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THOMAS HARRIS IL DELITTO DELLA TERZA LUNA (Red Dragon, 1981) Si vede solo ciò che si osserva, e si osserva solo ciò che già esiste nella mente Alphonse Bertillon ... Perché la grazia ha cuore umano, Volto umano la pietà, E l'amore, umana forma divina, E veste umana, la pace. WILLIAM BLAKE, Canti d'innocenza (La divina immagine) La crudeltà ha cuore umano, E volto umano la gelosia, Il terrore, umana forma divina, E veste umana, il mistero. Di ferro forgiato è la veste umana, Un'ignea forgia l'umana forma, Ermetica fornace il volto umano, Sua avida gola è il cuore. WILLIAM BLAKE. Canti d'esperienza (Una divina immagine)
1 Will Graham fece sedere Crawford al tavolo da picnic tra la casa e la riva dell'oceano e gli posò davanti un bicchiere di tè ghiacciato. Jack Crawford guardò la piacevole vecchia casa di legno sbiancato dal sale, immersa nella luce. «Avrei dovuto venire a trovarti a Marathon quando smontavi dal lavoro» disse. «Qui non ti andrà di parlarne.» «Non mi va di parlarne in nessun posto, Jack. Sei tu che devi parlarne,
quindi avanti. Basta che tu non mi faccia vedere foto. Se te le sei portate dietro, lasciale nella borsa... Molly e Willy dovrebbero tornare da un momento all'altro.» «Quanto ne sai?» «So quello che c'era scritto sul "Miami Herald" e sul "Times"» disse Graham. «Due famiglie massacrate nelle loro case a un mese di distanza l'una dall'altra. A Birmingham e ad Atlanta. Le circostanze erano simili.» «Non simili. Identiche.» «Quante confessioni fino ad ora?» «Quando ho telefonato oggi pomeriggio erano ottantasei» rispose Crawford. «Maniaci. Nessuno conosceva i particolari. Quello fa a pezzi gli specchi e adopera le schegge. Nessuno di loro lo sapeva.» «Che altro sei riuscito a non far finire sui giornali?» «È biondo, usa la mano destra ed è molto robusto. Porta scarpe numero quarantacinque. Riuscirebbe a piegare una rotaia ferroviaria. Niente impronte, porta i guanti.» «Questo però alla stampa l'hai detto.» Con le serrature non ci sa fare troppo,» proseguì Crawford. «L'ultima volta per entrare in casa ha usato un tagliavetro e una ventosa. Oh, il sangue è del gruppo AB positivo.» «Qualcuno l'ha ferito?» «Che noi sappiamo, no. Siamo riusciti a scoprirlo dallo sperma e dalla saliva. Lascia in giro una quantità di secrezioni.» Crawford guardò lontano, verso la superficie liscia del mare «Will, voglio chiederti una cosa. Queste cose le hai lette sui giornali. Del secondo caso hanno parlato tutte le TV. Hai mai pensato di chiamarmi?» «No.» «Perché?» «La prima volta, per quello di Birmingham, hanno dato pochi particolari. Poteva trattarsi di qualunque cosa — una vendetta, un parente.» «Ma dopo il secondo sapevi di cosa si trattava.» «Già. Uno psicopatico. Non ti ho telefonato perché non volevo farlo. So chi hai assegnato a questa storia. Disponi del miglior laboratorio che ci sia. Hai Heimlich a Harvard e Bloom all'Università di Chicago...» «E ho te qui che te ne stai a riparare dei motori marini del cazzo.» «Non credo che ti sarei più tanto utile, Jack. Non ci penso più, ormai.» «Davvero? Ne hai presi due. Gli ultimi due casi che ci siamo trovati per le mani li hai presi tu.»
«E come? Facendo le stesse cose che fate tu e gli altri.» «Non è del tutto vero, Will. È il modo che hai di pensare.» «Penso che sono state dette un sacco di stronzate sul mio modo di pensare.» «Ma se hai fatto dei salti logici che non hai mai spiegato.» «Avevo anche le prove» obiettò Graham. «Certo. Certo che c'erano. E tante... ma dopo. Per incastrarlo, prima, avevamo così poche cose in mano che non c'era nemmeno un motivo plausibile per occuparcene.» «La gente che ti serve ce l'hai, Jack. Non credo che io migliorerei la situazione. Sono venuto qui proprio per starmene lontano da quelle cose.» «Lo so. L'ultima volta sei rimasto ferito. Adesso mi sembra che tu stia bene.» «Sto bene. Non è per le coltellate che mi sono preso. È capitato anche a te.» «Sì, anche a me, ma non così.» «Dicevo: non per quello. Ho semplicemente deciso di piantarla lì. Non credo di riuscire a spiegarmi.» «Dio sa come ti capisco, se non riesci più a guardare.» «No. Sai, non è questione di riuscire o non riuscire a guardare. È sempre sgradevole ma si riesce comunque a riprendere a funzionare, sapendo che quelli sono morti. Il peggio è l'obitorio, le interviste. Bisogna toglierseli dalla testa e continuare a pensare. Non credo che adesso riuscirei a farcela. Potrei costringermi a guardare ma mi impedirei di pensare.» «Questi, sono tutti morti, Will» disse Crawford più gentilmente che poté. Jack Crawford nel modo di parlare di Graham avvertiva il suo stesso ritmo, la sua stessa sintassi. Gli era già capitato di notare, Graham farlo con altri. Spesso, quando era immerso in una conversazione animata, Graham assumeva il modo di parlare dell'interlocutore. In un primo momento Crawford aveva creduto che lo facesse deliberatamente, che fosse un trucco per tenere l'andamento della conversazione. In seguito però si era reso conto che era un comportamento involontario e che a volte cercava di impedirselo senza riuscirci. Infilò due dita nella tasca della giacca. Gettò due foto sul tavolo. «Tutti morti» disse. Graham lo fissò un attimo poi prese le foto. Erano semplici istantanee: una donna seguita da tre bambini e da un'ani-
tra portava l'attrezzatura per il picnic verso la sponda di uno stagno. Nell'altra si vedeva una famiglia riunita intorno a una torta. Dopo una trentina di secondi posò le foto. Le allontanò con un dito e guardò verso la spiaggia dove il bambino se ne stava accosciato, intento a osservare qualcosa sulla sabbia. La donna, in piedi con una mano sul fianco, osservava la schiuma delle onde che le morivano intorno alle caviglie. S'inarcò all'indietro per liberarsi le spalle dai capelli bagnati. Graham, ignorando l'ospite, rimase a osservare Molly e il ragazzo almeno quanto aveva guardato le fotografie. Crawford era soddisfatto. S'impedì di mostrarlo con la stessa cura con cui aveva scelto il posto per parlare. Era sicuro di averlo convinto. Bastava lasciarlo cuocere. Tre cani orrendi arrivarono trotterellando e si lasciarono cadere a terra vicino al tavolo. «Mio Dio» disse Crawford. «Sono cani, probabilmente» spiegò Graham. «La gente non fa che abbandonare qui i propri cuccioli. Quelli belli riesco a darli via. Gli altri rimangono e diventano grossi.» «Sono belli grassi.» «Molly stravede per i randagi.» «Fai una bella vita qui, Will. Molly e il ragazzo. Quanti anni ha?» «Undici.» «Ha un bell'aspetto. Diventerà più alto di te» Graham annuì. «Suo padre lo era. Qui sono fortunato, lo so.» «Volevo venire giù, con Phyllis. Qui in Florida. Per trovare un posto dove trasferirmi quando vado in pensione. Così la smetto di vivere come un pesce d'acquario. Lei dice che tutti i suoi amici sono ad Arlington.» «Volevo ringraziarla per i libri che mi ha portato in ospedale, ma non l'ho mai fatto. Ringraziala tu da parte mia.» «Senz'altro.» Due uccellini dai colori vivaci atterrarono sul tavolo sperando di trovare delle briciole. Crawford li osservò saltellare qua e là finché non frullarono via. «Will, questo maniaco sembra seguire le fasi della luna. Ha ucciso la famiglia Jacobi a Birmingham il 28 giugno, quando c'era la luna piena. I Leeds ad Atlanta li ha massacrati l'altra notte, il 26 luglio. La differenza è di un mese lunare meno un giorno. Quindi, se abbiamo fortuna, dovremmo avere un po' più di tre settimane prima che ci riprovi.»
«Non credo che ti vada di stare qui in Florida ad aspettare di leggere il prossimo sul tuo "Miami Herald". Diavolo, non sono mica il Papa, non ti sto dicendo quello che dovresti fare. Però voglio chiederti una cosa. Hai rispetto per le mie facoltà di giudizio?» «Sì.» «Credo che se ci dai una mano abbiamo la possibilità di prenderlo prima. Dai, Will, mettiti in sella e vieni ad aiutarci. Va' a dare un'occhiata a Birmingham e ad Atlanta, poi vieni a Washington.» Graham non rispose. Crawford attese; cinque ondate lambirono la spiaggia. Si alzò gettandosi la giacca sulla spalla. «Parliamone dopo cena.» «Resta qui a mangiare.» Crawford scosse il capo. «Torno dopo. Probabilmente ci sono dei messaggi per me all'Holiday Inn e dovrò stare un po' al telefono. Comunque, ringrazia Molly.» L'auto a nolo di Crawford sollevò dal fondo di conchiglie della strada una polvere impalpabile che si posò sui cespugli ai bordi. Graham tornò al tavolo. Temeva che questa sarebbe stata l'immagine che avrebbe ricordato di Sugarloaf Key... i cubetti di ghiaccio che si fondevano nei bicchieri di tè ghiacciato, i tovaglioli di carta che volavano via dal tavolo d'abete trascinati dalla brezza, Molly con Willy giù alla spiaggia. Calava il tramonto a Sugarloaf Key, gli aironi erano immobili, la palla rossa del sole si gonfiava. Will Graham e Molly Poster Graham sedevano su un tronco sbiancato dalla salsedine portato dalle correnti. Avevano il viso arrossato dalla luce del tramonto, che si stagliava contro l'ombra violacea alle loro spalle. Molly gli prese la mano. «Crawford è passato da me al negozio prima di venire qui» disse. «Mi ha chiesto le indicazioni per arrivare alla casa. Ho cercato di telefonarti. Una volta tanto dovresti deciderti a rispondere al telefono. Abbiamo visto la macchina tornando e siamo andati alla spiaggia facendo il giro.» «Che altro ti ha chiesto?» «Come stavi.» «E tu?» «Gli ho detto che stai bene e che doveva lasciarti in pace. Cosa vuole farti fare?» «Farmi osservare gli indizi. Sono uno specialista di medicina legale,
Molly. L'hai visto, il diploma.» «L'hai usato per chiudere una fessura nel soffitto. Quello l'ho visto.» Spostò il tronco per guardarlo in faccia. «Se la vita che facevi prima ti manca, credo che dovresti parlarmene. Non lo fai mai. Adesso sei franco, calmo e sciolto... mi piace.» «Facciamo una vita piacevole qui, no?» Molly ammiccò. Una sola volta. Graham capì che avrebbe dovuto dire qualcosa di meglio. Prima che riuscisse a rimediare Molly proseguì. «Quello che hai fatto per Crawford, ti ha fatto male. C'è un sacco d'altra gente a cui può rivolgersi — credo addirittura tutto il governo. Perché non ci lascia in pace?» «Non te l'aveva detto, Crawford? Era il mio sovrintendente le due volte in cui ho lasciato l'accademia dell'FBI e sono entrato in azione; gli unici due casi come questo che gli erano mai capitati, e sono molti anni che lavora. Adesso ne ha uno nuovo. Gli psicopatici di quel tipo sono molto rari. Sa che mi sono fatto... un'esperienza.» «Te la sei proprio fatta» disse Molly. Graham aveva la camicia sbottonata e si notava la curva della cicatrice che gli attraversava lo stomaco. Era larga un dito, in rilievo, e non si abbronzava mai. Scendeva dall'anca sinistra per risalire fino alla gabbia toracica, sull'altro fianco. Il dottor Hannibal Lecter gliel'aveva inferta con un coltello per tagliare il linoleum. Era accaduto un anno prima che Molly lo conoscesse. Graham era stato sul punto di morire. Il dottor Lecter, che i giornali popolari soprannominavano "Hannibal il cannibale", era il secondo psicopatico che Graham aveva catturato. Quando era uscito dall'ospedale, Graham si era dimesso dall'FBI, aveva lasciato Washington per trovare lavoro come meccanico di motori Diesel presso il cantiere di Marathon, nei Florida Keys, un mestiere che aveva imparato già da piccolo. Aveva dormito in una roulotte nel cantiere finché non si era trasferito nella piacevole casa sgangherata di Molly a Sugarloaf Key. Si mise a cavalcioni sul tronco e le prese le mani, Molly infilò i piedi sotto i suoi. «D'accordo, Molly. Crawford è convinto che io abbia quel certo non so che, quando si tratta di scoprire i mostri. È una specie di superstizione.» «Ne sei convinto anche tu?» Graham osservò tre pellicani volare in fila tra le onde di marea. «Molly, per svariati motivi è difficile prendere uno psicopatico intelligente, soprattutto se è un sadico. Primo, non c'è nessun movente al quale si possa risali-
