ciascuno è grosso quanto un tuo pugno. Festoni e drappi di seta verde ricoprono le finestre quasi completamente. Di giorno trasformano la luce del sole in una fievole sfumatura di verde. I divani e le poltrone sono imbottiti più del dovuto, foderati a mo' di cespugli fioriti, folti di lunghe frange sui lati bassi. Il camino potrebbe essere il falò di un accampamento. L'intero atrio è un modellino in miniatura dell'isola. Al coperto. Un eden. Per la cronaca, è in questo scenario che Grace Wilmot si sente davvero a casa. Anche più che a casa sua. La sua casa. La tua casa. Al centro dell'atrio, Misty avanza tra divani e tavolini, e Grace alza la testa. Dice: «Misty, vieni a sederti accanto al fuoco». Torna ad abbassare gli occhi sul libro e dice: «Come va il mal di testa?». Misty non ha mal di testa. Aperto nel grembo di Grace c'è il suo diario, con la copertina di cuoio rosso. Lei ne scruta le pagine e dice: «Oggi quanti ne abbiamo?». Misty glielo dice. Nel camino, il fuoco ha bruciato fino a diventare un letto di braci arancioni sotto la graticola. I piedi di Grace penzolano infilati in scarpe marroni con la fibbia, le punte tese verso il basso, e non arrivano al pavimento. I lunghi riccioli bianchi le ricadono in avanti, verso il libro che tiene in grembo. Accanto alla poltrona, una lampada a stelo diffonde dall'alto la sua luce, che si riflette chiara sul bordo argentato della lente d'ingrandimento con cui Grace osserva le pagine.
Misty dice: «Mamma Wilmot, noi due dobbiamo parlare». E Grace sfoglia un paio di pagine e dice: «Oh, cara. Ho sbagliato io. Quel mal di testa terribile non ti verrà prima di dopodomani». E Misty si protende verso il suo viso e dice: «Con che coraggio ti ostini a preparare mia figlia a farsi spezzare il cuore?». Grace alza gli occhi dal libro, il viso percorso e allentato dalla sorpresa. Il mento le si ritrae fino a spremere il collo in una sequenza di pieghe che va da un orecchio all'altro. Il suo sistema muscolo-aponeurotico superficiale. Il suo grasso submentoniero. Il suo muscolo platisma increspato attorno al collo. Misty dice: «Che gusto ci provi a dire a Tabbi che un giorno diventerò un'artista famosa?». Si guarda intorno, e sono ancora da sole, e dice: «Io sono una cameriera, faccio in modo che abbiate un tetto sulla testa, e direi che può bastare. Non voglio che tu riempia mia figlia di aspettative che non posso soddisfare». Con uno scampolo di respiro compresso nel petto, Misty dice: «Ti rendi conto di che figura mi fai fare?». E un ampio sorriso mellifluo si dispiega sulla bocca di Grace, che dice: «Ma Misty, la verità è che tu famosa lo diventerai». Il sorriso di Grace è un sipario che si apre. Una prima. Grace che svela se stessa. E Misty dice: «Non è vero». Dice: «Non sono in grado». Lei è soltanto una persona normale, destinata a vivere e morire nell'anonimato, nell'oblio. Una qualunque. Non è mica una tragedia. Grace chiude gli occhi. Senza smettere di sorridere dice: «Oh, tu sarai talmente famosa quando...». E Misty dice: «Dacci un taglio. Una volta per tutte, dacci un taglio». Misty la interrompe dicendo: «Per te è così facile alimentare le speranze altrui. Non ti rendi conto che stai rovinando la gente?». Misty dice: «Io sono una cameriera coi controfiocchi. Casomai non te ne fossi accorta, non siamo più la classe dominante. I padroni del vapore». Peter, il problema di tua madre è che non è mai vissuta in una roulotte. Non si è mai ritrovata a fare la fila in un emporio alimentare con i buoni per il cibo. Non è capace di essere povera, e nemmeno le va di imparare. Misty dice: non credo sia un delitto allevare Tabbi in modo che possa inserirsi in questa economia e riesca a trovare un lavoro nel mondo che erediterà. Non c'è niente di male nel servire ai tavoli. Nel pulire le stanze. E Grace appoggia un nastrino di similpizzo sul diario per tenere il segno. Alza gli occhi e dice: «Allora perché bevi?».
«Perché il vino mi piace» dice Misty. Grace dice: «Tu bevi e sfarfalleggi con gli uomini perché hai paura». Dicendo "uomini" probabilmente si riferisce ad Angel Delaporte. L'uomo con i pantaloni di pelle che ha preso in affitto casa Wilmot. Angel Delaporte con la sua grafologia e la sua fiaschetta di gin buono. E Grace dice: «So esattamente come ti senti». Unisce le mani sul diario che ha in grembo e dice: «Tu bevi perché vorresti esprimere te stessa e hai paura». «No» dice Misty. Ruota la testa verso una spalla e guarda Grace di sbieco. Dice: «No che non lo sai come mi sento». Il fuoco accanto a loro scoppietta e solleva una spirale di scintille su per il camino. L'odore di fumo si propaga al di fuori. Il falò del loro accampamento. «Ieri» dice Grace leggendo dal diario, «hai cominciato a mettere da parte i soldi per poter tornare nella tua cittadina natale. Li conservi in una busta che tieni nascosta sotto il bordo della moquette, vicino alla finestra della tua stanza.» Grace alza gli occhi, con le sopracciglia inarcate, il muscolo corrugatore che le pieghetta la pelle chiazzata della fronte. E Misty dice: «Ti sei messa a spiarmi?». E Grace sorride. Picchietta la lente d'ingrandimento sulla pagina aperta e dice: «È scritto nel tuo diario». Misty le dice: «Quello è il tuo diario». Dice: «Non si può scrivere il diario di qualcun altro». Giusto perché tu lo sappia, quella strega si è messa a spiare Misty e a scrivere tutto quanto nel suo maledetto registro di cuoio rosso. E Grace sorride. Dice: «Io non lo sto scrivendo. Lo sto leggendo». Volta la pagina, sbircia attraverso la lente e dice: «Oh, domani a quanto pare ti aspetta una giornata movimentata. Dice che molto probabilmente incontrerai un poliziotto gentile». Per la cronaca, domani Misty farà cambiare la serratura della sua stanza. Come prima cosa. Misty dice: «Dacci un taglio. Per l'ultima volta, dacci un taglio». Misty dice: «È di Tabbi che stiamo parlando. Prima impara ad avere una vita normale, con un lavoro normale e un futuro normale, solido e sicuro, più felice sarà». «Un lavoro d'ufficio, per esempio?» dice Grace. «Fare la toelettatrice di cani? Con il suo bell'assegno settimanale? È a questo che stai pensando?»
Tua madre. Per la cronaca, quanto segue se l'è meritato: Ve lo meritate entrambi. E Misty dice: «No, Grace». Dice: «Io bevo perché ho sposato uno stupido sognatore fannullone e poco realista, a cui hanno insegnato a pensare che un giorno avrebbe sposato un'artista famosa, e che non ha saputo reggere alla delusione». Misty dice: «Tu, Grace, tu sei riuscita a mandare in vacca il cervello di tuo figlio, ma io non ti permetterò di fare lo stesso con Tabbi». Così protesa in avanti che riesce a vedere la cipria nei solchi delle rughe di Grace, delle sue ritidi, e il reticolo di linee rosse nel punto in cui il rossetto di Grace si insinua tra le rughe intorno alla bocca, Misty dice: «Piantala di raccontare balle a Tabbi, o giuro che faccio le valigie e la porto via dall'isola domani stesso». E lo sguardo di Grace si sposta al di là di Misty, verso qualcosa alle sue spalle. Senza guardare Misty, Grace sospira. Dice: «Oh, Misty. Per questo è troppo tardi». Misty si volta e dietro di lei c'è Paulette, quella della reception, con la sua camicetta bianca e la gonna scura pieghettata, e Paulette dice: «Chiedo scusa, signora Wilmot». Insieme - sia lei che Grace - rispondono: Sì? E Paulette dice: «Scusate se vi interrompo». Dice: «Devo solo aggiungere un ceppo nel camino». E Grace chiude il diario che ha in grembo e dice: «Paulette, devi aiutarci a risolvere una disputa». Sollevando il muscolo frontale e inarcando un sopracciglio solo Grace dice: «Non desideri anche tu che Misty si sbrighi a dipingere il suo capolavoro?». Il tempo previsto per oggi è parzialmente arrabbiato con conseguenti atti di rassegnazione e ultimatum. E Misty si volta per andarsene. Fa per voltarsi e poi si ferma. Fuori, le onde sibilano e scoppiano. «Grazie, Paulette» dice Misty, «ma è ora che la gente dell'isola accetti il fatto che la sottoscritta resterà una grassa ed emerita sconosciuta fino alla fine dei suoi giorni.» 12 luglio
Casomai ti venisse la curiosità, il tuo amico dell'accademia con i capelli biondi lunghi, quello che si squarciò il lobo in due per regalare a Misty il suo orecchino, be', adesso è pelato. Si chiama Will Tupper, e conduce il traghetto. Ha la tua stessa età, e il lobo è ancora diviso a metà. Cicatrizzato. Sul traghetto, questa sera, mentre fa ritorno all'isola, Misty se ne sta in piedi sul ponte. Il vento freddo le aggiunge anni sul viso, tirandole la pelle e seccandogliela. La pelle piatta e morta del suo strato corneo. Sta bevendo una birra da un sacchetto di carta marrone, quando un grosso cane le si avvicina frugando di qua e di là. Il cane fiuta e guaisce. Ha la coda ripiegata, e sotto il pelo del collo la gola gli fa su e giù come se deglutisse senza sosta. Misty fa per accarezzarlo e il cane si divincola, dopodiché piscia proprio lì, sul ponte. Si avvicina un uomo con un guinzaglio avvolto intorno a una mano, e le chiede: «Si sente bene?». Quella povera cicciona di Misty nel suo coma da birra. Che domande. Figuriamoci se adesso lei, in mezzo a una pozza di piscio di cane, si mette a raccontare a un tipo strano la storia della sua vita di merda, con una birra in mano e tirando su col naso per ricacciare indietro le lacrime. Come se Misty potesse semplicemente dire - be', visto che me lo chiede - che ha appena passato l'ennesima giornata nella lavanderia sigillata di un perfetto sconosciuto a leggere frasi senza senso scritte sui muri, intanto che Angel Delaporte scattava foto col flash e le diceva che quel coglione di suo marito è una persona davvero affettuosa e protettiva perché scrive le "u" con il tratto a destra arricciato in cima, anche quando definisce sua moglie "... una punizione malvagia, una maledizione mortale...". Angel e Misty hanno passato il pomeriggio culo a culo, con lei che ripercorreva le parole scritte sui muri in vernice spray, parole che dicevano: "... noi accettiamo la sudicia inondazione del vostro denaro...". E Angel che le chiedeva: «Riesce a sentire qualcosa?». I padroni di casa stavano impacchettando gli spazzolini da denti per farli analizzare da un laboratorio, per vedere se contenevano batteri infettivi. Per fargli causa. A bordo del traghetto, l'uomo col cane dice: «Per caso ha indosso qualcosa che è appartenuto a una persona defunta?». Indosso, Misty ha la sua giacca, la giacca e le scarpe, e appuntata sul bavero porta una delle enormi spille di bigiotteria che le ha regalato Peter. Che le ha regalato suo marito.
Che le hai regalato tu. Per tutto il pomeriggio, nella lavanderia sigillata, le parole scritte sui muri hanno detto: "... non ruberete il nostro mondo per rimpiazzare quello che avete devastato...". E Angel ha detto: «Qui la calligrafia è diversa. Sta cambiando». Ha scattato un'altra foto e ha fatto avanzare la pellicola al fotogramma successivo, dicendo: «Lei sa in che ordine suo marito ha lavorato nelle varie case?». Misty ha spiegato ad Angel che un nuovo proprietario deve entrare in casa solo dopo la luna piena. La tradizione dei falegnami vuole che il primo a entrare in una casa nuova debba sempre essere l'animale prediletto dalla famiglia. Poi devono entrare la farina di granoturco, il sale, la scopa, la Bibbia e il crocifisso. Solo a quel punto possono entrare anche la famiglia e i mobili. Questo secondo la superstizione. E Angel, scattando foto, le ha detto: «Ma come? La farina deve entrare per conto suo?». Beverly Hills, l'Upper East Side, Palm Beach: di questi tempi, dice Angel Delaporte, persino i quartieri migliori delle grandi città altro non sono che una superlussuosa suite all'inferno. Fuori dai tuoi cancelli devi comunque condividere le stesse strade intasate. Tu e i barboni tossici respirate comunque la stessa aria fetida e sentite gli stessi elicotteri della polizia che per tutta la notte danno la caccia ai criminali. Con le stelle e la luna cancellate dalle luci di un milione di depositi di sfasciacarrozze. Tutti affollano gli stessi marciapiedi disseminati di spazzatura e vedono le stesse albe rossicce offuscate dallo smog. Angel dice che i ricchi non amano tollerare. I soldi ti permettono di prendere le distanze da tutto ciò che non è bello e perfetto. Non sei in grado di sopportare nulla che sia meno che delizioso. Passi la vita a scappare, evitare, fuggire. Questa caccia al bello. Un inganno. Un cliché. Fiori e illuminazioni natalizie, è questa la roba che siamo programmati per amare. La gente giovane e attraente. Le donne dei canali televisivi in spagnolo, con le tettone e un vitino da vespa che sembra le abbiano attorcigliate su se stesse tre volte. Le mogli-trofeo che pranzano al Waytansea Hotel. Le parole sui muri dicono: "... voi, con le vostre ex mogli e i vostri figliastri, con le vostre famiglie rimescolate e i vostri matrimoni falliti, avete rovinato il vostro mondo e adesso volete rovinare il mio...". Il problema, dice Angel, è che stiamo rimanendo a corto di posti in cui nasconderci. È per questo che il comico Will Rogers diceva alla gente di
comprare terra: perché non la producono più. Ed è per lo stesso motivo che quest'estate i ricchi hanno tutti scoperto Waytansea Island. Prima c'è stata Sun Valley, nell'Idaho. Poi Sedona, nel New Mexico. Aspen, Colorado Key West, in Florida. Lariana, Maui. Tutti posti affollati di turisti e ai cui abitanti non è rimasto che servire ai tavoli. Ora è diventato Waytansea Island, il rifugio perfetto. Per chiunque tranne per quelli che già ci vivono. Le parole dicono: "... voi, con le vostre auto veloci bloccate nel traffico, il cibo saporito che vi fa ingrassare, le case talmente grandi che vi sentite sempre soli...". E Angel dice: «Guardi com'è fitta la scrittura qui. Le lettere sono tutte addossate». Scatta una fotografia, fa avanzare la pellicola e dice: «Peter è terrorizzato da qualcosa». Il signor Angel Delaporte ci prova, appoggia la mano su quella di Misty. Continua a passarle la fiaschetta finché non resta vuota. Va tutto benissimo, basta che anche lui non decida di farle causa come gli altri tuoi clienti della terraferma. Tutta la gente dell'estate che ha perso stanze da letto e ripostigli. I proprietari degli spazzolini che ti sei infilato su per il culo. Uno dei principali motivi per cui Misty non ci ha pensato due volte a donare la casa ai cattolici è che così nessuno ci può mettere sopra un'ipoteca. Angel Delaporte dice che il nostro istinto naturale è quello di nasconderci. Come specie, rivendichiamo un territorio e lo difendiamo. Poi magari migriamo, seguendo il clima o qualche animale, ma sappiamo perfettamente che per vivere ci vuole la terra, e il nostro istinto è quello di delimitarla. Ecco perché gli uccelli cantano, per segnare il territorio. Ecco perché i cani pisciano. Sedona, Key West, Sun Valley, il paradosso di un buon mezzo milione di persone che per starsene da sole vanno nello stesso posto. Continuando a ripercorrere la vernice nera con l'indice, Misty dice: «Cosa intendeva dire con quella cosa sulla sindrome di Stendhal?». E continuando a scattare foto, Angel dice: «Prende il nome da uno scrittore francese, Stendhal». Le parole che Misty ripercorre dicono: "... Misty Wilmot vi spedirà tutti all'inferno...". Le tue parole. Brutto stronzo. Aveva ragione Stanislavskij, puoi trovare del dolore nuovo di zecca ogni
volta che scopri qualcosa che più o meno già sai. Sindrome di Stendhal, dice Angel, è un termine medico. È quando un dipinto o una qualsiasi opera d'arte è talmente bello che lo spettatore ne rimane travolto. È una specie di shock. Stendhal racconta che, quando nel 1817 visitò la chiesa di Santa Croce a Firenze, fu sul punto di svenire dalla gioia. Ti vengono le palpitazioni. Ti gira la testa. Guardare le grandi opere d'arte ti fa dimenticare come ti chiami, persino dove ti trovi. Può provocare depressione e spossatezza. Amnesie. Attacchi di panico. Infarti. Collassi. Per la cronaca, Misty pensa che Angel Delaporte dica un bel po' di cazzate. «A leggere i resoconti dei suoi contemporanei» dice lui, «pare che all'epoca le opere di Maura Kincaid abbiano provocato una specie di isteria di massa.» «Mentre adesso?» dice Misty. E Angel si stringe nelle spalle: «Boh!». Dice: «Da quel che ho visto io è roba normale. Una serie di paesaggi. Molto belli, ma paesaggi». Guardando il dito di Misty dice: «Riesce a sentire qualcosa?». Scatta un'altra foto e dice: «Pazzesco come i gusti cambiano». "... noi siamo poveri" dicono le parole di Peter, "ma abbiamo ciò che ogni ricco desidera... pace, bellezza, silenzio..." Le tue parole. La tua vita postuma. Tornando a casa, stasera, è Will Tupper che dà a Misty la birra nel sacchetto di carta. La lascia bere sul ponte alla faccia del regolamento. Le chiede se ultimamente sta lavorando a qualche dipinto. Magari un paesaggio? Sul traghetto, l'uomo col cane dice che il cane è addestrato a ritrovare i cadaveri. Quando una persona muore emette un gran tanfo di quella che l'uomo chiama epinefrina. Dice che è l'odore della paura. La birra nel sacchetto marrone che ha in mano, Misty si limita a berla, e lo lascia parlare. I capelli dell'uomo, il modo in cui recedono sulle tempie, il rosso chiaro della pelle sulle parti di cuoio capelluto scoperto. Sembra che abbia due corna da diavolo. Ha le corna da diavolo e la faccia tutta rossa e accartocciata in rughe. Solchi dinamici. Ritidi periorbitali laterali. Il cane piega la testa da un lato per sfuggire a Misty. Il dopobarba dell'uomo sa di chiodi di garofano. Agganciato alla sua cintura, da sotto il bordo della giacca, spunta un paio di manette di metallo lucido.
Per la cronaca, il tempo previsto per oggi è tumulto crescente con possibile crollo fisico ed emotivo. Stringendo il guinzaglio del cane, l'uomo dice: «È sicura che va tutto bene?». E Misty gli dice: «Mi creda, non sono morta». «Forse è solo la mia pelle che è morta» dice. Sindrome di Stendhal. Epinefrina. Grafologia. Il coma dei dettagli. Della cultura. L'uomo indica con un cenno del capo la birra nel sacchetto di carta marrone, poi dice: «Lo sa che è vietato bere nei luoghi pubblici?». E Misty dice cos'è, un poliziotto? E lui: «Le dirò... in effetti sì». Il tizio apre il portafoglio e le fa vedere un distintivo. Inciso sul distintivo d'argento c'è: Clark Stilton. Detective. Polizia di Seaview County, squadra crimini d'odio. 13 luglio luna piena Tabbi e Misty passeggiano per i boschi. Siamo nel groviglio di terra di Waytansea Point. Qui ci sono gli ontani, generazioni di alberi cresciuti e caduti e di nuovo germogliati sui loro stessi cadaveri. Gli animali, forse dei daini, hanno spianato un sentiero che si snoda intorno a cumuli di alberi contorti e fiancheggia massi grandi come edifici e foderati di muschio spesso. Al di sopra di tutto questo, le foglie degli ontani si uniscono a formare un cielo mobile verde chiaro. Qua e là, la luce del sole filtra in fasci larghi quanto un lampadario di cristallo. L'ennesima versione più incasinata dell'atrio del Waytansea Hotel. Tabbi porta un unico vecchio orecchino, in filigrana dorata con una piccola nube di strass rossi e scintillanti a circondare un cuore di smalto rosso. Lo porta appuntato alla felpa rosa, come una spilla, ma in realtà è l'orecchino che l'amico di Peter si strappò dal lobo. Will Tupper, quello del traghetto. Il tuo amico. Tabbi conserva la bigiotteria in una scatola da scarpe sotto il letto, e la indossa nei giorni speciali. I rubini di vetro scheggiato che porta appuntati alla spalla riflettono il verde chiaro che li sovrasta. Gli strass, macchiati di
terra, riflettono il rosa della sua felpa. Tua moglie e tua figlia scavalcano un ceppo marcio che brulica di formiche, aggirano felci che accarezzano la vita a Misty e sbattono sul viso di Tabbi. Stanno in silenzio, aguzzano la vista e l'udito in cerca di uccelli, ma non ce ne sono. Niente uccelli. Niente ranocchie. Nessun suono oltre a quello dell'oceano, oltre al sibilo e agli scoppi provenienti da qualche altra parte. Si fanno largo attraverso un boschetto di gambi verdi con delle foglie gialle tutte molli che marciscono intorno alla base. Bisogna stare attenti a ogni passo, perché il terreno è scivoloso e pieno di pozzanghere. Da quanto tempo Misty stia camminando, con gli occhi fissi al terreno, trattenendo i rami perché non colpiscano Tabbi, da quanto tempo Misty non lo sa, ma quando alza gli occhi davanti a lei c'è un uomo. Per la cronaca, il suo muscolo elevatore del labbro, il muscolo del ringhio, tutti i muscoli coinvolti nella reazione al pericolo hanno uno spasmo, tutti quei muscoletti si congelano nel paesaggio di un volto che ringhia, con la bocca di Misty squadrata a mostrare tutti i denti. La sua mano agguanta la felpa di Tabbi. Tabbi continua a guardare per terra e ad avanzare, e Misty la strattona indietro. E Tabbi scivola e cade a terra, trascinandosi dietro la madre, dicendo: «Mamma». Tabbi schiacciata contro il terreno umido, contro le foglie e il muschio e gli scarafaggi, Misty rannicchiata sopra di lei, le felci che si inarcano sopra di loro. L'uomo è a una decina di passi da loro, di schiena. Non si volta. Al di là della cortina di felci appare alto due metri e passa, scuro e pesante, con delle foglie marroni tra i capelli e le gambe imbrattate di fango. Non si volta, però non si muove. Deve averle sentite, e resta immobile, in ascolto. Per la cronaca, è nudo. Col culo nudo in bella mostra. Tabbi dice: «Mollami, mamma. Ci sono gli insetti». E Misty la zittisce. L'uomo aspetta, immobile, con una mano sospesa all'altezza della vita, come a saggiare l'aria per percepire eventuali movimenti. Non un solo uccello che canti. Misty è accovacciata carponi, con le mani aperte appoggiate nel fango, pronta a prendere Tabbi di peso e scappare. Poi però Tabbi scivola via, e Misty dice: «No». Allunga un braccio di
scatto, ma riesce ad afferrare soltanto l'aria alle spalle di sua figlia. Passa un secondo, forse due, prima che Tabbi raggiunga l'uomo e gli appoggi la mano nel palmo aperto. In quei due secondi Misty capisce di essere una madre schifosa. Peter, sappi che hai sposato una vigliacca. Misty è ancora lì, rannicchiata. Semmai il suo corpo è proteso all'indietro, pronto a scattare nella direzione opposta. Quello che all'accademia non ti insegnano è il combattimento corpo a corpo. E Tabbi si volta indietro, sorridendo, e dice: «Mamma, non fare la scema». Con entrambe le mani afferra la mano aperta dell'uomo e si tira su, facendo dondolare le gambe a mezz'aria. Dice: «È soltanto Apollo». Vicino all'uomo, quasi nascosto dalle foglie cadute, c'è un cadavere. Un seno pallido con sottili vene azzurre. Un braccio bianco mozzato. E Misty resta lì rannicchiata. Tabbi si lascia cadere dalla mano dell'uomo e raggiunge il punto verso il quale Misty sta guardando. Spazza via alcune foglie, scoprendo il volto bianco di un cadavere, poi dice: «Lei invece è Diana». Poi guarda Misty rannicchiata e alza gli occhi al cielo. «Sono statue, mamma.» Statue. Tabbi torna verso di lei e la prende per mano. Solleva il braccio della madre e la aiuta ad alzarsi in piedi, dicendo: «Hai presente una statua? L'artista sei tu». Tabbi la trascina avanti. L'uomo è di bronzo scuro, striato di licheni e ossidazione, un uomo nudo con i piedi imbullonati a un piedistallo sepolto nei cespugli accanto al sentierino. Ha gli occhi con le iridi e le pupille infossati, iridi romaniche fuse all'interno. Le braccia e le gambe nude sono perfettamente proporzionate al busto. La sezione aurea della composizione. Ogni regola dell'arte e delle proporzioni applicata. La formula greca per spiegare come mai le cose ci piacciono. Un altro po' di coma da accademia. La donna distesa a terra è di marmo bianco spezzato. La manina rosa di Tabbi sposta le foglie e l'erba dalle lunghe cosce bianche, la piega pudica del pallido inguine di marmo che sfocia in una foglia scolpita. Le dita e le braccia lisce, i gomiti senza una ruga, senza un segno. I capelli di marmo sospesi in boccoli bianchi scolpiti. Tabbi punta la manina rosa verso un piedistallo vuoto dall'altra parte del sentiero, dirimpetto al bronzo, e dice: «Diana è caduta giù molto tempo
prima che la conoscessi». A toccarlo, il polpaccio di bronzo dell'uomo è freddo, ma è stato fuso con ogni tendine definito, ogni muscolo in rilievo. Facendo scorrere la mano sul metallo freddo Misty dice: «Sei già stata qui?». «Apollo non ha il pistolino» dice Tabbi. «Ho già guardato.» E Misty le strattona via la mano dalla foglia di bronzo che ricopre l'inguine della statua. Dice: «Chi ti ci ha portato?». «La nonna» dice Tabbi. «Nonna qui mi ci porta sempre.» Tabbi si china a sfregare una guancia contro il marmo liscio della guancia di Diana. La statua di bronzo, Apollo, dev'essere una riproduzione dell'Ottocento. O al limite di fine Settecento. Non può essere vera, un pezzo greco o romano originale. Starebbe in un museo. «Come mai queste statue sono qui?» dice Misty. «Tua nonna te l'ha detto?» E Tabbi fa spallucce. Le tende una mano e dice: «Ce ne sono altre». Dice: «Vieni che ti faccio vedere». Ce ne sono altre. Tabbi la guida attraverso i boschi che circondano Waytansea Point, e insieme trovano una meridiana che giace tra le erbacce, coperta da una spessa crosta di verderame scuro. Trovano una fontana grande quanto una piscina, ma piena di rami e ghiande staccati dal vento. Costeggiano una grotta scavata dentro il fianco di una collina, una bocca oscura incorniciata da cuscinetti di muschio e chiusa da un cancello di ferro con la catena. La pietra intagliata è assemblata a formare un arco che sale verso una chiave di volta. Elaborato come la palazzina di una banca. Come la facciata ammuffita di un edificio di stato sepolto. È pieno di angeli scolpiti che reggono ghirlande di mele, pere e uva di pietra. Corone di fiori di pietra. Il tutto striato di fango e crepe, divelto dalle radici degli alberi. In mezzo ci sono piante che non dovrebbero esserci. Una rosa rampicante che soffoca una quercia, arrampicandosi per quindici metri per poi sbocciare al di sopra della sua chioma. Petali di tulipani appassiti che giacciono essiccati dal caldo estivo. Un imponente muro di ramoscelli e foglie, che si rivela essere un enorme arbusto di lillà. I tulipani e i lillà qui non crescono. Nessuna di queste piante dovrebbe essere qui. Nel prato al centro di Waytansea Point trovano Grace Wilmot seduta su
una coperta stesa sull'erba. Intorno a lei è tutto un fiorire di ranuncoli rosa e azzurri e di margheritine bianche. Il cestino da picnic di vimini è aperto e sorvolato dalle mosche. Grace si solleva sulle ginocchia tenendo in mano un bicchiere di vino rosso e dice: «Misty, siete tornate. Tieni». Misty prende il vino e ne beve un po'. «Tabbi mi ha fatto vedere le statue» dice. «Cosa c'era qui, una volta?» Grace si alza in piedi e dice: «Tabbi, raccogli le tue cose. È ora di andare». Tabbi recupera il maglione dalla coperta. E Misty dice: «Ma siamo appena arrivate». Grace le porge un piatto con un panino e dice: «Tu ti fermi qui e mangi. Hai tutto il pomeriggio per dedicarti alla tua arte». Il panino è con l'insalata di pollo e il sole l'ha intiepidito. Ci si sono posate sopra le mosche, ma l'odore è normale. E così Misty ne prende un morso. Grace indica Tabbi con un cenno del capo e dice: «L'idea è stata di Tabbi». Misty mastica e deglutisce. Dice: «Un pensiero gentile, ma io non ho portato il materiale». Tabbi si avvicina al cestino da picnic e dice: «Ci ha pensato la nonna. Volevamo farti una sorpresa». Misty beve un po' di vino. Ogni volta che una persona piena di buone intenzioni ti costringe a dimostrare che non hai talento e ti fa pesare il fatto che hai fallito l'unico sogno della tua vita, tu bevi. Si chiama il Gioco dell'alcol di Misty Wilmot. «Io e Tabbi abbiamo una missione» dice Grace. E Tabbi dice: «Andiamo per mercatini dell'usato». L'insalata di pollo ha un sapore strano. Misty mastica e deglutisce e dice: «Questo panino ha un sapore bizzarro». «È solo coriandolo» dice Grace. Poi: «Io e Tabbi dobbiamo trovare un piatto da portata del diametro di quaranta centimetri di silverplate Lenox decorato a spiga di grano». Chiude gli occhi e scuote la testa, dicendo: «Perché, mi chiedo io, a nessuno importa nulla dei suoi servizi da tavola finché non escono di produzione?». Tabbi dice: «E la nonna mi compra il regalo di compleanno. Quello che voglio». E dunque Misty ora deve restarsene impantanata qui a Waytansea Point
con due bottiglie di vino rosso e un'infornata di panini con insalata di pollo. Con il suo carico di colori e acquarelli e pennelli e carta. Che non tocca da quando sua figlia era una neonata. Gli acrilici e i colori a olio ormai si saranno induriti. Gli acquarelli saranno secchi e rotti. I pennelli irrigiditi. Tutto inutile. Compresa Misty. Grace Wilmot tende le mani e dice: «Tabbi, andiamo. Lasciamo che tua madre si goda il suo pomeriggio». Tabbi prende la mano della nonna, e insieme si allontanano attraverso il prato, verso la strada sterrata dove hanno posteggiato l'auto. Il sole è caldo. Il prato è piuttosto in alto, e quando guardi giù vedi le onde che sibilano e scoppiano contro gli scogli. Lungo la costa si vede il paese. Il Waytansea Hotel è uno sbaffo di legno bianco. Quasi si riescono a vedere le finestrelle degli abbaini lungo la soffitta. Da qui l'isola appare amena e perfetta, non affollata e pullulante di turisti. Imbruttita dai cartelloni pubblicitari. Ha l'aspetto che doveva avere prima che arrivasse il ricco popolo dell'estate. Prima che arrivasse Misty. Capisci come mai la gente nata qui non se ne va. Come mai Peter fosse così disposto a proteggerla. «Mamma!» grida Tabbi. Ha lasciato la nonna e sta correndo di nuovo verso di lei. Con entrambe le mani si stringe la felpa rosa. Ansimando e sorridendo, raggiunge Misty seduta sulla coperta. In mano stringe l'orecchino di filigrana dorata, e dice: «Resta immobile». E Misty resta immobile. Come una statua. E Tabbi si china e infila l'orecchino nel lobo di sua madre, dicendo: «Se non me lo diceva la nonna per poco me ne scordavo. Dice che questo ti serve». I jeans di Tabbi si sono sporcati di fango e di verde sulle ginocchia quando Misty l'ha buttata a terra in preda al panico, quando Misty ha cercato di salvarla. Misty dice: «Vuoi un panino da portarti dietro, tesoro?». E Tabbi scuote la testa, dice: «Nonna mi ha detto di non mangiarli». Poi si volta e corre via, agitando un braccio sopra la testa, infine scompare. 14 luglio Angel tiene in mano il foglio di carta da acquarello, pizzicandone gli angoli con la punta delle dita. Lo guarda, poi guarda Misty, poi dice: «Ha disegnato una poltrona?».
Misty si stringe nelle spalle e dice: «Sono passati anni. È la prima cosa che mi è venuta in mente». Angel le volta la schiena, solleva il disegno in modo che la luce lo colpisca da diverse angolazioni. Senza smettere di fissarlo dice: «È buono. Davvero buono. La poltrona dove l'ha trovata?». «Me la sono immaginata» dice Misty, e gli racconta di quando l'hanno mollata a Waytansea Point un giorno intero con nient'altro che i suoi colori e due bottiglie di vino. Angel osserva il disegno socchiudendo gli occhi, così da vicino che lo sguardo gli si incrocia, poi dice: «Sembra una Hershel Burke». Angel guarda Misty e dice: «Lei ha passato un giorno intero in mezzo a un prato e si è immaginata una poltrona a braccioli neorinascimentale Hershel Burke?». Stamattina ha chiamato una signora di Long Beach per dire che stava per rimbiancare la lavanderia, perciò prima che si mettesse all'opera conveniva che loro andassero a vedere il casino combinato da Peter. In questo preciso istante, Misty e Angel si trovano nella lavanderia scomparsa. Misty sta disegnando gli scarabocchi di Peter. Angel deve fotografare le pareti. Quando Misty ha aperto il suo portfolio per tirare fuori l'album da disegno, Angel ha notato il piccolo acquarello e le ha chiesto di vederlo. La luce del sole penetra nella stanza da una finestra di vetro smerigliato, e Angel lascia che sia quella a illuminare il disegno. La vernice spray sulla finestra dice: "... mettete piede sulla nostra isola e morirete...". Angel dice: «Giuro, è una Hershel Burke. Philadelphia 1879. La gemella sta nella dimora di campagna Vanderbilt a Biltmore». Dev'essere rimasta appiccicata alla memoria di Misty dal corso di Storia dell'arte 101, o dallo Studio sulle arti decorative 236, o da qualche altra inutile lezione dell'accademia. Forse l'ha vista alla tv, in un programma della televisione pubblica sulle case famose. Va' a sapere da dove ci vengono le idee. L'ispirazione. Perché ci immaginiamo le cose. Misty dice: «È già tanto se ho disegnato qualcosa. Sono stata malissimo. Un'intossicazione alimentare». Angel guarda il disegno, lo rigira. Il muscolo corrugatore tra le sopracciglia gli si contrae formando tre rughe profonde. I solchi glabellari. Il muscolo triangolare gli tende le labbra finché dagli angoli della bocca non si diramano verso il basso le rughe della marionetta.