re. Quindi questa pista non si può seguire. E non ci si può quasi mai basare sull'aiuto di informatori. Sai, dietro agli arresti ci sono molte più soffiate che indagini, in casi come questi però non si trovano informatori. Può darsi che lui non sappia nemmeno quello che fa. E allora bisogna basarsi sugli indizi, se ci sono, ed estrapolare. Bisogna cercare di ricostruire il suo modo di pensare, trovare dei modelli di comportamento.» «E poi andargli dietro e prenderlo» disse Molly. «Ho paura che, se ti metti a cercare questo pazzo, o qualunque cosa sia... ho paura che ti faccia quello che ti ha fatto l'ultimo. Ecco di cosa ho paura.» «Non mi vedrà mai e non saprà mai il mio nome, Molly. Sarà la polizia che lo dovrà prendere se riuscirà a trovarlo, non io. Crawford ha semplicemente bisogno di un altro punto di vista.» Molly guardò il sole rosso posato sulla superficie del mare. In alto risplendevano dei cirri. A Graham piaceva quel suo modo di girare la testa, di offrirgli la parte meno bella del profilo. Vide pulsarle la gola e all'improvviso ricordò il sapore di sale della sua pelle. Deglutì e disse: «Che diavolo posso fare?». «Quello che hai già deciso di fare. Se resti qui e quello ammazza qualcun altro magari finisce che questo posto non ti piace più. Sai, Mezzogiorno di fuoco e balle del genere. Se le cose stanno così, non è una domanda, la tua.» «E se lo fosse, cosa mi risponderesti?» «Di restare qui con me. Con me. Con me. E con Willy: se dovesse servire, metterei in mezzo anche lui. Io dovrei asciugarmi le lacrime e sventolarti il fazzoletto. Se poi le cose non dovessero andar bene avrei la soddisfazione di sapere che sei morto facendo la cosa giusta. Non durerebbe più di un paio di tacchi. Poi potrei tornarmene a casa e togliere un cuscino dal letto.» «Ma io starei in seconda fila.» «Ma neanche per sogno che ci staresti. Sono egoista, eh?» «Non me ne importa.» «Neanche a me. Qui viviamo in una situazione molto dolce, molto intensa. Tutte le cose che ti succedono prima che tu te ne renda conto. Anzi, prima che tu le apprezzi.» Graham annuì. «Non voglio perderle, né in un modo né nell'altro» concluse Molly. «No. Non vogliamo perderle.» L'oscurità cadde rapidamente e Giove apparve poco sopra l'orizzonte,
verso sud ovest. Tornarono a casa prima che salisse la falce di luna. Lontano, oltre la risacca, i pesciolini saltavano fuori dall'acqua per sfuggire alla morte. Crawford tornò dopo cena. Era senza giacca e cravatta, e si era arrotolate le maniche della camicia, tanto per avere un'aria disinvolta. A Molly i suoi avambracci muscolosi e pallidi parvero disgustosi. Le sembrava una scimmia tremendamente intelligente. Gli portò il caffè sotto il ventilatore del portico e gli tenne compagnia mentre Graham e Willy andavano a dar da mangiare ai cani. Non disse nulla. Le falene urtavano con tonfi morbidi contro le zanzariere. «Ha Paria di star bene» disse Crawford. «Tutti e due: siete asciutti e abbronzati.» «Lo porti con te qualunque cosa io gli possa dire, vero?» «Già. Devo. Sono costretto. Ma giuro su Dio, Molly , che farò tutto quello che posso per rendergli le cose facili. È cambiato. È una bella cosa che vi siate sposati.» «Continua a migliorare. Adesso gli incubi non li ha più tanto spesso. Per un po' di tempo ha avuto una vera e propria ossessione per i cani. Adesso se ne occupa e basta; non ne parla più di continuo. Sei suo amico, Jack, perché non lo lasci in pace?» «Perché, per sua sfortuna, è il migliore. Perché ha un modo di pensare diverso da quello degli altri. In un modo o nell'altro non segue mai dei binari prefissati.» «È convinto che tu voglia fargli vedere il luogo del delitto.» «Effettivamente è vero. Quando si tratta di analizzare i fatti non c'è nessuno migliore di lui. Ma ha anche un'altra qualità. Immaginazione, capacità di proiezione... chiamala come vuoi. E questo non gli piace.» «Non piacerebbe neanche a te, se l'avessi. Devi promettermi una cosa, Jack. Promettimi di stare attento che non vada troppo vicino. Credo che combattere lo ucciderebbe.» «Non dovrà farlo. Te lo prometto.» Quando Graham ebbe finito di dar da mangiare ai cani, Molly lo aiutò a fare le valigie. 2 Will Graham passò lentamente in macchina di fronte alla casa dov'era
vissuta e morta la famiglia di Charles Leeds. Le finestre erano buie. Era accesa solo una lampada esterna. Parcheggiò a due isolati di distanza e tornò indietro nella notte calda, portando con sé in una cartelletta i rapporti delle indagini della polizia di Atlanta. Aveva insistito per andare da solo sul posto. Se fosse stato con un altro non sarebbe riuscito a concentrarsi... questo almeno aveva detto a Crawford. Il motivo però era un altro e lo riguardava direttamente: non sapeva bene come avrebbe reagito. Non voleva sentirsi continuamente sotto osservazione. All'obitorio era andato tutto bene. La casa di mattoni a due piani in un giardino fitto di alberi, era arretrata rispetto alla strada. Graham si fermò un bel po' di tempo sotto i rami, osservandola. Si sforzò di arrestare completamente quel che provava dentro. Sentiva nella mente come un pendolo d'argento oscillare nel buio. Attese finché non fu immobile. Passarono in macchina alcuni vicini, lanciarono brevi occhiate alla casa per poi distogliere lo sguardo. Una casa dove c'è stato un delitto è sgradevole per i vicini, come il viso di una persona che ci ha tradito. Solo gli estranei e i bambini si fermano a guardarla. Le tende erano tirate. Graham era contento perché significava che nessun parente era entrato dopo la polizia. I parenti le chiudono sempre. Si spostò sul fianco della casa, muovendosi con cautela, senza accendere la torcia elettrica. Si fermò due volte ad ascoltare. La polizia di Atlanta sapeva che lui si trovava lì, ma i vicini no. Dovevano senz'altro essere nervosi, avrebbero potuto sparare. Guardando da una delle finestre posteriori riusciva a vedere la luce proveniente dalla parte anteriore del giardino che delineava la sagoma dei mobili. Nell'aria c'era un profumo intenso di gelsomini. Nella parte posteriore della casa si allungava per quasi tutta la lunghezza una veranda, sulla porta della quale c'era il sigillo del dipartimento di polizia di Atlanta. Graham lo ruppe ed entrò. Un pannello di compensato chiudeva il vetro della porta che dava in cucina, asportato dalla polizia. Alla luce della torcia la aprì con la chiave che si era fatto dare. Voleva accendere le luci. Avrebbe voluto appuntarsi il distintivo lucente, fare qualche rumore per giustificare la sua presenza nella casa silenziosa in cui cinque persone erano morte. Non fece nulla. Entrò nella cucina buia e sedette al tavolo per la prima colazione. Nell'oscurità si vedevano le due fiammelle blu per l'accensione automa-
tica della cucina a gas. Si sentiva profumo di cera per mobili e di mele. Scattò un termostato e il condizionatore si accese. Graham sussultò e avvertì un brivido di paura. La conosceva bene la paura. Questa poteva controllarla. Era semplicemente un po' spaventato, poteva benissimo proseguire. Quand'era spaventato sentiva e vedeva meglio; non riusciva a parlare concisamente e a volte la paura lo rendeva brusco. Qui non era rimasto nessuno a cui parlare, nessuno da offendere. La follia era entrata in casa da quella porta, era passata da questa cucina, camminando con un paio di piedi numero quarantacinque. Seduto nell'oscurità ne avvertì la presenza, proprio come un segugio annusa la paura. Per quasi tutto il giorno e buona parte della serata aveva studiato i rapporti degli investigatori della squadra omicidi. Ricordò che la polizia aveva trovato accesa la luce della cappa. La riaccese. Sulla parete accanto ai fornelli erano appesi due imparaticci incorniciati. Su uno era scritto: «I baci sono effimeri, un buon pranzo no». Sull'altro: «È sempre in cucina che agli amici piace stare, per sentire battere il cuore della casa, per trarne conforto». Graham guardò l'orologio. Le undici e mezzo. Secondo il medico legale il massacro doveva essere avvenuto tra le undici di sera e l'una. Come prima cosa, doveva pensare a come era entrato in casa... Il pazzo tolse il gancio dalle tendine esterne della porta. Si fermò immobile nell'oscurità del portico ed estrasse qualcosa di tasca. Una ventosa, forse la base di un temperamatite, di quelli che si fissano al piano della scrivania. Accucciato contro il battente della porta, in basso, sollevò il capo per guardare dentro. Leccò la ventosa con la lingua, la premette contro il vetro e fece scattare la leva per farla aderire. Alla ventosa era fissato un minuscolo tagliavetro con il quale incidere un cerchio. Lo stridere del tagliavetro e un colpetto deciso per staccare il cerchio. Una mano per picchiare, l'altra per tenere la ventosa. Il vetro non doveva cadere. Il pezzo staccato è leggermente irregolare perché la fettuccia si è arrotolata intorno al manico della ventosa. Un piccolo rumore raschiante mentre posa a terra il pezzo di vetro. Non si preoccupa di lasciare sul vetro tracce di saliva del gruppo AB. Insinua la mano coperta da un guanto aderente nel buco, trova il pomello della serratura. La porta si apre senza rumore. È in casa. Vede il pro-
prio corpo nella cucina sconosciuta, illuminata dalla luce della cappa. La casa è piacevolmente fresca. Inghiottì due caramelle di gomma; il rumore secco del cellophane infilato nella tasca gli diede fastidio. Attraversò il soggiorno tenendo per abitudine la torcia ben staccata dal corpo. Aveva studiato la pianta della casa ma voltò nella direzione sbagliata prima di riuscire a trovare le scale. I gradini non scricchiolavano. Si fermò di fronte alla porta della camera da letto principale. Riusciva a vedere qualcosa anche senza torcia. Un orologio digitale sul comodino proiettava l'ora sul soffitto, mentre sulla consolle accanto alla porta del bagno era accesa una luce da notte arancione. Si sentiva, intenso, l'odore metallico del sangue. Con gli occhi abituati all'oscurità ci si vedeva abbastanza bene. Il pazzo poteva distinguere il signor Leeds dalla moglie. Per attraversare la stanza, afferrare il padrone di casa per i capelli e tagliargli la gola la luce era sufficiente. E poi? Tornare indietro, accendere l'interruttore... un saluto alla signora Leeds e infine lo sparo che l'aveva immobilizzata? Graham accese le luci e le chiazze di sangue gli urlarono addosso dalle pareti, dal materasso e dal pavimento. L'aria stessa pareva piena di grida e di sangue. Indietreggiò, allontanandosi dal rumore che riempiva la stanza silenziosa, piena di macchie scure e secche. Rimase seduto sul pavimento finché in testa fu tornato il silenzio. Immobile, immobile, rimani immobile. Il numero e la varietà delle chiazze di sangue avevano lasciato perplessi gli investigatori della squadra omicidi che cercavano di ricostruire le fasi del delitto. Tutte le vittime erano state trovate massacrate a letto. La posizione delle macchie però non permetteva di accettare questa ipotesi. In un primo momento avevano pensato che Charles Leeds fosse stato aggredito nella camera della figlia e che poi il corpo fosse stato trascinato nella camera da letto principale. Avevano cambiato idea dopo aver esaminato più attentamente la forma delle macchie. I movimenti dell'assassino nelle stanze non erano stati ancora stabiliti con precisione. Ora, dopo aver letto i rapporti del medico legale del laboratorio di polizia scientifica, Will Graham cominciò a capire qual era stata la successione dei fatti. L'assassino aveva tagliato la gola a Charles Leeds, mentre questi dormi-
va accanto alla moglie, era tornato indietro per accendere la luce: infatti la superficie liscia di un guanto aveva lasciato sull'interruttore tracce di capelli e di grasso del signor Leeds. Poi aveva sparato alla moglie mentre questa si rizzava a sedere sul letto. Infine si era diretto verso le camere dei figli. Leeds era sceso dal letto con la gola tagliata e aveva cercato di proteggere i propri figli, perdendo una gran quantità di sangue. C'erano i segni dei fiotti sgorgati dall'arteria mentre cercava di lottare. Era stato respinto, era caduto ed era morto con la figlia nella sua stanza. A uno dei due bambini l'assassino aveva sparato nel letto. Anche l'altro era stato trovato a letto, ma nei suoi capelli erano stati scoperti dei granelli di polvere. Gli investigatori erano convinti che l'assassino l'avesse tirato fuori da sotto il letto e gli avesse sparato. Quando tutti erano ormai morti, salvo forse la signora, l'assassino aveva fatto a pezzi gli specchi, aveva scelto dei frammenti poi si era di nuovo dedicato alla donna. Nella cartelletta Graham aveva la copia del rapporto del medico legale. Ecco quello della signora Leeds. Il proiettile era penetrato all'altezza dell'ombelico, sulla destra, fermandosi contro la spina dorsale, all'altezza delle vertebre lombari. La morte però era avvenuta per strangolamento. L'aumento del tasso di serotonina e il livello di istamina nella ferita indicavano che doveva essere sopravvissuta almeno cinque minuti dopo essere stata colpita. L'istamina però era molto più elevata della serotonina, il che significava che non poteva essere sopravvissuta più di quindici minuti. La maggior parte delle altre ferite — probabilmente — erano state inferte dopo la morte. In questo caso cos'aveva fatto l'assassino prima che la donna morisse? D'accordo, aveva lottato con il marito e aveva ucciso i bambini, ma non doveva averci messo più di un minuto. Aveva rotto gli specchi. Ma cos'altro aveva fatto? Gli investigatori avevano lavorato bene. Avevano preso tutte le misure e tutte le fotografie possibili, avevano raccolto e setacciato avevano controllato i filtri di scarico del lavandino. Graham, comunque, continuava a cercare. Dalle foto prese dalla scientifica e dalle sagome segnate con nastro adesivo sui materassi, Graham riuscì a capire dov'erano stati trovati i cadaveri. Le prove — tracce di nitrato sulle lenzuola, per quanto riguardava le ferite d'arma da fuoco — indicavano che erano stati trovati in una posizione non molto diversa da quella in cui erano morti.