Mentre copia gli scarabocchi sui muri, Misty non racconta ad Angel dei crampi allo stomaco. Ha passato quello schifoso pomeriggio a tentare di disegnare una roccia o un albero, solo per poi accartocciare il foglio disgustata. Ha provato a disegnare il paese in lontananza, il campanile della chiesa e l'orologio della biblioteca, ma poi ha accartocciato anche quelli. Ha accartocciato una merda di ritratto di Tabbi. Poi un unicorno. Ha bevuto un bicchiere di vino e ha cercato qualcos'altro da rovinare con la sua mancanza di talento. Poi si è mangiata un altro panino all'insalata di pollo, con quello strano gusto di coriandolo. Solo l'idea di addentrarsi nella boscaglia cupa per disegnare una statua caduta e ormai a pezzi le faceva drizzare i peli dietro il collo. La meridiana crollata. La grotta chiusa con la catena. Cristo. In mezzo al prato il sole era caldo. L'erba ronzava di insetti. Da qualche parte al di là dei boschi le onde dell'oceano sibilavano e scoppiavano. Solo a guardare i margini scuri della foresta, Misty riusciva a immaginarsi il gigantesco uomo di bronzo che si apriva un varco nella vegetazione con le braccia macchiate, e fissandola con quegli occhi svuotati e ciechi. Come se fosse stata lei a uccidere la Diana di marmo e a farne a pezzi il corpo, Misty lo vedeva uscire dagli alberi e dirigersi verso di lei. In base alle regole del Gioco dell'alcol di Misty Wilmot, quando cominci a pensare che una statua di bronzo nuda voglia piegare le sue braccia metalliche intorno al tuo corpo e stritolarti a morte con un bacio intanto che tu ti stacchi le unghie nel tentativo di graffiarla e le picchi i pugni contro il petto coperto di muschio fino a farteli sanguinare, be', è ora di bere un'altra volta. Quando ti ritrovi seminuda a cacare in un buco che ti sei scavata dietro un cespuglio, e poi a pulirti il culo con un tovagliolo di lino dell'hotel, bevi di nuovo. Il crampo era esploso, e di colpo Misty aveva preso a sudare. A ogni battito del cuore un dolore acuto le trafiggeva la testa. Aveva sentito le viscere muoversi, e non era riuscita a calarsi gli slip abbastanza in fretta. Lo schifo le aveva mondato le scarpe e le gambe. Il fetore le aveva fatto venire un conato, e lei si era buttata in avanti, a palmi aperti sull'erba tiepida, sui fiorellini. Le mosche l'avevano individuata da chilometri di distanza, e le correvano su e giù per le gambe. Poi il mento di Misty si era spalancato verso il petto, e un doppio fiotto di vomito rosa si era spiaccicato al suolo. Quando mezz'ora dopo ti ritrovi ancora con la merda che ti scorre lungo le gambe, circondata da un nugolo di mosche, bevi di nuovo.
Di tutta quella parte lì, Misty ad Angel non racconta niente. Lei disegna, Angel scatta foto, e qui, nella lavanderia scomparsa, lui le dice: «Cosa può dirmi del padre di Peter?». Il papà di Peter, Harrow. Misty lo adorava, il papà di Peter. Misty dice: «È morto. Perché?». Angel scatta un'altra foto e fa avanzare la pellicola nella macchina fotografica. Indica con un cenno della testa le scritte sulla parete, poi dice: «Dal modo in cui uno fa le "i" si capiscono un sacco di cose». Il primo tratto indica l'attaccamento alla madre. Il secondo, quello verso il basso, si riferisce al padre». Il papà di Peter, Harrow Wilmot, tutti lo chiamavano Harry. Misty l'ha incontrato una volta sola, quell'unica volta che è andata a trovarli prima che si sposassero. Prima di rimanere incinta. Harry l'aveva portata a fare un lungo giro di Waytansea Island, passeggiando e indicandole la vernice scrostata e i tetti di legno incurvati delle vecchie case. Con la chiave della macchina aveva grattato via l'intonaco sbriciolato dalle fessure in mezzo ai blocchi di granito della chiesa. Avevano visto i marciapiedi di Merchant Street deformati e pieni di crepe. Le facciate dei negozi striate dall'avanzamento della muffa. Da fuori, l'interno dell'hotel chiuso appariva nero, in gran parte sventrato da un incendio. L'esterno, fatiscente e con gli infissi rossi di ruggine. Le persiane piegate. Le grondaie ricurve. Harrow Wilmot non faceva che ripetere: «Dalle stalle alle stelle e di nuovo alle stalle nel giro di tre generazioni». Diceva: «Puoi investire bene finché vuoi, ma più di così i soldi non durano». Il padre di Peter era morto dopo che Misty era tornata al college. E Angel dice: «Può procurarmi un campione della sua scrittura?». Misty continua a disegnare le scritte, e dice: «Non so». Per la cronaca, trovarsi coperti di merda e nudi in mezzo ai boschi, imbrattati di vomito rosa, non necessariamente fa di te un'artista. E nemmeno le allucinazioni. Laggiù a Waytansea Point, con i crampi e il sudore che le gocciolava dai capelli e lungo il viso, Misty aveva cominciato a vedere cose. Con i tovaglioli dell'hotel aveva tentato di ripulirsi. Si era sciacquata la bocca con il vino. Aveva scacciato il nugolo di mosche. Il vomito le bruciava ancora nel naso. È una cosa stupida, troppo stupida per raccontarla ad Angel, ma le ombre ai margini della foresta si erano mosse. Il viso di metallo era lì, in mezzo agli alberi. La statua aveva fatto un passo in avanti, e il peso terribile del suo piede di bronzo si era infossato nell'estremità soffice del prato.
Se hai bazzicato l'accademia, sai riconoscere un brutto trip. E sai anche cos'è un flashback. Ti sei fatta un sacco di roba chimica che può rimanerti nei tessuti adiposi, pronta a inondarti il flusso sanguigno di incubi in pieno giorno. La statua aveva fatto un altro passo, e il suo piede era affondato nel terreno. Il sole le rendeva le braccia verde chiaro in certi punti, marrone opaco in altri. Aveva la testa e le spalle coperti di cacca d'uccello. I muscoli delle cosce di bronzo si gonfiavano, tendendosi in altorilievo con il sollevarsi di ogni gamba, e la statua avanzava. A ogni passo, la foglia di bronzo si spostava fra le cosce. Adesso, guardare l'acquarello appoggiato sulla borsa della macchina fotografica di Angel è più che imbarazzante. Apollo, il dio dell'amore. Misty nauseata e ubriaca. L'anima messa a nudo di un'artista di mezz'età arrapata. La statua si era avvicinata di un altro passo. Una stupida allucinazione. Intossicazione alimentare. Quella cosa nuda. Misty nuda. Entrambi sporchi in mezzo al cerchio d'alberi che circondava il prato. Per schiarirsi le idee, per farla andare via, Misty aveva cominciato a disegnare. Per concentrarsi. Un disegno di niente. Con gli occhi chiusi, Misty aveva appoggiato la matita sul blocco di carta da acquarello e l'aveva sentita ruvida, si era messa a tracciare linee rette, a sfregare con il lato del pollice per creare contorni sfumati. Scrittura automatica. Quando la matita si era fermata, Misty aveva finito. La statua non c'era più. Lo stomaco faceva meno male. Lo sporco si era asciugato abbastanza da poterne scrostare via il grosso e quindi seppellire i tovaglioli, la sua biancheria ormai inservibile e i disegni accartocciati. Erano arrivate Tabbi e Grace. Avevano trovato la loro tazza da tè mancante o il bricchetto da panna o quel che era. A quel punto, il vino era finito. Misty si era rivestita e puzzava un po' meno. Tabbi aveva detto: «Guarda. Per il mio compleanno» e le aveva mostrato una mano con un anello luccicante infilato su un dito. Una pietra verde squadrata, tagliata in modo da scintillare. «È un'olivina» aveva detto Tabbi, alzando l'anello sopra la testa per farlo brillare alla luce del tramonto. Misty si era addormentata in macchina, chiedendosi da dove fossero saltati fuori i soldi, intanto che Grace guidava lungo Division Avenue diretta al paese. Solo più tardi Misty aveva guardato il blocco degli schizzi. E ne era rimasta stupita come chiunque altro. Dopo aveva aggiunto giusto qualche
colore, per la precisione acquarelli. È sorprendente cosa riesce a creare il subconscio. Qualcosa che proveniva dalla sua giovinezza, l'immagine di una qualche lezione di storia dell'arte. I prevedibili sogni della povera Misty Kleinman. Angel dice qualcosa. Misty dice: «Mi scusi?». E Angel dice: «Quanto vuole per questo?». Intende soldi. Un prezzo. Misty dice: «Cinquanta?». Misty dice: «Cinquanta dollari?». Quest'immagine che Misty ha realizzato a occhi chiusi, nuda e spaventata, ubriaca e con la nausea, è la prima opera d'arte che abbia mai venduto in vita sua. È la cosa migliore che abbia mai fatto. Angel apre il portafoglio e tira fuori due pezzi da venti e uno da dieci. Dice: «Allora, cos'altro può dirmi del padre di Peter?». Per la cronaca, andandosene dal prato, vicino al sentiero c'erano due buchi profondi. I buchi erano un paio di piedi distanziati, troppo grossi per essere piedi veri, troppo distanziati per essere umani. Una scia di buchi si perdeva dentro la boscaglia, buchi troppo grossi, troppo distanziati per appartenere a qualcuno che camminava. Questo Misty ad Angel non lo dice. La prenderebbe per pazza. Pazza, come suo marito. Come te, caro, dolce Peter. Al momento, dell'intossicazione alimentare non rimane altro che un mal di testa martellante. Angel si avvicina il disegno al naso e annusa. Arriccia il naso e annusa di nuovo, poi infila il foglio in una tasca sul fianco della sua borsa. Si accorge che Misty lo sta guardando, e dice: «Oh, non ci faccia caso. È che per un attimo mi è parso di sentire puzza di cacca». 15 luglio Se il primo uomo che ti guarda le tette da quattro anni a questa parte viene fuori che è un poliziotto, tu bevi. Se viene fuori che sa già come sei da nuda, bevi di nuovo. E fattelo doppio. C'è un tizio seduto al tavolo otto nella Sala del legno e dell'oro, uno suppergiù della tua età. È robusto, con le spalle curve. La camicia gli sta bene, giusto un filo stretta sulla pancia, un palloncino di misto poliestere/cotone che sporge sopra la cintura. I capelli se ne stanno andando sulle tempie, e
l'attaccatura lascia spazio a lunghi triangoli di cuoio capelluto al di sopra degli occhi. Questi triangoli sono rossi, scottati dal sole, formano due lunghe corna da diavolo appuntite sulla sommità del viso. Ha un piccolo block-notes a spirale aperto sul tavolo e, intanto che guarda Misty, ci scrive. Indossa una cravatta a righe e una giacca sportiva blu marino. Misty gli porta un bicchiere d'acqua, e la mano le trema così forte che si sente il tintinnio del ghiaccio. Giusto perché tu lo sappia, il suo mal di testa è giunto al terzo giorno. Il suo mal di testa è come sentire larve che affondano nella grossa massa soffice del cervello. Vermi che trivellano. Scarafaggi che scavano cunicoli. Il tizio al tavolo otto dice: «Qui non ci passano molti uomini, o sbaglio?». Il suo dopobarba sa di chiodi di garofano. Lui è l'uomo del traghetto, il tizio col cane che pensava che Misty fosse morta. Il poliziotto. Detective Clark Stilton. Quello della squadra crimini d'odio. Misty fa spallucce e gli consegna il menu. Misty percorre con lo sguardo la sala intorno, la vernice dorata e i rivestimenti in legno, e dice: «Il suo cane dov'è?». Misty dice: «Posso portarle qualcosa da bere?». E lui dice: «Ho bisogno di vedere suo marito». Dice: «Lei è la signora Wilmot, giusto?». Il nome sulla targhetta appuntata alla divisa di plastica rosa: Misty Marie Wilmot. Il suo mal di testa è come un martello che batte e ribatte un chiodo dentro la nuca, un'opera d'arte concettuale, un martello che batte forte, sempre più forte e in un unico punto, fino a farti dimenticare qualsiasi altra cosa. Il detective Stilton posa la penna sul block-notes e le porge la mano, e sorride. Dice: «La verità è che la squadra crimini d'odio della contea sono io». Misty gli stringe la mano e dice: «Desidera del caffè?». E lui dice: «Sì, grazie». Il suo mal di testa è un pallone da spiaggia troppo gonfio. In cui qualcuno cerca di introdurre altra aria, solo che non è aria. È sangue. Per la cronaca, Misty ha già spiegato al detective che suo marito è in ospedale. Che tu sei in ospedale. Sul traghetto, l'altra sera, ha raccontato al detective Stilton che tu eri pazzo, e che hai lasciato la tua famiglia nei debiti. Che ti hanno cacciato da tutte le accademie e che ti piantavi i gioielli addosso. Che ti sei seduto nel-
la macchina parcheggiata in garage con il motore acceso. Che i tuoi graffiti, i tuoi deliri e l'aver sigillato lavanderie e cucine, erano solo sintomi della tua follia. Vandalismo. Una cosa davvero spiacevole, ha detto Misty al detective, ma lei è rimasta fregata esattamente come gli altri. Questo succede più o meno alle tre del pomeriggio, nell'intervallo di quiete tra il pranzo e la cena. Misty dice: «Come no. Ma certo, lo vada a trovare». Misty dice: «Il caffè lo voleva?». Il detective guarda il bloc-notes e scrive e le chiede: «Sa se suo marito faceva parte di qualche organizzazione neonazista? Di qualche gruppo di fanatici violenti?». E Misty dice: «Ah, sì?». Misty dice: «Qui facciamo un ottimo roastbeef». Per la cronaca, la scena a suo modo è carina. Tutti e due lì con il blocknotes in mano, le penne pronte a scrivere. È un duello. A chi resta in piedi. Se ha visto le scritte di Peter, questo tizio deve per forza sapere che cosa pensava di Misty da nuda. Delle sue tette come pesci morti. Delle gambe coperte di vene varicose. Delle mani che puzzano di guanti di gomma. Misty Wilmot, regina delle cameriere. Cosa pensavi di tua moglie. Il detective Stilton scrive, e dice: «Dunque lei e suo marito non eravate molto intimi?». E Misty dice: «Già. O meglio, io pensavo di sì». Dice: «Ma giudichi lei». Lui scrive, e dice: «Per caso sa se Peter è membro del Ku Klux Klan?». E Misty dice: «Il pollo e gli gnocchi non sono male». Lui scrive, e dice: «Sa se a Waytansea Island esistono gruppi del genere?». Il mal di testa batte e ribatte il chiodo dentro la nuca. Qualcuno le fa segno dal tavolo cinque, e Misty dice: «Posso portarle del caffè?». E il detective Stilton dice: «Si sente bene? Non mi sembra in formissima». Stamattina, a colazione, Grace Wilmot si è detta assai dispiaciuta per l'insalata di pollo avariata, così dispiaciuta che ha fissato a Misty un appuntamento dal dottor Touchet per domani. Un gesto carino, ma anche l'ennesimo cazzo di conto da pagare. Quando Misty chiude gli occhi potrebbe giurare di avere la testa incandescente, dentro. Ha il collo che è un unico fascio di crampi in acciaio colato. Il sudore le appiccica le pieghe della pelle del collo. Le spalle sono le-
gate, la tensione le arriva fin sotto le orecchie. Basta che giri appena la testa in qualunque direzione che le sembra di avere le orecchie in fiamme. Peter le raccontava sempre di Paganini, forse il miglior violinista di tutti i tempi. Era afflitto da tubercolosi, sifilide, osteomielite alla mandibola, diarrea, emorroidi e calcoli renali. Paganini, non Peter. Il mercurio che i dottori gli prescrivevano per la sifilide lo intossicò fino a fargli cadere i denti. La pelle gli divenne grigiastra. Perse i capelli. Paganini era un cadavere ambulante, eppure quando suonava il violino diventava immortale. Aveva la sindrome di Ehlers-Danlos, una malattia congenita. Gli rendeva le giunture talmente flessibili che riusciva a piegare il pollice all'indietro fino a toccarsi il polso. A sentire Peter, ciò che lo affliggeva era anche ciò che lo rese un genio. A sentire te. Misty porta al detective Stilton un tè freddo che non ha ordinato, e lui le dice: «C'è un motivo in particolare per cui porta gli occhiali da sole al chiuso?». E indicando con uno scatto della testa la grande finestra, Misty dice: «Per la luce». Gli riempie nuovamente il bicchiere d'acqua e dice: «Oggi mi dà fastidio agli occhi». La mano le trema così tanto che le cade la penna. Aggrappandosi al bordo del tavolo per non perdere l'equilibrio, si china a raccoglierla. Tira su col naso e dice: «Mi scusi». E il detective dice: «Conosce il signor Angel Delaporte?». E Misty tira su col naso e dice: «È pronto per ordinare?». La calligrafia di Stilton. Angel Delaporte dovrebbe vederla. Le sue lettere sono alte, svettanti, ambiziose, idealistiche. La scrittura è fortemente inclinata a destra, aggressiva, cocciuta. La forte pressione che esercita sulla pagina indica intensa libido. Ecco cosa direbbe Angel. La gambetta delle lettere, delle "y" e delle "g" minuscole, scende giù dritta. Indice di determinazione e forte attitudine al comando. Il detective Stilton guarda Misty e dice: «Descriverebbe i suoi concittadini come ostili verso i forestieri?». Per la cronaca, se hai ridotto i tempi di masturbazione a meno di tre minuti perché devi dividere il bagno con altre quattordici persone, bevi un altro po'. Studiando teoria dell'arte, impari che le donne cercano uomini con la fronte prominente e il mento grosso, squadrato. C'è uno studio, fatto da qualche sociologo della West Point Academy. Dimostra che a rendere gli uomini attraenti sono i visi rettangolari, gli occhi infossati e le orecchie at-
taccate al cranio. Il detective Stilton è esattamente così, con qualche chilo in più. In questo momento non sorride, ma le rughe che gli solcano le guance e le zampe di gallina dimostrano che di solito sorride un sacco. È più spesso sorridente che non corrucciato. Le cicatrici della felicità. Può darsi che siano i chili in più, ma i solchi che il muscolo corrugatore gli forma in mezzo agli occhi e quelli che il muscolo frontale gli crea sulla fronte, le rughe della preoccupazione, sono quasi invisibili. E poi quelle corna rosse sulla fronte. Sono questi i minuscoli stimoli visivi a cui rispondiamo. Il codice dell'attrazione. Il motivo per cui le persone ci piacciono. Forse non ce ne rendiamo conto a livello conscio, però è per questo che facciamo ciò che facciamo. È grazie a questo che scopriamo ciò che non sappiamo. Le rughe come lo studio della calligrafia. Come la grafologia. Angel ne sarebbe impressionato. Il caro, dolce Peter si faceva crescere i capelli perché aveva le orecchie a sventola. Avevi le orecchie a sventola. Tabbi ha le orecchie di suo padre. E anche i capelli sono i suoi. I tuoi. Stilton dice: «La vita sta cambiando, da queste parti, e a un sacco di persone la cosa non va giù. Se suo marito non agiva da solo, potrebbero verificarsi aggressioni. Incendi dolosi. Omicidi». Misty basta che abbassi lo sguardo e sente le ginocchia cedere. Se si volta di lato le si appanna la vista, per un attimo la stanza diventa un'unica macchia indistinta. Misty strappa l'ordinazione del detective dal block-notes e la posa sul tavolo, dice: «Nient'altro?». «Un'ultima domanda, signora Wilmot» dice lui. Beve un sorso di tè freddo, scrutandola da dietro il bordo del bicchiere. Poi dice: «Se è possibile vorrei parlare con i suoi parenti acquisiti, i genitori di suo marito». La madre di Peter, Grace Wilmot, abita qui all'hotel, gli spiega Misty. Il padre di Peter, Harrow Wilmot, è morto. Tredici o quattordici anni fa. Il detective Stilton prende un altro appunto. Dice: «Com'è morto, suo suocero?». D'infarto, pensa Misty. Ma non ne è sicura. E Stilton dice: «A quanto pare non conosce particolarmente bene i suoi
parenti». Con il mal di testa che batte e ribatte il chiodo dietro il cranio, Misty dice: «Il caffè ha detto che lo voleva?». 16 luglio Il dottor Touchet punta una luce negli occhi di Misty e le dice di sbattere le palpebre. Le esamina l'interno delle orecchie. Il naso. Spegne le luci dell'ambulatorio e le punta una luce in bocca. Un po' come Angel Delaporte quando con la torcia sbirciava attraverso il buco nella parete della sua sala da pranzo. È un vecchio trucco dei dottori per illuminare le cavità delle narici, che si accendono di luce rossa sotto la pelle del naso, permettendo di individuare ombre che indicano congestioni, infezioni. Mal di testa da sinusite. Il dottore piega la testa di Misty all'indietro e le esamina la gola. Le chiede: «Come mai dice che è stata un'intossicazione alimentare?». Misty allora gli dice della diarrea, dei crampi, del mal di testa. Gli racconta tutto tranne l'allucinazione. Il dottore le gonfia intorno al braccio la fascia per misurare la pressione, poi la fa sgonfiare. A ogni battito del cuore, entrambi osservano l'ago sul quadrante. Il dolore nella testa, le fitte, seguono il ritmo delle pulsazioni. Poi la camicetta non c'è più, e il dottor Touchet le tiene un braccio sollevato e le palpa l'interno dell'ascella. Porta gli occhiali e intanto che muove le dita fissa il muro alle loro spalle. Misty riesce a osservare la scena da uno specchio appeso alla parete. Il reggiseno è così teso che le spalline affondano nella carne. La pelle deborda oltre l'elastico dei pantaloni. Il filo di perle finte le circonda il collo, e le perle scompaiono in una profonda piega di grasso. Le dita del dottor Touchet affondano, trivellano, scavano cunicoli nella sua ascella. Le finestre dell'ambulatorio sono in vetro smerigliato, e la camicetta di Misty è appesa a un gancio sulla porta. È lo stesso ambulatorio in cui ha partorito Tabbi. Pareti coperte di piastrelle verde pallido e pavimento di piastrelle bianche. Stesso identico lettino. Peter è nato qui. E anche Paulette. Will Tupper. Matt Hyland. Brett Petersen. Tutti gli abitanti dell'isola al di sotto dei cinquant'anni. L'isola è talmente piccola che il dottor Touchet fa anche da impresario di pompe funebri. Fu lui a sistemare il padre di Peter, Harrow, prima del funerale. Della cremazione. Tuo padre.
Harrow Wilmot era tutto ciò che Misty desiderava diventasse Peter. Come quegli uomini che vogliono conoscere la loro futura suocera per capire come sarà la loro fidanzata di lì a vent'anni. Fu esattamente questo che fece Misty. Harry era la versione di mezz'età dell'uomo che avrebbe sposato. Alto, con le basette grigie, il naso dritto e il mento lungo con la fossetta. Ora, quando Misty chiude gli occhi e cerca di visualizzare Harrow Wilmot, ciò che vede sono ceneri sparse dall'alto degli scogli di Waytansea Point. Una lunga nuvola grigia. Se il dottor Touchet usi la stessa stanza anche per sistemare i morti, Misty non lo sa. Se campa abbastanza a lungo, sarà lui a sistemare il corpo di Grace Wilmot. È lui che è venuto quando hanno trovato Peter. Quando ti hanno trovato. Se mai staccheranno la spina, è probabile che sia lui a sistemare il corpo. Il tuo corpo. Il dottor Touchet la tasta sotto le braccia. Affonda le dita in cerca di noduli. Di tumori. Sa esattamente in che punto premere la spina dorsale per farti piegare la testa all'indietro. Le perle finte sprofondate nella pelle dietro il collo. I suoi occhi, le iridi sono troppo distanziate perché stia fissando te. Canticchia qualcosa. Con lo sguardo fisso altrove. Si capisce che è abituato a lavorare con i morti. Seduta sul lettino, Misty osserva la scena allo specchio e dice: «Cosa c'era una volta a Waytansea Point?». E il dottor Touchet trasalisce, sbigottito. Alza lo sguardo, con le sopracciglia inarcate per la sorpresa. Come se un morto avesse appena parlato. «Giù a Waytansea Point» dice Misty. «Ci sono delle statue, come se una volta fosse stato un parco. Cosa c'era?» Il dito si conficca a fondo tra i tendini dietro il collo, e il medico dice: «Prima che da queste parti avessimo un crematorio, quello era il nostro cimitero». Sarebbe anche piacevole, se solo non avesse le dita così fredde. Misty però di lapidi non ne ha viste. Sondandola con le dita in cerca di linfonodi sotto la mascella, lui dice: «Lì intorno c'è un mausoleo scavato nella collina». Fissando il muro, corruga la fronte e dice: «Roba di almeno due secoli fa. Grace ne sa di sicuro più di me». La grotta. La piccola banca di pietra. L'edificio di stato con le colonne elaborate e l'arco scolpito, tutto in rovina, tutto tenuto insieme dalle radici
degli alberi. Il cancello di ferro chiuso con la catena, il buio dentro. Il mal di testa batte e ribatte il chiodo sempre più a fondo. I diplomi sulle pareti verdi piastrellate dell'ambulatorio sono ingialliti, offuscati sotto i vetri. Macchiati d'umidità. Di cacche di mosca. Daniel Touchet, dottore in medicina. Tenendole il polso tra due dita, il dottor Touchet le controlla il battito cardiaco con l'orologio da polso. Con il muscolo triangolare che gli tende verso il basso gli angoli della bocca formando un broncio, il dottore le appoggia lo stetoscopio freddo tra le scapole. Dice: «Misty, ora devi farmi un bel respiro profondo e trattenere il fiato». La fitta gelida dello stetoscopio si sposta qua e là per la schiena. «Adesso butta fuori» dice lui. «E fammi un altro respiro.» Misty dice: «Sa se... per caso Peter si è fatto fare una vasectomia?». Misty respira di nuovo, a fondo, poi dice: «Peter mi ha detto che Tabbi era un miracolo di Dio, per non farmi abortire». E il dottor Touchet dice: «Misty, quanto stai bevendo ultimamente?». Questo cazzo di paese è talmente piccolo. E la povera Misty Marie è l'ubriacona del villaggio. «All'hotel è venuto un detective della polizia» dice Misty. «Voleva sapere se qui sull'isola abbiamo il Ku Klux Klan.» E il dottor Touchet dice: «Ucciderti non salverà tua figlia». Parla come suo marito. Come te, caro, dolce Peter. E Misty dice: «Non salverà mia figlia da cosa?». Misty si volta per incrociare il suo sguardo e dice: «Ci sono i nazisti, da queste parti?». E guardandola il dottor Touchet sorride, dice: «Certo che no». Si sposta alla scrivania e prende una cartella con dentro alcuni fogli di carta. Scrive qualcosa. Guarda il calendario sulla parete dietro la scrivania. Guarda l'orologio che ha al polso e scrive qualcosa nella cartella. La sua calligrafia. La gambetta delle lettere scende parecchio. Sotto la riga, nel subconscio, impulsiva. Avida, ingorda, malvagia, direbbe Angel Delaporte. Il dottor Touchet dice: «Allora, ultimamente stai facendo qualcosa di diverso dal solito?». E Misty gli dice sì. Sta disegnando. Per la prima volta dai tempi del college Misty sta disegnando, dipinge un pochino, perlopiù acquarelli. Nella sua soffitta. Nel tempo libero. Ha montato il cavalletto vicino alla finestra, in modo da vedere la costa fino a Waytansea Point. Ogni giorno lavora a un disegno diverso. Frutto della sua immaginazione. La lista dei de-
sideri di una bimba bianca con le pezze al culo: grandi case, matrimoni in chiesa, picnic sulla spiaggia. Ieri Misty ha lavorato finché non si è accorta che fuori era buio. Cinque o sei ore scomparse. Svanite come una lavanderia dispersa a Seaview. Triangolodellebermudate. Misty dice al dottor Touchet: «Ho sempre mal di testa, però quando dipingo un po' mi passa». La scrivania è di metallo verniciato, del tipo che ti aspetteresti di vedere nell'ufficio di un ingegnere o di un contabile. Di quelle con i cassetti che si aprono scorrendo sulle rotelline e che quando si chiudono fanno il rumore di un tuono. Il poggiagomiti è verde e di feltro. Sulla parete dietro ci sono il calendario, i vecchi diplomi. Con quella pelata coperta di macchie senili e i pochi capelli sottili pettinati col riporto da un orecchio all'altro, il dottor Touchet potrebbe essere un ingegnere. Con quegli occhiali spessi e rotondi dalla montatura in acciaio e l'orologio massiccio col cinturino in metallo, potrebbe essere un contabile. Dice: «Tu hai fatto il college, vero?». L'accademia delle belle arti, precisa Misty. Ma non si è diplomata. Ha abbandonato. Sono venuti ad abitare qui quand'è morto Harrow, per occuparsi della madre di Peter. Poi è arrivata Tabbi. Poi Misty si è addormentata, e quando si è risvegliata era grassa e stanca e di mezz'età. Il dottore non ride. Come biasimarlo. «Nei corsi di storia» le dice, «vi hanno fatto studiare anche i jain? I buddisti jain?» Non in quelli di storia dell'arte, gli dice Misty. Lui apre uno dei cassetti della scrivania e tira fuori un flacone giallo pieno di pillole. «Non mi raccomanderò mai abbastanza» dice. «Queste Tabbi non deve vederle nemmeno da lontano.» Apre il flacone e se ne fa scendere un paio in mano. Sono capsule di gelatina trasparente, di quelle che si aprono in due. Dentro c'è una polverina impalpabile verde scuro che scivola su e giù. Il messaggio scrostato sul davanzale della finestra di Tabbi: Quando avranno finito con voi, morirete. Il dottor Touchet le piazza il flacone sotto il naso e dice: «Prendile solo quando hai mal di testa». Non c'è etichetta. «È un composto a base di erbe. Dovrebbe aiutarti a trovare la concentrazione». Misty dice: «Qualcuno è mai morto di sindrome di Stendhal?». E il dottore dice: «Perlopiù sono alghe verdi, con un po' di corteccia di
salice bianco e polline d'api». Rimette le capsule nel flacone e lo chiude. Appoggia il flacone sul tavolo, accanto alla coscia di Misty. «Puoi bere» dice, «ma con moderazione.» Misty dice: «Io bevo solo con moderazione». E lui, girandosi verso la scrivania: «Se lo dici tu». Questi cazzo di paesini. Misty dice: «Com'è morto il padre di Peter?». E il dottor Touchet: «A te Grace Wilmot cos'ha detto?». Niente. Non ne ha mai fatto parola. Quando sparsero le ceneri, Peter disse a Misty che aveva avuto un infarto. Misty dice: «Grace sostiene che è stato un tumore al cervello». E il dottor Touchet dice: «Sì, esatto. Proprio così». Richiude il cassetto di metallo della scrivania con un rumore di tuono. Dice: «Ho saputo da Grace che hai un talento molto promettente». Per la cronaca, oggi il tempo è sereno e soleggiato, ma piovono stronzate. Misty gli chiede chi erano quei buddisti che ha menzionato. «I buddisti jain» dice lui. Prende la camicetta dal gancio sulla porta e gliela porge. Sotto le maniche, il tessuto è macchiato di sudore. Il dottor Touchet si sposta alle spalle di Misty, reggendole la camicetta perché ci infili dentro le braccia. Dice: «Quello che voglio dire è che a volte, per un artista, la sofferenza cronica può essere un dono». 17 luglio Quand'erano all'accademia, Peter diceva che tutto ciò che facciamo è un autoritratto. Magari somiglia a san Giorgio e il drago, oppure al ratto delle sabine, ma l'angolazione, la luce, la composizione, la tecnica, sei sempre tu. Persino il motivo che ti spinge a scegliere una particolare scena sei tu. Ogni colore e ogni pennellata. Peter diceva sempre: «L'unica cosa che un artista può fare è descrivere la sua faccia». Sei condannato a essere te stesso. Questo, dice, ci lascia liberi di raffigurare ciò che vogliamo, dal momento che raffiguriamo sempre noi stessi. La calligrafia. Il modo di camminare. Il motivo decorativo delle porcellane che scegli. Sei sempre tu che ti tradisci. Ogni cosa che fai rivela la tua
mano. Ogni cosa è un autoritratto. Ogni cosa è un diario. Con i cinquanta dollari di Angel Delaporte, Misty compra un pennello da acquarelli rotondo in pelo di bue numero cinque. Compra un paffuto pennello in pelo di scoiattolo numero quattro per dipingere i guazzi. Un pennello rotondo numero due in pelo di cammello. Un pennello appuntito di zibellino numero sei a lingua di gatto. E uno largo e piatto, per gli sfondi, un numero dodici. Misty compra una tavolozza per gli acquarelli, un vassoio rotondo d'alluminio con dieci coppette concave, simile a una teglia per cuocere i muffin. Compra qualche tubetto di gouache. Verde Cipro, verde veronese, verde linfa e verde Winsor. Compra del blu di Prussia, e un tubetto di carminio di robbia. Compra del nero Havannah e del nero avorio. Misty compra del fluido correttore bianco latte per correggere gli errori. E della preparazione giallo pipì su cui dipingere all'inizio perché gli errori vengano via strofinando. Compra gomma arabica del colore ambrato di una birra sgasata, per impedire ai colori di mescolarsi sulla carta. E del granulato chiaro medio per dargli un aspetto ruvido. Compra un blocco di carta da acquarello a grana fine pressata a freddo 48x60 cm. Il nome commerciale per i fogli di questa misura è "Royal." Un foglio 58x71 è un "Elephant". Quelli 67x101 sono i "Double Elephant." Carta da 200 grammi per metro quadro, non trattata con acidi. Compra dei cartoni telati, ovvero delle tele tese e incollate su pannelli di cartone. Li compra nelle misure "Super-Royal", "Imperial" e "Antiquarian". Porta tutto quanto alla cassa, e il totale è talmente superiore a cinquanta dollari che deve usare la carta di credito. Quando provi la tentazione di rubare un tubetto di terra di Siena bruciata, è ora di prendere una delle pilloline alle alghe verdi del dottor Touchet. Peter diceva che il compito di un artista è quello di creare l'ordine dal caos. Raccogli dettagli, cerchi un filo conduttore, poi organizzi. Ricavi senso da elementi che non ne hanno. Combini pezzi di qualsiasi cosa. Sposti e riorganizzi. Crei un collage. Un montaggio. Assembli. Se sei al lavoro, e a ognuno dei tuoi tavoli c'è almeno una persona che aspetta qualcosa, e nonostante questo tu sei ancora nascosta in cucina a disegnare su pezzi di carta volanti, è ora di prendere una pillola. Quando presenti a qualcuno il conto della cena e sul retro hai disegnato un minuscolo studio di chiaroscuro che nemmeno sai cos'è, se non un'im-
magine che ti è venuta in mente. Non è niente, però hai il terrore di perderlo. Ecco, è ora di prendere una pillola. «Questi dettagli inutili» diceva sempre Peter «rimangono tali finché non sei tu a collegarli tutti insieme.» Peter diceva sempre: «Niente ha un significato, preso da solo». Per la cronaca, oggi in sala da pranzo Grace Wilmot era con Tabbi di fronte alla vetrinetta che occupa quasi interamente una delle pareti. Al suo interno ci sono piatti di porcellana adagiati su piedistalli e illuminati da luci basse. Tazze su piattini. Grace Wilmot li indica, uno per uno. E Tabbi punta l'indice e dice: «Fitz and Floyd... Wedgwood... Noritake... Lenox...». E scuotendo la testa, Tabbi incrocia le braccia e dice: «No, non è vero». Dice: «Il motivo Oracle Grove ha una bordatura in oro a 14 carati. Il Venus Grove ce l'ha a 24 carati». La tua bambina, un'esperta in motivi decorativi di porcellane estinte. La tua bambina che ormai è un'adolescente. Grace Wilmot allunga un braccio verso Tabbi e le sposta qualche ciocca di capelli dietro l'orecchio, poi dice: «Questa bimba è un talento naturale, altroché». Con un vassoio di pietanze appoggiato su una spalla, Misty si ferma abbastanza da riuscire a chiedere a Grace: «Com'è morto Harrow?». E Grace distoglie lo sguardo dalle porcellane. Con il muscolo orbicolare che le fa sgranare gli occhi dice: «Perché me lo chiedi?». Misty le racconta della visita dal dottore. Dal dottor Touchet. E del fatto che secondo Angel Delaporte la calligrafia di Peter rivela certe cose sul suo rapporto con il padre. Tutti quei dettagli che presi da soli non significano niente. E Grace dice: «Il dottore ti ha dato da prendere qualche pillola?». Il vassoio è pesante, e il cibo si sta freddando, ma Misty dice: «Il dottore dice che Harrow aveva un cancro al fegato». Tabbi punta il dito e dice: «Gorham... Dansk...». E Grace sorride. «Proprio così. Un cancro al fegato» dice. «Come mai me lo chiedi?» Dice: «Pensavo che Peter te l'avesse detto». Per la cronaca, il tempo oggi è offuscato da versioni estremamente contraddittorie sulle cause della morte di tuo padre. Preso da solo, nessun dettaglio ha significato. E Misty dice che non può parlare. Ha troppo da fare. È l'ora di pranzo, l'ora di punta. Magari più tardi. All'accademia, Peter parlava sempre del pittore James McNeill Whistler,
e del fatto che Whistler aveva lavorato per il corpo genieri dell'esercito statunitense. Il suo compito era quello di disegnare i punti delle linee costiere dove era prevista la costruzione di un faro. Il problema è che Whistler non riusciva a trattenersi dal tratteggiare piccoli studi di figure umane ai margini. Disegnava vecchie, bambini, mendicanti, qualunque cosa vedesse per strada. Faceva il suo lavoro, documentava il territorio per il governo, ma non riusciva a ignorare tutto il resto. Non riusciva a lasciarsi sfuggire nulla. Uomini che fumavano la pipa. Bambini che facevano rotolare cerchi. Raccoglieva tutto quanto in schizzi posti ai margini del suo lavoro ufficiale. Per questo, naturalmente, il governo lo licenziò. «Quegli schizzi» diceva sempre Peter «oggi valgono milioni.» Lo dicevi sempre. Nella Sala del legno e dell'oro, il burro viene servito in piccoli contenitori di terracotta, solo che adesso su ciascuno dei panetti è incisa una piccola immagine. Un minuscolo studio. Magari raffigura un albero, o il declivio di una certa collina che Misty si è immaginata, da destra a sinistra. Uno scoglio, una cascata che scende da un canyon, e una piccola gola di roccia piena di ombre e di macigni coperti di muschio, e piante rampicanti che cingono i tronchi spessi degli alberi, e mentre lei si immagina tutto questo e lo disegna su un tovagliolo di carta la gente si alza e va al tavolo delle bevande a riempirsi le tazze di caffè da sola. La gente fa tintinnare i bicchieri con le forchette per attrarre la sua attenzione. Schiocca le dita. Il popolo dell'estate. Che non lascia mai la mancia. Una collina. Un torrente di montagna. Una grotta sulle rive di un fiume. Un viticcio d'edera. Tutti questi dettagli la raggiungono, e Misty non riesce a lasciarseli sfuggire. Alla fine del turno cena ha raccolto brandelli di fogli e tovaglioli di carta e ricevute di carte di credito, tutti con qualche dettaglio disegnato sopra. Nella sua stanza in soffitta, nella pila di fogli volanti, ha raccolto motivi di foglie e fiori che non ha mai visto. In un altro mucchio ci sono le forme astratte che sembrano rocce e cime di montagne all'orizzonte. Ci sono le forme ramificate degli alberi, i grappoli di cespugli. Cose che potrebbero essere rovi. Uccelli. A quello che non capisci puoi dare qualunque significato. Quando te ne stai seduta sul gabinetto per ore, a disegnare cose senza senso sulla carta igienica finché il sedere quasi non ti si stacca: prendi una pillola.
Quando smetti definitivamente di andare al lavoro, te ne stai nella tua stanza e ordini i pasti in camera. Quando dici a tutti che non ti senti bene per poter stare in piedi giorno e notte a disegnare paesaggi che non hai mai visto, allora è tempo di prendere un'altra pillola. Quando tua figlia viene a bussare e ti implora di darle il bacio della buona notte, e tu continui a ripeterle di andare a letto, che passi da lei tra un minuto, e alla fine sua nonna la porta via e la senti piangere mentre si allontanano in corridoio, lì di pillole prendine due. Quando trovi il braccialetto di strass che tua figlia ti ha infilato sotto la porta, prendine un'altra. Quando nessuno sembra notare il tuo pessimo comportamento e tutti quanti si limitano a sorridere e a dire: «Allora, Misty, come va con la pittura?», è l'ora della pillola. Quando il mal di testa non ti lascia mangiare. Quando i pantaloni cascano perché ti è sparito il sedere. Quando passi davanti a uno specchio e non ti riconosci in quel fantasma esile e curvo. Quando le tue mani smettono di tremare solo se stringono un pennello o una matita. Allora prendi una pillola. E quando non fai in tempo ad arrivare a metà flacone che già il dottor Touchet te ne ha lasciato un altro alla reception col tuo nome sopra. Quando non riesci a smettere di lavorare. Quando completare quest'unico progetto è l'unica cosa a cui riesci a pensare. Allora prendi una pillola. Perché ha ragione Peter. Hai ragione tu. Perché ogni cosa è importante. Ogni dettaglio. Solo che non sappiamo perché, non ancora. Ogni cosa è un autoritratto. Un diario. La storia del tuo consumo di droghe in una ciocca di capelli. Le unghie delle dita. I dettagli da autopsia. Le pareti interne dello stomaco sono un documento. I calli sulle mani rivelano tutti i tuoi segreti. I denti ti tradiscono. L'accento. Le rughe intorno alla bocca e agli occhi. Ogni cosa che fai rivela la tua mano. Peter diceva sempre che il compito di un artista è quello di prestare attenzione, raccogliere, organizzare, archiviare, preservare e infine stendere un resoconto. Documentare. Preparare la presentazione. Il compito di un artista è non dimenticare. 21 luglio tre quarti di luna
Angel Delaporte solleva un dipinto, poi un altro, e sono tutti acquarelli. I soggetti variano, alcuni sono il semplice profilo di un orizzonte, altri sono paesaggi di campi assolati. Boschi di pini. Il profilo di una casa o di un paese in secondo piano. Nel viso di Angel soltanto gli occhi si muovono, spostandosi rapidamente da un foglio all'altro. «Incredibile» dice. «Lei ha un aspetto pessimo, ma i suoi lavori... mio Dio.» Per la cronaca, Angel e Misty si trovano a Oysterville. Nel soggiorno scomparso di qualcuno. Ci sono entrati carponi dall'ennesimo buco, per scattare foto e vedere i graffiti. I tuoi graffiti. L'aspetto di Misty, il fatto che non riesca a scaldarsi, nemmeno con due maglioni addosso, i suoi denti che battono. Il tremore delle sue mani quando porge un disegno ad Angel fa vibrare il foglio di carta da acquarello rigido. È una specie di virus intestinale, uno strascico dell'intossicazione alimentare. Anche qui dentro, in una stanza sigillata e semibuia dove l'unica luce è quella che filtra attraverso le tende, Misty deve tenere gli occhiali da sole. Angel si porta dietro la borsa con la macchina fotografica. Misty, il suo portfolio. È quello vecchio di plastica nera che usava a scuola, una valigetta sottile con una cerniera su tre lati che ti permette di aprirla e appoggiarla in piano. Elastici sottili tengono fermi gli acquarelli su un lato del portfolio. Sull'altro ci sono gli schizzi, infilati in tasche di varie misure. Angel scatta foto, e intanto Misty apre il portfolio sul divano. Quando tira fuori il flacone la mano le trema così forte che si sentono le pillole sbatacchiare all'interno. Estraendo con due dita una capsula dal fondo del flacone, Misty dice ad Angel: «Alghe verdi. Sono per il mal di testa». Misty si infila la capsula in bocca e dice: «Le faccio vedere un po' di disegni, così mi dice cosa ne pensa». Da un capo all'altro del divano, Peter ha scritto qualcosa con la vernice spray. Le sue parole nere svolazzano tra foto di famiglia incorniciate e appese alla parete. Sopra cuscini ricamati. Paralumi di seta. Ha chiuso le tende pieghettate per scriverci sopra le sue parole. Le hai chiuse. Angel le prende di mano il flacone di pillole e lo osserva alla luce della finestra. Scuote il flacone, le capsule al suo interno. Dice: «Sono enormi».
La capsula di gelatina che Misty ha in bocca si sta ammorbidendo, e dentro c'è un gusto di sale e di alluminio, il gusto del sangue. Angel prende la fiaschetta di gin dalla borsa della macchina fotografica e gliela porge, e Misty manda giù il boccone amaro. Per la cronaca, lei ha bevuto il suo liquore. Una cosa che impari all'accademia è che per le droghe esiste un'etichetta. Devi condividerle. Misty dice: «Prego. Ne prenda una». E Angel apre il flacone e ne fa uscire due. Una se la infila in tasca, dicendo: «Per dopo». L'altra la manda giù col gin e fa una smorfia disgustata, piegandosi in avanti con la lingua rossa e bianca di fuori. Gli occhi chiusi. Immanuel Kant e la gotta. Karen Blixen e la sifilide. Ad Angel Delaporte Peter direbbe che la sofferenza è la chiave dell'ispirazione. Allargando gli schizzi e gli acquarelli sul divano Misty dice: «Che gliene pare?». Angel prende un foglio, lo posa, passa a quello successivo. Con la testa fa: no. Un movimento laterale impercettibile, quasi una paralisi. Dice: «Semplicemente incredibile». Solleva un altro disegno e dice: «Che applicativo usa?». Intende il pennello? «Di zibellino» dice Misty. «A volte di scoiattolo, o di coda di bue.» «No, sciocchina» dice lui, «sul computer, per le strutture. Roba del genere non si può fare a mano.» Batte le dita sull'immagine di un castello, poi su quella di un cottage. A mano? «Non usa solo righello e compasso, vero?» dice Angel. «Anche un goniometro? Gli angoli sono perfetti, tutti identici. Usa un normografo, una mascherina, è così?» Misty dice: «Cos'è un compasso?». «Ma sì, quei cosi che si usano in geometria, al liceo» dice Angel, aprendo il pollice e l'indice per farle vedere. «Una delle due gambe ha una punta, e nell'altra si mette una mina. Serve per disegnare curve e cerchi perfetti.» Prende il disegno di una casa su una collina che sovrasta una spiaggia, con l'oceano e gli alberi dipinti in varie sfumature di azzurro e di verde. L'unico colore caldo è un puntino giallo, una luce dentro una finestra. «Questo potrei passare la vita, a guardarlo» dice. Sindrome di Stendhal.
Dice: «Le offro cinquecento dollari». E Misty dice: «Non posso». Angel prende un altro dipinto dal portfolio e dice: «E questo?». Misty non può venderne nessuno. «Che ne dice di mille?» rilancia lui. «Le do mille dollari solo per questo qui.» Mille dollari. Eppure, Misty dice: «No». Angel la guarda e dice: «Gliene do diecimila per tutti quanti. Diecimila dollari. In contanti». Misty fa per dire di no, ma... Angel dice: «Ventimila». Misty sospira, e... Angel dice: «Cinquantamila dollari». Misty abbassa lo sguardo sul pavimento. «Come mai» dice Angel, «ho la sensazione che direbbe no anche a un milione di dollari?» Perché quei disegni non sono finiti. Non sono perfetti. La gente non può vederli, non ancora. Ce ne sono altri che non ha nemmeno cominciato. Misty non può venderli perché le servono come studi per qualcosa di più grande. Fanno tutti parte di un qualcosa che ancora non riesce a vedere. Sono indizi. Va a sapere perché facciamo ciò che facciamo. Misty dice: «Perché mi sta offrendo tutti questi soldi? È una specie di test?». E Angel apre le cerniere della sua borsa e dice: «Voglio farle vedere una cosa». Tira fuori alcuni strumenti luccicanti di metallo. Uno è formato da due bacchette appuntite, congiunte da un lato a formare una V. L'altro è un semicerchio di metallo a forma di D con le tacche per i millimetri e i centimetri sul lato dritto. Angel appoggia la D di metallo sullo schizzo di una fattoria e dice: «Le sue linee rette sono tutte assolutamente dritte». Appoggia la D sull'acquarello di una villetta, e anche lì le linee sono tutte perfette. «Questo è un goniometro» dice. «Si usa per misurare gli angoli.» Angel appoggia il goniometro su un disegno, poi su un altro, e dice: «Gli angoli sono tutti perfetti. Angoli di novanta gradi perfetti. Angoli di quarantacinque gradi perfetti». Dice: «Me ne sono accorto dal disegno della poltrona». Prende lo strumento a forma di V e dice: «Questo è un compasso. Serve
per disegnare curve e cerchi perfetti». Conficca la punta di una delle due gambe al centro di uno schizzo a carboncino. Fa ruotare l'altra gamba intorno alla prima e dice: «I cerchi sono tutti perfetti. I girasoli, gli abbeveratoi per gli uccelli. Ogni curva, perfetta». Angel le indica i fogli sparsi sul divano verde e dice: «Lei disegna figure geometriche perfette. Non è possibile». Per la cronaca, il tempo oggi si sta facendo davvero molto, molto incazzato. L'unica persona che non pretende che Misty diventi una grande pittrice le sta dicendo che è impossibile. Quando il tuo unico amico ti dice che mai al mondo sarai una grande artista, un'artista con un talento e una capacità innati, allora prendi una pillola. Misty dice: «Senta, sia io che mio marito abbiamo fatto l'accademia». Dice: «Ci hanno insegnato a disegnare». E Angel le chiede se ricalca delle fotografie. Usa una lavagna luminosa? Una camera obscura? Il messaggio di Constance Burton: "Puoi farlo con la mente". E Angel prende un pennarello dalla borsa della macchina fotografica e glielo dà, dicendo: «Tenga». Le indica la parete e dice: «Mi disegni un cerchio con un diametro di dieci centimetri, qui». Con il pennarello, senza nemmeno guardare, Misty gli disegna un cerchio. E Angel appoggia il lato dritto del goniometro, quello con le tacche dei millimetri, sul cerchio. Ed è di dieci centimetri. Dice: «Mi disegni un angolo di trentasette gradi». Tac, tac, e Misty traccia sul muro due linee che si intersecano. Angel ci appoggia il goniometro, e sono trentasette gradi esatti. Le chiede un cerchio col diametro di venti centimetri. Una linea lunga quindici. Un angolo di settanta gradi. Una curva a S perfetta. Un triangolo equilatero. Un quadrato. E Misty in un batter d'occhio gli disegna tutto quanto. Stando al righello, al goniometro e al compasso, sono tutti perfetti. «Capisce cosa intendo?» dice Angel. Le punta in faccia il compasso e dice: «Qui c'è qualcosa che non va. Prima in Peter, adesso in lei». Per la cronaca, a quanto pare Angel la preferiva quand'era solo una cazzo di cicciona sciatta. Una cameriera del Waytansea Hotel. Un'aiutante da indottrinare su Stanislavskij o sulla grafologia. Prima era l'allieva di Peter. Ora di Angel.
Misty dice: «Io capisco solo una cosa: lei non riesce ad accettare il fatto che io possa semplicemente avere un incredibile talento naturale». E Angel trasalisce, sbigottito. Alza lo sguardo, con le sopracciglia inarcate per la sorpresa. Come se un morto avesse appena parlato. Dice: «Misty Wilmot, vuole decidersi ad ascoltare se stessa?». Angel le agita contro la punta del compasso e dice: «Qui non si tratta di semplice talento». Punta il dito verso i cerchi e gli angoli perfetti tracciati sulla parete e dice: «Questa è roba da far vedere alla polizia». Riponendo acquarelli e schizzi nel portfolio Misty dice: «E perché?». Chiudendo la cerniera dice: «Così mi arrestano perché sono un'artista troppo brava?». Angel tira fuori la macchina fotografica e fa avanzare la pellicola al fotogramma successivo. Monta il flash sul corpo della macchina. Guardandola attraverso il mirino dice: «Ci servono altre prove». Dice: «Mi disegni un esagono. Mi disegni un pentagono. Mi disegni una spirale perfetta». E con il pennarello Misty glieli disegna, uno dopo l'altro. Le sue mani smettono di tremare solo quando disegna o dipinge. Sulla parete davanti a lei, Peter ha scritto: "... vi distruggeremo con il vostro stesso bisogno, con la vostra stessa avidità...". L'hai scritto tu. L'esagono. Il pentagono. La spirale perfetta. Angel fotografa tutto. Accecati dal flash, non si accorgono che la padrona di casa ha infilato la testa dentro il buco. La donna vede Angel che scatta le sue foto. Misty che disegna sul muro. Si prende la testa tra le mani e dice: «Ma che diavolo state facendo, voi due? Piantatela!». Dice: «Cos'è, avete deciso di fare un'installazione artistica permanente?». 24 luglio Giusto perché tu lo sappia, oggi il detective Stilton ha chiamato Misty. Vuole fare un saltino a trovare Peter. Vuole fare un saltino a trovarti. Al telefono dice: «Quando è morto suo suocero?». Il pavimento intorno a Misty, il letto, l'intera stanza, ogni angolo è disseminato di fogli di carta da acquarello umidi e appallottolati. Malloppetti accartocciati di azzurro cielo e verde Winsor riempiono il sacchetto marrone con cui ha portato a casa i materiali acquistati. Le matite di grafite, i
pastelli colorati, gli oli e gli acrilici e i gouache, Misty ha sprecato tutto quanto trasformandolo in spazzatura. I pastelli a olio unticci e quelli morbidi e gessosi sono ridotti a mozziconi così piccoli che non riesci a tenerli in mano. La carta è quasi finita. Quello che all'accademia non ti insegnano è come intrattenere una conversazione telefonica e dipingere al tempo stesso. Con il telefono in una mano e un pennello nell'altra, Misty dice: «Il papà di Peter? Quattordici anni fa». Stendendo i colori con un lato della mano, creando sfumature con il polpastrello del pollice, Misty fa lo stesso errore di Goya, e si prepara una bella encefalopatia da piombo. Sordità. Depressione. Avvelenamento cutaneo. Il detective Stilton dice: «Non esistono documenti che attestino la morte di Harrow Wilmot». Per appuntire il pennello, Misty lo torce con la bocca. Dice: «Abbiamo sparso le sue ceneri». Dice: «È stato un infarto. Forse un tumore al cervello». Sulla lingua, il colore è acidulo. Sotto i molari è granuloso. E il detective Stilton dice: «Non esiste un certificato di morte». Misty dice: «Forse l'hanno simulata». Non sa fare altre ipotesi. Grace Wilmot e il dottor Touchet, sull'isola tutti si preoccupano un sacco dell'immagine. E Stilton dice: «L'hanno? Chi?». I nazisti. Il Ku Klux Klan. Con un pennello per sfondi numero dodici in pelo di cammello, Misty sta stendendo un perfetto strato di azzurro sopra gli alberi di un orizzonte di montagne perfette perfettamente frastagliato. Con un pennello numero due in pelo di zibellino, aggiunge la luce del sole sulla cresta delle sue onde perfette. Curve perfette e linee dritte e angoli esatti, e quindi affanculo anche Angel Delaporte. Per la cronaca, sulla carta, il tempo è esattamente come lo vuole Misty. Perfetto. Per la cronaca, il detective Stilton dice: «Perché secondo lei suo suocero avrebbe dovuto simulare la sua morte?». Misty dice che stava solo scherzando. Ovvio che Harry Wilmot è morto. Con piccoli tocchi leggeri di pennello numero quattro in pelo di scoiattolo, Misty crea le ombre del bosco. Giorni interi sprecati al chiuso di questa stanza, e niente di ciò che ha fatto vale la metà dello schizzo di una poltrona tirato giù mentre si stava cacando addosso. A Waytansea Point. Minacciata da un'allucinazione. Con gli occhi chiusi, intossicata dal cibo.
E quell'unico schizzo l'ha venduto per cinquanta miseri dollari. Al telefono, il detective Stilton dice: «È ancora lì?». Misty dice; «Dipende da cosa intende per lì». Dice: «Ci vada. Vada a trovare Peter». Sta aggiungendo fiori perfetti in un prato perfetto con un pennello sintetico numero due. Dove sia Tabbi, Misty non lo sa. Se in questo istante debba o meno trovarsi al lavoro, poco le importa. L'unica cosa di cui è certa è che sta lavorando. Che la testa non le fa male. Che le mani non tremano. «Il problema» dice Stilton, «è che all'ospedale vogliono che ci sia anche lei quando vado a trovare suo marito.» E Misty dice che non può. Deve dipingere. Ha una figlia tredicenne da tirare su. È alla seconda settimana di emicrania. Con un pennello di zibellino numero quattro sta tracciando una fascia di grigio chiaro attraverso il prato. Lastrica l'erba. Scava una buca. Getta fondamenta. Sulla carta davanti a lei, il pennello uccide alberi e li trascina via. Con il colore marrone, Misty solca il pendio del prato. Misty spiana. Il pennello smuove la terra sotto l'erba. I fiori spariscono. Dalla fossa si innalzano muri di pietra bianca. Nei muri si aprono finestre. Spunta una torre. Una cupola si gonfia al centro dell'edificio. Scale discendono dalle porte. Una ringhiera si dispiega lungo le terrazze. Un'altra torre guizza verso il cielo. Una nuova ala si allarga a coprire altro prato, facendo arretrare il bosco. È Xanadu. San Simeon. Biltmore. Mar a Lago. È ciò che la gente coi soldi costruisce per sentirsi protetta e starsene sola. I luoghi in cui la gente crede che sarà felice. Questo nuovo edificio non è altro che l'anima di una persona ricca messa a nudo. È il paradiso alternativo destinato a gente troppo ricca per interessarsi a quello vero. Puoi dipingere qualsiasi cosa perché l'unica cosa che riveli è te stesso. E al telefono una voce dice: «Diciamo per domani alle tre, signora Wilmot?». Sulla linea perfetta del tetto che sovrasta un'ala compaiono statue. Dentro una terrazza perfetta si apre una piscina. Di prato quasi non ne resta più, e intanto una nuova rampa di scale corre giù verso il limitare di boschi perfetti. Ogni cosa è un autoritratto. Ogni cosa è un diario. E la voce al telefono dice: «Signora Wilmot?». Rampicanti si inerpicano sui muri. Dalle tegole del tetto germogliano camini.
E la voce al telefono dice: «Misty?». La voce dice: «Ha mai richiesto il rapporto del medico legale sul tentato suicidio di suo marito?». Il detective Stilton dice: «Sa dove suo marito potrebbe essersi procurato i sonniferi?». Per la cronaca, il problema dell'accademia delle belle arti è che ti possono anche insegnare la tecnica e il mestiere, ma non ti possono dare il talento. L'ispirazione non si può comprare. Alle epifanie non ci arrivi ragionando. Sviluppando una formula. Una mappa per raggiungere l'illuminazione. «Il sangue di suo marito» dice Stilton «era pieno di fenobarbitale sodico.» E sul posto non c'era traccia di farmaci. Niente flaconi di pillole, né acqua. Non esistono prove che a Peter sia stato prescritto qualcosa. Continuando a dipingere, Misty gli chiede dove vuole arrivare. E Stilton dice: «Magari può chiedersi chi avrebbe potuto volerlo morto». «Soltanto io» dice Misty. Poi se ne pente. Il dipinto è finito, perfetto, bellissimo. È un luogo che Misty non ha mai visto. Da dove le sia venuto, non ne ha idea. Poi, con un pennello numero dodici a lingua di gatto carico di nero avorio, cancella tutto ciò che ha davanti. 25 luglio Le case lungo Gum Street e Larch Street hanno tutte un'aria così imponente, la prima volta che le vedi. Alte tre o quattro piani, con le colonne bianche, risalgono tutte all'ultimo boom economico, ovvero a ottant'anni fa. Un secolo. Una dopo l'altra, si ergono tra alberi dalle chiome folte grandi come nubi temporalesche verdi, noci e querce. Si susseguono lungo Cedar Street, fronteggiandosi da dietro i rispettivi prati ondulati. La prima volta che le vedi hanno un'aria così lussuosa. «Facciate di templi» diceva a Misty Harrow Wilmot. Suppergiù a partire dal 1798, gli americani cominciarono a costruire semplici ma massicce facciate neoclassiche. Giunti al 1824, diceva, quando William Strickland progettò la Second Bank of the United States a Philadelphia, il processo era ormai divenuto irreversibile. Di lì in poi, case grandi e piccole dovettero per forza avere sul lato anteriore una fila di colonne scanalate e un timpano. La gente le chiamava "case-quinta", perché i dettagli sfarzosi erano tutti confinati su un unico lato. Il resto dell'edificio era normale.