Tuttavia, rimanevano senza spiegazione il numero di macchie di sangue e i graffi sanguinosi trovati sulla moquette dell'anticamera. Un investigatore aveva avanzato l'ipotesi che alcune delle vittime avessero cercato di scappare dall'assassino strisciando via. Graham non ne era convinto: evidentemente il pazzo li aveva spostati quando erano già morti e poi li aveva rimessi sul letto nella posizione in cui li aveva uccisi. Quello che aveva fatto alla signora Leeds era evidente. Ma agli altri? Non li aveva sfigurati come aveva fatto con la donna. I figli erano stati ammazzati ciascuno con una pallottola in testa. Charles Leeds era morto dissanguato, e soffocato dal proprio sangue. Sul corpo gli era stata trovata solo la traccia superficiale lasciata da un legaccio stretto intorno al torace. Si pensava che fosse stato legato quando ormai era morto. Cosa aveva fatto l'assassino ai cadaveri? Estrasse dalla cartelletta le foto prese dalla polizia e i rapporti del laboratorio sulle singole macchie di sangue e sulle tracce organiche trovate nella stanza nonché le tavole standard di paragone sulla traiettoria delle gocce di sangue. Esaminò attentamente tutte le stanze cercando di collegare chiazze e ferite, lavorando a ritroso. Segnò ogni macchia su una piantina della camera da letto principale usando le tavole standard per stimare direzione e velocità delle gocce. Sperava di riuscire a capire quali erano state le posizioni dei corpi durante le varie fasi del massacro. Ecco qui tre chiazze in fila inclinate intorno all'angolo della camera. Sulla moquette, sotto, erano visibili tre macchie appena accennate. Altre si trovavano sulla spalliera del letto, dalla parte di Charles Leeds. E altri segni alla base. La piantina sembrava ormai uno di quei quiz tipo «Che cosa apparirà?», senza però i numeri. Graham la fissò a lungo, guardò di nuovo la stanza, tornò ad osservare la piantina finché non gli venne male alla testa. Andò in bagno e inghiottì le ultime due pastiglie di analgesico, raccogliendo l'acqua con le mani. Si bagnò il viso asciugandolo con i lembi della camicia. L'acqua era scrosciata sul pavimento: aveva dimenticato che il sifone non c'era più. La stanza da bagno era intatta salvo per lo specchio rotto e le tracce della polvere rossa per rilevare le impronte, chiamata Sangue di Drago. Spazzolini, creme per il viso, rasoio erano tutti al loro posto. Sembrava quasi che l'intera famiglia continuasse a usare quella stanza. Sul portasciugamani c'era ancora il collant della signora Leeds, appeso ad asciugare. Graham notò che la donna aveva l'abitudine di tagliar via una
gamba da un collant quando c'era una smagliatura per poi metterne insieme due paia, per risparmiare. Questo piccolo espediente lo colpì dolorosamente: Molly faceva lo stesso. Uscì dalla finestra sul tetto del portico e si mise a sedere sulle tegole ruvide. Si abbracciò le ginocchia. Sentiva la camicia bagnata fredda contro la schiena. Espirò rumorosamente dal naso per buttar fuori la puzza di cadavere. Le luci di Atlanta coloravano il cielo notturno rendendo difficile vedere le stelle. Giù nei Keys il cielo sarebbe stato limpido. In quel momento, insieme a Molly e a Willy, avrebbe potuto guardare le stelle cadenti, cercando di sentire il sibilo che — con aria molto seria — dicevano che una stella cadente avrebbe dovuto fare. La notte di San Lorenzo era vicina e Willy tutto eccitato rimaneva alzato a osservare. Rabbrividì e buttò fuori di nuovo il respiro. Non voleva pensare a Molly in questo momento. Era di cattivo gusto e, oltretutto, lo distraeva. Graham si preoccupava molto delle questioni di gusto. Spesso i suoi pensieri non erano di buon gusto. Nella sua mente non c'erano barriere efficaci e solide. Quel che vedeva e imparava influenzava tutte le altre sue conoscenze. E certe combinazioni era difficile sopportarle. Comunque, non riusciva a prevederle, né a bloccarle e a reprimerle. I valori di decenza e senso morale che aveva imparato stavano sempre in agguato, sconvolti dalle associazioni, inorriditi dai sogni; gli dispiaceva di non avere fortilizi nel cervello per difendere ciò che amava. Le associazioni scattavano alla velocità della luce. I giudizi di valore invece andavano al passo di una lettura attenta. Non riuscivano mai a essere all'altezza della situazione, a dirigere il corso dei suoi pensieri. A suo avviso questa sua struttura mentale era grottesca ma utile, come le sedie fatte di corna di cervo. Non ci poteva far nulla. Spense le luci e uscì dalla porta della cucina. La torcia illuminò una bicicletta e una cuccia di vimini per il cane in fondo alla veranda. Nel cortiletto posteriore c'era un canile e accanto ai gradini una ciotola. Tutto indicava che i Leeds erano stati sorpresi nel sonno. Fermando la torcia fra il mento e il torace scrisse un appunto: Jack, dov'era il cane? Tornò all'albergo. Dovette concentrarsi sulla guida malgrado alle quattro e mezzo del mattino ci fosse poco traffico. Il mal di testa continuava, fu costretto a cercare una farmacia aperta tutta la notte. Ne trovò una a Peachtree. Un sorvegliante sciatto e sudicio sonnecchiava
accanto alla porta. Un farmacista con uno spolverino scuro sul quale risaltava la forfora gli vendette l'analgesico. L'illuminazione faceva addirittura male agli occhi. A Graham i farmacisti giovani non piacevano. Avevano sempre un'aria sozza. Spesso erano presuntuosi e sospettava che, in famiglia, avessero un comportamento sgradevole. «Altro?» chiese il farmacista, tenendo le dita sulle chiavi del registratore di cassa. «Vuole altro?» L'ufficio dell'FBI di Atlanta gli aveva prenotato una stanza in un hotel assurdo vicino a Peachtree Center, il nuovo quartiere direzionale della città. Gli ascensori di vetro erano a forma di baccello, tanto per fargli capire che adesso era davvero in città. Salì in camera insieme a due partecipanti a un qualche congresso che portavano appesa al bavero una targhetta con scritto "Salve!". Si tenevano aggrappati al corrimano e salivano guardando nell'atrio. «Guarda quella lì al banco... è Wilma, è appena entrata» disse il più grosso. «Dio Cristo, che voglia di darle una bella sbattuta.» «Già, scoparla finché le viene il sangue dal naso» disse l'altro. Paura ed eccitazione, e rabbia per la paura. «Di', sai perché le donne hanno le gambe?» «Perché?» «Così non si lasciano dietro la bava come le lumache.» Le porte dell'ascensore si aprirono. «Non ci credi? È così» disse il più grosso. Uscendo barcollò, urtando le pareti dell'ascensore. «Il cieco che porta in giro lo zoppo» disse l'altro. Graham posò la cartelletta sulla cassettiera. Poi per non vederla la infilò in un cassetto. Non ne poteva più di morti con gli occhi spalancati. Voleva telefonare a Molly, ma era troppo presto. Alla centrale di polizia di Atlanta era in programma una riunione per le otto del mattino, dove aveva ben poco da dire. Doveva cercare di dormire. Il suo cervello era una specie di pensione piena di gente in cui tutti discutevano e dove qualcuno, giù nell'atrio, litigava. Si sentiva vuoto, annebbiato; prima di mettersi a letto bevve due dita di whisky versandolo nel bicchiere della toilette. Sentiva l'oscurità premergli addosso, troppo vicina. Andò ad accendere la luce del bagno e tornò a letto. Finse che Molly. fosse di là a spazzolarsi i capelli. Sentiva la propria voce ripetere le frasi del rapporto del medico legale,
anche se non le aveva mai lette ad alta voce: «... le feci appaiono formate... è visibile una traccia di talco sulla gamba destra in basso. Si nota una frattura della parete mediana dell'orbita causata dall'inserimento di un frammento di vetro...» Cercò di pensare alla spiaggia di Sugarloaf Key, di sentire il rumore delle onde. Con gli occhi della mente si raffigurò il suo banco da lavoro e provò a immaginare lo scappamento dell'orologio ad acqua che stava costruendo insieme a Willy. Cantò sottovoce Whisky River e ripeté a mente, dall'inizio alla fine, il motivo di Black Mountain Rag. La musica che piaceva a Molly. Nessun problema per la chitarra di Doc Watson. Ma si perse quando intervenne il violino. Molly aveva cercato di insegnargli a ballare il clog nel cortiletto posteriore... la vide saltellare... finalmente si assopì. Si svegliò un'ora dopo, irrigidito e coperto di sudore. Vedeva la sagoma dell'altro cuscino stagliarsi contro la luce del bagno... era la signora Leeds distesa accanto a lui — massacrata — gli occhi squarciati e il sangue che le scendeva sulle tempie e sulle orecchie simile alle stanghette di un paio di occhiali. Non riuscì a voltare la testa per guardarla. Nel cervello gli risuonava un urlo. Allungò una mano e toccò il lenzuolo asciutto. La tensione si era scaricata, provò un sollievo immediato. Si alzò con il batticuore e indossò un'altra maglietta. Quella zuppa di sudore la gettò nella vasca. Non riuscì a mettersi sul lato asciutto del letto. Preferì posare un asciugamano dall'altra parte e vi si distese sopra, appoggiandosi allo schienale con un bicchiere in mano. Ne bevve un buon terzo. Cercò di pensare a qualcosa, a qualunque cosa. Alla farmacia dove aveva comperato l'analgesico; forse perché, in tutta la giornata, era stato l'unico momento in cui era mancato il contatto con la morte. Gli vennero in mente i vecchi drugstores con la fontanella del seltz. Da bambino pensava che avessero un che di furtivo. Quando si entrava, veniva sempre in mente l'idea di comperare un preservativo, servisse o meno. Sugli scaffali c'erano oggetti sui quali lo sguardo non poteva indugiare troppo. Nella farmacia dove aveva comprato l'analgesico, invece, i contraccettivi in confezione corredata da illustrazioni si trovavano in una scatola di perspex dietro il registratore di cassa, incorniciati come un'opera d'arte. Preferiva i drugstores e i prodotti della sua infanzia. Graham aveva quasi quarant'anni e cominciava appena ad apprezzare l'atmosfera dei tempi passati. Era come un'ancora di salvataggio nella tempesta.