Una descrizione che calza per qualsiasi edificio dell'isola. Tutta facciata. Tutta una prima impressione. Dal Campidoglio di Washington al più minuscolo dei villini, quello che gli architetti definirono "il cancro greco" non risparmiò nulla. «Per l'architettura» diceva Harrow, «fu la fine del progresso e l'inizio del riciclaggio.» Era andato a prendere Misty e Peter alla stazione degli autobus di Long Beach, e in macchina si erano poi diretti a prendere il traghetto. Le case dell'isola sembrano tutte imponenti, finché non ti accorgi della vernice scrostata che si accumula alla base delle colonne. Sui tetti, le scossaline sono arrugginite e penzolano oltre i bordi in strisce rosse ricurve. Pezzi di cartone marroncino tappano le finestre nei punti in cui i vetri non ci sono più. Dalle stalle alle stelle e di nuovo alle stalle nel giro di tre generazioni. Nessun investimento può essere tuo per sempre. Fu Harry Wilmot a dirglielo. I soldi stavano già finendo. «Una generazione fa i soldi» le disse una volta Harrow. «Quella successiva li protegge. La terza li dilapida. La gente dimentica sempre quanto ci vuole per costruire un patrimonio familiare.» Le parole di Peter: "... il vostro sangue è il nostro oro...". Per la cronaca, mentre Misty sta andando all'appuntamento con il detective Stilton, mentre si fa le tre ore di macchina che occorrono per raggiungere il magazzino dov'è conservato Peter, cerca di richiamare a sé tutti i suoi ricordi di Harrow Wilmot. La prima volta che Misty vide Waytansea Island fu quando la visitò con Peter, quando il padre di lui li portò a fare il giro dell'isola nella vecchia Buick di famiglia. A Waytansea tutte le macchine erano vecchie, pulite e tirate a lucido, ma con i sedili rattoppati con lo scotch trasparente per non far uscire l'imbottitura. Il cruscotto era crepato per il troppo sole. Le finiture cromate e i paraurti erano chiazzati e ricoperti di bollicine di ruggine per via dell'aria salata. Le vernici erano opache, coperte da un sottile strato bianco di ossidazione. Harrow aveva i capelli folti e bianchi, che gli formavano una coroncina sulla fronte. Gli occhi erano azzurri o grigi. I denti, più gialli che bianchi. Il mento e il naso affilati e prominenti. Tutto il resto era magro, pallido. Ordinario. Gli puzzava l'alito. Anche lui con l'interno marcio, come una vecchia casa dell'isola. «Questa macchina ha dieci anni» disse. «Per un'auto da mare è una vi-
ta.» Li portò al traghetto e aspettarono sul molo, scrutando il verde scuro dell'isola al di là dell'acqua. Per Peter e Misty erano le vacanze estive, e cercavano lavoretti, sognando di vivere in città, in una città qualsiasi. Parlavano di abbandonare gli studi e trasferirsi a New York o Los Angeles. Aspettando il traghetto dicevano: potremmo continuare gli studi artistici a Chicago o a Seattle. In un qualche posto dove entrambi avrebbero potuto iniziare una carriera. Misty ricorda che quel giorno dovette sbattere la portiera dell'auto tre volte, prima che si decidesse a rimanere chiusa. Era l'auto in cui Peter ha cercato di uccidersi. L'auto in cui hai cercato di ucciderti. In cui hai preso quei sonniferi. La stessa auto che Misty sta guidando in questo momento. Adesso, stampate sulla fiancata, ci sono parole giallo sgargiante che dicono: "Bonner & Mills - Per quando non hai più voglia di ricominciare da capo". A quello che non capisci puoi dare qualunque significato. Sul traghetto, quel primo giorno, Misty rimase seduta in macchina, mentre Harrow e Peter se ne stavano appoggiati al parapetto. Harrow si avvicinò a Peter e disse: «Sei sicuro che sia lei?». Ti si avvicinò. Da padre a figlio. E Peter disse: «Ho visto i suoi dipinti. È proprio lei...». Harrow inarcò le sopracciglia, con il muscolo corrugatore che gli raccoglieva la pelle della fronte in lunghe rughe, e disse: «Lo sai cosa vuol dire, questo». E Peter sorrise, ma solo sollevando il muscolo elevatore del labbro, il muscolo del ghigno, poi disse: «Certo, come no. Il mio solito culo». E suo padre annuì. Disse: «Vuol dire che ricostruiremo l'hotel, finalmente». La mamma hippie di Misty le diceva sempre che il sogno americano è quello di essere talmente ricchi da poter fuggire da chiunque. Howard Hughes nel suo attico. William Randolph Hearst a San Simeon. Biltmore. Tutte quelle lussuosissime dimore di campagna dove i ricchi possono esiliarsi. Tutti gli eden artigianali dove ci rifugiamo. Quando questi posti vanno in rovina, e succede sempre, il sognatore ritorna al mondo reale. «Gratta gratta, sotto ogni patrimonio» diceva sempre la mamma di Misty, «trovi il sangue di una, massimo due generazioni prima.» In teoria, ripeterlo doveva servire a rendere più piacevole la loro vita in roulotte. Lavoro minorile in miniere e fabbriche, diceva. Schiavitù. Droga. Frodi finanziarie. Scempi ecologici, disboscamenti, inquinamento, coltivazioni
estreme che portano all'estinzione. Monopoli. Malattie. Guerra. I patrimoni nascono tutti da cose sgradevoli. Malgrado sua madre, Misty era convinta che il futuro la aspettasse a braccia aperte. Al centro di terapia intensiva, Misty parcheggia e resta in macchina per un minuto, con lo sguardo rivolto alla terza fila di finestre. Alla finestra di Peter. Alla tua finestra. Ultimamente, Misty si aggrappa ai bordi di tutto ciò che incontra, agli stipiti delle porte, ai banconi, ai tavoli, agli schienali delle sedie. Per mantenere l'equilibrio. Misty non riesce a sollevare la testa se non a metà. Ogni volta che esce dalla sua stanza deve mettersi gli occhiali da sole, perché la luce le fa un male cane agli occhi. I vestiti le cascano flosci, fluttuano come se dentro non ci fosse niente. I capelli... ne restano di più sulla spazzola che non in testa. Intorno al suo vitino nuovo di zecca le cinture fanno tutte il giro doppio. Magra da soap opera in spagnolo. Con gli occhi infossati e iniettati di sangue che vede riflessi nello specchietto retrovisore, Misty potrebbe essere il cadavere di Paganini. Prima di scendere dalla macchina, Misty piglia un'altra di quelle pillole verdi alle alghe, e quando la manda giù con una lattina di birra, una fitta alla testa le trapassa il cervello. Al di là delle porte a vetri dell'atrio, il detective Stilton aspetta, guardandola attraversare il parcheggio. Con la mano che si aggrappa alle auto per non cadere. Mentre Misty sale i gradini dell'ingresso, una mano stringe la ringhiera e la trascina avanti. Il detective Stilton le apre la porta e dice: «Non mi sembra in formissima». È il mal di testa, gli spiega Misty. Forse sono i colori. Il rosso cadmio. Il bianco titanio. Certi colori a olio sono strapieni di piombo o di rame o di ossido di ferro. E non aiuta il fatto che gran parte dei pittori siano soliti torcersi il pennello in bocca per assottigliarne la punta. All'accademia ti mettono sempre in guardia, raccontandoti di Vincent Van Gogh e di Toulouse Lautrec. Di tutti quei pittori impazziti che hanno subito danni neurologici tali da dover dipingere con un pennello legato alla mano ormai inservibile. Colori tossici, assenzio, sifilide. Indebolimento dei polsi e delle caviglie, segno inequivocabile di avvele-
namento da piombo. Ogni cosa è un autoritratto. Incluso il tuo cervello sezionato in un'autopsia. La tua urina. Veleni, droghe, malattie. Ispirazione. Ogni cosa è un diario. Per la cronaca, il detective Stilton tutto questo se lo sta annotando. Documenta ognuna delle sue parole biascicate. Conviene che Misty chiuda quella bocca, prima che Tabbi venga data in affidamento. Si presentano alla donna della reception. Firmano il registro giornaliero delle visite e ricevono dei badge di plastica da appuntarsi al petto. Misty indossa una delle spille preferite di Peter, un fiore di strass gialli, con le pietre tutte scheggiate e opache. Sotto alcune, la placcatura in argento si è scrostata, e così non brillano. Potrebbero essere cocci di bottiglia in mezzo a una strada. Misty si appunta il badge di riconoscimento accanto alla spilla. E il detective dice: «Sembra antica». E Misty dice: «Me l'ha regalata mio marito quand'eravamo fidanzati». Mentre sono lì che aspettano l'ascensore, il detective Stilton dice: «Mi servono prove del fatto che nelle ultime quarantott'ore suo marito sia sempre stato qui». Il suo sguardo si sposta dai numeri lampeggianti dei piani a lei, poi dice: «E sarebbe opportuno che anche lei potesse documentare i suoi spostamenti nello stesso arco di tempo». Le porte dell'ascensore si aprono, e loro entrano. Le porte si chiudono. Misty preme il bottone del terzo piano. Mentre entrambi fissano le porte dall'interno, Stilton dice: «Ho un mandato d'arresto per lui». Si tasta la giacca sportiva, nel punto che copre la tasca interna. L'ascensore si ferma. Le porte si aprono. Escono. Il detective Stilton apre il suo block-notes e legge qualcosa, poi dice: «Conosce le persone che abitano al 346 di Western Bayshore Drive?». Misty lo guida giù per il corridoio, dicendo: «Dovrei?». «L'anno scorso suo marito ha effettuato dei lavori di ristrutturazione per loro» dice lui. La lavanderia scomparsa. «E quelli del 7856 Northern Pine Road?» dice Stilton. Il ripostiglio scomparso. E Misty dice sì. Certo. Ha visto cos'ha combinato Peter in quelle case,
però no, i proprietari non li conosceva. Il detective Stilton richiude il bloc-notes e dice: «Stanotte entrambe le case hanno subito un incendio. Cinque giorni fa ne è bruciata un'altra. E prima ancora è andata distrutta un'altra delle case ristrutturate da suo marito». Tutti incendi dolosi, dice. Tutte le case in cui Peter ha sigillato i suoi graffiti pieni d'odio perché qualcuno li trovasse stanno andando a fuoco. Ieri la polizia ha ricevuto la lettera di un gruppo che ne rivendica la responsabilità. L'Alleanza oceanica per la libertà. Abbreviato in AOL. Vogliono fermare lo sviluppo edilizio costiero. Seguendo Misty attraverso il lungo corridoio in linoleum, Stilton dice: «Tra il movimento per la supremazia bianca e il partito dei verdi esistono legami storici». Dice: «Proteggere la natura, preservare la purezza razziale: il passo è più breve di quanto non si creda». Arrivano alla stanza di Peter, e Stilton dice: «A meno che suo marito non sia in grado di dimostrare che nelle notti dei vari incendi è sempre stato qui, sarò costretto ad arrestarlo». E di nuovo si tocca il mandato nella tasca della giacca. Le tende intorno al letto di Peter sono chiuse. Dall'interno proviene il fruscio del respiratore che pompa aria. Si sentono i piccoli bip della macchina che gli tiene sotto controllo il cuore. Si sente il tenue tintinnio di un pezzo di Mozart diffuso dalle cuffie. Misty apre la tenda facendola scorrere intorno al letto. Un'inaugurazione. Un debutto. E Misty dice: «Prego. Gli faccia tutte le domande che vuole». Al centro del letto c'è uno scheletro raggomitolato su un fianco, con la pelle di cartapesta color cera. Una mummia azzurrognola con saette di vene scure che serpeggiano appena sotto la superficie. Le ginocchia sono raccolte verso il petto. La schiena è talmente inarcata che la testa quasi arriva a sfiorargli le chiappe rinsecchite. I piedi sono tesi e appuntiti come bastoni intagliati. Le unghie dei piedi, lunghe e di un giallo scuro. Le mani, talmente contratte che le unghie affondano nelle bende messe a proteggere i polsi. La sottile coperta fatta a maglia è stata spinta in fondo al materasso. Spirali di tubi pieni di liquidi trasparenti bianchi e gialli entrano ed escono dalle braccia, dalla pancia, dal pene scuro e avvizzito, dal cranio. Di muscoli ne sono rimasti talmente pochi che le ginocchia e i gomiti, le mani e i piedi ossuti appaiono enormi. Le labbra - lucide di un gel a base di paraffina - sono ritratte a scoprire i
buchi neri dei denti mancanti. Con la tenda aperta si sentono tutti gli odori, i tamponi intrisi d'alcol, l'urina, le piaghe da decubito e la crema idratante dolciastra. L'odore della plastica calda. L'odore urticante della candeggina e quello di borotalco dei guanti di lattice. Il diario di te. Il tubo azzurro e zigrinato del respiratore è agganciato a un buco a metà gola. Gli occhi sono chiusi da strisce di cerotto chirurgico. Il cranio è rasato per monitorare la pressione del cervello, ma dalle costole e dal lembo di pelle floscia tra le anche spuntano ciuffi arruffati di peli neri. Neri come i capelli di Tabbi. I tuoi capelli neri. Ogni cosa che fai rivela la tua mano. Il detective Stilton deglutisce, rumorosamente. Il muscolo elevatore gli solleva il labbro superiore fino alle narici, e il suo viso si abbassa sul block-notes. La penna si affretta a scrivere. Dall'armadietto accanto al letto, Misty prende un tampone imbevuto d'alcol e lo estrae strappando l'involucro di plastica. I pazienti in coma vengono classificati in base alla scala di Glasgow, spiega Misty al detective. La scala va dalla perfetta coscienza alla totale incoscienza con assenza di reattività. Si forniscono al paziente ordini verbali per vedere se risponde con il movimento. O con la parola. O sbattendo le palpebre. Il detective Stilton dice: «Cos'altro può dirmi del padre di Peter?». «Be'» dice Misty, «ora è una fontana.» Il detective le lancia un'occhiata perplessa. Con le sopracciglia che premono una contro l'altra. I muscoli corrugatori che fanno il loro lavoro. Grace Wilmot ha sprecato un bel malloppetto di soldi in un'elaborata fontana d'ottone in memoria di Harrow. Si trova in Alder Street, all'incrocio con Division Avenue, vicino all'hotel, gli spiega Misty. Le ceneri di Harrow le ha sparse durante una cerimonia a Waytansea Point. Il detective Stilton annota tutto quanto sul block-notes. Con il tampone imbevuto d'alcol, Misty pulisce la pelle intorno al capezzolo di Peter. Misty gli toglie le cuffie dalla testa e gli prende il viso tra le mani, lo sistema sul cuscino in modo che guardi verso il soffitto. Misty si sgancia dalla giacca la spilla gialla a forma di fiore. Il punteggio più basso che puoi ottenere sulla scala Glasgow è tre. Significa che non ti muovi mai, non parli mai, non sbatti mai le palpebre. Pos-
sono dirti o farti qualunque cosa. Tanto tu non reagisci. La spilla si apre in un ago d'acciaio lungo come il mignolo di Misty, e lei lo sfrega con il tampone. La penna del detective Stilton si ferma, senza staccarsi dalla pagina del block-notes, e lui dice: «Sua figlia viene mai a trovarlo?». E Misty scuote la testa. «E sua madre?» E Misty dice: «Mia figlia passa la maggior parte del suo tempo con sua nonna». Misty guarda l'ago della spilla, argentato, lucido e pulito. «Girano per mercatini d'antiquariato» dice Misty. «Mia suocera lavora per una ditta che reperisce oggetti in porcellana usciti di produzione.» Misty stacca i cerotti dagli occhi di Peter. Dai tuoi occhi. Misty glieli apre con i pollici, poi si china verso il suo viso e urla: «Peter!». Misty urla: «Com'è che è morto davvero tuo padre?». La sua saliva gli schizza sugli occhi, sulle pupille di dimensioni diverse, e Misty urla: «Fai parte di un gruppo di ecoterroristi neonazisti?». Voltandosi verso il detective Stilton, Misty urla: «Esci ogni notte di nascosto e vai in giro a incendiare case?». Misty gli urla: «Fai parte dell'AOL?». L'Alleanza oceanica per la libertà. Stilton incrocia le braccia sul petto e china la testa, osservandola dal basso. Il muscolo orbicolare della bocca gli serra le labbra in una linea sottile e dritta. Il muscolo frontale gli solleva le sopracciglia, e la fronte si ripiega in tre rughe che vanno da una tempia all'altra. Rughe che prima d'ora non ci sono mai state. Con una mano, Misty pizzica un capezzolo di Peter e lo solleva, tendendolo in una lunga punta. Con l'altra mano, Misty lo trafigge con l'ago. Poi lo estrae. La macchina per il cuore continua con i suoi bip, senza accelerare né rallentare di un nanosecondo. Misty dice: «Peter, caro? Riesci a rendertene conto?». E di nuovo gli conficca l'ago. Così ogni volta puoi provare del dolore nuovo di zecca. Metodo Stanislavskij. Giusto perché tu lo sappia, c'è tanto di quel tessuto cicatrizzato che è come infilare uno spillo nel pneumatico di un trattore. La pelle del capez-
zolo si tende per un tempo infinito, prima che la punta dell'ago sbuchi dall'altra parte. Misty urla: «Perché ti sei ucciso?». Le pupille di Peter fissano il soffitto, una completamente dilatata, l'altra una capocchia di spillo. Poi due braccia la cingono da dietro. Il detective Stilton. La tirano via. Lei urla: «Perché cazzo mi hai portato in questo posto?». Stilton la tira finché l'ago della spilla che Misty stringe in mano non si sfila, prima a poco a poco, poi completamente. E lei urla: «Perché cazzo mi hai messa incinta?». 28 luglio luna nuova La prima scatola di pillole anticoncezionali, Peter l'aveva manomessa scherzosamente. Sostituendole con delle caramelline alla cannella. Quella dopo la buttò direttamente nel cesso. La buttasti nel cesso. Per sbaglio, a sentire te. A quel punto, il consultorio studentesco si rifiutò di rinnovare la ricetta a Misty per altri trenta giorni. Le fecero fare un diaframma, e di lì a una settimana Misty se lo ritrovò forato al centro. Lo fece vedere a Peter, tenendolo in controluce davanti alla finestra, e lui le disse: «Questi cosi mica durano per sempre». Misty rispose che l'aveva appena preso. «Si consumano» disse lui. Misty gli disse che il suo pene non era così grosso da andare a sbattere contro la cervice uterina e perforarle il diaframma. Il tuo pene non è così grosso. Poi Misty cominciò a rimanere regolarmente a corto di schiuma spermicida. Il che le costava una fortuna. Capitava che usasse una bomboletta una sola volta, e la volta successiva la trovava vuota. Un giorno, qualche bomboletta dopo, Misty uscì dal bagno e chiese a Peter se aveva toccato la sua schiuma spermicida. Peter stava guardando le sue soap opera in spagnolo, dove le donne avevano tutte vitini così sottili che sembravano stracci strizzati. Si portavano appresso seni giganti appesi a spalline sottili come spaghetti. Avevano gli occhi coperti di ombretto con i brillantini, e tu dovevi credere che fossero medici o avvocatesse.
Peter disse: «Tieni», e si portò entrambe le mani dietro il collo. Si sfilò qualcosa da sotto il collo della maglietta nera che aveva indosso e glielo porse. Era una luccicante collana di strass rosa, schegge di rosa ghiaccio, tutto uno scintillio e un bagliore rosato. E le disse: «La vuoi?». E Misty rimase imbambolata come una di quelle galline delle soap opera in spagnolo. Non riuscì a fare altro che allungarsi e afferrare con le mani le estremità della collana. Nello specchio del bagno, sulla sua pelle, la collana luccicava. Guardandola riflessa nello specchio, sfiorandola, Misty sentì il cicaleccio in spagnolo che veniva dall'altra stanza. Strillò: «Però non toccare più la mia schiuma, d'accordo?». Ma continuò a sentir parlare in spagnolo. Ovviamente il suo ciclo successivo non arrivò mai. Dopo i primi due giorni, Peter le portò una scatola piena di test di gravidanza a forma di bastoncino. Di quelli che ci fai la pipì sopra. Se c'eri rimasta, lo capivi perché compariva un sì o un no. I bastoncini non avevano un involucro protettivo sigillato. Puzzavano tutti di pipì. E già si vedeva la scritta "no", non incinta. Poi Misty si accorse che il fondo della scatola era stato aperto e richiuso con lo scotch. A Peter, che aspettava in piedi davanti alla porta del bagno, Misty disse: «Tu questi li hai appena comprati, giusto?». Peter disse: «Cosa?». E Misty sentì parlare in spagnolo. Quando scopavano, Peter teneva gli occhi chiusi, ansimava e spingeva. Quando veniva, sempre con gli occhi chiusi, gridava: «Te amo!». Da dietro la porta del bagno Misty urlò: «Sei tu che ci hai pisciato sopra?». Il pomello della porta girò, ma Misty aveva chiuso a chiave. Poi, da fuori, la voce di Peter disse: «Quelli non ti servono. Non sei incinta». E allora, gli chiese Misty, dov'era finito l'appuntamento mensile con le sue cose? «Qui» disse la voce di Peter. Poi le sue dita spuntarono dalla fessura sotto la porta. Spingendo all'interno qualcosa di bianco e morbido. «Le hai lasciate per terra» disse Peter. «Dacci un'occhiata.» Erano le sue mutandine, macchiate di sangue fresco. 29 luglio luna nuova
Per la cronaca, il tempo oggi è pesante e prude e fa male ogni volta che tua moglie prova a muoversi. Il dottor Touchet se n'è appena andato. Ha passato le ultime due ore a fasciarle la gamba con strisce di stoffa sterile e resina acrilica trasparente. La gamba di Misty, dalla caviglia all'inguine, è un'unica colata dritta di fibra di vetro. Per il ginocchio, ha detto il dottore. Peter, tua moglie è una frana. Misty è una frana. Sta portando un vassoio di insalate Waldorf dalla cucina alla sala da pranzo, quando inciampa. Proprio mentre oltrepassa la porta della cucina, il piede le scivola, e Misty, il vassoio e i piatti di insalata Waldorf precipitano dritti sul tavolo otto. Ovviamente, tutta la sala si alza per andarla ad ammirare coperta di maionese. Il ginocchio sembra a posto, e Raymon esce dalla cucina e la aiuta a rialzarsi. Eppure se l'è slogato, dice il dottor Touchet. Lui arriva un'ora più tardi, dopo che Raymon e Paulette l'hanno aiutata a salire le scale per tornare in camera sua. Il dottore tiene una borsa del ghiaccio premuta sul ginocchio di Misty, poi le propone un'ingessatura giallo fluorescente, rosa fluorescente o bianco classico. Il dottor Touchet è accovacciato ai suoi piedi, mentre Misty siede su una seggiola con la gamba appoggiata su un poggiapiedi. Il dottore sposta la borsa del ghiaccio cercando segni di tumefazione. E Misty gli chiede: è stato lei a redigere il certificato di morte di Harrow? Misty gli chiede: ha mai prescritto pillole a Peter? Il dottore la guarda per un istante, poi torna a congelarle la gamba. Dice: «Se non ti rilassi rischi di non camminare mai più». La gamba va già meglio. Sembra a posto. Per la cronaca, il ginocchio nemmeno le fa male. «Sei sotto shock» dice Touchet. Si è portato dietro una ventiquattrore, non una borsa nera da dottore. Una valigetta come quelle degli avvocati. O dei banchieri. «Il gesso ti occorre come profilassi» dice. «Senza, continueresti a correre dietro a quel detective della polizia, e la gamba non guarirebbe mai.» Un paesino così piccolo, l'intero museo delle cere di Waytansea Island che la spia. Qualcuno bussa alla porta, poi nella stanza entrano Grace e Tabbi. Tabbi dice: «Mamma, ti abbiamo portato degli altri colori», e nelle mani regge
due sacchetti della spesa. Grace dice: «Come sta?». E il dottor Touchet dice: «Se rimane in questa stanza per le prossime tre settimane starà benissimo». Comincia ad avvolgere garze intorno al ginocchio di Misty, strati su strati di garza, sempre più spessa. Giusto perché tu lo sappia, nell'istante in cui Misty si è ritrovata per terra, quando la gente è venuta a darle una mano, mentre la accompagnavano su per le scale, persino mentre il dottore le strizzava e le fletteva il ginocchio, per tutto il tempo Misty ha continuato a dire: «Ma su cosa sono inciampata?». Non c'è niente, lì. Vicino a quella porta non c'è assolutamente niente su cui uno possa inciampare. Dopo, Misty ha ringraziato Dio che una cosa del genere sia successa sul lavoro. Così quelli dell'albergo non potranno lamentarsi per le sue assenze. Grace dice: «Le dita dei piedi riesci a muoverle?». Sì, Misty ci riesce. Però così non riesce più a toccarsele. Poi il dottore le fascia la gamba con strisce di fibra di vetro. Tabbi si avvicina e tocca il grosso tronco di fibra di vetro all'interno del quale, da qualche parte, è dispersa la gamba di sua madre, poi dice: «Posso farci la firma?». «Devi dargli un giorno per asciugare» dice il dottore. La gamba di Misty, dritta davanti a lei, peserà quaranta chili. Si sente fossilizzata. Incastonata nell'ambra. Una mummia antichissima. Questa cosa sarà letteralmente una palla al piede. È buffo il modo in cui la mente cerca di dare un senso al caos. Misty ora si sente orribilmente in colpa, ma quando Raymon è uscito dalla cucina, mentre la cingeva con il braccio e la sollevava, gli ha chiesto: «Mi hai fatto lo sgambetto?». Lui le ha tolto dai capelli l'insalata Waldorf, i pezzetti di mela e le noci sminuzzate, e le ha detto: «Como?». A quello che non capisci puoi dare qualunque significato. E comunque la porta era aperta e bloccata dal fermaporte, il pavimento asciutto e sgombro. Misty ha detto: «Com'è che sono caduta?». E Raymon ha fatto spallucce e le ha detto: «De culo». Tutt'intorno, i ragazzi della cucina sono scoppiati a ridere. Ora, nella sua stanza, con la gamba racchiusa in un bozzolo, in una bianca e pesante pinata, Grace e il dottor Touchet sollevano Misty prendendola
ciascuno da sotto un braccio, e la guidano verso il letto. Tabbi tira fuori le pillole verdi alle alghe dalla sua borsetta e gliele appoggia sul comodino. Grace stacca la spina del telefono e riavvolge il filo, dicendo: «Hai bisogno di calma e riposo». Grace dice: «Non hai niente che un po' di terapia artistica non possa curare» e comincia a estrarre cose dai sacchetti della spesa, tubetti di colore e pennelli, e ad ammonticchiarle in gruppetti sulla specchiera. Dalla valigetta, il dottore tira fuori una siringa. Disinfetta il braccio di Misty con dell'alcol freddo. Meglio il braccio che un capezzolo. Riesci a rendertene conto? Il dottore riempie la siringa da una bottiglietta e le infila l'ago nel braccio. Poi lo sfila e dà a Misty un batuffolo di cotone per fermare l'eventuale sangue. «Ti aiuterà a dormire» dice. Tabbi si siede sul bordo del letto e dice: «Ti fa male?». No, manco un po'. La sua gamba sta benissimo. Le ha fatto più male la puntura. L'anello che Tabbi porta al dito, l'olivina verde scintillante, riflette la luce della finestra. La moquette rasenta la base della finestra, e sotto la moquette è dove Misty tiene nascosti i soldi delle mance. Il loro biglietto di ritorno a Tecumseh Lake. Grace infila il telefono in un sacchetto della spesa vuoto e tende la mano a Tabbi. Dice: «Vieni. Lasciamo riposare tua madre». Il dottor Touchet è fermo davanti alla porta aperta e dice: «Grace? Posso parlarti un minuto in privato?». Tabbi scende dal letto, e Grace si china per sussurrarle qualcosa all'orecchio. Poi Tabbi fa sì con la testa, un gesto rapido. Indosso ha la pesante collana di strass rosa e luccicanti. È talmente grossa che al collo deve pesarle come a sua madre pesa il gesso intorno alla gamba. Una macina da mulino luccicante. Una palla al piede di bigiotteria. Tabbi sgancia il fermaglio e porta la collana vicino al letto, dicendo: «Alza la testa». Portandole entrambe le mani dietro le spalle, gliela aggancia intorno al collo. Per la cronaca, Misty non è stupida. Quella poveretta di Misty Marie Kleinman sapeva che il sangue sulle mutandine era di Peter. Ma ora come ora, in questo preciso istante, è davvero felice di non aver abortito. Il tuo sangue. Perché ti abbia detto sì, quando le hai chiesto di sposarti, Misty non sa dirlo. Perché uno fa quello che fa? E intanto già comincia a sentirsi scio-
gliere dentro il letto. Ogni respiro è più lento del precedente. I muscoli elevatori delle palpebre devono farsi in quattro per tenere gli occhi aperti. Tabbi si avvicina al cavalletto e prende un blocco di carta da disegno. Posa la carta e un carboncino sulle coperte accanto alla madre, dicendo: «Se per caso ti viene l'ispirazione». E Misty le dà un bacio al rallentatore sulla fronte. Tra il gesso e la collana, Misty si sente inchiodata al letto. Zavorrata. Una vittima sacrificale. Un'eremita. Poi Grace prende Tabbi per mano, e insieme raggiungono il dottor Touchet in corridoio. La porta si chiude. C'è un tale silenzio che Misty non è certa di sentirci bene. Poi però c'è un click che non dovrebbe esserci. E Misty chiama: «Grace?». Misty chiama: «Tabbi?». Al rallentatore Misty dice: «Ehi? C'è nessuno?». Per la cronaca, l'hanno chiusa dentro a chiave. 30 luglio La prima volta che Misty si risveglia dopo l'incidente, i suoi peli pubici non ci sono più e dentro di lei c'è un catetere che le serpeggia giù per la gamba sana fino a una sacca di plastica trasparente agganciata alla sponda del letto. Il tubo è fissato alla gamba con pezzetti di cerotto chirurgico bianco. Caro, dolce Peter, non penso di doverti spiegare come ci si sente. Il dottor Touchet ha colpito ancora. Per la cronaca, svegliarsi imbottiti di farmaci, con i peli pubici rasati e un coso di plastica nella vagina non necessariamente fa di te un'artista. Bastasse quello, Misty starebbe dipingendo la Cappella Sistina. E invece appallottola l'ennesimo foglio umido di carta da acquarello da 200 grammi per metro quadro. Fuori dalla finestrella del suo abbaino, il sole sta cuocendo la sabbia della spiaggia. Le onde sibilano e scoppiano. I gabbiani si librano, sospesi nel vento, vibranti aquiloni bianchi, mentre i bambini costruiscono castelli di sabbia e giocano a schizzarsi nella marea crescente. Un conto sarebbe barattare tutti i suoi giorni di sole con un capolavoro, ma questo... la sua giornata è stata una sequenza ininterrotta di merdosi guazzabugli sbavati. Anche con la gamba interamente ingessata e il sacchettino di piscio, Misty vorrebbe uscire. Se sei un'artista, organizzi la tua vita in modo tale da poter dipingere, ricavi una finestra di tempo, ma questo non basta a garantirti di creare qualcosa che valga tutti i tuoi sforzi. Sei
ossessionata dall'idea di sprecare la tua vita. La verità è che se Misty fosse sulla spiaggia, se ne starebbe lì a guardare questa finestra, sognando di essere una pittrice. La verità è che ovunque uno scelga di essere, è sempre nel posto sbagliato. Misty è semiseduta davanti al cavalletto, in equilibrio su un alto sgabello, guarda fuori dalla finestra, verso Waytansea Point, e intanto Tabbi siede nella macchia di sole ai suoi piedi, intenta a colorarle il gesso con i pennarelli. È questo che più le fa male. Già è brutto che Misty abbia passato buona parte dell'infanzia chiusa in casa a colorare i suoi album e a sognare di diventare un'artista. E ora sta trasmettendo questo pessimo modello di comportamento a sua figlia. Tutte le tortine di fango che Misty non ha mai cucinato, ora se le perderà anche Tabbi. O qualsiasi altra cosa facciano i ragazzini della sua età. Tutti gli aquiloni che Misty non ha fatto volare, tutte le gare di acchiapparella a cui non ha giocato, tutti i soffioni che non ha raccolto. Tabbi sta facendo il suo stesso errore. Gli unici fiori che abbia mai visto Tabbi sono quelli trovati con sua nonna, dipinti sul bordo di una tazza da tè. Tra qualche settimana comincia la scuola, e con tutto il tempo che ha trascorso al chiuso Tabbi è ancora pallidissima. Intanto che il suo pennello combina l'ennesimo pasticcio sul foglio che ha davanti, Misty dice: «Tabbi, tesoro?». Tabbi se ne sta seduta a colorare il gesso con un pennarello rosso. La resina e la garza sono così spessi che Misty non sente nulla. Il camice di Misty è una delle vecchie camicie da lavoro blu di Peter, con una spilla arrugginita di rubini finti appuntata al taschino anteriore. Rubini finti e diamanti di vetro. Tabbi si è portata la scatola della bigiotteria, tutte le spille e i braccialetti e gli orecchini spaiati che Peter ha regalato a Misty quand'erano studenti. Che tu hai regalato a tua moglie. Misty ha indosso la tua camicia, e dice a Tabbi: «Perché non vai fuori a giocare per qualche ora?». Tabbi posa il pennarello rosso e ne prende uno giallo, poi dice: «Nonna Wilmot ha detto che non devo». Colorando, Tabbi dice: «Mi ha detto di stare con te finché sei sveglia». Stamattina, l'auto sportiva di Angel Delaporte si è fermata nello spiazzo di ghiaia che fa da parcheggio dell'hotel. Con in testa un grande cappello di paglia da spiaggia, Angel è uscito dall'auto ed è salito sulla veranda ante-
riore. Misty ha atteso che Paulette venisse su dalla reception a dirle che aveva visite, e invece niente. Mezz'ora dopo, Angel è uscito dall'ingresso dell'hotel e ha sceso i gradini della veranda. Tenendosi il cappello con una mano, ha alzato la testa e scrutato le finestre dell'hotel, i grappoli di cartelli e loghi. Graffiti aziendali. Gare di immortalità. Poi Angel ha inforcato gli occhiali da sole, è salito sulla sua auto sportiva e se n'è andato. Davanti a sé, Misty ha l'ennesimo guazzabuglio di colori. La prospettiva è tutta sbagliata. Tabbi dice: «Nonna ha detto che devo aiutarti a trovare l'ispirazione». Invece di dipingere, Misty dovrebbe insegnare a sua figlia qualche mestiere: contabilità, analisi dei costi, riparazione di televisori. Un modo realistico per pagare le bollette. Poco dopo che Angel se n'è andato, è arrivato il detective Stilton, a bordo di un'auto marroncina della contea. È entrato nell'hotel, e di lì a qualche minuto è tornato alla macchina. Per un po' è rimasto nel parcheggio, a fissare una dopo l'altra le finestre dell'hotel riparandosi gli occhi con una mano, ma senza vederla. Poi è ripartito. Nel pasticcio che Misty ha davanti, i colori sono sbavati e colano. Gli alberi potrebbero essere ripetitori a microonde. L'oceano potrebbe essere lava, o budino al cioccolato, o anche solo sei dollari di gouache sprecati. Misty strappa il foglio e lo appallottola. Dopo una giornata passata ad appallottolare i suoi fallimenti, ha le mani quasi completamente nere. Le fa male la testa. Misty chiude gli occhi e si appoggia una mano sulla fronte, sentendola appiccicosa di colore fresco. Misty getta in terra il dipinto appallottolato. E Tabbi dice: «Mamma?». Misty apre gli occhi. Tabbi le ha disegnato uccelli e fiori lungo tutta l'ingessatura. Uccelli azzurri e pettirossi e rose rosse. Quando Paulette porta su la colazione su un carrello del servizio in camera, Misty le chiede se nessuno ha provato a chiamarla dalla reception. Paulette scrolla il tovagliolo e glielo infila nel colletto della camicia da lavoro blu. Dice: «No, nessuno, mi spiace». Toglie il coperchio da un piatto di pesce e dice: «Perché me lo chiedi?». E Misty dice: «Così». Ora, seduta qui con Tabbi, con i fiori e gli uccelli disegnati sulla gamba, Misty capisce che non sarà mai un'artista. Il disegno che ha venduto ad Angel è stato un puro colpo di fortuna. Un incidente. Al posto di piangere,
Misty piscia qualche goccia nel tubo di plastica. E Tabbi dice: «Chiudi gli occhi, mamma». Dice: «Colora con gli occhi chiusi, come hai fatto al picnic per il mio compleanno». Come faceva quand'era la piccola Misty Marie Kleinman. Con gli occhi chiusi, sul tappeto a pelo lungo della roulotte. Tabbi si protende verso di lei e sussurra: «Eravamo nascoste in mezzo agli alberi e ti abbiamo guardata». E poi: «Nonna diceva che dovevamo lasciarti trovare l'ispirazione». Tabbi va alla cassettiera e prende il rotolo di nastro da mascheratura che Misty usa per fissare la carta al cavalletto. Ne strappa due striscioline e dice: «Chiudi gli occhi». Misty non ha nulla da perdere. Tanto vale assecondare la sua bambina. Peggio di così il lavoro non può andare. Misty chiude gli occhi. E le piccole dita di Tabbi le premono una striscia di scotch sulle palpebre. Proprio come all'ospedale tengono chiusi gli occhi di suo padre. Perché non si secchino. Proprio come tengono chiusi i tuoi occhi. Nel buio, Tabbi le mette in mano una matita. Misty la sente appoggiare un blocco da disegno sul cavalletto e sollevarne la copertina. Poi la sua mano prende quella di Misty e accompagna la matita fino a sfiorare la carta. Il sole che entra dalla finestra è caldo. Tabbi abbandona la presa, e nel buio la sua voce dice: «Adesso fai il tuo disegno». E Misty disegna, disegna i cerchi e gli angoli perfetti, quelle linee rette che per Angel Delaporte sono impossibili. Basta la sensazione, è tutto giusto, tutto perfetto. Cosa sia, Misty non ne ha idea. Come il piattino di una seduta spiritica, la matita trascina la mano avanti e indietro sulla carta, così veloce che Misty deve sforzarsi di tenerla stretta. La sua scrittura automatica. Misty riesce a malapena a seguire la matita, e dice: «Tabbi?». Con lo scotch sugli occhi, Misty dice: «Tabbi? Ci sei ancora?». 2 agosto C'è un piccolo strappo, tra le gambe di Misty, una piccola trazione dentro di lei, quando Tabbi rimuove la sacca in fondo al catetere e la porta nel bagno in fondo al corridoio. Tabbi la svuota nel gabinetto e la lava. Poi la
riporta indietro e la attacca nuovamente al lungo tubo di plastica. Tutto questo lo fa perché così Misty può continuare a lavorare nel buio più completo. Con gli occhi chiusi dallo scotch. Cieca. C'è solo la sensazione calda della luce del sole che entra dalla finestra. Nel momento in cui il pennello si ferma Misty dice: «Questo è finito». Allora Tabbi sfila il disegno dal cavalletto e fissa un altro foglio di carta pulito. Prende la matita quando le sembra spuntata e la sostituisce con una appuntita. Porge a Misty una scatola di pastelli, e Misty li saggia alla cieca, come tasti oleosi di un pianoforte di colori, quindi ne sceglie uno. Per la cronaca, ogni colore che Misty sceglie, ogni segno che traccia, è perfetto, perché ormai non gliene importa più nulla. A colazione, Paulette porta su in camera un vassoio, e Tabbi taglia tutto quanto in singoli bocconi. Mentre Misty lavora, Tabbi le infila la forchetta in bocca. Con lo scotch in faccia, Misty non riesce ad aprire la bocca più di tanto. Quanto basta per succhiare il pennello e affinarne la punta. Quanto basta per avvelenarsi. Lavorando, Misty non sente i sapori. Non sente gli odori. Dopo qualche morso di colazione, non ne vuole più. Eccezion fatta per il rumore della matita sulla carta, la stanza è silenziosa. Fuori, cinque piani più in basso, le onde dell'oceano sibilano e scoppiano. A pranzo, Paulette porta su altro cibo che Misty non mangia. Con tutto il peso che ha perso, l'ingessatura già comincia a ballare. Troppo cibo solido significherebbe dover andare al gabinetto. Interrompere il lavoro. Sull'ingessatura, con tutti i fiori e gli uccelli che Tabbi ci ha disegnato, di bianco non ce n'è quasi più. La stoffa del camice è rigida di schizzi di colore. È rigida e le si appiccica alle braccia e ai seni. Le mani sono incrostate di colore secco. Avvelenate. Le spalle fanno male e scricchiolano, il polso cigola. Intorno al carboncino, le dita hanno perso la sensibilità. Il collo è percorso da spasmi, da crampi che scendono ai lati della spina dorsale. La sensazione è quella di avere il collo come quello di Peter, inarcato all'indietro fin quasi a sfiorare il sedere. Di avere il polso come quello di Peter, tutto ritorto e nodoso. Con gli occhi chiusi, Misty tiene il viso rilassato per non contrastare la trazione delle due strisce di scotch che le vanno dalla fronte al collo, passando per gli occhi e giù, lungo le guance e la mascella. Lo scotch trattiene il muscolo orbicolare intorno all'occhio, il grande zigomatico agli angoli della bocca, mantiene rilassati tutti i muscoli facciali. Con lo scotch, Misty riesce a schiudere le labbra di appena una fessura. Riesce a parlare solo per
sussurri. Tabbi le infila una cannuccia in bocca e Misty succhia un po' d'acqua. La voce di Tabbi dice: «Qualsiasi cosa accada, nonna dice che devi continuare con la tua arte». Tabbi asciuga la bocca di sua madre, dice: «Tra poco devo andare». Dice: «Ti prego, non fermarti. Anche se ti manco». Dice: «Me lo prometti?». E continuando a lavorare, Misty sussurra: «Sì». «Anche se sto via tanto?» dice Tabbi. E Misty sussurra: «Lo prometto». 5 agosto Essere stanchi non significa avere finito. E nemmeno avere fame, o sentirsi indolenziti. Il bisogno di fare pipì non deve fermarti. Un'immagine è finita quando sono la matita e i colori ad avere finito. Il telefono non ti interrompe. Nient'altro cattura la tua attenzione. Quando arriva l'ispirazione, tu vai avanti. È tutto il giorno che Misty lavora, e a un certo punto la matita si ferma, e lei aspetta che Tabbi tolga il disegno e le dia un foglio di carta pulito. E non succede niente. E Misty dice: «Tabbi?». Stamattina, Tabbi ha appuntato una grossa spilla di vetri verdi e rossi al camice della madre. Poi Tabbi è rimasta immobile mentre Misty le agganciava intorno al collo la collana luccicante di strass rosa. Come una statua. Nella luce della finestra, le pietre scintillavano come tanti nontiscordardimé, e come tutti gli altri fiori che quest'estate Tabbi si è persa. Poi Tabbi ha chiuso gli occhi di sua madre con lo scotch. E quella è stata l'ultima volta che Misty l'ha vista. Di nuovo Misty dice: «Tabbi, tesoro?». E non si sente un solo suono, niente. Solo il sibilo e lo scoppio delle onde che una dopo l'altra si infrangono sulla spiaggia. Divaricando le dita, Misty tende un braccio e lo agita nell'aria circostante. Per la prima volta da giorni, l'hanno lasciata sola. Le due strisce di scotch da mascheratura partono entrambe dall'attaccatura dei capelli, e scendono giù sugli occhi per poi incurvarsi sotto la mascella. Con i pollici e gli indici, Misty pizzica le strisce in cima e comincia a tirare, lentamente, finché non si staccano. Uno sbattere di palpebre, e gli occhi si aprono. La luce è troppo forte perché Misty possa mettere a fuoco.