Pensò a Smoot. Il vecchio Smoot quando Graham era bambino si occupava delle bibite per conto del farmacista proprietario del drugstore locale. Smoot, che aveva l'abitudine di bere sul lavoro, dimenticava di abbassare le tendine della vetrina e i dolci esposti si scioglievano. Dimenticava di spegnere la macchina per il caffè e qualcuno aveva avvertito i pompieri. Vendeva gelati a credito ai bambini. Ma la sua peggiore mancanza l'aveva fatta ordinando cinquanta bambole da un commesso viaggiatore mentre il proprietario era in vacanza. Al suo ritorno, Smoot era stato licenziato per una settimana. Poi era stata organizzata una svendita delle bambole, che erano state disposte in vetrina a semicerchio in modo da fissare tutte chiunque le guardasse. Gli occhi delle bambole erano color fiordaliso. L'effetto d'insieme era impressionante e Graham per un po' di tempo non fece che guardarle. Sapeva che erano solo bambole, ma si rendeva conto che attiravano l'attenzione. Erano così tante. Anche altri si fermavano davanti alla vetrina. Le bambole erano di gesso, avevano tutte la stessa pettinatura, ma tutti quegli occhi gli facevano venire ugualmente i brividi sulla faccia. Cominciò a rilassarsi un pochino. Lo sguardo fisso delle bamboline. Buttò giù un sorso, ansimò e soffocò un colpo di tosse. Cercò in fretta l'interruttore dell'abat-jour e andò a prendere la cartelletta dalla cassettiera. Prese i rapporti dell'autopsia dei tre figli insieme alla piantina della camera dei genitori e li distese sul letto. Ecco le tre macchie oblique sullo spigolo, ed ecco quelle corrispondenti sulla moquette. Ecco la statura dei tre bambini. Fratello, sorella, il figlio più grande. Le misure corrispondevano, per tutti e tre. Erano stati messi uno accanto all'altro, appoggiati alla parete di fronte al letto. Un pubblico. Un pubblico di morti. E il padre. Legato per il torace alla spalliera, composto in modo da far sembrare che fosse seduto sul letto. Il segno del legaccio era rimasto sulla parete sopra la spalliera. Cosa guardavano? Niente, erano tutti morti. Ma avevano gli occhi aperti. Guardavano lo spettacolo che aveva per protagonista il pazzo e il corpo della signora Leeds, sul letto, accanto al marito. Spettatori. Il maniaco guardandosi intorno li vedeva in viso. Graham si chiese se avesse acceso una candela. Il baluginio poteva simulare un'espressione. Non erano state trovate candele. Forse ci avrebbe pensato la prossima volta. Questo primo esile legame con l'assassino irritava e pungeva come una sanguisuga. Pensando, morse l'orlo del lenzuolo. Perché li hai spostati di nuovo? Perché non li hai lasciati così? C'è
qualcosa che non vuoi farmi sapere sul tuo conto. Dev'esserci qualcosa di cui ti vergogni. O è qualcosa che non puoi permetterti di farmi sapere? Gli hai aperto gli occhi? La signora Leeds era bella, vero? Hai acceso la luce dopo aver tagliato la gola al marito per farglielo vedere mentre cadeva, vero? I guanti ti davano un fastidio terribile quando la toccavi, vero? C'erano tracce di talco sulle gambe della signora Leeds. Non c'era talco nel bagno. Gli parve che qualcun altro facesse queste due affermazioni con una voce piatta. Ti sei tolto i guanti, vero? Il talco è uscito dal guanto di gomma mentre te lo toglievi per toccarla, VERO, FIGLIO DI PUTTANA? L'hai toccata a mani nude, poi ti sei rimesso i guanti e l'hai ripulita. Ma gli occhi agli altri li hai aperti quando eri senza guanti? Jack Crawford rispose al quinto squillo. Aveva già ricevuto molte telefonate quella notte e non era affatto intontito. «Sono Will.» «Dimmi.» «Price si occupa ancora di impronte latenti?» «Sì. Ma non in generale. Adesso si occupa delle impronte dell'indice.» «Credo che dovrebbe venire ad Atlanta.» «Perché? L'hai detto tu che il tipo che abbiamo qui è bravo.» «Sì, è bravo, ma non quanto Price.» «Cosa devi fargli fare? Dove deve cercare?» «Sulle unghie delle mani e dei piedi della signora Leeds. Sono dipinte, è una superficie liscia. E la cornea degli occhi di tutti gli altri. Sono convinto che si è tolto i guanti, Jack.» «Cristo, Price deve arrivare di corsa» disse Crawford. «Oggi pomeriggio c'è il funerale.» 3 «Secondo me l'ha toccata» fu il saluto di Graham. Crawford gli allungò una coca-cola presa dalla macchina distributrice della centrale di polizia di Atlanta. Mancavano dieci minuti alle otto. «Sicuro, l'ha spostata» disse Crawford. «C'erano i segni sui polsi e nell'incavo delle ginocchia. Ma tutte le impronte che abbiamo trovato sono state lasciate da guanti non porosi. Comunque non preoccuparti, è arrivato
quel vecchio bastardo di Price. Sta andando all'impresa di pompe funebri. All'obitorio hanno dato il nulla osta per la rimozione dei cadaveri ieri sera, ma per ora l'imbalsamatore non ha ancora cominciato. Hai l'aria conciata. Non hai dormito?» «Un'ora, forse. Secondo me l'ha toccata a mani nude.» «Spero che tu abbia ragione, ma al laboratorio della scientifica di Atlanta giurano che non si è mai tolto i guanti, che dovevano essere del tipo da chirurgo» spiegò Crawford. «Cerano le impronte lisce sui frammenti di vetro. L'indice sul pezzo infilato nella vagina, il pollice sporco di sangue dall'altra parte.» «Deve averlo ripulito dopo averlo infilato, probabilmente per vederci riflessa quella sua faccia maledetta» disse Graham. «Quello infilato in bocca era coperto di sangue. Lo stesso per gli occhi. Non si è mai tolto i guanti.» «La signora Leeds era una bella donna» disse Graham. «Hai visto le foto di famiglia, no? A me sarebbe piaciuto accarezzarle la pelle, in una situazione intima, a te no?» «Situazione intima?» ripeté Crawford. Non riuscì a impedire una nota di disgusto nella voce. All'improvviso si frugò in tasca alla ricerca di monetine. «Intima... erano soli. Tutti gli altri erano morti. Poteva aprirgli o chiudergli gli occhi, come preferiva.» «Come preferiva» ripeté ancora Crawford. «Naturalmente hanno cercato di vedere se erano rimaste impronte digitali sulla pelle. Niente. Solo il segno di una mano aperta sul collo.» «Nel rapporto non si parla delle unghie.» «Credo che le unghie fossero sporche di sangue quando hanno sparso la polvere. Si è piantata le unghie nel palmo della mano. Non l'ha graffiato.» «Aveva dei bei piedi.» disse Graham. «Hmmm. Andiamo al piano di sopra» disse Crawford, «tra poco c'è l'adunata.» Jimmy Price si era portato dietro un bel po' d'attrezzatura: due casse pesanti, più la borsa della macchina fotografica e il treppiede. Attraversò l'atrio dell'Impresa pompe funebri Lombard di Atlanta producendo una serie di clangori metallici. Era un vecchietto smunto e il suo umore non era stato certo reso migliore dalla lunga corsa in taxi dall'aeroporto nel pieno del traffico del mattino.
Un giovanotto altezzoso e ben pettinato lo accompagnò in un ufficio dalle pareti color crema e albicocca. Sulla scrivania, vuota, c'era una scultura: Mani in preghiera. Price stava esaminando i polpastrelli delle mani in preghiera quando entrò il signor Lombard in persona. Il proprietario dell'impresa controllò con estrema cura i documenti di Price. «Naturalmente il vostro ufficio di Atlanta o la vostra agenzia, o come si chiama, mi ha avvertito, signor Price. Ma ieri sera abbiamo dovuto chiamare la polizia per allontanare uno scocciatore che cercava di prendere delle foto per il "National Tattler", quindi preferisco essere molto prudente, lei capirà. Ci hanno consegnato i corpi questa notte all'una e oggi alle cinque ci sarà il funerale. Non possiamo perdere tempo.» «Non ci vorrà molto» lo informò Price. «Mi serve solo un assistente di intelligenza discreta, se ne ha uno. Per caso lei ha toccato i cadaveri, signor Lombard?» «No.» «Veda di sapere chi li ha toccati. Dovrò prendere a tutti le impronte digitali.» Per gli investigatori assegnati al caso Leeds l'argomento della conferenza del mattino riguardava quasi esclusivamente i denti. R.J. Springfield, soprannominato Buddy, capo della squadra investigativa della polizia di Atlanta, tarchiato e in maniche di camicia, aspettò in piedi accanto alla porta insieme al dottor Dominic Princi mentre i ventitré investigatori prendevano posto. «Bene ragazzi, venite qui uno alla volta e fate un bel sorriso» ordinò. «Fate vedere i denti al dottore. Bene, fateglieli vedere tutti. Cristo, Sparks, è la tua lingua quella, o hai mandato giù uno scoiattolo? Avanti, muovetevi.» Sulla parete della sala riunioni era appesa una grossa fotografia di una chiostra di denti. A Graham ricordava quelle di celluloide che si vedevano tanti anni prima in certi negozi. Era seduto insieme a Crawford in fondo mentre gli investigatori si accomodavano nei banchi. Il capo della polizia Gilbert Lewis e il suo addetto alle pubbliche relazioni sedevano in disparte su due sedie pieghevoli. Lewis di lì a un'ora doveva affrontare una conferenza stampa. Springfield prese la parola. «Bene. Smettiamola di sparare cazzate. Se stamattina avete letto qualco-
sa, avrete visto che i progressi sono zero.» «Le interviste casa per casa continueranno in un raggio di quattro isolati intorno alla scena del delitto. L'ufficio ricerche e informazioni ci ha prestato due impiegati che ci daranno una mano a controllare le prenotazioni per gli aerei e le auto a nolo a Birmingham e ad Atlanta.» «Oggi bisognerà ricontrollare alberghi e aeroporti. Sì, oggi, di nuovo. Dovete trovare tutte le cameriere e tutti gli uomini di fatica e anche tutti gli impiegati. Da qualche parte deve essere senz'altro andato a lavarsi e può darsi che abbia lasciato un po' di casino. Se trovate qualcuno che ha ripulito dello sporco qualche stanza, buttate fuori tutti, mettete i sigilli e filate con la sirena alla lavanderia. Questa volta abbiamo qualcosa da farvi mostrare in giro. Dottor Princi?» Il dottor Dominic Princi, medico legale della Fulton County, si fece avanti fermandosi sotto l'ingrandimento dei denti Mostrò a tutti un calco. «Signori, i denti della persona in questione hanno questo aspetto. Lo Smithsonian Institute di Washington l'ha ricostruiti in base ai rilievi dei morsi che abbiamo trovato sul corpo della signora Leeds e in base al segno che abbiamo trovato in un pezzo di formaggio nel frigorifero di casa» annunciò. «Come potete vedere, c'è un ponte sugli incisivi laterali... questo dente e questo.» Princi indicò il calco che teneva in mano, poi il foglio appeso alle sue spalle. «I denti non sono allineati e all'incisivo centrale manca un angolo. L'altro è solcato, in questa posizione. Sembra quasi il cosiddetto "solco del sarto" che viene quando si ha l'abitudine di spezzare del filo coi denti per molto tempo.» «Ha i denti taglienti quel figlio di puttana» borbottò qualcuno. «Come fa a essere sicuro che sia stato lui a mordere il formaggio, Doc?» chiese un investigatore alto in prima fila. A Princi dava fastidio sentirsi chiamare Doc ma lasciò perdere. «La saliva trovata sul formaggio e sui morsi apparteneva allo stesso gruppo sanguigno» disse. «Un gruppo diverso da quello delle vittime.» «Ottimo, dottore» disse Springfield. «Faremo fare delle copie della dentatura e le mostreremo in giro.» «Non sarebbe il caso di farle pubblicare sui giornali?» chiese Simpkins, l'addetto alle pubbliche relazioni. «Con la didascalia "Avete visto questi denti?" o qualcosa di simile?» «Io non ho obiezioni» consentì Springfield. «Lei?» Lewis annuì.