L'immagine sul cavalletto resta confusa per un minuto buono, intanto che gli occhi si abituano. Misty mette a fuoco i tratti di matita, neri sul bianco della carta. Ha disegnato l'oceano, poco più in là della spiaggia. Qualcosa che galleggia. Una persona che galleggia a faccia in già sull'acqua, una ragazzina con i lunghi capelli neri che si allargano sull'acqua circostante. I capelli neri di suo padre. I tuoi capelli neri. Ogni cosa è un autoritratto. Ogni cosa è un diario. Fuori dalla finestra, giù sulla spiaggia, un capannello di gente è fermo sul bagnasciuga. Due persone guadano verso riva, trasportando qualcosa. E qualcosa di lucente riflette scintille rosa alla luce del sole. Uno strass. Una collana. È Tabbi la cosa che i due tengono per le caviglie e sotto le ascelle, sono i suoi capelli quelli che cadono dritti e bagnati nelle onde che sibilano e scoppiano sulla spiaggia. La gente indietreggia. Di colpo, passi pesanti percorrono in fretta il corridoio fuori dalla stanza. Una voce nel corridoio dice: «Ce l'ho già pronta». Due persone trasportano Tabbi su per la spiaggia e verso la veranda dell'hotel. La serratura fa click, e la porta si spalanca, e c'è Grace con il dottor Touchet. Nelle mani di lui brilla una siringa ipodermica gocciolante. E Misty tenta di alzarsi in piedi, trascinandosi dietro la gamba ingessata. La sua palla al piede. Il dottore le si precipita incontro. E Misty dice: «E Tabbi. Le è successo qualcosa». Misty dice: «Sulla spiaggia. Devo scendere». L'ingessatura si rovescia, e il peso la fa cadere. Il cavalletto le crolla accanto, e ovunque ci sono i cocci del barattolo d'acqua torbida in cui Misty sciacqua i pennelli. Grace le si inginocchia accanto, la prende per un braccio. Il catetere si è sfilato dalla sacca, e si sente l'odore del piscio che si riversa sulla moquette. Grace le arrotola la manica del camice. Della tua vecchia camicia da lavoro blu. Rigida di colore secco. «Non puoi scendere in queste condizioni» dice il dottore. Solleva la siringa e picchietta via le bolle d'aria in cima, dice: «Sul serio, Misty, non c'è niente che tu possa fare». Grace le raddrizza bruscamente il braccio, e il dottore infila l'ago.
Riesci a rendertene conto? Grace la tiene per le braccia, immobilizzandola al suolo. La spilla di finti rubini si è aperta, conficcandosi in uno dei seni di Misty, e il suo sangue è rosso sui rubini bagnati. Il vaso rotto. Grace e il dottore che la tengono bloccata contro la moquette, sopra il suo piscio che si allarga. Che penetra nella camicia blu e le fa bruciare la pelle intorno al punto in cui si è piantata la spilla. Grace, mezza riversa su di lei, Grace dice: «Misty vuole scendere di sotto, ora». Grace non sta piangendo. Con la voce arrochita dallo sforzo al rallentatore, Misty dice: «Tu che cazzo ne sai di cosa voglio fare io?». E Grace dice: «C'è scritto nel tuo diario». L'ago fuoriesce dal braccio, e Misty sente qualcuno che le massaggia la pelle intorno alla puntura. Il freddo dell'alcol. Mani che le si intrufolano sotto le braccia e tirano fino a metterla a sedere. La faccia di Grace, il suo muscolo elevatore del labbro superiore, il muscolo del ghigno le accartoccia la pelle intorno al naso, e lei dice: «Sangue. Oh, e urina. Ne ha dappertutto. Non possiamo portarla di sotto conciata così. Non davanti a tutti». Il puzzo che ha addosso Misty è lo stesso del sedile anteriore della vecchia Buick. Il puzzo del tuo piscio. Qualcuno le sta togliendo la camicia, le asciuga la pelle con degli asciugamani di carta. Dall'altra parte della stanza la voce del dottore dice: «Davvero un ottimo lavoro. Sono colpito». Sta sfogliando la pila di disegni e dipinti finiti. «È ovvio» dice Grace. «Solo, non metterli in disordine. Sono tutti numerati.» Per la cronaca, nessuno accenna a Tabbi. Le stanno infilando le braccia in una camicia pulita. Grace le passa una spazzola tra i capelli. Il disegno sul cavalletto, la ragazzina annegata nell'oceano, è caduto sul pavimento, inzuppandosi di sangue e di piscio. È rovinato. L'immagine, sparita. Misty non riesce a stringere il pugno. Gli occhi continuano a chiudersi. Un filo di bava le scorre giù da un angolo della bocca, e il dolore al seno va affievolendosi. Grace e il dottore la mettono in piedi. Fuori, nel corridoio, c'è altra gente che aspetta. Altre braccia che la cingono da entrambi i lati, e un istante do-
po la trasportano in un volo al rallentatore giù per le scale. La fanno volare in mezzo ai visi tristi che osservano a ogni pianerottolo. Paulette e Raymon e qualcun altro, l'amico biondo di Peter. Will Tupper. Con il suo lobo diviso a metà. L'intero museo delle cere di Waytansea Island. C'è un tale silenzio, anche se a ogni gradino l'ingessatura si trascina con un tonfo. Una folla di persone riempie la cupa foresta di alberi levigati e moquette simile a muschio dell'atrio, ma a mano a mano che Misty viene trasportata verso la sala da pranzo tutti si fanno indietro. Ci sono tutte le vecchie famiglie dell'isola, i Burton e gli Hyland e i Petersen e i Perry. Non una sola faccia dell'estate, tra di loro. Poi, le porte della Sala del legno e dell'oro si spalancano. Sul tavolo sei, un tavolo rettangolare accanto alle finestre, c'è una cosa coperta da un lenzuolo. Il piccolo profilo di un viso, il petto piatto di una ragazzina. E la voce di Grace dice: «Presto, finché è ancora cosciente. Fategliela vedere. Alzate il lenzuolo». Un'inaugurazione. Un sipario che si alza. E alle spalle di Misty, tutti i suoi concittadini si accalcano a guardare. 7 agosto Quand'erano all'accademia, una volta Peter chiese a Misty di dirgli un colore. Un colore qualsiasi. Le disse di chiudere gli occhi e di restare immobile. Lei lo sentì avvicinarsi. Sentì il suo calore. L'odore del suo maglione sbrindellato, quell'odore di cioccolata semidolce fatta dal panettiere che aveva la sua pelle. Il suo autoritratto. Le mani di Peter le pizzicarono il tessuto della camicetta, e una spilla fredda le sfregò la pelle sottostante. Peter disse: «Non muoverti, rischio di pungerti». E Misty trattenne il respiro. Riesci a rendertene conto? Ogni volta che si incontravano, Peter le regalava un altro dei suoi oggetti di bigiotteria. Spille, braccialetti, anelli e collane. Con gli occhi chiusi, in attesa. Misty disse: «Oro. Color oro». Con le dita che infilavano la spilla nel tessuto, Peter disse: «Adesso dimmi tre aggettivi che per te descrivono l'oro». Era una vecchia forma di psicanalisi, le disse. Inventata da Carl Jung. Si basava sugli archetipi universali. Una sorta di gioco dell'introspezione.
Carl Jung. Archetipi. Il vasto inconscio collettivo dell'umanità. Jain e yogi e asceti, era quella la cultura in cui Peter era cresciuto a Waytansea Island. Con gli occhi chiusi, Misty disse: «Luccicante. Ricco. Morbido». I suoi tre aggettivi per descrivere l'oro. Con uno scatto, le dita di Peter chiusero il minuscolo fermaglio della spilla, e la sua voce disse: «Bene». In quella vita precedente, all'accademia, Peter le chiese di dire il nome di un animale. Di un animale qualsiasi. Per la cronaca, la spilla era una tartaruga dorata con una grossa gemma verde incrinata come guscio. La testa e le zampe si muovevano, ma una delle zampe non c'era più. Il metallo era talmente ossidato che le aveva immediatamente lasciato una striscia nera sulla camicetta. E Misty se la sganciò dal petto, la guardò, la amò senza alcun motivo. Disse: «Piccione». Peter si incamminò, e le fece segno di seguirlo. Passeggiarono attraverso il campus, tra edifici di mattoni ispidi d'edera, e Peter disse: «Adesso dimmi tre aggettivi che per te descrivono il piccione». Camminando al suo fianco, Misty cercò di prenderlo per mano, ma Peter giunse le mani intrecciando le dita dietro la schiena. Camminando, Misty disse: «Sporco». Misty disse: «Stupido. Brutto». I suoi tre aggettivi per descrivere il piccione. E Peter la guardò, con il labbro inferiore pizzicato tra i denti, e il muscolo corrugatore che gli premeva le sopracciglia una contro l'altra. In quella vita precedente, all'accademia, Peter le chiese di dire il nome di un bacino d'acqua. Camminandogli accanto, Misty disse: «Il canale di St Lawrence». Lui si voltò a guardarla. Si era fermato. «Descrivimelo in tre aggettivi» disse. E Misty guardò in alto e disse: «Trafficato, veloce e pieno». E il muscolo elevatore di Peter gli sollevò il labbro superiore in un ghigno. Mentre passeggiava con Peter, lui le chiese un'ultima cosa. Peter le disse: immagina di essere in una stanza. La stanza ha le pareti tutte bianche, e non ci sono finestre né porte. Disse: «In tre aggettivi, dimmi che sensazione ti dà questa stanza». Misty non era mai uscita con nessuno per così tanto tempo. Per quel che ne sapeva, questa cosa doveva essere uno dei modi velati che hanno gli amanti per interrogarsi a vicenda. Dopotutto anche lei sapeva che il gusto
di gelato preferito di Peter era la torta di zucca, perciò alle sue domande non attribuì nessun significato particolare. Misty disse: «Temporanea. Transitoria». Si interruppe, poi disse: «Frastornante». I suoi tre aggettivi per descrivere una stanza bianca sigillata. Nella sua vita precedente, mentre lei e Peter passeggiavano, senza tenersi per mano, lui le spiegò come funzionava il test di Carl Jung. Ogni domanda rappresentava un modo conscio per accedere all'inconscio. Un colore. Un animale. Un bacino d'acqua. Una stanza tutta bianca. Secondo Carl Jung, ognuna di queste cose costituiva un archetipo. Ogni immagine rappresentava un aspetto di una persona. Il colore che aveva detto Misty, l'oro. Ecco: era così che lei vedeva se stessa. Si era descritta come: "Luccicante. Ricca. Morbida" disse Peter. L'animale era la nostra percezione degli altri. Lei percepiva gli altri come "Sporchi, stupidi e brutti" disse Peter. Il bacino d'acqua rappresentava la sua vita sessuale. "Trafficata, veloce e piena." A sentire Carl Jung. Ogni cosa che diciamo rivela la nostra mano. Il nostro diario. Senza guardarla, Peter disse: «Non che la risposta mi abbia fatto particolarmente piacere». L'ultima domanda di Peter, quella sulla stanza tutta bianca. Lui dice che quella stanza senza porte né finestre rappresenta la morte. Per lei la morte sarà temporanea, transitoria, frastornante. 12 agosto luna piena I jain erano una setta di buddisti che sostenevano di saper volare. Di saper camminare sulle acque. Di capire qualsiasi lingua. Si dice che fossero capaci di tramutare il metallo in oro. Che guarissero gli storpi e restituissero la vista ai ciechi. Con gli occhi chiusi, Misty ascolta il dottore raccontarle tutto questo. Ascolta e dipinge. Poco prima dell'alba, si alza e si fa mettere lo scotch in faccia da Grace. Lo scotch viene tolto dopo il tramonto. «A quanto pare» dice la voce del dottore, «i jain erano in grado di resuscitare i morti.» Riuscivano a fare tutto questo perché si torturavano. Praticavano il di-
giuno e l'astinenza sessuale. Una vita di privazioni e dolore era ciò che conferiva loro i poteri magici. «Questa condotta viene definita "ascetismo"» dice il dottore. Mentre lui parla, Misty va avanti a disegnare. Misty lavora, e lui le porge i colori di cui ha bisogno, i pennelli e le matite. Quando Misty ha finito, le cambia il foglio. Fa quello che prima faceva Tabbi. I buddisti jain erano famosi in tutti i regni del Medio Oriente. Nelle corti di Siria ed Egitto, d'Epiro e Macedonia, compivano i loro miracoli già quattrocento anni prima della nascita di Cristo. I loro miracoli ispirarono gli ebrei esseni e i paleocristiani. Sbalordirono Alessandro Magno. Il dottor Touchet continua a parlare, dice che i martiri cristiani discendevano dai jain. Ogni giorno, santa Caterina da Siena si fustigava tre volte. La prima volta per i suoi peccati. La seconda per i peccati dei vivi. La terza per i peccati dei morti. San Simeone fu canonizzato dopo essere salito su una colonna ed essersi esposto agli elementi fino a putrefarsi vivo. Misty dice: «Questo è finito». E aspetta un altro foglio di carta, un'altra tela. Si sente il dottore che solleva la sua nuova creazione. Dice: «Meraviglioso. Assolutamente ispirato» e la sua voce sfuma mentre porta il foglio dall'altra parte della stanza. Si sente la matita che gratta scrivendo un numero sul retro del foglio. Fuori c'è l'oceano, le onde che sibilano e scoppiano. Il dottore appoggia il foglio accanto alla porta, poi la sua voce torna indietro, più forte e vicina, e dice: «Vuoi un altro foglio o preferisci una tela?». Non fa differenza. «Una tela» dice Misty. Misty non ha più visto nessuno dei suoi disegni da quando è morta Tabbi. Dice: «Dove li portate?». «In un posto sicuro» dice lui. Le mestruazioni sono in ritardo di quasi una settimana. Per via del digiuno. A Misty non serve pisciare su un test di gravidanza. Peter ha svolto il suo compito, l'ha portata qui. E il dottore dice: «Puoi cominciare». La sua mano si chiude intorno a quella di Misty e la spinge avanti, portandola a sfiorare il tessuto ruvido e teso già preparato con uno strato di colla di pelle di coniglio. Gli ebrei esseni, dice il dottore, in origine erano un gruppo di eremiti persiani che adoravano il sole. Eremite. Questo sono le donne murate vive nei sotterranei delle cattedra-
li. Murate vive per dare all'edificio un'anima. Le follie dei lavoratori edili. Sigillare whisky e donne e gatti nei muri. Suo marito incluso. Tu. Misty, intrappolata nella sua stanza in soffitta, con l'ingessatura pesante che non la lascia muovere. La porta chiusa a chiave dall'esterno. Il dottore con una siringa sempre pronta nel caso che Misty si metta in testa strane idee. Oh, Misty potrebbe scrivere un libro, sugli eremiti. Gli esseni, dice il dottor Touchet, vivevano ritirati dal mondo. Si allenavano sottoponendosi a malesseri e torture. Abbandonavano le famiglie e i beni materiali. Soffrivano nella convinzione che le anime immortali del paradiso venissero allettate a scendere sulla terra assumendo forma fisica per consumare sesso, alcol, droghe, quantità smodate di cibo. Furono gli esseni a istruire il giovane Gesù Cristo. A istruire Giovanni il Battista. Si definivano guaritori e compivano tutti i miracoli di Cristo - curare gli infermi, resuscitare i morti, scacciare i demoni - secoli prima di Lazzaro. I jain tramutavano l'acqua in vino secoli prima degli esseni, che a loro volta lo facevano secoli prima di Gesù. «Puoi ripetere gli stessi miracoli all'infinito, a patto che nessuno si ricordi l'ultima volta che sono stati fatti» dice il dottore. «Ricordatelo.» Come Cristo, che si definiva una pietra scartata dai muratori, gli eremiti jain si definivano ceppi scartati da ogni falegname. «La loro idea» dice il dottore «era che il visionario dovesse vivere ritirato dal mondo, rifiutando i piaceri e le comodità allo scopo di entrare in contatto con il divino.» Paulette porta un vassoio con il pranzo, ma Misty di cibo non ne vuole. Da dietro le palpebre chiuse, sente il dottore mangiare. La forchetta e il coltello che grattano sul piatto di porcellana. Il ghiaccio che tintinna nel bicchiere d'acqua. Lui dice: «Paulette?». Con la voce piena di cibo dice: «Puoi prendere quei disegni accanto alla porta e sistemarli in sala da pranzo con gli altri?». Un posto sicuro. Si sente odore di prosciutto e di aglio. Di qualcosa al cioccolato, anche, un budino o una torta. Si sente il dottore masticare, e il rumore umido di ogni boccone inghiottito. «La cosa interessante» dice il dottore «è la concezione del dolore come strumento spirituale.» Dolore e privazione. I monaci buddisti siedono sui tetti, astenendosi dal
cibo e dal sonno fino a raggiungere l'illuminazione. Isolati ed esposti al vento e al sole. Paragoniamoli a san Simeone marcito in cima alla sua colonna. O ai secoli di yogi che restavano sempre in piedi. O ai nativi americani che vagavano in cerca di visioni. O a santa Veronica, il cui unico cibo erano cinque semi d'arancia, masticati in memoria delle cinque piaghe di Gesù Cristo. O a Lord Byron, che digiunò e si purgò e compì la sua eroica traversata a nuoto dell'Ellesponto. Un anoressico romantico. Mosè ed Elia, che nell'Antico testamento digiunavano per ricevere le visioni. Le streghe nell'Inghilterra del diciassettesimo secolo, che digiunavano per compiere i loro incantesimi. O i dervisci rotanti, che si sfiniscono per raggiungere l'illuminazione. Il dottore continua a parlare, parlare, parlare. Tutti questi mistici, nel corso della storia, in tutto il mondo, hanno trovato il loro cammino verso l'illuminazione attraverso la sofferenza fisica. E Misty continua a dipingere. «E qui viene la parte interessante» dice la voce del dottore. «Secondo la teoria fisiologica degli emisferi cerebrali, il cervello è diviso in due metà, come una noce.» La parte sinistra del cervello si occupa della logica, del linguaggio, del calcolo e del ragionamento, dice. È la parte che le persone percepiscono come propria identità. È la base conscia, razionale, quotidiana della nostra realtà. La parte destra del cervello, le spiega il dottore, è il centro dell'intuizione, dell'emozione, del discernimento e della capacità di riconoscimento delle forme. Il subconscio. «La parte sinistra del cervello è uno scienziato» dice il dottore. «La parte destra è un artista.» Dice che la gente vive perlopiù con la parte sinistra del cervello. È solo quando una persona sperimenta un forte dolore, un'emozione negativa o una malattia, che il suo subconscio riesce a filtrare nel conscio. Quando qualcuno subisce una ferita, o una malattia, o un lutto, oppure è depresso, il cervello destro può prendere il sopravvento per un lampo, un istante, e fornirgli l'accesso all'ispirazione divina. Un lampo d'ispirazione. Un'intuizione. Lo psicologo francese Pierre Janet definiva questa condizione "abbassamento del livello mentale". Il dottore dice: «Abaissement du niveau mental». Quando siamo stanchi o depressi o affamati o stiamo male.
Secondo il filosofo tedesco Carl Jung, ciò ci consente di entrare in contatto con un corpus di conoscenza universale. La saggezza di tutti gli individui di tutti i tempi. Carl Jung, ciò che Peter disse a Misty di se stessa. L'oro. Il piccione. Il canale di St Lawrence. Frida Kahlo e le sue piaghe sanguinolente. I grandi artisti sono tutti invalidi. Secondo Platone, l'uomo non impara nulla. La nostra anima ha vissuto così tante vite che sappiamo ogni cosa. Gli insegnanti e l'istruzione possono solo ricordarci ciò che sappiamo già. La nostra infelicità. È questa soppressione della mente razionale la fonte dell'ispirazione. La musa. Il nostro angelo custode. La sofferenza ci permette di abbandonare l'autocontrollo e fa sì che il divino fluisca attraverso di noi. «Una quantità sufficiente di un qualsiasi stress» dice il dottore, «buono o cattivo, amore o dolore, può neutralizzare la nostra ragione e fornirci idee e talenti che in nessun altro modo potremmo ottenere.» Sono cose che potrebbe dire Angel Delaporte. Il metodo Stanislavskij delle azioni fisiche. Una formula affidabile per produrre miracoli a richiesta. Il respiro del dottore, che aleggia vicino a Misty, è tiepido sulla guancia. È odore di prosciutto e aglio. Il pennello si ferma, e Misty dice: «Questo è finito». Qualcuno bussa alla porta. La serratura scatta. Poi Grace, la sua voce, dice: «Come sta, dottore?». «Sta lavorando» dice lui. «Ecco, numera questo... 84. Poi mettilo insieme agli altri.» E Grace dice: «Misty, cara, forse ti farà piacere saperlo. Abbiamo cercato di contattare la tua famiglia. Per Tabbi». Si sente qualcuno sollevare la tela dal cavalletto. Dei passi che la portano dall'altra parte della stanza. Che aspetto abbia, Misty non lo sa. Non possono restituirle Tabbi. Forse ci riuscirebbe Gesù, o un buddista jain, ma nessun altro. Con la gamba fuori uso, sua figlia morta, suo marito in coma, lei stessa intrappolata lì dentro a consumarsi, avvelenata dai mal di testa: se ha ragione il dottore, Misty potrebbe camminare sulle acque. Potrebbe resuscitare i morti. Una mano morbida le si poggia sulla spalla, e la voce di Grace le si avvicina all'orecchio. «Oggi pomeriggio disperderemo le ceneri di Tabbi» di-
ce. «Alle quattro in punto, giù a Waytansea Point.» L'intera isola, ci saranno tutti. Come per il funerale di Harrow Wilmot. Il dottor Touchet che sistema il corpo nel suo ambulatorio con le piastrelle verdi, la sua scrivania d'acciaio da contabile e i diplomi appesi alle pareti coperti di cacche di mosca. Cenere alla cenere. Sua figlia dentro un'urna. La Gioconda di Leonardo non è altro che un migliaio di migliaia di tocchi di colore. Il David di Michelangelo non è altro che un milione di colpi di scalpello. Noi tutti siamo un milione di pezzetti assemblati nel modo giusto. Con lo scotch che tira sugli occhi e le mantiene rilassato il viso, una maschera, Misty dice: «Qualcuno è andato a dirlo a Peter?». Si sente un sospiro, un lungo inspirare e quindi un espirare. E Grace dice: «A cosa servirebbe?». È suo padre. Sei suo padre. La nuvola grigia di Tabbi si dissolverà nel vento, perdendosi lungo la costa, verso il paese, verso l'albergo, verso le case e la chiesa. Verso le insegne al neon e i cartelloni e i loghi aziendali e i marchi registrati. Caro, dolce, Peter, facciamo come se te l'avessi detto. 15 agosto Per la cronaca, uno dei problemi dell'accademia è che ti rende molto meno romantico. Tutte quelle boiate sui pittori e sulle loro soffitte scompaiono sotto la valanga di chimica, geometria e anatomia che ti fanno imparare. Le cose che impari ti spiegano il mondo. L'istruzione rende tutto così pulito e ordinato. Così risolto e sensato. Per tutto il tempo che uscì con Peter Wilmot, Misty seppe sempre che non era lui che amava. Le donne cercano soltanto l'esemplare fisico migliore per far da padre ai loro figli. Una donna sana è spinta a cercare il triangolo di muscoli glabri dentro il colletto sbottonato di Peter perché gli esseri umani si sono evoluti eliminando il pelo per poter sudare e mantenersi freschi mentre davano fondo a una qualche caldissima e ormai consunta forma di proteina pelosa animale. Gli uomini meno pelosi hanno anche meno possibilità di ospitare piattole, pulci e acari.
Prima dei loro appuntamenti, Peter prendeva uno dei quadri di Misty. Incorniciato e montato. E Peter premeva due lunghe strisce di nastro biadesivo extraresistente sul retro della cornice. Stando attento al nastro appiccicoso, si infilava il quadro sotto l'orlo del maglione sformato. Qualsiasi donna avrebbe adorato il modo in cui Peter si passava le mani nei capelli. È una scienza semplice. Il tocco fisico imita le pratiche di pulizia genitore-figlio vissute in tenera età. Stimola il rilascio di ormoni della crescita e dell'enzima ornitina decarbossilasi. Viceversa, le dita di Peter che le massaggiavano il retro del collo abbassavano naturalmente il livello dei suoi ormoni da stress. Tutto questo è stato dimostrato in laboratorio, accarezzando cuccioli di topo con un pennello. Appena impari la biologia, non sei più costretto a lasciarti manovrare da essa. Quando uscivano insieme, Peter e Misty giravano per musei e gallerie. Loro due da soli, passeggiando e parlando, con Peter che appariva vagamente quadrato sul davanti, vagamente gravido del quadro di Misty. Al mondo non esiste nulla di speciale. Nulla di magico. È solo fisica. Gli stupidi come Angel Delaporte, che cercano una spiegazione sovrannaturale a eventi ordinari, ecco, è questa gente che fa uscire di testa Misty. Passeggiando nelle gallerie, in cerca di uno spazio vuoto su una parete, Peter era un esempio vivente di sezione aurea, la formula usata dagli scultori dell'antica Grecia per ottenere proporzioni perfette. Peter aveva le gambe lunghe 1,6 volte il tronco. Aveva il tronco lungo 1,6 volte la testa. Osservati le dita, il modo in cui la prima falange è più lunga della seconda, e la seconda è più lunga dell'ultima. Questo rapporto si chiama Phi, dal nome greco dello scultore Fidia. L'architettura di te. Camminando, Misty parlò a Peter della chimica della pittura. Di come la bellezza fisica si rivela essere chimica e geometria e anatomia. L'arte, in realtà, è scienza. È scoprire come mai alla gente una cosa piace, in modo da poterla riprodurre. Copiare. "Creare" un sorriso autentico è un paradosso. Provare e riprovare un istante di terrore. Tutto il sudore e il tedio degli sforzi che servono a creare ciò che appare semplice e immediato. Quando la gente guarda il soffitto della Cappella Sistina, dovrebbe sapere che il colore nero carbone è fuliggine derivata da gas naturale. Che il carminio di robbia sono radici di robbia tritate. Che il verde smeraldo è acetoarsenito di rame, altresì detto verde Parigi e usato come insetticida. Un veleno. Che la porpora di Tiro si ricava dai molluschi.
E una volta Peter si fece scivolare il quadro da sotto il maglione. Quando furono soli nella galleria, senza nessuno che li potesse vedere, lui prese il dipinto di una casa di pietra dietro una palizzata e lo appoggiò contro il muro. Ed eccola lì, la firma di Misty Marie Kleinman. E Peter disse: «Te lo dicevo che un giorno le tue opere sarebbero finite appese in un museo». I suoi occhi sono marrone egiziano scuro, un tipo di colore ricavato tritando mummie, cenere di ossa e asfalto, utilizzato fino al diciannovesimo secolo, ovvero fino a quando gli artisti non ne scoprirono l'origine disgustosa. Dopo essersi torti anni di pennelli tra le labbra. Mentre Peter le baciava il collo sotto la nuca, Misty diceva che guardando La Gioconda bisognerebbe sapere che la terra di Siena bruciata è soltanto argilla tinta con ferro e manganese e cotta in forno. Che il nero seppia sono le sacche d'inchiostro degli omonimi molluschi. Che il rosa olandese sono bacche di ramno tritate. La lingua perfetta di Peter la leccò dietro l'orecchio. Sotto i suoi vestiti c'era qualcosa di duro che non era un quadro. E Misty sussurrò: «Il giallo indiano è urina di vacca nutrita a foglie di mango». Peter le cinse le spalle con un braccio. Con l'altro braccio le premette il retro del ginocchio facendoglielo piegare. La fece distendere sul pavimento in marmo di una galleria, e disse: «Te amo, Misty». Per la cronaca, la cosa la sorprese non poco. Premendole addosso il suo peso, Peter disse: «Tu pensi di sapere un sacco di cose» e la baciò. L'arte, l'ispirazione, l'amore. È tutto così semplice da dissezionare. Da spiegare. I colori da pittura, il verde iris o il verde linfa, sono succhi di fiori. Il marrone Cappagh è terra irlandese, sussurrava Misty. Il vermiglione è un minerale, il cinabro, fatto saltare da alte scogliere spagnole a colpi di freccia. Il bistro è la fuliggine giallo-bruna del faggio bruciato. Ogni capolavoro è soltanto terra e cenere assemblati in maniera perfetta. Cenere alla cenere. Polvere alla polvere. Anche quando si baciavano, tu chiudevi gli occhi. Misty i suoi li teneva aperti, e non per guardare te. Per guardare l'orecchino che portavi. Argento ossidato fin quasi a diventare marrone che conteneva un grappolo di diamanti di vetro quadrati, tutti luccicanti e sepolti tra i capelli neri che ti ricadevano sulle spalle. Era quello, che Misty amava.
Quella prima volta, Misty continuò a dirti: «Il colore grigio Davy è ardesia polverizzata. Il blu di Brema è un misto di idrossido di rame e carbonato di rame... un veleno mortale». Misty disse: «Il rosso scarlatto è fatto di iodio e mercurio. Il nero animale è fatto di ossa carbonizzate...». 16 agosto Il nero animale è fatto di ossa carbonizzate. La gommalacca è la merda che certi pidocchi lasciano su foglie e rami. Il drop black sono foglie di vite bruciate. I colori a olio sono fatti con olio di noci tritate o di semi di papavero. L'arte, più la scopri, più ti sembra stregoneria. Più scopri come ogni cosa viene tritata, mescolata, cotta, più somiglia alla cucina. Misty stava ancora parlando, parlando, parlando, ma stavolta giorni dopo, diverse gallerie dopo. Stavolta erano in un museo, con il suo dipinto di una grande chiesa di pietra appiccicato a una parete tra un Monet e un Renoir. Con Misty seduta a cavalcioni di Peter sul pavimento freddo. Era tardo pomeriggio, e il museo era deserto. Peter, con la sua perfetta testa di capelli neri premuta forte a terra, le stava infilando le mani nel maglione, e le sfiorava i capezzoli con i pollici. Le tue mani. Gli psicologi comportamentali dicono che gli esseri umani copulano frontalmente per via dei seni. Le femmine con i seni più grossi attraevano più partner, che durante il rapporto insistevano per giocherellare con i loro seni. L'incremento dei loro atti sessuali originò un maggior numero di femmine ereditariamente provviste di seni grossi. Donde l'incremento degli atti sessuali frontali. Lì, sul quel pavimento, con le mani di Peter che le sfioravano i seni, l'erezione che gli si spostava nei pantaloni, le cosce di Misty aperte sopra di lui, lei gli disse che William Turner aveva dipinto il suo capolavoro, Annibale che valica le Alpi per sconfiggere l'esercito dei Salassi, basandosi su un'escursione che aveva compiuto nella campagna dello Yorkshire. Un altro esempio di come ogni cosa sia un autoritratto. Misty raccontò a Peter ciò che impari studiando storia dell'arte. Che Rembrandt stendeva strati di colore così spessi che la gente scherzando diceva che i suoi ritratti si potevano sollevare per il naso. I capelli di Misty le ricadevano sul viso appesantiti dal sudore. Le gam-
be paffute tremavano, esauste ma ancora in grado di sorreggerla. Di farla strusciare sul rigonfiamento nei pantaloni di Peter. Le dita di Peter si strinsero più forte intorno ai suoi seni. I suoi fianchi spinsero verso l'alto, e il muscolo orbicolare del suo viso gli fece chiudere gli occhi fortissimo. Il muscolo triangolare gli tese gli angoli della bocca verso il basso scoprendo i denti inferiori. I suoi denti ingialliti dal caffè morsero l'aria. Un calore umido cominciò a pulsare dall'interno di Misty, e al tempo stesso l'erezione di Peter pulsava nei pantaloni, e di colpo tutto si fermò. Entrambi smisero di respirare per uno, due, tre, quattro, cinque, sei, sette lunghi secondi. Poi si accasciarono. Appassiti. Il corpo di Peter rilassato sul pavimento umido. Misty distesa su di lui. Entrambi con i vestiti incollati dal sudore. Mentre dall'alto della parete il dipinto della grande chiesa li osservava. E a quel punto arrivò un guardiano del museo. 20 agosto terzo quarto di luna La voce di Grace, nel buio, dice a Misty: «Ciò che stai facendo servirà alla tua famiglia per comprarsi la libertà». Dice: «Passeranno decenni prima di rivedere gente dell'estate da queste parti». A meno che Peter non si risvegli, Grace e Misty sono le sole Wilmot rimaste. A meno che tu non ti risvegli. Di Wilmot non ce ne saranno più. Si sente il rumore lento, controllato, di Grace che taglia qualcosa con le forbici. Dalle stalle alle stelle e di nuovo alle stalle nel giro di tre generazioni. Non ha senso ricostituire il patrimonio della famiglia. Lasciamo che la casa vada alla chiesa cattolica. Che il popolo dell'estate sciami sull'isola e la invada. Ora che Tabbi è morta, nel futuro dei Wilmot non resta alcun motivo di interesse. Alcun investimento. Grace dice: «La tua opera è un dono fatto al futuro, e chiunque tenti di ostacolarla verrà maledetto dalla storia». Intanto che Misty dipinge, la mano di Grace le cinge qualcosa intorno alla vita, poi intorno alle braccia, e quindi intorno al collo. Qualcosa che le sfrega la pelle, leggero e morbido. «Misty, cara, la tua vita misura 43 centimetri» dice Grace.
È un metro a nastro. Qualcosa di liscio si insinua tra le labbra di Misty, e la voce di Grace dice: «È ora di prendere un'altra pillola». Una cannuccia le penetra in bocca, e Misty sorseggia il minimo d'acqua necessario per inghiottire la capsula. Nel 1891, Théodore Géricault dipinse il suo capolavoro, La zattera della Medusa. Raffigurava dieci naufraghi, su centoquarantasette persone, che in seguito all'affondamento di una nave sopravvissero per due settimane a bordo di una zattera. All'epoca, Géricault aveva appena abbandonato la sua signora incinta. Per punirsi si rasò il cranio. Non vide gli amici per quasi due anni, smise di mostrarsi in pubblico. Aveva ventisette anni e viveva isolato, dipingendo. Circondato dai moribondi e dai cadaveri che studiava per creare il suo capolavoro. Dopo vari tentativi di suicidio, morì a trentadue anni. Grace dice: «Tutti quanti moriamo». Dice: «L'obiettivo non è quello di vivere in eterno, ma di creare qualcosa che lo faccia al nostro posto». Appoggia il metro a nastro sulle gambe di Misty. Qualcosa di freddo e liscio scivola contro una guancia di Misty, e la voce di Grace le dice: «Senti». Grace dice: «È raso. Ti sto cucendo il vestito per l'inaugurazione». Anziché "vestito", a Misty pare di sentir dire sudario. Le basta il contatto fisico per capire che è raso bianco. Grace sta tagliando l'abito nuziale di Misty. Lo ricrea. Affinché duri per sempre. Affinché resusciti. Affinché rinasca. L'abito emana ancora il suo profumo, Wind Song, e Misty ci si riconosce. Grace dice: «Abbiamo invitato tutti quanti. Tutto il popolo dell'estate. La tua inaugurazione sarà il più importante evento sociale da cent'anni a questa parte». Come il suo matrimonio. Il nostro matrimonio. Al posto di "inaugurazione", Misty capisce immolazione. Grace dice: «Hai quasi finito. Altri diciotto dipinti appena, e avrai finito». Per arrivare a cento tondi tondi. Al posto di "avrai finito", Misty capisce sarai finita. 21 agosto Oggi, nel buio dietro le palpebre di Misty, scatta l'allarme antincendio dell'hotel. Un lungo suono di campanello nel corridoio che entra dalla por-
ta così forte da far urlare a Grace: «Dio, ma che succede?». Grace appoggia una mano sulla spalla di Misty e dice: «Tu continua a lavorare». La mano stringe, e Grace dice: «Finisci quest'ultimo. Non ci servirà nient'altro». I suoi passi si allontanano, e la porta che dà sul corridoio si apre. Per un attimo l'allarme è più forte, acuto e lacerante come la campanella dell'intervallo della scuola di Tabbi. Come quella della scuola che ha frequentato lei stessa, da bambina. Poi il suono si attenua nuovamente, e Grace si richiude la porta alle spalle. Non a chiave. Ma Misty continua a dipingere. Sua madre, a Tecumseh Lake, quando Misty le disse che forse avrebbe sposato Peter e si sarebbe trasferita a Waytansea Island, sua madre le disse che tutti i grandi patrimoni si costruiscono sull'inganno e sul dolore. Più un patrimonio è grande, le disse, più gente ha sofferto. Per i ricchi, le disse, il primo matrimonio è una pura questione riproduttiva. Chiese a Misty se davvero intendeva trascorrere il resto della sua vita circondata da persone di quel genere. Sua madre le chiese: «Non vuoi più fare l'artista?». Per la cronaca, Misty le rispose ma sì, certo. E non che fosse così innamorata di Peter. Misty non sapeva spiegarselo. Sapeva solo che non poteva tornare a casa, non in quel parcheggio roulotte. Non più. Magari è semplicemente il compito di una figlia, quello di rompere le palle alla madre. Non te lo insegnano all'accademia. L'allarme antincendio continua a suonare. La settimana che Misty e Peter fuggirono insieme, fu durante le vacanze di Natale. Per tutta una settimana, Misty lasciò che sua madre si preoccupasse. Il prete guardò Peter e gli disse: «Sorridi, figliolo. Sembri uno che ha davanti il plotone d'esecuzione». Sua madre telefonò al college. Telefonò agli ospedali. A un pronto soccorso era stato portato il cadavere di una donna, una ragazza trovata nuda in un fosso con cento coltellate allo stomaco. La madre di Misty passò il giorno di Natale attraversando in macchina tre stati per andare a vedere il corpo di questa ragazza senza nome. Mentre Peter e Misty percorrevano la navata centrale della chiesa di Waytansea, sua madre tratteneva il respiro osservando un detective della polizia aprire la cerniera di un sacco di plastica contenente un cadavere.
In quella vita precedente, Misty telefonò a sua madre un paio di giorni dopo Natale. Seduta a casa Wilmot, dietro una porta chiusa a chiave, Misty sfiorò con le dita la bigiotteria che Peter le aveva regalato durante il fidanzamento, gli strass e le perle finte. Sulla segreteria telefonica, Misty ascoltò una dozzina di messaggi della madre in preda al panico. Quando infine trovò il tempo di comporre il numero di Tecumseh Lake, sua madre le attaccò il telefono in faccia. Poco male. Un piccolo pianto, e Misty sua madre non la chiamò mai più. Waytansea Island le sembrava già più casa sua di quanto non le fosse mai successo in quella roulotte. L'allarme antincendio dell'hotel continua a suonare, e da dietro la porta qualcuno dice: «Misty? Misty Marie?». Bussano. È la voce di un uomo. E Misty dice: sì? L'allarme aumenta di volume quando la porta si apre, poi scema. Un uomo dice: «Cristo, che puzza che c'è qui dentro!». Ed è Angel Delaporte, venuto a salvarla. Per la cronaca, il tempo previsto per oggi è frenetico, in preda al panico e leggermente frettoloso nell'istante in cui Angel le stacca lo scotch dalla faccia. Le strappa di mano il pennello. Angel le dà uno schiaffo, uno schiaffo forte su ciascuna guancia, e dice: «Si svegli. Non abbiamo molto tempo». Angel Delaporte la schiaffeggia come si schiaffeggiano le galline delle soap opera in spagnolo. Misty è pelle e ossa. L'allarme antincendio continua a suonare e suonare. Socchiudendo gli occhi contro la luce che entra dall'unica, piccola finestra, Misty dice basta. Misty dice che non capisce. Che deve dipingere. Che non le è rimasto altro. L'immagine davanti a lei è un riquadro di cielo, macchie d'azzurro e bianco, qualcosa di incompiuto, ma che riempie l'intero foglio di carta. Accatastate contro il muro accanto alla porta ci sono altre immagini, rivolte verso il muro. Ciascuna con un numero scritto a matita sul retro. Novantasette su una. Novantotto. Novantanove su un'altra. L'allarme continua a suonare e suonare. «Misty» dice Angel. «Qualunque cosa fosse questo esperimento, sappia che è finito.» Si allontana verso l'armadio e tira fuori un accappatoio e un paio di sandali. Torna indietro e glieli infila ai piedi, dicendo: «Ci metteranno più o meno due minuti a capire che è un falso allarme». Angel le infila le mani sotto le braccia e la fa alzare tirandola su di peso.
Stringe il pugno e lo picchia sull'ingessatura, dicendo: «Ma cos'è questa roba?». Misty gli chiede: perché è venuto? «Quella pillola che mi ha dato» dice Angel, «mi ha procurato la peggior emicrania della mia vita.» Buttandole l'accappatoio sulle spalle dice: «L'ho fatta analizzare da un farmacista». Infilando le braccia stanche di Misty dentro le maniche dell'accappatoio dice: «Io non lo so che razza di dottore abbia lei, ma quelle capsule contengono polvere di piombo, con tracce di arsenico e mercurio». Gli elementi tossici dei colori a olio: rosso Vandyke, cianuro di ferro; rosso scarlatto, ioduro di mercurio; biacca olandese, carbonato di piombo; viola cobalto, arsenico. Tutti quei bei composti e pigmenti tanto cari agli artisti che però si rivelano letali. Il fatto che il tuo sogno, creare un capolavoro, ti farà prima perdere la ragione, e poi ti ucciderà. Lei, Misty Marie Wilmot la tossica avvelenata e posseduta dal demonio, Carl Jung e Stanislavskij, lei che dipinge curve e angoli perfetti. Misty dice che Angel non capisce. Misty dice Tabbi, sua figlia. Dice che Tabbi è morta. E Angel si blocca. Con le sopracciglia che si inarcano di sorpresa dice: «Come?». Qualche giorno fa, o forse qualche settimana. Misty non lo sa. Tabbi è annegata. «Ne è sicura?» dice lui. «Il giornale non ne ha parlato.» Per la cronaca, Misty non è sicura di niente. Angel dice: «Sento odore di urina». È il catetere. Si è sfilato. Stanno lasciando una scia di piscio che parte dal cavalletto, esce dalla stanza e prosegue lungo la moquette del corridoio. Di piscio e solchi lasciati dall'ingessatura che Misty si trascina dietro. «E scommetto» dice Angel, «che anche quella gamba ingessata è perfettamente inutile.» Dice: «Ha presente la poltrona del disegno che mi ha venduto?». Misty dice: «Ebbene?». Cingendola con le braccia, Angel la trascina attraverso una porta, giù per le scale. «Quella poltrona fu progettata dal mobiliere Hershel Burke nel 1879» dice, «e spedita alla famiglia Burton di Waytansea Island.» L'ingessatura urta rumorosamente contro ogni gradino. Con le dita di Angel che stringono troppo forte, che le fanno male alle costole, che affondano e trivellano sotto le braccia, Misty gli dice: «Un detective della
polizia». Misty dice: «Mi ha detto che un gruppo di ecologisti sta bruciando tutte le case con le scritte di Peter». «Tutte bruciate» dice Angel. «Compresa la mia. Non ci sono più.» L'Alleanza oceanica per la libertà. Abbreviato in AOL. Con le mani ancora infilate nei guanti da guida in pelle, Angel la trascina giù per un'altra rampa di scale, dicendo: «Questo significa che sta accadendo qualcosa di paranormale, se ne rende conto?». Prima Angel Delaporte dice che è impossibile disegnare così bene. Ora invece salta fuori che uno spirito malvagio la sta usando come lavagnetta magica umana. Misty è buona solo come strumento da disegno del demonio. Misty dice: «Sapevo che l'avrebbe detto». Perché Misty sa cosa sta succedendo. Misty dice: «Si fermi». Dice: «Perché è venuto qui?». Perché da quando è iniziato tutto quanto si è comportato da amico? Cos'è che trattiene Angel Delaporte dal tormentarla? Quando Peter gli ha devastato la cucina, quando Misty gli ha affittato casa sua, erano perfetti estranei. E ora fa scattare allarmi antincendio e la trascina giù per le scale. Lei che ha perso una figlia e ha un marito in coma. Le spalle di Misty si girano di scatto. Il suo gomito schizza verso l'alto e colpisce Angel in faccia, schiocca contro le sopracciglia cancellate. Perché la lasci andare. Perché la lasci in pace. Misty dice: «Basta». Lì, sulle scale, l'allarme tace. Cala il silenzio. L'unico suono è il ronzio che Misty ha nelle orecchie. Si sentono voci provenire dai corridoi dei vari piani. Dalla soffitta una voce dice: «Misty è sparita. Non è più nella sua stanza». È il dottor Touchet. Prima che possano scendere un altro gradino, Misty agita il pugno contro Angel. Misty sussurra: «Me lo dica». Accasciata sulle scale sussurra: «Perché cazzo mi sta rompendo i coglioni?». 21 agosto ... e mezzo Tutte le cose che Misty amava di Peter, Angel le aveva amate per primo. All'accademia c'erano Angel e Peter, Misty era arrivata dopo. Avevano pianificato tutto il loro futuro. Non come artisti, ma come attori. Non aveva importanza che facessero soldi o meno, gli aveva detto Peter. Aveva
detto Peter ad Angel Delaporte. Qualcuno della generazione di Peter avrebbe sposato una donna destinata a rendere la famiglia Wilmot e tutta la comunità così ricche che nessuno avrebbe mai più dovuto lavorare. I dettagli di questo sistema non glieli spiegò mai. Non glieli spiegasti mai. Peter però disse che ogni quattro generazioni, un ragazzo dell'isola incontrava una donna che doveva sposare. Una studentessa d'arte. Come nelle fiabe di una volta. Se la portava a casa, e lei cominciava a dipingere talmente bene da rendere Waytansea Island ricca per altri cent'anni. Lui sacrificava la sua vita, ma si trattava di una vita sola. E solo una volta ogni quattro generazioni. Peter aveva mostrato ad Angel Delaporte la sua bigiotteria. Gli aveva raccontato l'antica usanza, di come la donna che avesse reagito a quei gioielli, che ne fosse rimasta ammaliata e intrappolata, sarebbe stata la donna della fiaba. Tutti i maschi della sua generazione dovevano iscriversi all'accademia. Dovevano indossare uno di quei gioielli, graffiato e arrugginito e ossidato. Dovevano conoscere più donne possibile. Come te. Caro, dolce, segretamente bisessuale Peter. Il "Pisello ambulante" da cui gli amici di Misty avevano tentato di metterla in guardia. Le spille se le conficcavano in fronte, nei capezzoli. Nell'ombelico e negli zigomi. Le collane se le facevano passare attraverso buchi nel naso. Si rendevano rivoltanti di proposito. Disgustosi. Per impedire alle donne di ammirarli, pregando che a incontrare la fantomatica donna fosse qualcun altro. Perché il giorno in cui questo povero sfortunato l'avesse sposata, tutti gli altri maschi della sua generazione sarebbero stati liberi di vivere la loro vita. E come loro, anche le tre generazioni successive. Dalle stalle alle stelle alle stalle. Anziché progredire, l'isola era intrappolata in questo ciclo infinito. Obbligata a riciclare lo stesso antico successo. La rievocazione di un'epoca. Lo stesso rituale. Era Misty, la donna che il povero sfortunato avrebbe incontrato. Misty era la donna della loro fiaba. Lì, sulle scale dell'hotel, Angel le ha raccontato tutto questo. Perché non era mai riuscito a capire come mai Peter se ne fosse andato per sposarla. Perché Peter non aveva mai avuto il coraggio di raccontarglielo. Perché Peter non l'ha mai amata, dice Angel Delaporte.
Non l'hai mai amata. Brutto sacco di merda. E a quello che non capisci puoi dare qualunque significato. Perché Peter non aveva fatto altro che adempiere a un destino da fiaba. A una superstizione. A una leggenda dell'isola, e poco importa che Angel avesse tentato di farlo ragionare, Peter continuava a ripetere che Misty era il suo destino. Il tuo destino. Peter continuava a ripetere che la sua vita andava sprecata, che doveva sposare una donna di cui non era innamorato perché così facendo avrebbe salvato la sua famiglia, i suoi futuri figli, la sua intera comunità dalla miseria. Dal perdere il controllo del loro piccolo, bellissimo mondo. Della loro isola. Perché il sistema funzionava da centinaia di anni. Accasciato lì sulle scale, Angel dice: «Ecco perché l'ho assunto per farmi i lavori in casa. Ecco perché l'ho seguito fin qui». Lui e Misty sulle scale, l'ingessatura tesa in mezzo a loro, Angel Delaporte si sporge verso di lei, con l'alito carico di vino rosso, e dice: «Voglio solo che mi dica perché lui ha sigillato quelle stanze. E perché anche la stanza - la 313 - proprio qui in questo hotel?». Perché Peter ha sacrificato la vita per sposarla? I suoi graffiti non erano una minaccia. Angel dice che sono un avvertimento. Perché Peter stava cercando di mettere in guardia tutti quanti? Una porta si apre in cima alla tromba delle scale, e una voce dice: «Eccola». È Paulette, l'addetta alla reception. Sono Grace Wilmot e il dottor Touchet. È Brian Gilmore, che dirige l'ufficio postale. E la vecchia signora Terrymore della biblioteca. Brett Petersen, il direttore dell'hotel. Matt Hyland del negozio di alimentari. È l'intero consiglio del paese, e sta scendendo le scale verso di loro. Angel si protende ancora di più, afferra Misty per un braccio e dice: «Peter non si è ucciso». Indica le scale in alto e dice: «Sono stati loro. Sono loro che l'hanno ucciso». E Grace Wilmot dice: «Misty, cara. Devi rimetterti al lavoro». Scuote la testa, schiocca la lingua con disappunto, e dice: «Siamo così vicini alla fine». E le mani di Angel, i suoi guanti da guida in pelle, mollano la presa. Angel indietreggia, scende di un gradino, dice: «Peter mi aveva avvertito». Spostando lo sguardo dalla folla sopra di loro a Misty, e di nuovo alla folla, indietreggia e dice: «Voglio solo sapere... cosa sta succedendo?».
Da dietro le spalle di Misty, mani si chiudono su di lei, sulle sue braccia, e la sollevano. E Misty tutto quel che riesce a dire è: «Peter era gay?». Sei gay? Ma Angel Delaporte continua a scendere le scale, all'indietro, incespicando. Raggiunge il pianerottolo successivo, e continua a gridare su per la tromba delle scale: «Io vado dalla polizia!». Grida: «La verità è che Peter stava cercando di salvare gli altri da voi!». 23 agosto Le sue braccia sono nient'altro che corde flosce di pelle. Dietro il collo, sente le ossa legate da tendini rinsecchiti. Infiammati. È indolenzita e stanca. Le spalle penzolano dalla base del cranio appese alla spina dorsale. Il suo cervello potrebbe essere un sasso nero abbrustolito dentro la testa. I peli pubici stanno ricrescendo, e la pelle coperta di bollicine intorno al catetere prude. Con un nuovo pezzo di carta davanti, una tela vuota, Misty prende un pennello o una penna, e non succede niente. Quando Misty disegna, costringendo la sua mano a fare qualcosa, viene fuori una casa di pietra. Un roseto. Nient'altro che la sua faccia. Il suo diario in forma di autoritratto. Rapida com'è venuta, l'ispirazione se n'è andata. Qualcuno le scioglie la benda che ha in testa, e la luce del sole che entra dalla finestra dell'abbaino le fa socchiudere gli occhi. È così chiara, così accecante. Qui con lei c'è il dottor Touchet, che dice: «Congratulazioni, Misty. È tutto finito». La stessa cosa che disse quando nacque Tabbi. L'immortalità artigianale di Misty. Dice: «Ti ci vorrà qualche giorno prima di riuscire di nuovo a stare in piedi» e le passa un braccio dietro la schiena, afferrandola sotto le ascelle, facendola alzare. Sul davanzale della finestra, qualcuno ha lasciato la scatola di bigiotteria di Tabbi. I pezzettini di vetro scintillanti da due soldi tagliati a forma di diamante. Ogni sfaccettatura che riflette luce in una direzione diversa. Abbagliante. Un piccolo falò nella luce del sole che riverbera dall'oceano. «Vuoi stare vicino alla finestra?» dice il dottore. «O preferisci addormentarti?» Al posto di "addormentarti", Misty capisce ammazzarti.
La stanza è esattamente come la ricordava. Con il cuscino di Peter sul letto, il suo odore. I dipinti sono spariti, tutti quanti. Misty dice: «Che cosa ne avete fatto?». Il tuo odore. E il dottor Touchet la guida verso una poltrona accanto alla finestra. La adagia su una coperta stesa sulla poltrona e dice: «Hai fatto un altro lavoro perfetto. Non potevamo chiedere di meglio». Apre le tende rivelando l'oceano, la spiaggia. Il popolo dell'estate che si accalca lungo il bordo dell'acqua. I rifiuti sul bagnasciuga. Un trattore da spiaggia che avanza scoppiettando con un rullo al traino. Il cilindro d'acciaio rotola, imprimendo nella sabbia umida un triangolo sghembo. Il logo di una qualche azienda. Accanto al logo, stampate nella sabbia, si leggono le parole: "Usiamo gli errori passati per costruire un futuro migliore". La vaga dichiarazione di obiettivi di chissà chi. «Tempo una settimana» dice il dottore, «e quell'azienda pagherà una fortuna per cancellare il suo nome da quest'isola.» A quello che non capisci puoi dare qualunque significato. Il trattore trascina il rullo, stampando all'infinito il suo messaggio che poi le onde cancellano. Il dottore dice: «Quando si schianta un aereo, tutte le compagnie aeree pagano per cancellare la loro pubblicità da giornali e televisione. Lo sapevi, questo? Nessuno vuole rischiare di essere associato con quel genere di disastro». Dice: «Tra una settimana, su quest'isola non rimarrà un solo cartellone pubblicitario. Pagheranno tutto quel che devono pagare per ricomprarsi il loro nome». Il dottore unisce le mani esanimi di Misty e gliele posa in grembo. Prepara il suo corpo. Dice: «Adesso riposa. Tra poco verrà su Paulette a prendere l'ordinazione per la cena». Per la cronaca, il dottore si avvicina al comodino e prende il flacone di capsule. Andandosene, se lo fa scivolare nella tasca della giacca senza dire una parola. «Tempo una settimana» dice, «e il mondo intero avrà paura di questo posto. Ma perlomeno ci lasceranno in pace.» Uscendo, non chiude la porta a chiave. Nella vita precedente, Peter e Misty vivevano in subaffitto in un appartamento a New York, quando un giorno Grace chiamò per dire che Harrow era morto. Il padre di Peter era morto, e sua madre era rimasta sola nella grande casa di Birch Street. Alta quattro piani, con la sua catena montuosa di tetti, le sue torri e i suoi bovindi. E Peter disse che dovevano tornare per
prendersi cura di lei. Per occuparsi delle proprietà di Harrow. Peter era il suo esecutore testamentario. Questione di pochi mesi, disse. Poi Misty rimase incinta. Continuarono a ripetersi che sarebbero tornati a vivere a New York. Poi divennero genitori. Per la cronaca, Misty non poteva lamentarsi. Ci fu un breve intervallo di tempo, i primi anni dopo la nascita di Tabbi, in cui le bastava raggomitolarsi sul letto con lei per non desiderare nient'altro al mondo. La nascita di Tabbi aveva reso Misty parte di qualcosa, del clan Wilmot, dell'isola. Si sentiva completa e più serena di quanto avrebbe mai creduto possibile. Le onde sulla spiaggia fuori dalla finestra della camera da letto, le strade silenziose, l'isola era talmente lontana dal resto del mondo che smettevi di avere desideri. Di avere bisogni. Preoccupazioni. Aspirazioni. Di aspettarti sempre qualcosa di più. Misty smise di dipingere e di farsi le canne. Non aveva più bisogno di realizzare o diventare o fuggire. Le bastava essere lì. I rituali quieti del lavare i piatti o ripiegare i vestiti. Quando Peter tornava a casa, si sedevano nella veranda con Grace. Leggevano storie a Tabbi finché non era ora che andasse a letto. Cigolavano sui vecchi mobili di vimini, con le falene che sciamavano intorno alla luce della veranda. Dalle profondità della casa, una pendola batteva l'ora. Dai boschi accanto al paese capitava di udire una civetta. Al di là dell'acqua, i paesi della terraferma erano gremiti, tappezzati di cartelloni che reclamizzavano prodotti di città. La gente mangiava cibo scadente per le strade e gettava rifiuti sulla spiaggia. Il motivo per cui l'isola non aveva mai sofferto era... che non c'era nulla da fare. Niente stanze in affitto. Niente alberghi. Niente case di vacanza. Niente feste. Non potevi comprare da mangiare perché non c'erano ristoranti. Nessuno vendeva conchiglie dipinte a mano con su scritto in oro "Waytansea Island". Le spiagge erano di scogli sulla costa oceanica, fangose e con fondali ricchi di ostriche sul lato che guardava la terraferma. Più o meno a quell'epoca, il consiglio cittadino cominciò ad adoperarsi per riaprire l'hotel chiuso da tempo. Fu un momento di follia, ognuno che dava fondo ai suoi risparmi, tutte le famiglie dell'isola che contribuivano a finanziare la ricostruzione di quella vecchia rovina bruciata e fatiscente sulla collina sopra il porto. Che dilapidavano i rimasugli delle loro risorse per attrarre vagonate di turisti. Condannando la generazione successiva a
servire ai tavoli, pulire stanze, dipingere squallidi souvenir di conchiglie. Dimenticare il dolore è difficilissimo, ma ricordare la dolcezza lo è ancor di più. La felicità non ci lascia cicatrici da mostrare. Dalla quiete impariamo così poco. Raggomitolata sulla trapunta, parte di ogni persona per generazioni, Misty poteva abbracciare sua figlia. Misty poteva stringere a sé la sua bambina, raccogliere il suo corpo intorno a Tabbi, come se fosse ancora dentro di lei. Ancora parte di Misty. Immortale. L'acidulo odore di latte di Tabbi, del suo respiro. L'odore dolce del borotalco, quasi di zucchero a velo. Il naso di Misty si rincantucciava nel collo tiepido della sua bambina. Immersi in quegli anni, non c'era motivo di avere fretta. Erano giovani. Il loro mondo era pulito. La domenica si andava in chiesa. Si leggevano libri, immersi nella vasca da bagno. Si raccoglievano bacche selvatiche, e la sera si preparava la marmellata, mentre in cucina soffiava una brezza fresca e le finestre erano aperte. Sapevano sempre in quale fase si trovava la luna, ma raramente che giorno della settimana fosse. Per quel piccolo intervallo di anni, Misty riuscì a rendersi conto che la sua vita non era un fine. Che lei era un mezzo per il futuro. Facevano appoggiare Tabbi contro la porta d'ingresso. Contro tutti quei nomi dimenticati che c'erano ancora. Quei bambini ormai morti. Segnavano la sua altezza con un pennarello. Tabbi, quattro anni. Tabbi, otto anni. Per la cronaca, il tempo previsto per oggi è un tantino sentimentale. Qui, seduta davanti alla finestra dell'abbaino della sua stanza nella soffitta del Waytansea Hotel, con l'isola che si dispiega sotto di lei, sudicia di estranei e di messaggi. Di cartelloni e di neon. Di loghi. Di marchi registrati. Il letto su cui Misty si raccoglieva intorno a Tabbi, cercando di tenersela dentro. Ora ci dorme Angel Delaporte. Un pazzo. Un maniaco. Nella sua stanza, nel suo letto, accanto alla finestra, con il sibilo e l'esplosione delle onde che fuori si infrangono. In casa di Peter. In casa nostra. Nel nostro letto. Fino a che Tabbi non aveva compiuto dieci anni, il Waytansea Hotel era rimasto sigillato, vuoto. Le finestre, chiuse con i pannelli di compensato inchiodati nella cornice. Le porte chiuse da assi.
L'estate in cui Tabbi aveva compiuto dieci anni, l'hotel aveva riaperto. Il paese era diventato un esercito di facchini e cameriere, di donne delle pulizie e addetti all'accoglienza. Fu l'anno in cui Peter cominciò a lavorare fuori dall'isola, erigendo muri a secco. Piccole ristrutturazioni per gente dell'estate con troppe case a cui stare dietro. Una volta riaperto l'hotel, il traghetto iniziò a fare corse quotidiane, per tutto il giorno, stipando l'isola di turisti e traffico. Poi arrivarono i bicchieri di carta e gli involucri dei fast food. Gli antifurto delle auto e le lunghe file per trovare un parcheggio. I pannolini usati che la gente abbandonava sulla sabbia. Da allora, per l'isola è stato un declino inarrestabile, fino a quest'anno, fino a che Tabbi non ha compiuto tredici anni, fino a che Misty non è entrata nel garage trovando Peter addormentato in macchina e il serbatoio vuoto. Finché la gente non ha cominciato a chiamare lamentandosi di lavanderie che non c'erano più, di stanze per gli ospiti scomparse. Finché Angel Delaporte non è finito esattamente dove aveva sempre voluto finire. Nel letto di suo marito. Nel tuo letto. Angel disteso sul letto di Misty. Angel che dorme con il disegno di quella poltrona antica. Misty a mani vuote. Tabbi che non c'è più. L'ispirazione che non c'è più. Per la cronaca, Misty non l'ha mai detto a nessuno, ma Peter aveva riempito una valigia e l'aveva caricata nel baule della macchina. Una valigia da portare con sé, un cambio d'abiti per l'inferno. Non aveva senso. Ma niente di ciò che Peter ha fatto negli ultimi tre anni ha mai avuto molto senso. Fuori dalla finestrella della sua soffitta, giù sulla spiaggia, i bambini sguazzano tra le onde. Ce n'è uno con una camicia bianca tutta increspata e dei pantaloni neri. Sta parlando con un altro bambino, che indossa soltanto dei pantaloncini da calcio. Si passano ripetutamente una sigaretta, che fumano a turno. Quello con la camicia bianca increspata ha i capelli neri, lunghi quanto basta per sistemarseli dietro le orecchie. Sul davanzale c'è la scatola di bigiotteria di Tabbi. I braccialetti, gli orecchini orfani e le vecchie spille scheggiate. I gioielli di Peter. Che si spostano rumorosamente nella scatola insieme ai diamanti di vetro e alle perle staccate. Dalla sua finestra, Misty guarda la spiaggia dove ha visto Tabbi per l'ultima volta. Dov'è accaduto. Il bambino con i capelli neri corti porta un orecchino, qualcosa che scintilla d'oro e rosso. E senza che nessuno possa
sentirla, Misty dice: «Tabbi». Stringendo con le dita il davanzale, Misty si sporge dalla finestra con la testa e le spalle e grida: «Tabbi?». Ora metà del suo corpo è fuori, Misty rischia di cadere sulla veranda cinque piani più in basso, e strilla: «Tabbi!». Ed è lei. È Tabbi. Con i capelli tagliati. Che civetta con un bambino. E fuma. Il bambino butta fuori il fumo che non ha respirato e restituisce la sigaretta. Si ravvia i capelli e ride coprendosi la bocca con una mano. I suoi capelli sono una bandiera nera che vibrs nel vento oceanico. Le onde sibilano e scoppiano. I suoi capelli. I tuoi capelli. Misty si contorce attraverso la finestra, e la scatola cade fuori. La scatola scivola sul tetto di legno. Urta la grondaia e si rovescia, e i gioielli volano. Cadono luccicando di rosso e giallo e verde, accesi come fuochi d'artificio, e si schiantano, come tra poco capiterà a Misty, in mille pezzi sul pavimento di cemento della veranda. Solo i quaranta e passa chili dell'ingessatura, della sua gamba incastonata nella fibra di vetro, le impediscono di cadere dalla finestra. Poi due braccia la circondano, e una voce dice: «Misty, no». Qualcuno la tira indietro, ed è Paulette. Per terra c'è un menu del servizio in camera. Le braccia di Paulette la avvolgono da dietro. Le sue mani si afferrano l'una con l'altra, e Paulette strattona Misty, facendola piroettare sul peso solido dell'ingessatura a tutta gamba, buttandola a faccia in giù sulla moquette macchiata di pittura. Ansimando, ansimando e trascinando la sua enorme gamba in fibra di vetro, la sua palla al piede, di nuovo verso la finestra, Misty dice: «Era Tabbi». Misty dice: «Là fuori». Il catetere si è sfilato, di nuovo, la pipì è schizzata ovunque. Paulette si rialza. In faccia ha una smorfia, il muscolo risorio le arriccia la faccia intorno al naso mentre si asciuga le mani sulla camicetta scura. Si sistema la camicetta dentro l'elastico della gonna e dice: «No, Misty. Non era lei». E raccoglie il menu del servizio in camera. Misty deve scendere di sotto. Deve uscire. Deve trovare Tabbi. Paulette deve aiutarla a togliere l'ingessatura. Devono chiamare il dottor Touchet e dirgli di tagliarla. E Paulette scuote la testa e dice: «Se te la tolgono, resterai storpia a vita». Si avvicina alla finestra e la chiude. Chiude anche i fermi, e tira le tende.