Simpkins non aveva ancora finito. «Dottor Princi, i giornalisti mi chiederanno come mai ci sono voluti quattro giorni per avere il calco della dentatura. E perché è stato necessario farlo fare a Washington.» L'agente speciale Crawford studiò il pulsante della penna a sfera. Prince arrossì ma la voce rimase calma. «I segni lasciati dai morsi sulla carne si distorcono quando il cadavere viene spostato, signor Simpson...» «Simpkins.» «Signor Simpkins, allora. Noi non avremmo potuto preparare il calco servendoci solo dei rilievi presi sulla vittima. È per questo che è importante il formaggio. È una sostanza relativamente solida ma difficile da trattare. Bisogna prima ricoprirla di una sostanza oleosa per impedire che l'umidità deformi il materiale usato per il calco. Solitamente è possibile effettuare un solo tentativo. Lo Smithsonian aveva già fatto un lavoro identico per il laboratorio di criminologia dell'FBI. Hanno un'attrezzatura migliore e dispongono anche di un articolatore anatomico. Hanno la consulenza di un odontoiatra specializzato in medicina legale. Noi no. C'è altro?» «Si potrebbe dire che del ritardo è responsabile il laboratorio dell'FBI e non il nostro?» Princi lo guardò dritto negli occhi. «Quello che si potrebbe dire, signor Simpkins, è che è stato un investigatore federale, l'agente speciale Crawford, a trovare il formaggio nel frigorifero due giorni fa... dopo che i vostri agenti avevano esaminato la casa da cima a fondo. Dietro mia richiesta, ha insistito perché il laboratorio accelerasse i lavori. Quello che si potrebbe dire è che sono contento che non sia stato uno dei vostri a dare un morso a quel maledetto formaggio.» Lewis intervenne. La sua voce profonda rimbombò nella sala riunioni. «Nessuno vuol criticare le decisioni che lei ha preso, dottor Princi. Simpkins, l'ultima cosa di cui abbiamo bisogno è di spaccarci i coglioni litigando con l'FBI. Andiamo avanti.» «Abbiamo tutti lo stesso obiettivo» disse Springfield. «Jack, hai qualcosa da aggiungere?» Crawford prese la parola. Non tutti gli uomini che vedeva dinnanzi a sé avevano un'espressione amichevole. Doveva fare qualcosa. «Voglio solo calmare un po' le acque, capo. Anni fa c'era molta rivalità riguardo a chi portava le stellette. Le autorità locali e quelle federali tendevano ad andare ognuno per la propria strada, senza collaborare. Questo ha lasciato spazio ai delinquenti. Non è la politica dell'FBI e non è la mia politica Io me ne frego di chi ha le stellette. E lo stesso vale per l'investigato-
re Graham. Se qualcuno di voi si chiede chi è, è quello seduto là in fondo. Se il tizio che ha massacrato quella gente finisse sotto un camion della spazzatura, mi andrebbe bene. Basta che non sia più in circolazione. Credo che anche voi la pensiate nello stesso modo.» Osservò gli investigatori sperando di averli calmati. Sperava che non si sarebbero tenuti per loro eventuali indizi. Lewis intervenne. «L'investigatore Graham si è già occupato di faccende di questo tipo.» «Sì.» «Lei, signor Graham è in grado di aggiungere qualcosa, di dare suggerimenti?» Crawford inarcò le sopracciglia, rivolto a Graham. «Le dispiace venire qui?» disse Springfield Graham avrebbe preferito potergli parlare in privato. Non voleva salire in cattedra. Comunque andò. Con i vestiti in disordine e la pelle bruciata dal sole non aveva affatto l'aria di un agente federale. A Springfield sembrava un imbianchino che si fosse messo il vestito buono per presentarsi in tribunale. Gli investigatori spostarono il peso da una natica all'altra. Quando Graham si voltò, gli occhi azzurro ghiaccio risaltarono nel viso abbronzato. «Solo un paio di cose» disse. «Non possiamo supporre che sia un ex ricoverato in un ospedale psichiatrico o che nella sua fedina ci siano atti contro la morale. Molto probabilmente non ha nessun precedente. In caso positivo, invece, è più probabile che si tratti di violazione di domicilio che di aggressioni sessuali di minore importanza. «Se ha precedenti per rissa o per maltrattamento di minori dovrebbe aver inflitto morsi. I contributi più importanti verranno dal personale dei reparti di pronto soccorso e da quello dell'assistenza all'infanzia. «Vale la pena di controllare tutti i casi gravi di morsicature che ricordano, senza badare a chi è stato morso o al modo in cui dicono che si sia verificato. È tutto quanto vi posso dire.» L'investigatore alto in prima fila alzò la mano. «Fino a questo momento però ha morso solo donne, giusto?» «Questo è ciò che sappiamo. Tuttavia dà molti morsi. Sei molto forti alla signora Leeds, otto alla signora Jacobi. Un bel po' più della media.» «La media qual è?» «In un delitto a carattere sessuale, tre. Gli piace mordere.» «Le donne.»
«Quasi sempre nelle aggressioni sessuali i segni lasciati dai morsi portano un livido al centro, il succhiotto. Nel nostro caso sono assenti. Il dottor Princi l'ha accennato nel rapporto e io l'ho notato all'obitorio. Nessun succhiotto. I morsi, per lui, potrebbero essere una manifestazione aggressiva così come un comportamento sessuale.» «Piuttosto debole» osservò l'investigatore. «Vale la pena di controllare» ribatté Graham. «Vale la pena di controllare tutti i casi di morsi. La gente, quando spiega come si sono verificati, tende a mentire. I genitori di un bambino che mostra segni di morsi dicono che si è trattato di un animale e preferiscono fargli fare l'antirabbica per nascondere che in famiglia c'è qualcuno che usa i denti... dovreste averne già visti di casi del genere. Vale anche la pena di chiedere agli ospedali i nomi delle persone sottoposte all'antirabbica.» «È tutto quello che vi posso dire.» I muscoli delle cosce di Graham quando sedette vibrarono per la fatica. «Vale la pena di controllare e controlleremo» disse Springfield. «E adesso la Squadra Furti con scasso si mette al lavoro nel vicinato insieme alla Squadra Antifurto. Dovrete occuparvi del cane. I dati e la foto li troverete nella pratica. Cercate di scoprire se qualche sconosciuto è stato visto col cane. La Buoncostume e la Narcotici, finito il servizio diurno, si occupano dei bar per sadici e omosessuali. Marcus e Whitman... voi andate al funerale. Avete già trovato parenti e amici di famiglia, per riconoscere eventuali sconosciuti? Bene. Il fotografo? D'accordo. Poi portate il registro del funerale all'Ufficio ricerche. Stanno già lavorando su quello di Birmingham. Gli altri incarichi li trovate sull'ordine di servizio. Andiamo.» «Ancora una cosa» disse Lewis. Gli investigatori tornarono a sedere. «Ho sentito dei funzionari di questo comando chiamare l'assassino "Lupo Marinaro". Non m'importa come lo chiamate fra voi. Capisco che un qualche nome dovete pur darglielo. Ma preferirei non sentire funzionari di polizia che lo chiamano così in pubblico. È poco serio. Non dovrete nemmeno usarlo nei rapporti interni. È tutto.» Crawford e Graham ritornarono con Springfield nell'ufficio. Il capo della divisione investigativa diede loro del caffè mentre Crawford chiamava il centralino e trascriveva messaggi che gli erano arrivati. «Non ho avuto la possibilità di parlarti quando sei venuto qui ieri» disse Springfield a Graham. «Era una gabbia di matti, qui. Ti chiami Will, vero? I ragazzi ti hanno dato tutto quello che ti serviva?» «Sì, hanno fatto tutto il possibile.»
«Non abbiamo in mano un cazzo e lo sappiamo» proseguì Springfield. «Oh, dalle impronte trovate nell'aiuola sappiamo come cammina. Si è mosso tra i cespugli e cose simili, quindi sappiamo solo la misura delle scarpe, forse la statura. L'impronta del piede sinistro è un po' più profonda: probabilmente portava qualcosa. È un lavoro difficile. D'altra parte, però, un paio d'anni fa in questo modo abbiamo trovato uno scassinatore. Abbiamo capito che aveva il morbo di Parkinson. Princi se n'è accorto. Questa volta siamo sfortunati.» «Hai un'ottima squadra» disse Graham. «Sì, sono bravi. Ma, grazie a Dio, di solito non ci capita di lavorare su questi casi. In tutta sincerità, voi lavorate sempre insieme — tu, Jack e il dottor Bloom — oppure vi mettete insieme solo in casi del genere?» «Solo in casi del genere» rispose Graham. «Un bel gruppetto. Il capo della polizia diceva che sei stato tu a incastrare Lecter tre anni fa.» «Lavoravamo con la polizia del Maryland» disse Graham. «Sono stati loro ad arrestarlo.» Springfield era brusco ma non stupido. Vedeva il disagio di Graham. Girò sulla sedia e prese degli appunti. «Mi hai chiesto del cane. Ecco qui il foglio. Ieri sera un veterinario ha telefonato al fratello del signor Leeds per dirgli che il cane ce l'aveva lui. Leeds e il figlio maggiore gliel'avevano portato il pomeriggio prima di venire uccisi. Aveva una ferita all'addome. Il veterinario l'ha operato e adesso sta bene. In un primo momento ha pensato che gli avessero sparato, ma non ha trovato il proiettile. Crede che sia stato colpito con un oggetto come un rampone per il ghiaccio o un punteruolo. Stiamo chiedendo ai vicini se hanno visto qualcuno con il cane e oggi telefoneremo a tutti i veterinari della zona per controllare se ci sono altri animali feriti.» «Il cane aveva un collare con il nome dei Leeds?» «No.» «La famiglia Jacobi aveva un cane?» chiese Graham. «Dovremmo saperlo» rispose Springfield. «Un momento, vediamo.» Formò un numero interno. «Il tenente Flatt è il nostro ufficiale di collegamento con Birmingham... Pronto, Flatt. Il cane degli Jacobi? Ah-ha... Ahha. Un minuto solo.» Posò la mano sulla cornetta. «Nessun cane. Nel bagno al piano terra hanno trovato una cassettina per il gatto. Però non hanno trovato nessun gatto. I vicini lo stanno cercando.» «Puoi chiedere a Birmingham di cercare nel giardino e all'esterno?»
chiese Graham. «Se anche il gatto è stato ferito, può darsi che i bambini non l'abbiano trovato in tempo e l'abbiano sepolto. Sai come fanno i gatti. Si nascondono per morire. I cani invece tornano a casa. E puoi chiedere anche se portava il collare?» «Digli se gli serve una sonda di quelle per cercare il metano, gliela mandiamo» disse Crawford. «Evita di scavare.» Springfield comunicò la richiesta. Il telefono squillò non appena ebbe riappeso. Era per Jack Crawford. Jimmy Price lo chiamava dall'impresa di pompe funebri. Crawford prese la linea sul secondo apparecchio. «Jack, ho una parziale — probabilmente di un pollice — è il frammento di un palmo.» «Jimmy, sei la luce dei miei occhi.» «Lo so. La parziale è un arco semilunare ma è confusa. Devo vedere cosa posso fare quando torno in laboratorio. L'ho trovata sull'occhio sinistro del primogenito. È la prima volta che mi capita una cosa del genere. Non l'avrei mai vista, ma risaltava contro l'emorragia nel globo oculare provocata dalla ferita.» «Si potrebbe arrivare a un'identificazione?» «Molto difficile, Jack. Se fosse l'indice forse, ma qui è come vincere alla lotteria, lo sai. Quella del palmo l'ho trovata sull'unghia dell'alluce sinistro della signora Leeds. Serve solo per un eventuale confronto. Siamo fortunati se riusciamo a tirarne fuori sei punti. Hanno assistito l'aiutante necroforo e Lombard, che è notaio. Ho preso delle fotografie in sito. Può bastare?» «Hai preso anche le impronte del personale dell'impresa?» «Ho inchiostrato Lombard e tutti i suoi allegroni... tutte le impronte — che dicessero di averla toccata oppure no. Adesso sono lì che si puliscono le mani e tirano accidenti. Fammi andare a casa, Jack. Voglio lavorarci su nella mia camera oscura. Chissà cosa c'è nell'acqua da queste parti... magari delle tartarughe. «Posso prendere un aereo per Washington entro un'ora e farti arrivare lì le impronte in fac-simile nel primo pomeriggio.» Crawford rifletté un attimo. «Okay, Jimmy, ma fa le cose come si deve: copie alla polizia e ai nostri uffici di Atlanta e dì Birmingham.» «Senz'altro. E adesso c'è un'altra cosa di cui devo parlarti.» Crawford alzò gli occhi al cielo. «Mi vuoi rompere i coglioni per la trasferta, vero?» «Giusto.» «Oggi, ragazzo mio, ti do tutto quello che vuoi.»