E dal pavimento Misty dice: «Ti prego, Paulette. Aiutami ad alzarmi». Ma Paulette comincia a battere il piede. Si sfila un blocchetto per le ordinazioni dalla tasca della gonna e dice: «In cucina è finito il pesce bianco». E per la cronaca, Misty è ancora in trappola. Misty è in trappola, ma forse sua figlia è viva. Tua figlia. «Una bistecca» dice Misty. Misty vuole la bistecca di manzo più spessa che hanno. E ben cotta. 24 agosto In realtà quello che Misty vuole è un coltello da bistecca. Vuole un coltello seghettato per incidere lateralmente quest'ingessatura, e vuole che dopo cena Paulette non si accorga che il coltello manca dal vassoio. Paulette non se ne accorge, e uscendo nemmeno chiude la porta a chiave. Che bisogno c'è, dal momento che Misty è zavorrata da un quintale di fottutissima fibra di vetro? Per tutta la notte Misty resta a letto, a grattare e tagliare. Misty sega l'ingessatura. Affondando la lama del coltello e raccogliendosi nella mano i trucioli di fibra di vetro, gettandoli sotto il letto. Misty è una reclusa che scava un tunnel per fuggire da una prigione minuscola, una prigione coperta di fiori e uccelli disegnati a pennarello da Tabbi. Impiega fino a mezzanotte per tagliare dalla vita a metà coscia. Il coltello continua a scivolarle, si pianta nel fianco, lo trafigge. Giunta al ginocchio, Misty crolla dal sonno. È piena di croste e di sangue secco. Incollata alle lenzuola. Alle tre del mattino è arrivata appena a metà polpaccio. È quasi libera, però si addormenta. Qualcosa la risveglia, con il coltello ancora in mano. L'ennesimo giorno più lungo dell'anno. Di nuovo. Il rumore è quello della portiera di un'auto sbattuta, giù nel parcheggio. Tenendosi chiusa l'ingessatura spaccata in due, Misty riesce ad andare alla finestra e guarda. È un'auto marroncina della contea, quella del detective Stilton. Lui non c'è, perciò dev'essere entrato nell'atrio dell'hotel. Forse la sta cercando. Forse stavolta la troverà. Con il coltello da bistecca, Misty ricomincia a sferrare colpi. Colpisce e,
mezza addormentata, si pianta la lama nel muscolo del polpaccio. Il sangue la inonda, rosso scuro sulla pelle bianchissima, sulla gamba per troppo tempo sigillata. Misty colpisce di nuovo, e si trafigge lo stinco, la lama trapassa la pelle sottile e va a conficcarsi nell'osso. Ma lei continua, e dal coltello schizzano gocce di sangue e schegge di fibra di vetro. Frammenti dei fiori e degli uccelli di Tabbi. Frammenti di peli e di pelle. Con entrambe le mani, Misty afferra i due lembi ai lati della fenditura. Forza l'ingessatura fino a farne uscire mezza gamba. I bordi frastagliati la pungono, si impigliano nei lembi di pelle lacerati, aghi di fibra di vetro che mordono la carne. Oh, caro, dolce Peter, non devo certo dirtelo io quanto fa male. Riesci a rendertene conto? Con le dita piene di schegge di fibra di vetro, Misty afferra i bordi frastagliati e fa leva verso l'esterno. Piega il ginocchio, tirandolo con forza a sé, fuori dall'ingessatura dritta. Prima la rotula pallida, sporca di sangue. Come la testa di un bambino che nasce. Un coronamento. Un uccellino che rompe il guscio dell'uovo. Poi la coscia. Sua figlia che nasce. Infine, dall'ingessatura spaccata esce anche il polpaccio. Una piccola scossa, e il piede è libero. L'ingessatura scivola, rotola, cade e si fracassa a terra. Una crisalide. Una farfalla che esce dal bozzolo, insanguinata e stanca. Rinata. L'urto contro il pavimento è così forte che le tende si spostano. Un quadro in cornice si solleva e ricade contro il muro. Con le mani premute sulle orecchie, Misty aspetta che qualcuno venga a vedere cosa succede. Che la trovi libera e la chiuda dentro a chiave. Misty aspetta per trecento velocissimi battiti del cuore. Contando. E niente. Non succede niente. Non arriva nessuno. Con un movimento lento e continuo, Misty raddrizza la gamba. Misty flette il ginocchio. Lo collauda. Non le fa male. Aggrappandosi al comodino, Misty sposta le gambe giù dal letto e le piega. Con il coltello da bistecca insanguinato taglia i cerotti che le avvolgono la gamba sana a cui è fissato il catetere. Si sfila il tubo da dentro, se lo avvolge su una mano e lo posa da una parte. Ci vogliono uno, tre, cinque passi prudenti per raggiungere l'armadio, da cui Misty tira fuori una camicetta. Un paio di jeans. Appeso all'interno, avvolto da una fodera di plastica, c'è il vestito di raso bianco che Grace ha cucito per la sua mostra. Il vestito da sposa di Misty, rinato. Quando si infila i jeans, abbottonandoseli e tirando su la cerniera, quando allunga un
braccio per prendere la camicetta, i jeans scivolano a terra. Tanto è dimagrita. I fianchi non ci sono più. Il sedere sono due sacche di pelle vuota. I jeans le si adagiano intorno alle caviglie, le ferite da coltello li macchiano di sangue. C'è una gonna della sua taglia, che però non è sua. È di Tabbi, una gonna scozzese pieghettata che Grace deve aver conservato. Persino le scarpe le sono diventate larghe, e Misty deve tenere le dita dei piedi aggomitolate perché non le scivolino. Rimane in ascolto finché il corridoio al di là della porta non suona vuoto. Poi si dirige verso le scale, con la gonna che le si appiccica alle gambe insanguinate, i peli pubici rasati che si impigliano nella stoffa delle mutandine. Contraendo le dita dei piedi, Misty scende i quattro piani che la separano dall'atrio. Lì c'è gente che aspetta al banco della reception, in piedi tra i bagagli. Attraverso la porta dell'atrio si vede ancora l'auto marroncina della contea. Una voce di donna dice: «Oddio». È una donna dell'estate, in piedi accanto al camino. Con le unghie pastello delle dita appese alle labbra, fissa Misty e dice: «Oddio, le sue gambe». In mano, Misty ha ancora il coltello da bistecca insanguinato. La gente alla reception si volta a guardarla. Dietro il banco, un impiegato, un Burton o un Seymour o un Kincaid, si gira e coprendosi con una mano sussurra qualcosa alla sua collega, che solleva la cornetta del telefono interno. Misty punta verso la sala da pranzo, oltrepassando facce che impallidiscono, smorfie disgustate e sguardi che fuggono altrove. Donne dell'estate che sbirciano attraverso dita come zampe di ragno. Al di là dei tavoli tre, sette, dieci e quattro, c'è il detective Stilton, seduto al tavolo sei con Grace Wilmot e il dottor Touchet. Ci sono dolcetti al lampone. Caffè. Quiche. Mezzi pompelmi disposti in ciotole. Stanno facendo colazione. Misty li raggiunge, stringendo il coltello insanguinato, e dice: «Detective Stilton, mia figlia. Mia figlia Tabbi». Misty dice: «Credo che sia ancora viva». Con un cucchiaino di pompelmo sospeso tra la ciotola e la bocca, Stilton dice: «Sua figlia è morta?». È annegata, gli dice Misty. Deve ascoltarla. Una settimana fa, tre settimane fa, Misty non lo sa. Non ne è sicura. Lei era chiusa a chiave in soffit-
ta. Per non farla scappare le hanno messo un'ingessatura enorme. Sotto la gonna scozzese, le sue gambe sono coperte di sangue e gocciolano. A questo punto tutta la sala da pranzo la sta fissando. La ascolta. «È un complotto» dice Misty. Poi alza entrambe le mani per placare l'espressione spaventata sul viso di Stilton. Misty dice: «Chieda ad Angel Delaporte. Sta per succedere qualcosa di terribile». Il sangue secco sulle mani. Il suo sangue. Il sangue che esce dalle gambe e filtra attraverso la gonna scozzese. Attraverso la gonna di Tabbi. Una voce dice: «L'hai rovinata!». Misty si volta, ed è Tabbi. Sulla porta della sala da pranzo, con indosso una camicia bianca increspata e un paio di calzoni neri di sartoria. Con i capelli tagliati alla paggetto, un unico orecchino, quel cuore di smalto rosso che cent'anni fa Misty vide Will Tupper strapparsi dal lobo. Il dottor Touchet dice: «Misty, hai ricominciato a bere?». Tabbi dice: «Mamma... la mia gonna». E Misty dice: «Non sei morta». Il detective Stilton si pulisce la bocca con il tovagliolo. Dice: «Be', lei perlomeno no». Grace si zucchera il caffè con un cucchiaino. Versa latte e rimescola, dicendo: «Dunque lei crede davvero che siano stati questi individui dell'AOL a commettere l'omicidio?». «A uccidere Tabbi?» dice Misty. Tabbi si avvicina al tavolo e si appoggia contro la sedia di sua nonna. Solleva un piattino e ne esamina il bordo dipinto. Tra le dita le si intravede del giallo di nicotina. Il bordo è dorato, con un motivo continuo di delfini e sirene. Tabbi lo mostra a Grace e dice: «Fitz and Floyd. Motivo Corona di mare». Capovolge il piattino, legge la scritta sul fondo e sorride. Anche Grace sorride, e le dice: «Tabitha, stai diventando così brava che ho esaurito i complimenti». Per la cronaca, Misty vorrebbe abbracciare e baciare sua figlia. Misty vorrebbe abbracciarla e precipitarsi in macchina e guidare dritto fino alla roulotte di sua madre a Tecumseh Lake. Misty vorrebbe dire addio con un bel dito medio a questa cazzo di isola e ai signorilissimi malati di mente che la abitano. Grace batte una mano su una sedia vuota accanto alla sua e dice: «Misty,
vieni a sederti. Mi sembri sconvolta». Misty dice: «Chi hanno ucciso, quelli dell'AOL?». L'Alleanza oceanica per la libertà. Quelli che hanno bruciato tutti i graffiti di Peter nelle case sulla spiaggia. I tuoi graffiti. «È esattamente per questo che sono venuto qui» dice il detective. Tira fuori il bloc-notes dalla tasca interna della giacca. Lo apre sul tavolo e impugna la penna, pronto a scrivere. Guardando Misty dice: «Se non vi spiace, vorrei farvi qualche domanda». Sugli atti vandalici di Peter? «Questa notte, Angel Delaporte è stato ucciso» dice lui. «Forse per una rapina, ma al momento non escludiamo alcuna ipotesi. Sappiamo solo che qualcuno l'ha accoltellato nel sonno.» Nel letto di Misty. Nel nostro letto. Tabbi era morta, e adesso è di nuovo viva. L'ultima volta che Misty ha visto sua figlia era distesa su questo stesso tavolo, sotto un lenzuolo, e non respirava. Il ginocchio di Misty era rotto, e adesso non ha niente. Un giorno Misty sa dipingere, e il giorno dopo non ne è più capace. Angel Delaporte forse era il fidanzato di suo marito, però adesso è morto. Il tuo fidanzato. Tabbi prende sua madre per mano. La accompagna alla sedia vuota. Tira fuori la sedia da sotto il tavolo, e Misty si siede. «Prima di cominciare...» dice Grace. Si sporge sul tavolo verso il detective Stilton e gli appoggia una mano sul polsino della camicia. «La mostra di Misty verrà inaugurata la settimana prossima. Mancano solo sei giorni, e saremmo felici di averla tra noi.» I miei dipinti. Sono qui, da qualche parte. Tabbi alza la testa verso Misty e le sorride, poi infila una mano in quella di sua nonna. L'anello di olivina scintilla verde sulla tovaglia di lino bianca. Grace fa guizzare lo sguardo su Misty, dopodiché fa una smorfia come se le fosse finita una ragnatela in faccia, con il mento ritratto e le mani che sfiorano l'aria. Grace dice: «Ultimamente sono successe tante cose sgradevoli sull'isola». Inspira, le sue perle si sollevano, poi sospira e dice: «Spero che la mostra ci permetta di ricominciare da zero». 24 agosto
... e mezzo Nel bagno della soffitta, Grace riempie la vasca, dopodiché esce ad aspettare in corridoio. Tabbi rimane dentro, a tenere d'occhio Misty. A sorvegliare sua madre. Per la cronaca, nel giro di un'estate sembra siano passati anni. Anni e anni. La ragazzina che Misty ha visto dalla finestra, mentre civettava. Questa ragazzina ora le sembra un'estranea con le dita ingiallite. Misty dice: «E comunque non dovresti fumare. Anche se sei già morta». Quello che all'accademia non ti insegnano è come reagire quando scopri che la tua unica figlia ha preso parte a un complotto per spezzarti il cuore. Perché adesso, con Tabbi e sua madre sole nel bagno, forse è proprio vero che il compito di una figlia è quello di rompere le palle alla madre. Tabbi si guarda il viso riflesso nello specchio del bagno. Si lecca il dito indice e lo usa per aggiustarsi i contorni del rossetto. Senza guardare Misty, dice: «Ti converrebbe stare più attenta, mamma. Ora non ci servi più». Prende una sigaretta da un pacchetto che si sfila di tasca. Lì, davanti a Misty, fa scattare l'accendino e aspira un tiro. Le mutandine larghe e flosce sulle gambe a stecchetto, Misty se le sfila da sotto la gonna e le scalcia via senza nemmeno togliersi le scarpe, poi dice: «Da morta mi piacevi molto di più». Sulla mano di Tabbi che stringe la sigaretta, sull'anello regalatole dalla nonna, l'olivina luccica verde illuminata dalla luce sopra il lavandino. Tabbi si china a raccogliere la gonna scozzese insanguinata dal pavimento. Tenendola con due dita dice: «Nonna Wilmot ha bisogno di me per preparare la mostra». Aggiungendo, mentre se ne va: «La tua mostra, mamma». Nella vasca, i tagli e i graffi che Misty si è fatta con il coltello da bistecca si riempiono di sapone, e bruciano tanto da farle digrignare i denti. Il sangue essiccato rende l'acqua del bagno di un rosa latteo. Con l'acqua bollente, le ferite riprendono a sanguinare, e Misty rovina un asciugamano bianco, imbrattandolo di macchie rosse nel tentativo di asciugarsi. Secondo il detective Stilton, stamattina un uomo ha chiamato la polizia sulla terraferma. Non ha voluto rivelare il suo nome, ma ha detto che Angel Delaporte era morto. Ha detto che l'Alleanza oceanica per la libertà continuerà a uccidere turisti finché la folla non la smetterà di martoriare l'isola. Le posate in argento grosse come attrezzi da giardino. Le bottiglie di vi-
no antiche. I dipinti dei vecchi Wilmot. Niente è stato portato via. Nella stanza in soffitta, Misty compone il numero di sua madre a Tecumseh Lake, ma risponde la centralinista dell'hotel. C'è un filo rotto, dice la centralinista, ma dovrebbero sistemarlo al più presto. Il telefono interno però funziona. L'unica cosa è che Misty non può chiamare la terraferma. Quando controlla sotto il bordo della moquette, la busta con i soldi delle mance non c'è più. L'anello con l'olivina di Tabbi. Il regalo di compleanno di sua nonna. L'avvertimento che Misty ha ignorato: "Vattene da quest'isola finché sei in tempo". Tutti i messaggi nascosti che la gente lascia per non essere dimenticata. I modi in cui tutti quanti tentiamo di parlare al futuro. Maura e Constance. "Quando avranno finito con te, morirai." Entrare nella stanza 313 è piuttosto facile. Misty ha fatto la cameriera, Misty Wilmot, la cazzo di regina degli schiavi. Sa dove trovare un passepartout. La stanza è una doppia, con letto matrimoniale e vista sull'oceano. Gli stessi mobili di tutte le altre stanze. Una scrivania. Una sedia. Una cassettiera. Sul piano d'appoggio per i bagagli c'è la valigia aperta di una persona dell'estate. Nell'armadio sono appesi pantaloni casual e gonne a fiori. C'è un bikini bagnato buttato sul sostegno della tenda della doccia. Per la cronaca, è la stanza meglio tappezzata che Misty abbia mai visto. In più non è tappezzeria da poco, quella della stanza 313. Righe verde pastello che si alternano con file di rose centifoglie. Un motivo che doveva apparire antico già quand'è stato stampato. Tappezzeria tinta con il tè per sembrare ingiallita dal tempo. A tradirla è il fatto che la carta è troppo perfetta. Troppo priva di punti di giuntura, troppo liscia e dritta, sia in verticale che in orizzontale. Le varie strisce sono state accostate con troppa precisione. Decisamente non è opera di Peter. Non è opera tua. Caro il mio dolce e pigro Peter che non ha mai preso nessuna arte sul serio. Qualunque cosa Peter abbia lasciato in questo posto perché la gente lo trovasse, prima di sigillare la porta con un muro a secco, adesso non c'è più. La sua piccola capsula del tempo o bomba a orologeria è stata cancellata dalla gente di Waytansea Island. Come la signora Terrymore, che ha cancellato i libri della biblioteca. Come tutte le case della terraferma, che sono state bruciate. Dall'AOL. Come Angel Delaporte, che è morto. Accoltellato nel letto, durante il
sonno. Nel letto di Misty. Nel tuo letto. Senza che niente sia stato rubato, e nessun segno d'effrazione. Per la cronaca, la gente dell'estate potrebbe rientrare da un momento all'altro. Trovando Misty nascosta qui dentro, con in mano un coltello insanguinato. Usando la lama seghettata, Misty solleva una giuntura e strappa una striscia di tappezzeria. Poi, con la punta acuminata, ne stacca un'altra. E mentre ne strappa via una terza, lunga, lentamente, Misty comincia a leggere: "... innamorato di Angel Delaporte, e mi dispiace tanto, ma non intendo morire per...". E per la cronaca, non è esattamente ciò che avrebbe voluto leggere. 24 agosto ... e tre quarti Quando tutto il muro è stato fatto a brandelli, quando tutte le antiche rose centifoglie e le righine verde pallido sono state strappate via in lunghe strisce, ecco cos'ha lasciato Peter perché la gente lo trovasse. Cos'hai lasciato tu. "Sono innamorato di Angel Delaporte, e mi dispiace tanto, ma non intendo morire per la nostra causa." Le scritte corrono lungo tutte le pareti, e dicono: "Non vi permetterò di uccidermi come avete fatto con i mariti di tutte le pittrici, a partire da Gordon Kincaid". La stanza è disseminata di riccioli e brandelli di tappezzeria. Polverosa di colla essiccata. Nel corridoio si sentono delle voci, e Misty aspetta immobile nella stanza devastata. Aspetta che le persone dell'estate aprano la porta della loro stanza. Lungo i muri c'è scritto: "Non mi importa più nulla delle nostre tradizioni". Le scritte dicono: "Io non amo Misty Marie". Dicono: "Ma lei non merita di essere torturata. Amo la nostra isola, ma dobbiamo trovare un modo nuovo per preservare il nostro stile di vita. Non possiamo continuare a mietere vite". C'è scritto: "È un omicidio rituale di massa, e io non intendo più perdonarlo". La roba delle persone dell'estate è sepolta, i loro bagagli e i cosmetici e gli occhiali da sole. Sepolta sotto brandelli di carta straccia.
"Quando troverete tutto questo" dicono le scritte, "io me ne sarò andato. Parto con Angel, stanotte. Se state leggendo, be': spiacente ma è già troppo tardi. Tabbi avrà un futuro migliore se la sua generazione dovrà imparare ad arrangiarsi." Sotto le strisce di tappezzeria c'è scritto: "Sono sinceramente dispiaciuto per Misty". Tu hai scritto: "È vero che non l'ho mai amata, ma è anche vero che non la odio al punto da portare a termine il nostro piano". C'è scritto: "Misty merita qualcosa di meglio. Papà, è ora di lasciarla libera". I sonniferi che secondo il detective Stilton Peter ha preso. Le ricette che Peter non aveva. La valigia che ha riempito e messo nel bagagliaio. Aveva deciso di abbandonarci. Di andarsene via con Angel. Avevi deciso di andartene. Qualcuno l'ha drogato e l'ha lasciato sull'auto con il motore acceso, nel garage chiuso, perché Misty lo trovasse. Questo qualcuno non sapeva della valigia, pronta nel bagagliaio per la fuga. Non sapeva che il serbatoio era mezzo vuoto. "Papà" sarebbe Harrow Wilmot. Il padre di Peter, che in teoria era morto. Da prima che nascesse Tabbi. Tutt'intorno, nella stanza, c'è scritto: "Non svelate l'opera del diavolo". C'è scritto: "Distruggete tutti i dipinti di Misty". Quello che all'accademia non ti insegnano è come dare senso a un incubo. Le scritte sono firmate Peter Wilmot. 25 agosto Nella sala da pranzo dell'hotel, una squadra di gente dell'isola sta appendendo i lavori di Misty, tutti i suoi dipinti. Ma non separatamente. Li dispongono uno attaccato all'altro, tele e fogli di carta, a formare un lungo murale. Un collage. La squadra tiene il murale nascosto a mano a mano che lo assembla, lasciando scoperta una sola estremità, il minimo necessario per attaccare la fila di dipinti successiva. Che cosa sia, è impossibile capirlo. Quello che pare un albero in realtà potrebbe essere una mano. Quello che pare un viso potrebbe essere una nuvola. È una scena di massa o forse un paesaggio o forse una natura morta di fiori e frutta. Appena al murale viene aggiunto un pezzo, la squadra sposta un telo per coprirlo.
L'unica cosa che si capisce è che è enorme, e riempie completamente la parete più lunga della sala da pranzo. C'è anche Grace, che impartisce indicazioni. Ci sono Tabbi e il dottor Touchet, che stanno a guardare. Quando Misty va a dare un'occhiata, Grace la blocca con una delle sue mani azzurrine e nodose, e dice: «Ti sei provata il vestito che ti ho fatto?». Misty vuole solo vedere il suo dipinto. È opera sua. Avendo lavorato con gli occhi chiusi, non ha idea di cosa può aver realizzato. Di quale parte di sé mostrerà a degli sconosciuti. E il dottor Touchet dice: «Non credo sarebbe una buona idea». Dice: «Lo vedrai domani sera, con tutti gli altri». Per la cronaca, Grace dice: «Oggi pomeriggio ci ritrasferiamo a casa». Dov'è stato ucciso Angel Delaporte. Grace dice: «Il detective Stilton ci ha dato il via libera». Dice: «Se fai le valigie possiamo portartele noi». Il cuscino di Peter. I materiali da lavoro nella scatola di legno chiaro. «Siamo quasi alla fine, mia cara» dice Grace. «So esattamente come ti senti.» Stando al diario. Al diario di Grace. Mentre tutti quanti si danno da fare, Misty torna su in soffitta, nella stanza che Grace e Tabbi dividono. Per la cronaca, Misty le valigie le ha già fatte, e ora trafuga il diario dalla stanza di Grace. Porta la sua valigia giù in macchina. Misty è tutta impolverata di colla da parati secca. Con pezzetti di carta a righine verde pallido e rose rosa tra i capelli. L'agenda che Grace legge in continuazione, che si studia, con la copertina rossa e la scritta in oro sul davanti, può essere il diario di una donna vissuta sull'isola cent'anni fa. La donna del diario di Grace aveva quarantun anni ed era una studentessa d'arte fallita. Era rimasta incinta e aveva abbandonato l'accademia per sposarsi e trasferirsi a Waytansea Island. Amava il suo nuovo marito meno di quanto amasse i suoi vecchi gioielli, e il sogno di vivere in una grande casa di pietra. Ed ecco che aveva trovato una vita bell'e pronta per lei, un ruolo in cui calarsi istantaneamente. Waytansea Island, con tutte le sue tradizioni e i suoi rituali. Ogni cosa già sistemata. La risposta a tutto. La donna era abbastanza felice, ma già cent'anni fa l'isola andava riempiendosi di turisti ricchi provenienti dalla città. Estranei prepotenti e pieni di bisogni, abbastanza danarosi da prendere il sopravvento. Proprio mentre le risorse economiche della sua famiglia andavano esaurendosi, suo marito
si era sparato pulendo un fucile. La donna soffriva di emicranie, era sempre spossata e vomitava tutto ciò che mangiava. Di mestiere faceva le pulizie all'hotel. Poi, un giorno, era caduta dalle scale, il che l'aveva costretta a letto, con una gamba immobilizzata da un grosso gesso. Bloccata lì, senza nulla da fare, aveva cominciato a dipingere. Una Misty che però non è Misty. Una Misty contraffatta. Poi, sua figlia di dieci anni muore annegata. Dopo aver realizzato cento dipinti, il suo talento e le sue idee sembrano scomparire. L'ispirazione si spegne. La sua calligrafia è ampia e lunga. È quella che Angel Delaporte avrebbe definito una persona generosa, altruista. Quello che all'accademia non impari è che un giorno Grace Wilmot ti seguirà scrivendo tutto ciò che fai. Trasformando la tua vita in questa specie di romanzetto malato. Eccolo qua. Grace Wilmot sta scrivendo un romanzo basato sulla vita di Misty. Certo, ha fatto qualche modifica. La donna del diario di figli ne ha tre. Grace l'ha fatta diventare una donna delle pulizie, invece che una cameriera. Ma quante coincidenze. Per la cronaca, Misty sta facendo la fila per salire sul traghetto, e intanto legge questa merda a bordo della vecchia Buick di Harrow. Nel romanzo, gran parte degli abitanti dell'isola si trasferiscono al Waytansea Hotel, trasformandolo in un accampamento. Un campo profughi per famiglie isolane. Gli Hyland si occupano della lavanderia. I Burton della cucina. I Petersen delle pulizie. Qui dentro non sembra esserci un'idea originale manco a pagarla. Leggendo questa roba, è probabile che Misty la stia rendendo realtà. Che autoavveri la profezia. Comincerà a vivere l'idea che qualcun altro ha avuto su come dovrebbe andare la sua vita. La donna scopre che i suoi lavori vengono appesi per una grande mostra. La sera dell'inaugurazione, l'hotel si riempie di turisti d'estate. Per la cronaca, caro, dolce Peter, casomai fossi uscito dal coma, tutto questo potrebbe fartici riprecipitare. Il fatto che Grace, tua madre, stia scrivendo di tua moglie facendola passare per una specie di sciattona alcolizzata. Dev'essere così che si è sentita Judy Garland leggendo La valle delle bambole. Qui, nella fila per il traghetto, Misty aspetta un passaggio per la terraferma. Seduta nell'auto su cui Peter stava per morire, o su cui stava per
fuggire abbandonandola, Misty attende in una lunga e arroventata fila di popolo dell'estate. Con la valigia fatta e sistemata nel bagagliaio. Vestito di raso bianco incluso. Proprio come la tua valigia, nello stesso bagagliaio. Il diario finisce lì. L'ultima annotazione risale a poco prima della mostra. Dopo... più nulla. Giusto perché tu non ti senta troppo in colpa, sappi che Misty sta abbandonando tua figlia proprio come tu stavi per fare con entrambe. Tua moglie è ancora la stessa vigliacca di sempre. Quella pronta a scappare quando ha creduto che la statua di bronzo avrebbe ucciso Tabbi, l'unica persona su tutta l'isola di cui gliene fotta qualcosa. Certo non di Grace. Né del popolo dell'estate. In questo posto non c'è nessuno che Misty debba salvare. A parte Tabbi. 26 agosto E per la cronaca, anche tu sei ancora lo stesso gran cacasotto di sempre. Lo stesso egoista, mediocre, fannullone e smidollato pezzo di merda. Sì, certo, avevi deciso di salvare tua moglie, però la stavi anche scaricando. Stupido coglione con danni cerebrali che non sei altro. Mio caro, dolce stupido. Ora però Misty sa esattamente come ti sentivi. Oggi è il tuo centocinquantasettesimo giorno da vegetale. E il primo di Misty. Oggi, Misty si fa le tre ore di macchina fino all'ospedale e si siede accanto al tuo letto. Per la cronaca, Misty ti chiede: «È giusto far fuori degli sconosciuti per supportare uno stile di vita solo perché le persone che lo adottano sono quelle a cui vuoi bene?». O meglio: a cui credevi di voler bene. Con tutta la gente che continua ad arrivare sull'isola, ogni estate sempre di più, anche la spazzatura che si vede in giro aumenta. Le risorse di acqua potabile vanno assottigliandosi. Ma ovviamente non si può frenare lo sviluppo. È antiamericano. È da egoisti. Da dittatori. È male. Ogni bambino ha diritto ad avere una vita. Ogni persona ha diritto di vivere dove se lo può permettere. Tutti quanti hanno il sacrosanto diritto di inseguire la felicità ovunque si possa arrivare in macchina, in aereo, in barca a vela, di darle la caccia. Troppe persone che si riversano nello stesso posto tutte insie-
me lo rovinano, certo, ma questo è il sistema dei controlli e degli equilibri, il modo in cui il mercato compie i suoi aggiustamenti. In quest'ottica, devastare un luogo è l'unico modo per salvarlo. Bisogna renderlo orribile agli occhi del mondo esterno. L'AOL non esiste. Esiste solo della gente che combatte per preservare il suo mondo dall'afflusso degli altri. Una parte di Misty odia queste persone che vengono qui, invasori, infedeli, che fanno a gara per deturpare il suo stile di vita, l'infanzia di sua figlia. Tutti questi forestieri che si trascinano dietro matrimoni falliti e figliastri e tossicodipendenze e dubbie moralità e status symbol pacchiani, non sono gli amici che desidera per sua figlia. Per tua figlia. La loro figlia. Per salvare Tabbi, Misty potrebbe lasciare che ciò che sempre succede, be', semplicemente succeda ancora. La mostra. Potrebbe lasciare che la leggenda dell'isola segua il suo corso, qualunque esso sia. E forse così Waytansea si salverebbe. "Uccideremo tutti i figli di Dio per salvare i nostri." O forse loro possono dare a Tabbi qualcosa di meglio di un futuro privo di sfide, di un tranquillo e sicuro futuro di quiete. Sedendoti accanto, qui, Misty si china e ti bacia la fronte gonfia e arrossata. Va bene lo stesso anche se non l'hai mai amata, Peter. Misty ha amato te. Quantomeno per aver creduto che potesse diventare una grande artista, una salvatrice. Qualcosa di più di una disegnatrice tecnica o di un'illustratnce commerciale. Più di un essere umano, addirittura. Per questo, Misty ti ama. Riesci a rendertene conto? E, per la cronaca, le dispiace per Angel Delaporte. Le dispiace che tu sia stato cresciuto in questa specie di leggenda malata. Le dispiace averti conosciuto. 27 agosto luna nuova Grace fa roteare la mano nell'aria, con le unghie gialle e piene di solchi sotto lo smalto trasparente, e dice: «Misty, cara. Girati, così vedo come ti cade sulla schiena».
La prima volta che Misty si ritrova faccia a faccia con Grace, la sera della mostra, come prima cosa Grace dice: «Sapevo che ti sarebbe stato meravigliosamente, questo vestito». Il tutto succede nella vecchia casa Wilmot di Birch Street. Lì, la porta della vecchia camera da letto di Misty è sigillata da un telo di plastica trasparente e dal nastro giallo della polizia. Una capsula del tempo. Un dono fatto al futuro. Attraverso la plastica, si vede che il materasso non c'è più. Dall'abat-jour è scomparso il paralume. Uno schizzo di qualcosa di scuro ha rovinato la tappezzeria sopra la testiera del letto. La calligrafia della pressione sanguigna. La vernice bianca della cornice e del davanzale della finestra è sporca di polvere nera per rilevare le impronte digitali. Sulla moquette si incrociano i solchi profondi e recenti di un aspirapolvere. La polvere invisibile della pelle morta di Angel Delaporte, tutto quanto è stato risucchiato per gli esami del Dna. La tua vecchia camera da letto. Sulla parete dietro il letto c'è il disegno che Misty ha fatto della poltrona d'antiquariato. Con gli occhi chiusi, a Waytansea Point. Con l'allucinazione della statua che le andava incontro per ucciderla. Il sangue è schizzato anche su quello. A Grace, ora, nella sua stanza dall'altro lato del corridoio, Misty dice di non tentare scherzi strani. La polizia della terraferma è parcheggiata proprio qui fuori, e aspetta. Se Misty non esce entro dieci minuti, entreranno loro, e facendo fuoco. Grace siede su uno sgabello rosa imbottito davanti alla sua gigantesca specchiera, con le boccette di profumo e i gioielli sparsi sul ripiano di vetro. Con il suo specchio d'argento col manico e le spazzole per i capelli. I souvenir della ricchezza. E Grace dice: «Tu es ravissante, ce soir». Dice: «Hai un aspetto delizioso, stasera». Misty ora ha gli zigomi. E le clavicole. Le sue spalle sono ossute e bianche e sporgono, dritte come una gruccia, dall'abito che in una vita precedente è stato il suo abito da sposa. Il vestito le sta appeso addosso grazie a un lembo su una spalla, è una macchia bianca drappeggiata in pieghe, già vuoto e svolazzante rispetto all'ultima volta che Grace gliel'ha misurato, qualche giorno fa. O qualche settimana fa. Il reggiseno e le mutandine le stanno così larghi che Misty ne ha fatto a meno. È quasi magra come suo marito, quello scheletro avvizzito con le macchine che gli pompano dentro aria e vitamine.
Magra come te. Dall'incidente al ginocchio, i capelli le sono cresciuti. Il tempo trascorso al chiuso le ha sbiancato la pelle. Misty ora ha una vita e le guance scavate. Misty ha un mento solo, e un collo che appare lungo e fibroso di muscoli. Ha fatto la fame al punto che i denti e gli occhi sembrano enormi. Prima dell'inaugurazione di stasera, Misty ha chiamato la polizia. Non solo il detective Stilton. Misty ha chiamato la polizia di stato e l'Fbi. Misty gli ha detto che stasera l'AOL compirà un attacco alla mostra presso l'hotel di Waytansea Island. Dopo, ha chiamato i pompieri. Ha detto che verso le sette, sette e mezza di stasera, sull'isola si verificherà un disastro. Portate le ambulanze, ha detto. Poi ha chiamato il telegiornale e ha detto di mandare una troupe con il camion ripetitore più robusto che hanno. Misty ha chiamato le radio. Ha chiamato chiunque tranne i boy scout. Nella stanza da letto di Grace Wilmot, in quella casa con la sua eredità di nomi e di età scritti sulla porta di ingresso. Misty dice a Grace che il suo piano per la serata è saltato. Le dice dei pompieri e della polizia. Delle telecamere. Misty ha invitato il mondo intero, e all'hotel, per la cerimonia di inaugurazione, ci saranno tutti. E agganciandosi un orecchino a clip all'orecchio, Grace guarda il riflesso di Misty nella specchiera e dice: «Certo che li hai chiamati, ma l'hai fatto anche l'ultima volta». Misty le chiede cosa intende con anche l'ultima volta. «E sinceramente noi avremmo preferito che ne facessi a meno» dice Grace. Si sta lisciando i capelli con i palmi delle mani nodose, e dice: «Così farai solo aumentare inutilmente il numero di vittime». Misty le dice che di vittime non ce ne saranno. Le dice che ha rubato il diario. Alle sue spalle, una voce dice: «Misty, cara, non puoi rubare ciò che è già tuo». La voce alle sue spalle. Una voce maschile. È Harrow, Harry. Il padre di Peter. Tuo padre. Indossa uno smoking, ha i capelli bianchi pettinati in una coronaria che gli sormonta la testa squadrata, il naso e il mento affilati e prominenti. L'uomo che Peter sarebbe dovuto diventare. L'alito gli puzza ancora. Le mani che hanno ucciso Angel Delaporte a coltellate nel letto di Misty. Che hanno bruciato le case al cui interno Peter aveva fatto le sue scritte per convincere la gente a fuggire dall'isola.
L'uomo che ha tentato di uccidere Peter. Di uccidere te. Suo figlio. È lì, nel corridoio, e tiene Tabbi per mano. Tiene per mano tua figlia. Per la cronaca, sembra sia passata una vita da quando Tabbi ha abbandonato Misty. Da quando è sfuggita alla sua presa per afferrare la mano fredda di un uomo che Misty credeva un assassino. La statua nel bosco. Il vecchio cimitero di Waytansea Point. Grace ha i gomiti sollevati, le mani dietro il collo, si sta allacciando un filo di perle, e dice: «Misty, cara, ti ricordi di tuo suocero, vero?». Harrow si china a baciare Grace su una guancia. Resta in piedi, e dice: «Ma certo che se ne ricorda». La puzza del suo alito. Grace tende le mani, fa per afferrare l'aria, e dice: «Tabbi, vieni a darmi un bacino. È ora che i grandi vadano alla festa». Prima Tabbi. Poi Harrow. Un'altra cosa che all'accademia non ti insegnano è cosa dire quando i morti tornano in vita. A Harrow, Misty dice: «Ma a te in teoria non ti dovevano cremare?». E Harrow solleva un polso per controllare l'ora. Dice: «Non prima di quattro ore». Si sistema il polsino coprendo l'orologio e dice: «Stasera vorremmo presentarti al pubblico. Contiamo che tu dica qualche parola di benvenuto». Eppure, gli dice Misty, lui sa benissimo cos'è che dirà a tutti quanti. Di scappare. Di andarsene dall'isola e di non tornare mai più. Ciò che ha cercato di dirgli Peter. Misty dirà che un uomo è morto e che un altro è in coma per via di una maledizione folle che grava sull'isola. Non appena la faranno salire sul palco, Misty griderà: «Al fuoco». Farà i salti mortali pur di svuotare la sala. Tabbi si avvicina a Grace, seduta sullo sgabello davanti alla specchiera. E Grace dice: «Niente ci renderebbe più felici». Harrow dice: «Misty, cara, dai un bel bacio a tua suocera». Dice: «E ti prego di perdonarci. Dopo stasera, non ti disturberemo più». 27 agosto ... e mezzo Quello che Harrow ha raccontato a Misty. La spiegazione che lui le ha dato della leggenda dell'isola è che lei non può non avere successo come artista. È condannata alla fama. Maledetta dal talento. Vita dopo vita.
E stata Giotto di Bondone, poi Michelangelo, poi Jan Vermeer. O forse è stata Jan Van Eyck e Leonardo da Vinci e Diego Velázquez. Poi Maura Kincaid e Constance Burton. E adesso è Misty Marie Wilmot, ma soltanto il nome è diverso. È sempre stata un'artista. Lo sarà sempre. Quello che all'accademia non ti insegnano è che il senso di tutta una vita è scoprire chi sei sempre stato. Per la cronaca, a parlare è Harrow Wilmot. Quel pazzo assassino del padre di Peter. L'Harry Wilmot che ha passato anni a nascondersi, da prima che Peter e Misty si sposassero. Da prima che nascesse Tabbi. Quel pazzo di tuo padre. Volendo dare credito a Harry Wilmot, Misty è la più grande artista che sia mai esistita. Duecento anni fa, Misty era Maura Kincaid. Cent'anni fa, è stata Constance Burton. In quella vita precedente, Constance vide un gioiello indossato da uno dei figli dell'isola in viaggio per l'Europa. Un anello appartenuto a Maura. Per puro caso, lui la trovò e la riportò indietro. Dopo la morte di Constance, la gente si accorse che il suo diario era identico a quello di Maura. Le loro vite erano identiche, e Constance aveva salvato l'isola nello stesso modo in cui l'aveva salvata Maura. Il suo diario era identico al diario precedente. Ogni suo diario sarà identico a quello precedente. Misty salverà sempre l'isola. Con la sua arte. È questa la leggenda dell'isola, a sentire Harrow. Tutto ruota intorno a lei. Cent'anni dopo - quando i soldi stavano finendo - hanno inviato i figli dell'isola a cercarla. E di nuovo l'hanno riportata indietro, costringendola a replicare la sua vita precedente. Usando i gioielli come esca, Misty li avrebbe riconosciuti. Li avrebbe amati, e senza sapere perché. Loro, l'intero museo delle cere di Waytansea Island, tutti quanti sapevano che sarebbe stata una grande pittrice. A patto che le fosse stata inflitta la tortura giusta. Perché, come diceva sempre Peter, le opere d'arte migliori nascono dalla sofferenza. Perché, come dice il dottor Touchet, riusciamo a entrare in contatto con una sorta di ispirazione universale. Quella poveretta di Misty Marie Kleinman, la più grande artista di tutti i tempi, la loro salvezza. La loro schiava. Misty, la loro vacca karmica da mungere all'infinito. Harrow le ha raccontato di come il diario dell'artista precedente viene usato per foggiare la vita di quella successiva. Suo marito deve morire alla stessa età, dopodiché tocca a uno dei suoi figli. La morte può anche essere
simulata, com'è successo con Tabbi, ma con Peter... be', Peter ha tirato troppo la corda. Per la cronaca, Misty sta raccontando tutto questo al detective Stilton, intanto che lui la accompagna al Waytansea Hotel. Il sangue di Peter, pieno di sonniferi che non ha mai preso. Il certificato di morte inesistente di Harrow Wilmot. Misty dice: «Dev'essere perché si accoppiano tra loro. Questi sono malati di mente». «La vera benedizione» le ha detto Harrow, «è che tu dimentichi.» A ogni morte, Misty dimentica chi è stata, ma gli abitanti dell'isola si tramandano la storia di generazione in generazione. La ricordano per poterla ritrovare e riportarla indietro. Per il resto dell'eternità, ogni quarta generazione, proprio quando i soldi stanno per finire... Quando il mondo esterno minaccerà l'invasione, loro la riporteranno indietro e lei gli salverà il futuro. «Come hai sempre fatto, e come sempre farai» ha detto Wilmot. Misty Marie Wilmot, regina degli schiavi. La Rivoluzione industriale incontra l'angelo custode. Povera lei, ridotta a catena di montaggio dei miracoli. Per l'eternità. Dalle stalle alle stelle e di nuovo alle stalle, per la cronaca. Harrow ha detto: «Tu tieni sempre un diario. In ogni tua reincarnazione. È così che riusciamo a prevedere i tuoi stati d'animo e le tue reazioni. Conosciamo in anticipo ogni mossa che farai». Harrow ha chiuso un filo di perle intorno al polso di Grace e ne ha agganciato il fermaglio, dicendo: «Certo, a noi serve che tu ritorni per dare inizio al processo, ma non per questo vogliamo che completi il tuo ciclo karmico». Perché ciò significherebbe uccidere la gallina dalle uova d'oro. È vero, la sua anima potrebbe imbarcarsi in nuove avventure, ma nel giro di tre generazioni l'isola tornerebbe di nuovo povera. Povera e invasa da forestieri ricchi. L'accademia non ti insegna come sfuggire al riciclaggio della tua anima. Alla rievocazione di un'epoca. Alla sua immortalità artigianale. «Ti dirò di più» ha detto Harrow, «hai presente il diario che stai tenendo ora? Ecco, i tuoi pro-pronipoti lo troveranno estremamente utile, quando avranno di nuovo a che fare con te.» I pro-pro-pronipoti di Misty. Che useranno il suo libro. Questo libro. «Oh, me lo ricordo» ha detto Grace. «Quand'ero bambina. All'epoca tu
eri Constance Burton, e mi piaceva tantissimo quando mi portavi a far volare l'aquilone.» Harrow ha detto: «Con un nome o con l'altro, tu sei la madre di tutti noi». Grace ha detto: «E ci hai amati tutti quanti». A Harrow, Misty ha detto: per favore. Ditemi almeno cos'è che succederà. I dipinti esploderanno? L'hotel sprofonderà nell'oceano? Cosa? Come farà lei a salvare la gente? E Grace si è fatta scivolare il filo di perle lungo la mano, poi ha detto: «Non puoi». Gran parte dei patrimoni, dice Harrow, nascono dalla sofferenza e dalla morte di migliaia di persone o animali. Da una mietitura. Porge a Grace qualcosa di dorato, di luccicante, dopodiché le tende un braccio con la manica della giacca ritratta. Grace gli unisce i due lembi del polsino e vi inserisce un gemello, dicendo: «Noi abbiamo semplicemente trovato un modo per mietere gente ricca». 27 agosto ... e tre quarti Le ambulanze sono già in attesa davanti al Waytansea Hotel. La troupe del telegiornale issa un'antenna parabolica sul tettuccio del furgone. Due auto della polizia sono parcheggiate frontalmente davanti ai gradini dell'hotel. Il popolo dell'estate avanza tra le auto. Pantaloni di pelle e abitini neri. Occhiali scuri e gonne di seta. Gioielli d'oro. Sopra di loro, i cartelli e i loghi delle aziende. I graffiti di Peter: "... il vostro sangue è il nostro oro...". Tra Misty e la gente, un giornalista televisivo si piazza davanti alla telecamera. Con la folla che scorre alle sue spalle, la gente che sale i gradini dell'hotel ed entra nell'atrio, il giornalista dice: «Siamo in onda?». Si appoggia due dita su un orecchio. Senza guardare la telecamera dice: «Io sono pronto». Il detective Stilton siede al volante della sua auto, Misty è al suo fianco. Entrambi osservano Grace e Harrow Wilmot salire i gradini, Grace che si solleva il vestito lungo con la punta delle dita di una mano. Harrow le tiene l'altra.
Misty li guarda. Le telecamere li guardano. E il detective Stilton dice: «Non faranno scherzi. Non con tutti questi occhi puntati addosso». La generazione più anziana di ogni famiglia, i Burton e gli Hyland e i Petersen, l'aristocrazia di Waytansea Island si mette in fila con le folle estive per entrare nell'hotel, a testa alta. L'avvertimento di Peter: "Uccideremo tutti i figli di Dio per salvare i nostri". Il giornalista davanti alla telecamera si porta un microfono davanti alla bocca e dice: «La polizia e gli ufficiali della contea hanno dato il via libera al ricevimento organizzato questa sera sull'isola». La folla scompare nel cupo paesaggio di velluto verde dell'atrio, nella radura fra i tronchi d'albero levigati e laccati. Gli spessi raggi di sole che trafiggono l'oscurità, pesanti come lampadari di cristallo. I profili curvi dei divani come massi coperti di muschio. Quel fuoco d'accampamento così simile a un camino. Il detective Stilton dice: «Vuole entrare anche lei?». Misty gli dice no. Non è sicuro. Non vuole fare lo stesso errore che ha sempre fatto. Di qualunque errore si tratti. Stando a quel che dice Harrow Wilmot. Il giornalista dice: «Stasera tutte le personalità che contano si sono date appuntamento qui». E a quel punto, a quel punto spunta una ragazzina. Una sconosciuta. La figlia di qualcun altro, con i capelli neri corti, sale i gradini verso l'atrio dell'hotel. Il luccichio dell'anello di olivina. I soldi delle mance di Misty. È Tabbi. Certo che è Tabbi. Il dono di Misty al futuro. Il mezzo usato da Peter per trattenere sua moglie sull'isola. L'esca per farla cadere in trappola. Un istante, uno scintillio verde, e Tabbi sparisce dentro l'hotel. 27 agosto ... e sette ottavi Oggi, nell'oscurità della radura cupa, nel paesaggio di velluto verde oltre le porte dell'atrio, l'allarme antincendio dell'hotel scatta. Un lungo suono di campanello che esce dalle porte d'ingresso così forte da far gridare al giornalista: «Be', a quanto pare ci sono problemi». Il popolo dell'estate, gli uomini con i capelli tutti pettinati all'indietro, scuri e rigidi di un qualche prodotto modellante. Le donne tutte bionde. Gridano per farsi sentire sopra il frastuono dell'allarme.
Misty Wilmot, la più grande artista della storia, si fa largo freneticamente tra la folla, si aggrappa e pianta le unghie e tira per raggiungere il palco nella Sala del legno e dell'oro. Si regge ai gomiti e ai fianchi di queste persone magre. Con tutta la parete dietro il palco coperta da un telo e pronta per lo scoprimento. Con il murale, la sua opera ancora nascosta. Sigillata. Il suo dono al futuro. La sua bomba a orologeria. I suoi milioni di tocchi di colore assemblati nel modo giusto. L'urina di vacca nutrita a foglie di mango. Le sacche d'inchiostro delle seppie. Tutta quella chimica e biologia. Sua figlia da qualche parte in mezzo a questa calca di persone. Tabbi. Mentre l'allarme continua a suonare e suonare, Misty sale in piedi su una sedia. Sale su un tavolo, quel tavolo sei su cui Tabbi è stata distesa priva di vita, il tavolo dove Misty ha scoperto che Angel Delaporte era stato accoltellato a morte. Ergendosi sulla folla nel suo vestito bianco, con la gente che alza la testa, gli uomini dell'estate che la fissano sogghignando, Misty non indossa le mutandine. Con il vestito da sposa rinato pizzicato in mezzo alle cosce ossute, Misty grida: «Al fuoco!». Le teste si voltano. Gli sguardi si alzano verso di lei. Sulla porta della sala da pranzo compare il detective Stilton, che comincia ad avanzare nuotando in mezzo alla gente. Misty grida: «Uscite di qui! Salvatevi!». Misty grida: «Se rimanete succederà qualcosa di orribile!». Gli avvertimenti di Peter. Misty li riversa sulla folla. "Uccideremo tutti i figli di Dio per salvare i nostri." Il telo che incombe alle sue spalle e copre l'intera parete, il suo autoritratto, ciò che Misty non sa di se stessa. Ciò che non vuole sapere. Il popolo dell'estate la guarda, con i muscoli corrugatori contratti, le sopracciglia increspate. Le labbra tese e assottigliate e piegate verso il basso dai muscoli triangolari. L'allarme antincendio smette di suonare, e per il tempo di un respiro si sente soltanto l'oceano, le onde che a una a una sibilano e scoppiano. Misty grida a tutti quanti di stare zitti. Di ascoltarla. Gridando, dice che sa di cosa parla. Che lei è la più grande artista di tutti i tempi. La reincarnazione di Thomas Gainsborough e di Claude Monet e di Mary Cassatt. Grida che la sua anima è appartenuta a Michelangelo e a Leonardo da Vinci e a Rembrandt. Poi una donna urla: «È lei, l'artista. Misty Wilmot».
E un uomo urla: «Misty, tesoro, ora basta con le piazzate». La donna urla: «Tirate giù questo telo e facciamola finita». L'uomo e la donna che urlano sono Harrow e Grace. In mezzo a loro Tabbi, che li tiene entrambi per mano. Tabbi ha gli occhi chiusi con il nastro adesivo. «Quelle persone» grida Misty indicando Grace e Harrow. Con i capelli che le ricadono in faccia, Misty grida: «Sono malvagie, hanno usato il loro figlio per mettermi incinta!». Misty grida: «Hanno preso la mia bambina!». Grida: «Se vedrete ciò che c'è dietro questo telo sarà troppo tardi!». E il detective Stilton monta sulla sedia. Un passo, ed è su. Un altro passo, ed è in piedi accanto a lei sul tavolo sei. Dietro di loro, il gigantesco telo. La verità su tutto quanto a pochi centimetri di distanza. «Sì» strilla un'altra donna. Una vecchia Tupper dell'isola, con il collo da testuggine sprofondato nel colletto di pizzo del vestito, strilla: «Faccelo vedere, Misty!». «Faccelo vedere» grida un uomo, un vecchio Wood dell'isola, curvo sul suo bastone. Stilton si porta una mano dietro la schiena. Dice: «Per poco non riusciva a convincermi che era lei, quella sana di mente». E la sua mano ricompare stringendo un paio di manette. Gliele fa scattare intorno ai polsi, la trascina via, accanto a Tabbi che ha gli occhi chiusi dal nastro adesivo, accanto a tutto il popolo dell'estate che scuote la testa. Accanto agli aristocratici di Waytansea Island. Di nuovo attraverso la radura dell'atrio in velluto verde. «Mia figlia» dice Misty. «È ancora lì dentro. Dobbiamo farla uscire.» E il detective Stilton la consegna a un ufficiale in divisa marroncina, dicendo: «Sua figlia chi? Quella che secondo lei è morta?». La sua morte l'hanno simulata. Le persone che stanno a guardare, sono tutte statue di se stesse. Autoritratti di se stesse. Fuori dall'hotel, ai piedi dei gradini della veranda, l'ufficiale apre la portiera posteriore di un'auto della polizia. Il detective Stilton dice: «Misty Wilmot, la dichiaro in arresto per il tentato omicidio di suo marito, Peter Wilmot, e per l'omicidio di Angel Delaporte». Il mattino dopo che Angel Delaporte è stato accoltellato nel letto di casa sua, lei era coperta di sangue. Angel le stava per soffiare il marito. Misty è quella che ha trovato il corpo di Peter sull'auto. Mani forti la spingono sul sedile della macchina. E da dentro l'hotel, il giornalista dice: «Signore e signori, è giunto il
momento di scoprire l'opera». «Portatela via. Prendetele le impronte. Schedatela» dice il detective. Poi molla all'ufficiale una pacca sulla schiena e dice: «Io torno dentro a vedere il motivo di tutto questo cancan». 28 agosto Secondo Platone, noi viviamo incatenati dentro una caverna buia. Essendo incatenati, di questa caverna possiamo vedere soltanto la parete di fondo. Soltanto le ombre che vi si muovono. Potrebbero essere le ombre di qualcosa che si muove fuori dalla caverna. Potrebbero essere le ombre di altri individui incatenati accanto a noi. Forse l'unica cosa che ciascuno di noi vede è la sua stessa ombra. Carl Jung lo definiva il gioco delle ombre. Diceva che noi non vediamo mai gli altri. Vediamo solo quegli aspetti di noi stessi che si riflettono su di loro. Ombre. Proiezioni. Le nostre associazioni. Come gli antichi pittori, che si chiudevano in un luogo oscuro e ricalcavano l'immagine di ciò che stava fuori da una minuscola finestra, alla luce del sole. La camera obscura. Non l'immagine esatta, tutto rovesciato o capovolto. Distorto dallo specchio o dalla lente attraverso cui ci perviene. Dalla nostra limitata percezione personale. Dal nostro piccolo corpus di esperienze. Dalla nostra istruzione piena di buchi. Lo spettatore che controlla la visione. L'artista che in realtà è morto. Noi vediamo ciò che vogliamo vedere. Nel modo in cui lo vogliamo vedere. Vediamo solo noi stessi. L'artista non può fare altro che darci qualcosa da guardare. Per la cronaca, tua moglie è stata arrestata. Però ce l'ha fatta lo stesso. Ce l'hanno fatta. Maura. Constance. E Misty. Hanno salvato sua figlia, tua figlia. Si è salvata da sola. Hanno salvato tutti quanti. L'ufficiale con la divisa marroncina ha portato Misty al traghetto, e quindi sulla terraferma. In macchina, l'ufficiale le ha letto i suoi diritti. Poi l'ha consegnata a un altro ufficiale, che le ha preso le impronte digitali e la fede nuziale. Misty aveva ancora indosso l'abito da sposa, e l'ufficiale le ha preso la borsetta e le scarpe con i tacchi alti. La bigiotteria di Misty, la bigiotteria di Maura, la loro bigiotteria. È tutto a casa Wilmot, nella scatola da scarpe di Tabbi.
Questo secondo ufficiale le ha dato una coperta. L'ufficiale era una donna della sua stessa età. Il suo viso, un diario di rughe che partivano dagli occhi e si dispiegavano a reticolo tra il naso e la bocca. L'ufficiale ha guardato i moduli che Misty stava compilando, e ha detto: «È lei, l'artista?». E Misty ha detto: «Sì, ma solo per questa vita. Poi basta». L'ufficiale l'ha accompagnata lungo un vecchio corridoio di cemento, fino a una porta di metallo. Ha aperto la serratura e ha detto: «A quest'ora le luci sono già spente». Ha aperto la porta di metallo e si è fatta da parte, ed è a quel punto che Misty l'ha vista. Quello che all'accademia non ti insegnano. Ovvero che sei sempre e comunque in trappola. Che la tua testa è la caverna, e i tuoi occhi ne sono l'ingresso. Che vivi dentro la tua testa, e vedi soltanto ciò che vuoi vedere. Che non fai altro che guardare ombre, inventandoti un significato tutto tuo. Per la cronaca, era proprio lì. Nell'alto rettangolo di luce proiettato dalla porta aperta. Una scritta sul muro di fondo della minuscola cella. Se sei qui, hai fallito di nuovo. Firmato Constance. La calligrafia tondeggiante e distanziata, amorevole e premurosa, è in tutto e per tutto la sua. Misty in questo posto non c'è mai stata, ma è dove finisce sempre, all'infinito. È a quel punto che sente le sirene, prolungate e lontane. E l'ufficiale dice: «Torno a dare un'occhiata fra un po'». L'ufficiale esce e richiude la porta. In alto, su una delle pareti, c'è una finestra. È troppo in alto perché Misty possa raggiungerla, ma di sicuro si affaccia sull'oceano e su Waytansea Island. Nel tremolio arancione della luce che entra dalla finestra, nella danza di luci e ombre sul muro di cemento antistante, in questa luce di colpo Misty sa tutto ciò che Maura ha saputo. Tutto ciò che Constance ha saputo. Capisce che sono state ingannate. Ecco perché sapeva già come dipingere il murale. Ecco perché Platone dice che sappiamo già tutto, e dobbiamo solo ricordare. Quello che Carl Jung chiama l'inconscio collettivo. Misty ricorda. Come una camera obscura che proietta un'immagine su una tela, come uno stenoscopio, la piccola finestra della cella proietta un intrico di arancione e giallo, di fiamme e di ombre, dando vita a una forma sulla parete. Si sentono solo le sirene, si vedono solo le fiamme. È il Waytansea Hotel che va a fuoco. Con dentro Grace e Harrow e Tabbi.
Riesci a rendertene conto? Siamo state qui. Siamo qui. Ci saremo sempre. E abbiamo fallito di nuovo. 3 settembre primo quarto di luna A Waytansea Point, Misty parcheggia l'auto. Tabbi siede al suo fianco, e sotto ciascun braccio stringe un'urna. I suoi nonni. I tuoi genitori. Grace e Harrow. Seduta accanto a sua figlia sul sedile anteriore della vecchia Buick, Misty appoggia una mano sul ginocchio di Tabbi e dice: «Tesoro?». E Tabbi si volta verso di lei. Misty dice: «Ho deciso di modificare ufficialmente i nostri nomi». Misty dice: «Tabbi, io ho bisogno di raccontare alla gente cos'è successo davvero». Misty stringe il ginocchio ossuto di Tabbi, con i collant bianchi che le scivolano sulla rotula, e dice: «Possiamo andare a vivere con la nonna a Tecumseh Lake». In effetti ora potrebbero andare a vivere ovunque. Sono di nuovo ricche. Grace, Harrow e tutti gli anziani del paese hanno lasciato milioni in polizze vita. Milioni e milioni, tutti esentasse e al sicuro nelle banche. A produrre rendite tali da metterle al sicuro per altri ottant'anni. Il cane da ricerca del detective Stilton, due giorni dopo l'incendio, si è messo a scavare nella montagna di legno carbonizzato. I primi tre piani dell'hotel ridotti ai soli muri di pietra. Il cemento trasformato in vetro verdeazzurro dal calore. Ciò che il cane ha fiutato, forse i chiodi di garofano, forse il caffè, ha guidato i soccorritori fino a Stilton, morto nei sotterranei dell'atrio. Il cane, che si scrolla e piscia, risponde al nome di Rusty. Le immagini hanno fatto il giro del mondo. I corpi disposti sulla strada davanti all'hotel. I cadaveri carbonizzati, neri e incrostati, nelle cui crepe si intravede la carne cotta all'interno, umida e rossa. In ogni ripresa, in ogni inquadratura, c'è il logo di una qualche azienda. In ogni secondo di materiale video si vedono gli scheletri anneriti distesi nel parcheggio. Centotrentadue è il totale provvisorio, e al di sopra di loro, addosso a loro, da qualche parte nell'inquadratura, si vede il nome di un'azienda. Uno slogan o una mascotte sorridente. Una tigre dei fumetti. Un motto vago e ottimista. "Bonner & Mills - Per quando non hai più voglia di ricominciare da ca-
po." "Mewtworx - Dove il progresso è non stare mai in un posto solo." A quello che non capisci puoi dare qualunque significato. In ogni servizio di telegiornale c'è un'auto dell'isola con una pubblicità serigrafata. Una cartaccia, un bicchiere o un tovagliolo di carta con il nome di un'azienda. Un cartellone pubblicitario. Gli abitanti dell'isola indossano le loro spille e le loro magliette, e concedono interviste alla televisione su uno sfondo di corpi fumanti. Adesso le società finanziarie e le televisioni via cavo e le aziende farmaceutiche pagano fior di quattrini per ricomprarsi tutta la pubblicità. Per cancellare il loro nome dall'isola. Aggiungi questi soldi a quelli delle polizze, e Waytansea Island è più ricca che mai. Seduta sulla Buick, Tabbi guarda sua madre. Guarda le urne che stringe nell'incavo delle braccia. Il suo muscolo grande zigomatico le tira gli angoli delle labbra verso le orecchie. Le guance di Tabbi si gonfiano, sollevandole le palpebre inferiori. Abbracciata alle ceneri di Grace e Harrow, diventa a suo modo una piccola Gioconda. Sorridente e antica, Tabbi dice: «Se tu parli, parlerò anch'io». L'opera d'arte di Misty. Sua figlia. Misty dice: «E cosa dirai?». Senza smettere di sorridere, Tabbi dice: «Che sono stata io a dare fuoco ai loro vestiti. Nonna e nonno Wilmot mi hanno insegnato come, e io gli ho dato fuoco». Dice: «Mi hanno messo il nastro sugli occhi perché non potessi vedere, perché riuscissi a uscire». Nei frammenti video rimasti, si vede soltanto il fumo che esce dalle porte dell'atrio. Pochi istanti dopo che il murale è stato scoperto. I pompieri si precipitano dentro e non escono più. Nessuno dei poliziotti, né degli invitati esce più. A ogni secondo che avanza sul cronometro in sovrimpressione, il fuoco si ingigantisce, le fiamme lanciano lingue arancioni fuori dalle finestre. Un agente di polizia avanza carponi sulla veranda per guardare dentro. Resta lì chino, e sbircia. Poi si alza. Con il fumo che gli soffia in faccia, le fiamme che gli incendiano vestiti e capelli, scavalca il davanzale della finestra. Senza battere ciglio. Senza un'esitazione. Con la faccia e le mani in fiamme. L'agente sorride fissando ciò che vede all'interno, e gli va incontro senza voltarsi indietro. La versione ufficiale è che è stato il camino della sala da pranzo la causa di tutto. All'hotel era tradizione che il fuoco fosse sempre acceso, indipendentemente dalla temperatura, ed è per questo che è scoppiato l'incendio.
La gente è morta a un passo dalle finestre aperte. I loro cadaveri sono stati ritrovati a un braccio di distanza dalle uscite di sicurezza. Li hanno trovati morti mentre strisciavano, mentre avanzavano a quattro zampe, mentre si accalcavano verso la parete della sala da pranzo dove il murale era in fiamme. Verso il centro del fuoco. Verso qualunque cosa quell'agente abbia visto attraverso la finestra della veranda. Nessuno ha tentato di fuggire. Tabbi dice: «Quando mio padre mi ha chiesto di fuggire con lui, io l'ho detto alla nonna». Dice: «Ci ho salvati. Ho salvato il futuro dell'isola». Guardando l'oceano fuori dal finestrino, senza guardare sua madre, Tabbi dice: «Perciò, se tu lo dici a qualcuno...». Dice: «Io finirò in prigione». Dice: «Sono molto fiera di quello che ho fatto, mamma». Guarda l'oceano, i suoi occhi seguono la curva della costa, sfiorano il paese e la mole nera dell'hotel distrutto. Dove la gente è bruciata viva, paralizzata dalla sindrome di Stendhal. Dal murale di Misty. Misty scuote il ginocchio della figlia e dice: «Tabbi, ti prego». E senza alzare gli occhi, Tabbi allunga un braccio, apre la portiera e scende. «Mi chiamo Tabitha, mamma» dice. «D'ora in poi ti prego di chiamarmi con il mio nome di battesimo.» Quando muori in un incendio, i muscoli si accorciano. Le braccia si contraggono, stringono le mani a pugno, i pugni si alzano verso il mento. Le ginocchia si piegano. E per via del calore. La chiamano la "posizione del pugile", perché ti fa sembrare un boxeur morto. Le persone che muoiono in un incendio, quelle in stato vegetativo persistente, finiscono tutte nella stessa posizione. La stessa di un bambino che aspetta di nascere. Misty e Tabitha oltrepassano la statua di Apollo in bronzo. La radura. Il mausoleo fatiscente, una banca ammuffita costruita nel fianco di una collina, con il cancello di ferro aperto. Il buio dentro. Raggiungono l'estremità di Waytansea Point, e Tabitha - non più sua figlia, non più parte di Misty, una persona che Misty nemmeno conosce - un'estranea, Tabitha, dall'alto di uno scoglio versa il contenuto delle urne nell'acqua. La lunga nuvola grigia, la polvere e la cenere, si dispiega trasportata dal vento. Si posa sul fondo dell'oceano. Per la cronaca, l'Alleanza oceanica per la libertà non si è mai più fatta viva, e la polizia non ha effettuato alcun arresto. Il dottor Touchet ha fatto chiudere l'unica spiaggia pubblica dell'isola per motivi sanitari. Il traghetto ha ridotto il servizio a due sole corse la setti-
mana, strettamente riservate ai residenti. Waytansea Island è a tutti gli effetti chiusa al pubblico. Tornando alla macchina, passano accanto al mausoleo. Tabbi... Tabitha si ferma e dice: «Ti andrebbe di dare un'occhiata dentro, ora?». Il cancello di ferro arrugginito e aperto. Il buio dentro. E Misty dice: «Sì». Per la cronaca, il tempo previsto per oggi è calmo. Calmo e rassegnato e sconfitto. Uno, due, tre passi nel buio, poi li vedi. Due scheletri. Uno disteso sul pavimento e rannicchiato su un fianco. L'altro seduto, con la schiena appoggiata al muro. Le ossa coperte di muffa e muschio. Le pareti luccicanti di rivoli d'acqua. Gli scheletri, i suoi scheletri, le donne che Misty è stata. Quello che Misty ha imparato è che il dolore e il panico e l'orrore durano soltanto un minuto o due. Quello che Misty ha imparato è che tutto questo morire l'ha annoiata a morte. Per la cronaca, tua moglie sa che non dicevi sul serio, quando hai scritto di tutti quegli spazzolini che ti eri ficcato su per il culo. Volevi solo spaventare la gente per riportarla alla realtà. Volevi solo svegliare tutti quanti dal loro coma personale. Misty non sta scrivendo tutto questo per te, Peter, non più. Su quest'isola non esiste un solo posto dove possa depositare la sua storia in modo che l'unica a ritrovarla sia lei. La futura lei, tra cent'anni. La sua piccola capsula del tempo privata. La sua personalissima bomba a orologeria. Gli abitanti di Waytansea rivolteranno ogni centimetro quadrato della loro bella isola. Abbatteranno l'hotel, pur di trovare il suo segreto. Gli resta un secolo per scavare e abbattere e cercare, prima che lei ritorni. Prima che la riportino indietro. E a quel punto sarà troppo tardi. Tutto ciò che facciamo ci tradisce. La nostra arte. I nostri figli. Però siamo state qui. E ci siamo ancora. Ciò che quella povera sciocca di Misty Marie Wilmot deve fare è nascondere la sua storia in bella vista. La nasconderà in ogni parte del mondo. Ciò che ha imparato è ciò che impara sempre. Ha ragione Platone. Siamo tutti immortali. Nemmeno se lo volessimo, potremmo morire. Se solo riuscisse a ricordarselo ogni giorno della sua vita, ogni minuto. FINE