Graham rimase a guardare fuori dalla finestra mentre Crawford riferiva il ritrovamento delle impronte digitali. «Davvero notevole» si limitò a dire Springfield. Il volto di Graham era inespressivo... chiuso come quello di un ergastolano, pensò Springfield. Rimase ad osservarlo finché non fu sulla porta. La conferenza stampa del capo della polizia stava per concludersi proprio mentre Crawford e Graham uscivano dall'ufficio di Springfield. I giornalisti si precipitarono verso il telefono. Gli intervistatori della televisione stavano preparando dei "tagli". In piedi, da soli, di fronte alle telecamere ripetevano le domande più interessanti udite alla conferenza stampa e allungavano il microfono verso il vuoto in attesa di una risposta che sarebbe stata attaccata in seguito dalle riprese della conferenza del capo della polizia. Crawford e Graham scendevano dalla scalinata esterna quando un ometto schizzò loro davanti, piroettò su se stesso e scattò una foto. Il viso apparve dietro la macchina fotografica. «Will Graham!» esclamò. «Ti ricordi di me... Freddy Lounds? Mi occupavo del caso Lecter per il "Tattler". Sono stato io a scrivere il libro.» «Mi ricordo,» disse Graham, continuando a scendere i gradini. Lounds scese con loro precedendoli di qualche passo. «Quando ti hanno chiamato, Will? Cos'hai scoperto?» «Con lei non voglio parlarne, Lounds.» «Cosa ha in comune questo tizio con Lecter? Anche lui fa alle vittime...» «Lounds.» Graham aveva alzato la voce, Crawford si mise subito in mezzo. «Lounds, lei scrive delle cagate e il "National Tattler" è carta da culo. Mi stia lontano.» Crawford lo afferrò per un braccio. «Se ne vada, Lounds. Avanti. Will, andiamo a fare colazione. Su, Will, andiamo.» Girarono l'angolo camminando in fretta. «Mi spiace, Jack. Non lo sopporto, quel bastardo. Quando ero all'ospedale è entrato in camera e...» «Lo so» lo interruppe Crawford. «Sono stato io a sbatterlo fuori, per quel che è servito.» Ricordava la foto apparsa sul "National Tattler" quando il caso Lecter era ormai concluso. Lounds era entrato nella stanza dell'ospedale mentre Graham era addormentato. Gli aveva tolto il lenzuolo e aveva scattato una foto della colostomia provvisoria che gli avevano fatto.
Sulla rivista l'immagine era apparsa con un rettangolo nero che nascondeva l'inguine. La didascalia diceva: "Le budella del poliziotto pazzo". Si fermarono in un bar tavola calda pulito e luminoso. A Graham tremavano le mani. Rovesciò un po' di caffè nel piattino. Notò che il fumo della sigaretta di Crawford infastidiva una coppia nel séparé vicino. I due mangiavano in silenzio, la loro irritazione si mescolava al fumo. In un tavolo vicino all'ingresso, due donne, evidentemente madre e figlia, litigavano. Parlavano a voce bassa, il viso imbruttito dall'ira. Avvertiva sul viso e sul collo le vibrazioni della loro rabbia. Crawford gli stava dicendo che quello stesso mattino avrebbe dovuto testimoniare in un processo a Washington. Temeva che le udienze l'avrebbero tenuto lontano dal caso. Accese un'altra sigaretta, scrutando le mani abbronzate di Graham attraverso la fiamma dell'accendino. «La polizia di Atlanta e quella di Birmingham possono confrontare le impronte con quelle dei loro maniaci sessuali» disse Crawford. «E anche noi. E Price è già riuscito a tirar fuori una sola impronta dallo schedario. Basta che programmi il FINDER... abbiamo fatto un bel po' di progressi da quando te ne sei andato.» Il FINDER, il lettore ed elaboratore automatico di impronte digitali dell'FBI, era in grado di riconoscere l'impronta del pollice paragonandola alle schede memorizzate e relative anche a responsabili di reati non sessuali. «Quando lo becchiamo, con quell'impronta e con il segno dei denti, riusciamo a metterlo al fresco» disse Crawford. «Quello che dobbiamo fare è cercare di immaginare chi potrebbe essere, tenendoci sulle generali. Adesso fammi un piacere. Diciamo che abbiamo arrestato un buon sospetto. Tu lo vedi. Cos'è che non ti sorprende sul suo conto?» «Non lo so, Jack. Per me in questo momento non ha una faccia. Potremmo perdere un mucchio di tempo a cercare della gente che ci siamo inventati nella nostra testa. Hai parlato a Bloom?» «Ieri sera al telefono. Bloom non crede che abbia tendenze suicide e anche Heimlich è del suo parere. Bloom è stato qui solo un paio d'ore, il primo giorno, ma tanto lui quanto Heimlich hanno in mano tutta la pratica. Bloom questa settimana deve esaminare i candidati al dottorato di ricerca. Mi ha chiesto di salutarti. Hai il suo numero di telefono a Chicago?» «Sì, ce l'ho.» A Graham il dottor Alan Bloom, un ometto rotondo con gli occhi tristi,
era simpatico. Bloom era uno psichiatra bravissimo, esperto in criminologia. Graham gli era riconoscente perché non aveva mai manifestato un interesse professionale nei suoi confronti. Non capitava spesso, avendo a che fare con gli psichiatri. «Bloom ha detto che non lo sorprenderebbe se ricevessimo un messaggio dal Lupo Mannaro. Potrebbe scriverci un biglietto» disse Crawford. «Sì, sulla parete di una camera da letto.» «Bloom pensa che possa essere sfigurato o che possa credere di esserlo. Mi ha anche detto però di non dare molto peso alla cosa. "Non vorrei che tu ti mettessi a dare la caccia a uno che non esiste" mi ha detto. "Potresti distrarre gli sforzi". Mi ha anche detto che gli hanno insegnato all'università a dire queste cose.» «Ha ragione» disse Graham. «Tu invece potresti raccontare qualcosa sul suo conto, altrimenti non avresti trovato quell'impronta» incalzò Crawford. «Le tracce erano lì su quella maledetta parete, Jack. Non ho fatto niente di speciale. Ehi, senti una cosa, da me non aspettarti troppo, d'accordo?» «Oh, lo prenderemo. Ne sei convinto, vero?» «Sì, ne sono convinto. In un modo o nell'altro.» «E qual è questo modo?» «Troveremo degli indizi che sono stati trascurati.» «E l'altro?» «Continuerà a darsi da fare finché una sera farà troppo chiasso e il marito farà in tempo a prendere il fucile.» «Altre possibilità?» «Credi che io possa identificarlo in una stanza, in mezzo ad altre persone? No, queste cose le fa solo Ezio Pinza. Il Lupo Mannaro continuerà con le sue imprese finché non diventeremo furbi o avremo fortuna. Non si fermerà.» «Perché?» «Perché gli piace proprio.» «Vedi che sai qualcosa sul suo conto» osservò Crawford. Graham tacque finché non furono usciti. «Aspetta la prossima luna piena» disse a Crawford. «Poi potrai dirmi quanto so sul suo conto.» Tornò in albergo e dormì due ore e mezzo. Si svegliò a mezzogiorno, fece una doccia e ordinò una tazza di caffè e un sandwich. Era ora di studiare con attenzione la pratica Jacobi. Con il sapone dell'albergo lavò gli occhiali che gli servivano per leggere e si accomodò accanto alla finestra con la
pratica davanti. I primi minuti prestò attenzione a tutti i rumori, ai passi nell'atrio, al tonfo lontano della porta dell'ascensore. Poi si concentrò sulla pratica. Il cameriere arrivò con il vassoio, bussò e rimase in attesa. Bussò di nuovo: nessuna risposta. Infine lasciò la colazione sul pavimento davanti alla porta e firmò il conto. 4 Hoyt Lewis, addetto alla lettura dei contatori per la Georgia Power Company, parcheggiò il camioncino sotto un grosso albero nel vicolo e sedette alla base del tronco con il cestino della colazione. Ormai, da quando se lo preparava da solo, non era più un piacere aprirlo. Non trovava più bigliettini, non trovava più dolcetti sorpresa. A metà del panino una voce alta lo fece sobbalzare. «Scommetto che questo mese Ho consumato mille dollari di corrente, non è vero?» Lewis si voltò e vide all'altezza del finestrino il viso paonazzo di H.G. Parsons. Parsons portava un paio di bermuda e impugnava un rastrello. «Non capisco cosa dice.» «Scommetto che lei dirà che questo mese ho consumato mille dollari di corrente. Ha capito, adesso?» «Non so cos'ha consumato perché non ho ancora letto il suo contatore, signor Parsons. Quando lo leggerò, scriverò il numero qui su questo foglietto.» Parsons era arrabbiato per la bolletta. Si era già lamentato con la società elettrica sostenendo di pagare troppo. «Sto controllando i consumi» disse Parsons. «Mi rivolgerò alla commissione di controllo dei servizi pubblici.» «Vuole leggere il contatore con me? Facciamolo subito e...» «Il contatore lo so leggere da solo. Magari lo saprebbe leggere anche lei, se non fosse così faticoso.» «Si calmi un attimo, Parsons.» Lewis scese dal camioncino. «Si calmi un attimo, maledizione. L'anno scorso lei ha messo una calamita sul contatore. Sua moglie mi ha detto che lei era in ospedale così ho lasciato perdere e non ho detto niente. L'inverno scorso, quando ci ha versato dentro la melassa, ho fatto rapporto. Ho saputo che poi lei la bolletta l'ha pagata. «La sua bolletta ha cominciato a salire quando lei ha modificato da solo
l'impianto elettrico. Gliel'ho detto e ridetto: c'è qualcosa in quell'impianto che mangia corrente. Ha chiamato un elettricista per scoprire dov'è la perdita? No, chiama in ufficio e si lamenta di me. Ormai ne ho piene le scatole.» Lewis era livido di rabbia. «Voglio andare fino in fondo» disse Parsons, arretrando verso il cortile di casa. «La stanno tenendo d'occhio, caro il mio Lewis. C'è qualcuno che controlla le letture prima di lei» disse dall'altra parte dello steccato. «Tra poco vedrà che anche lei dovrà lavorare come tutti.» Lewis innestò la marcia e si allontanò lungo il vicolo. Avrebbe dovuto trovarsi un altro posto per terminare la colazione. Gli spiaceva. Quel grosso albero con la sua ombra per anni era stato il posto ideale per lo spuntino di mezzogiorno. Era proprio dietro la casa di Charles Leeds. Alle cinque e mezzo del pomeriggio Hoyt Lewis si fermò con la propria automobile davanti al Cloud Nine Lounge dove, tanto per calmarsi, buttò giù numerosi bicchieri. Quando telefonò alla moglie da cui era diviso riuscì solo a dire: «Mi piacerebbe che tu mi preparassi ancora la colazione». «Dovevi pensarci prima, signor furbacchione» rispose lei e riappese. Giocò cupamente una partita a Shuffleboard con alcuni guardiafili e uno spedizioniere della società elettrica, poi diede un'occhiata agli altri avventori. Cominciavano a frequentarlo dei maledetti impiegati delle compagnie aeree. Tutti con i baffetti uguali e la vocetta educata. Un po' di tempo ancora e avrebbero fatto diventare il Cloud Nine un pub inglese, completo di bersaglio per le freccette. Non c'era più niente di sicuro, di stabile. «Ehi, Hoyt. Facciamoci una birra.» Era il suo responsabile, Billy Meeks. «Senti Billy, devo parlarti.» «Cosa c'è?» «Lo conosci Parsons, quel vecchio figlio di una troia, quello che telefona sempre?» «Già, mi ha proprio telefonato la settimana scorsa» disse Meeks. «Cosa c'è?» «Ha detto che qualcuno va a controllare le letture prima di me, come se si pensasse che io non faccio il giro. Tu non crederai che faccio le letture da casa, vero?» «Neanche per sogno.» «Dici sul serio, no? Voglio dire, se sono sulla lista nera di qualcuno, vor-
rei che quello si facesse avanti per dirmelo.» «Se tu fossi sulla mia lista nera, credi che avrei paura di dirtelo in faccia?» «No.» «Allora d'accordo. Se qualcuno ti controllasse, lo saprei. I dirigenti sono sempre informati di situazioni del genere. Nessuno ti controlla, Hoyt. Non devi stare a badare a Parsons. È solo un vecchio rompiscatole. Mi ha telefonato la settimana scorsa e mi ha detto: "Congratulazioni, finalmente avete aperto gli occhi sul conto di Hoyt Lewis". Non gli ho badato assolutamente.» «Sarebbe stato meglio denunciarlo per quel contatore» disse Lewis. «Me ne stavo lì nel vicolo sotto un albero per far colazione quando mi è saltato addosso. Qualcuno dovrebbe prenderlo a calci in culo.» «Anch'io mi mettevo lì quando andavo in giro» osservò Meeks. «Ti dico una cosa. Una volta ho visto la signora Leeds — be', forse non è il caso di parlarne adesso che è morta — ma un paio di volte l'ho vista in cortile che prendeva il sole in costume da bagno. Cavoli. Aveva un pancino mica male. Che peccato per tutti loro. Era proprio una bella donna.» «Non hanno ancora preso nessuno?» «No.» «Peccato che quello si sia fatto i Leeds quando lì vicino c'era il vecchio Parsons» osservò Lewis. «Ti dirò una cosa, io alla mia vecchia le proibisco di mettersi nel cortile dietro in costume da bagno. Lei dice che sono scemo, che non la vede nessuno. E io le dico che non si può mai essere sicuri che da dietro la siepe non salti fuori un bastardo con l'affare di fuori. Ti hanno interrogato? Ti hanno chiesto se hai visto qualcuno?» «Sì, credo che abbiano interrogato tutti quelli che passano di lì. I postini, tutti. Ma io quella settimana coprivo Laurelwood, dall'altra parte di Betty Jane Drive. Ho finito ieri.» Lewis grattò con l'unghia l'etichetta della birra. «Mi hai detto che Parsons ha telefonato la settimana scorsa?» «Proprio.» «Allora qualcuno dev'essere andato a leggergli il contatore. Altrimenti oggi non sarebbe venuto lì a rompermi le scatole. Hai detto che non hai mandato nessuno, e senz'altro non sono io quello che ha visto.» «Forse erano quelli dei telefoni che facevano qualche controllo.» «Forse.» «Però non abbiamo pali in comune.»
«Pensi che dovrei avvertire la polizia?» «Male non farebbe» disse Meeks. «No, e magari parlare con qualche sbirro farebbe bene a Parsons. Per lo meno quando li vede arrivare si caga sotto.» 5 Graham tornò alla casa dei Leeds nel tardo pomeriggio. Entrò dalla porta principale e cercò di non guardare il disastro che l'assassino si era lasciato dietro. Fino ad allora aveva visto solo documenti, un mattatoio e le bestie macellate, ma dopo il fatto. Sapeva già abbastanza bene com'erano stati uccisi. Voleva vedere come avevano vissuto. Un'ispezione, quindi. Nel garage c'era un motoscafo di buona marca, usato ma ben tenuto e una station wagon. C'erano anche mazze da golf e una moto da cross. Trapano e altri attrezzi a motore erano praticamente nuovi. Giocattoli per adulti. Graham prese una mazza da golf dalla borsa, la strinse per il manico, accennò un colpo. La borsa soffiò odore di cuoio quando la ripose contro la parete. Le cose di Charles Leeds. In casa andò alla ricerca di tutti gli altri oggetti del capofamiglia. Nello studiolo trovò delle stampe con soggetti di caccia. C'era anche la collana dei classici, tutti in fila. Negli scaffali notò H. Allen Smith, Perelman e Max Shulman. Vonnegut ed Evelyn Waugh. Su un tavolo vide aperto Beat to Quarters, di C.S. Forester. Nell'armadietto dello studio trovò un buon fucile di piccolo calibro, una Nikon, una cinepresa superotto Bolex con relativo proiettore. Graham, che non aveva quasi nulla salvo un minimo di attrezzatura da pesca, una Volkswagen di terza mano e due casse di Montrachet, avvertì una leggera irritazione verso quei giocattoli per adulti e se ne chiese il motivo. Chi era Leeds? Un consulente fiscale di successo, un tifoso di football americano, un uomo alto e snello che amava l'allegria, che si era alzato dal letto per lottare malgrado avesse la gola squarciata. Seguì le sue tracce in tutta la casa, come per uno strano senso di deferenza. Conoscere prima lui e le sue abitudini era, in un certo senso, un modo di chiedere il permesso di guardare, poi, nella vita di sua moglie. Era sicuro che fosse stata la donna ad attirare il mostro, proprio come il frinire del grillo attrae la morte, portata dalla mosca dagli occhi rossi.
E adesso la signora Leeds. Aveva un piccolo spogliatoio privato al piano superiore. Fece in modo di entrare senza guardare in camera da letto. Le pareti erano gialle e la stanza appariva intatta, a parte lo specchio in frantumi sopra la toilette. Sul pavimento, davanti all'armadio, c'erano un paio di mocassini, proprio come se se li fosse appena tolti. La vestaglia era attaccata a un gancio e nell'armadio c'era quel leggero disordine, tipico di una donna che deve tenere a posto molti altri armadi. Trovò il suo diario in una scatola di velluto color prugna, sulla toilette. La chiave era stata appiccicata al bordo con nastro adesivo e un'etichetta della polizia. Graham sedette su una sedia bianca girevole e lo aprì a caso Martedì 23 dicembre, casa di mamma. I bambini dormono ancora. Quando a mamma è venuta l'idea di mettere le finestre alla veranda, mi ha dato molto fastidio l'aspetto diverso della casa ma devo dire che sono molto comode e che me ne posso stare qui al caldo a guardare la neve. Quanti Natali ancora mamma sarà in grado di gestire una casa piena di nipoti? Molti, spero. Ieri il viaggio per venire da Atlanta è stato difficile. Dopo Raleigh nevicava. Abbiamo dovuto procedere piano. Io comunque ero già stanca per aver dovuto preparare tutti per la partenza. Dopo Chapel Hill Charlie si è fermato ed è sceso. Ha staccato qualche candelotto di ghiaccio da un ramo per prepararmi un martini. È tornato verso la macchina alzando quelle sue lunghe gambe per camminare nella neve; aveva neve nei capelli e sulle ciglia... mi ha ricordato che lo amo. Una sensazione come qualcosa che dentro si spezza con una leggera fitta, diffondendo calore. Spero che l'eskimo che gli ho comprato gli vada bene. Potrei restarci secca se lui mi regalasse quel brutto anello. Mi verrebbe voglia di prendere a calci Madelyn in quel suo sederone grosso e cellulitico per averci fatto vedere il suo. Quattro diamanti che fanno ridere tanto sono grossi e color ghiaccio sporco. Era così limpido il ghiaccio dei candelotti. Il sole entrava dal finestrino e formava un piccolo prisma di luce dov'erano stati spezzati. Sulla mano mentre reggevo il bicchiere mi si era formata una macchia rossa e verde. Ne sentivo fisicamente i colori. Mi ha chiesto che regalo volevo per Natale e io gli ho messo le mani intorno all'orecchio e gli ho detto: il tuo uccellone, sciocco, dentro fino in fondo.
Gli è diventata tutta rossa la macchia di calvizie che ha in testa. Ha sempre paura che i bambini sentano. Gli uomini non si fidano dei sussurri. Sulla pagina era rimasta la cenere del sigaro di uno degli investigatori. Graham continuò a leggere finché non cominciò a scendere l'oscurità, passando attraverso l'operazione alle tonsille della figlia, e il grosso spavento che la signora Leeds si era presa in giugno scoprendo un piccolo nodulo al seno. (Mio Dio, i bambini sono così piccoli). Tre pagine dopo, il nodulo si era rivelato una piccola cisti benigna, poi asportata senza difficoltà. Oggi il dottor Janovich mi ha lasciata andare. Siamo usciti dall'ospedale e in macchina siamo andati al laghetto. Era molto tempo che non ci venivamo. Non abbiamo mai tempo. Charlie aveva portato due bottiglie di champagne ghiacciato che ci siamo bevuti dando da mangiare alle anitre mentre calava il sole. È rimasto in piedi fermo sulla sponda voltandomi la schiena; credo che abbia pianto un pochino. Susan ha detto che aveva paura che tornassimo dall'ospedale con un altro fratellino. A casa! Graham sentì suonare il telefono in camera da letto. Uno scatto e il ronzio della segretaria telefonica. «Pronto, parla Valerie Leeds. Spiacente, ma in questo momento non posso venire all'apparecchio. Lasciate il vostro nome e il numero di telefono dopo il segnale acustico; vi richiamerò io. Grazie.» Graham s'aspettava quasi di sentire la voce di Crawford dopo il bip, ma sentì solo il segnale telefonico. Chi aveva chiamato aveva anche riappeso. Aveva sentito la sua voce, però voleva vederla. Scese nello studio. Aveva con sé un rullino di pellicola superotto di Charles Leeds. Tre settimane prima di morire, Leeds lo aveva portato in un negozio dove l'avevano spedito al laboratorio per lo sviluppo. Non era mai passato a ritirarlo. La polizia aveva trovato lo scontrino nel suo portafoglio ed era andata a riprenderlo. Gli investigatori l'avevano visto insieme alle istantanee di famiglia, sviluppate nella stessa occasione, senza trovare niente di interessante. Graham voleva vedere i Leeds vivi. Alla polizia gli investigatori gli avevano offerto un proiettore, ma Graham preferiva vedere il rullino nella casa del delitto. Con riluttanza, gli avevano dato il permesso di prenderlo dal locale dov'erano custoditi i reperti.
Trovò schermo e proiettore nell'armadio dello studio e li sistemò, piazzandosi poi nella grossa poltrona di cuoio di Charles Leeds per guardare. Sentì qualcosa di appiccicaticcio sul bracciolo: le impronte lasciate dalle dita dei bambini sporche di caramelle. Sulla palma della mano gli rimase un leggero odore di caramelle. Era un simpatico filmetto casalingo muto, realizzato con più fantasia del solito. Cominciava con un cane, un terrier grigio, che dormiva sul tappeto dello studio. Il cane, disturbato per un attimo dal rumore della cinepresa, alzava la testa guardandola, poi riprendeva a dormire. Uno stacco improvviso mostrava il cane sempre addormentato che di colpo rizzava le orecchie, poi si alzava mettendosi ad abbaiare mentre la cinepresa lo seguiva in cucina dove si era fermato in attesa, tremando e agitando la coda. Graham si morse il labbro inferiore attendendo a sua volta. Sullo schermo la porta si apriva e la signora Leeds entrava reggendo i sacchi della spesa. Ammiccava e rideva sorpresa, rimettendosi a posto i capelli scompigliati con la mano libera. Poi muoveva le labbra uscendo dal quadro; la seguivano i bambini che portavano sacchetti più piccoli. La bambina aveva sei anni, i due maschietti otto e dieci. Il più giovane dei due, evidentemente un veterano dei film di casa indicò le orecchie e le agitò. La cinepresa era piuttosto alta. Leeds era alto un metro e novanta, secondo il referto dell'autopsia. Graham era convinto che questa parte del film fosse stata girata all'inizio della primavera. 1 bambini indossavano la giacca a vento e la signora Leeds era pallida. All'obitorio invece era piuttosto abbronzata e mostrava i segni del costume da bagno. Seguirono alcune scenette dei bambini intenti a giocare a ping pong in cantina e di Susan, la figlia, che impacchettava un regalo in camera sua, tenendo la lingua premuta contro il labbro superiore e un ciuffo di capelli sulla fronte. A un certo punto allontanava i capelli con la mano paffuta, proprio come aveva fatto la madre in cucina. Nella scena successiva si vedeva sempre Susan nella vasca piena di schiuma, accucciata come una ranocchia. In testa aveva una grossa cuffia per la doccia. L'angolo di ripresa questa volta era più basso, la messa a fuoco incerta: chiaramente era opera di uno dei fratelli. La scena terminava con Susan che urlava rivolta alla cinepresa, coprendosi il petto con le mani, mentre la cuffia le cadeva sugli occhi. Fatto interessante, Leeds aveva sorpreso la moglie nella doccia. La tenda si agitava come il sipario durante una rappresentazione studentesca, poi
appariva il braccio della signora Leeds che stringeva una grossa spugna da bagno; e la scenetta si concludeva con l'obiettivo oscurato dalla schiuma. Chiudevano il rullino una ripresa di Norman Vincent Peale che parlava alla televisione e una panoramica di Charles Leeds che dormiva nella poltrona dove ora sedeva lui. Rimase a fissare il quadro di luce bianca sullo schermo. I Leeds gli erano simpatici. Gli spiaceva di essere andato all'obitorio. Pensò che anche il pazzo entrato in casa loro avrebbe dovuto trovarli simpatici. Ma gli dovevano essere più simpatici ora. Graham si sentiva istupidito, con la testa come imbottita. Nuotò nella piscina dell'albergo finché non si sentì le gambe molli e uscì dalla vasca pensando a due cose: un bicchiere di martini col gin e il sapore della bocca di Molly. Si preparò da solo il martini in un bicchiere di plastica e telefonò a Molly. «Pronto, delinquente.» «Ehi, bello! Dove sei?» «Ad Atlanta, in questo albergo maledetto.» «Hai combinato qualcosa di buono?» «Niente di notevole. Mi sento solo.» «Anch'io.» «Ho voglia.» «Anch'io.» «Dimmi un po', cos'hai fatto?» «Be', oggi ho avuto una discussione con la signora Holper. Voleva restituirmi un vestito con una gran macchia di whisky sul sedere. Naturalmente se l'era messo alla festa.» «E che cosa le hai detto?» «Le ho detto che non gliel'avevo venduto in quelle condizioni.» «E lei?» «Ha detto che non le avevo mai fatto difficoltà quando mi aveva reso i vestiti, che per questo veniva nel mio negozio, invece di andare in altri.» «E tu, a questo punto?» «Oh, le ho detto che ero un po' fuori di me perché Will al telefono dice delle fesserie.» «Capisco.» «Willy sta bene. Sta seppellendo delle uova di tartaruga che i cani hanno
scavato. Dimmi cosa fai tu, adesso.» «Leggo dei rapporti. Mangio porcherie.» «Immagino che penserai anche un bel po'.» «Proprio così.» «Ti posso aiutare?» «Non ho ancora in mano niente di preciso, Molly. Non ci sono abbastanza indizi. Be', a dir la verità ce ne sono un sacco, ma non li ho ancora studiati abbastanza.» «Intendi restarci per un po', ad Atlanta? Non voglio seccarti dicendoti di tornare a casa, volevo solo saperlo.» «Non so. Senz'altro dovrò restare qui ancora qualche giorno. Mi manchi.» «Hai voglia di parlare o di scopare?» «Non credo che riuscirei a reggerlo. Forse è meglio non farlo.» «Non fare cosa?» «Parlare di scopare.» «D'accordo. Comunque, ti dispiace se io ci penso?» «Assolutamente no.» «Abbiamo un altro cane.» «Oh, all'inferno.» «Dev'essere un incrocio tra un basset hound e un pechinese.» «Dev'essere splendido.» «Ha due palle grosse così.» «Non preoccuparti delle sue palle.» «Strisciano quasi per terra. Quando corre deve farle rientrare.» «Impossibile.» «Sì che è possibile, come fai a sapere che non si può?» «Lo so.» «Tu le tue le sai far rientrare?» «Lo sapevo che ci saremmo arrivati.» «Allora?» «Se proprio lo vuoi sapere, una volta l'ho fatto.» «In che occasione?» «Da ragazzo. Dovevo saltare in fretta una rete di filo spinato» «Perché?» «Avevo in mano un'anguria che non avevo coltivato io.» «Scappavi? E da chi?» «Da un tizio che conoscevo. Aveva mollato i cani ed era uscito di casa in
mutande con il fucile da caccia. Fortunatamente ha inciampato in un graticcio dei fagioli e mi ha dato il tempo di scappare.» «Ti ha sparato?» «Sul momento ho pensato di sì, ma forse il rumore che ho sentito dev'essermi uscito dal di dietro. Non l'ho mai saputo bene.» «E hai saltato la rete?» «Senza difficoltà.» «Una mentalità criminale, anche allora.» «Non ho una mentalità criminale.» «Certo che non ce l'hai. Pensavo di pitturare la cucina. Di che colore ti piacerebbe? Will? Di che colore ti piacerebbe? Sei ancora in linea?» «Sì, ehm, gialla. Facciamola gialla.» «Il giallo non mi sta bene. Sarei verde, a colazione.» «Allora azzurro.» «L'azzurro è freddo.» «Be', allora maledizione falla color cacca di neonato, per quel che me ne frega... No, senti, probabilmente torno a casa presto. Ce ne andiamo al colorificio e compriamo un po' di roba, d'accordo? Magari anche qualche manico nuovo o roba del genere.» «Va bene, comperiamo qualche manico. Chissà perché ti parlo di queste cose. Senti, ti amo, mi manchi e stai facendo la cosa giusta. Lo so che pesa anche a te. Io sono qui e mi trovi qui quando forni a casa, in qualunque momento, oppure possiamo vederci in qualunque posto, in qualunque momento. È tutto.» «Cara, cara Molly. Adesso va' a dormire.» «Va bene.» «Buonanotte.» Graham rimase disteso con le mani intrecciate dietro la testa, immaginando cenette con Molly. Granchi e Sancerre, la brezza salina mescolata al vino. Ma il suo guaio era quello di ripensare alle conversazioni. Anche ora cominciò a farlo. Era scattato quando lei, innocentemente, aveva detto che aveva una mentalità "criminale". Si era comportato da stupido. L'interesse che Molly provava per lui gli era in gran parte inspiegabile. Telefonò alla centrale di polizia e lasciò un appunto a Springfield per dirgli che il mattino dopo voleva dare una mano nelle indagini porta a porta. Non c'era nient'altro da fare. Il gin lo aiutò a prendere sonno.
6 Sulla scrivania di Buddy Springfield erano sparse copie in carta velina delle registrazioni di tutte le telefonate giunte alla polizia a proposito del caso Leeds. Il martedì mattina alle sette, quando Springfield arrivò in ufficio, erano già 63. La prima era sottolineata in rosso. Annunciava che la polizia di Birmingham aveva scoperto un gatto, seppellito in una scatola da scarpe dietro il garage della famiglia Jacobi. Aveva un fiore tra le zampe ed era stato avvolto in un asciugamano. Sul coperchio una mano infantile aveva scritto il suo nome. Il gatto era senza collare. Un nastro legato con un fiocco teneva chiusa la scatola. Il medico della polizia di Birmingham diceva che il gatto era stato strangolato. Gli aveva rasato il pelo e non aveva trovato ferite. Springfield si picchiò la stanghetta degli occhiali sui denti. Il terreno era morbido ed era stato possibile scavare con una pala. Nessun bisogno di impiegare sonde. Comunque Graham non si era sbagliato. I gatti vanno a nascondersi per morire, i cani invece tornano a casa. Si umettò il pollice e cominciò a far passare la pila di note, quasi tutti rapporti relativi a macchine sospette viste nel vicinato la settimana precedente, in genere descrizioni vaghe in cui veniva indicato solo il colore e la marca del veicolo. Quattro cittadini di Atlanta avevano ricevuto telefonate anonime in cui li si minacciava di fargli fare la fine dei Leeds. Il rapporto di Hoyt Lewis era a metà della pila. Springfield chiamò il caposervizio del turno di notte. «Cosa mi sai dire del rapporto di quel lettore dei contatori relativo a questo Parsons? È il numero 48.» «Ieri sera abbiamo cercato di controllare presso i servizi pubblici per vedere se avevano mandato qualcuno in quel vicolo» rispose il caposervizio. «Si mettono in contatto con noi stamattina.» «Mettiti subito tu in contatto con loro» disse Springfield. «Controlla nettezza urbana e genio civile; controlla anche se sono stati rilasciati permessi di costruzione in quel vicolo e richiamami nella mia macchina.» Formò il numero di Will Graham. «Will? Ci troviamo tra dieci minuti davanti al tuo albergo. Andiamo a farci un giretto.» Alle 7 e 45 Springfield parcheggiava in fondo al vicolo. Insieme a Graham s'incamminò sui solchi che i pneumatici avevano scavato nella ghiaia. Malgrado fosse ancora presto il sole scottava.
«Dovresti metterti un cappello» osservò Springfield. Lui ne portava uno di paglia, calato sugli occhi. La catena che delimitava il confine posteriore della proprietà dei Leeds era coperta di rampicanti. Si fermarono vicino al contatore della luce fissato a un palo. «Se è passato di qui ha potuto vedere tutto il lato posteriore della casa» disse Springfield. In soli cinque giorni la casa dei Leeds aveva cominciato ad assumere un'aria trascurata. Il prato era irregolare e dall'erba spuntavano gli steli delle cipolle selvatiche. Nel cortile posteriore c'erano dei ramoscelli caduti. A Graham venne l'impulso di raccoglierli. La casa sembrava addormentata, sul portico si allungavano strisce d'ombra proiettate dagli alberi. Fermo nel vicolo con Springfield, Graham si vide intento a osservare la finestra posteriore, ad aprire la porta della veranda. Stranamente, la ricostruzione del metodo usato dall'assassino per introdursi in casa alla luce del giorno sembrava sfuggirgli. Vide un'altalena oscillare piano, mossa dalla brezza. «Quello sembrerebbe Parsons» disse Springfield. H.G. Parsons era uscito di buon'ora e zappettava un'aiuola nel cortile posteriore, a due case di distanza. Springfield e Graham si avvicinarono al cancello posteriore e si fermarono accanto ai bidoni della spazzatura. I coperchi dei bidoni erano incatenati allo steccato. Springfield misurò l'altezza del contatore con un metro flessibile. Aveva con sé le informazioni relative a tutti i vicini. Quelle di Parsons dicevano che l'uomo era stato messo in pensione anticipata dall'amministrazione postale, dietro richiesta del capoufficio. Questi aveva riferito che Parsons diventava "sempre più distratto". C'erano anche alcuni pettegolezzi. I vicini dicevano che la moglie di Parsons stava il più possibile dalla sorella, a Macon, e che il figlio non gli telefonava nemmeno più. «Signor Parsons, signor Parsons» chiamò Springfield. Parsons posò la zappa contro il muro della casa e si avvicinò allo steccato. Indossava sandali e calze bianche. L'erba e il terriccio avevano macchiato le calze sull'alluce. Il viso era color rosa acceso. Arteriosclerosi, pensò Graham. Doveva aver già preso la sua pillola. «Sì?» «Signor Parsons, potremmo parlarle un minuto? Speriamo che lei ci possa aiutare» disse Springfield. «Siete della società elettrica?»
«No, sono Buddy Springfield del dipartimento di polizia.» «Allora è per l'assassinio. Come ho già detto all'agente io e mia moglie eravamo a Macon...» «Lo so, signor Parsons. Volevamo farle delle domande a proposito del contatore della luce. Ha visto...» «Se quell'... incaricato della lettura dice che ho fatto qualcosa che non va, è solo...» «No, no. Signor Parsons, ha visto uno sconosciuto che leggeva il suo contatore la settimana scorsa?» «No.» «Ne è sicuro? Ho saputo che lei ha detto a Hoyt Lewis di aver visto qualcuno che leggeva il contatore prima che passasse lui.» «È vero, gliel'ho detto. Era ora. Non la lascio cadere questa faccenda, la commissione dei servizi pubblici riceverà un mio rapporto.» «Certo, signore. Sono sicuro che ne terranno conto. Chi ha visto leggere il suo contatore?» «Non era uno sconosciuto, era qualcuno della società elettrica.» «Come fa a saperlo?» «Be', aveva l'aria di un ispettore.» «Cosa indossava?» «Quello che portano tutti, credo. Cos'è? Tuta marrone e berretto.» «L'ha visto in faccia?» «Se l'ho visto non me lo ricordo. Guardavo fuori dalla finestra della cucina. Volevo parlargli ma ho dovuto mettermi la vestaglia e quando sono uscito non l'ho visto più.» «Aveva un camioncino?» «Non mi pare di averne visto uno. Cosa succede? Perché volete sapere queste cose?» «Controlliamo tutti quelli che si sono fermati nel vicinato la settimana scorsa. È importantissimo, signor Parsons. Si sforzi di ricordare.» «Quindi è a proposito dell'omicidio. Non avete ancora arrestato nessuno, vero?» «No.» «Ieri notte sono rimasto a guardare la strada. C'è voluto un quarto d'ora prima di vedere passare una macchina della polizia. È orribile quello che è successo ai Leeds. Mia moglie era fuori di sé. Chissà chi comprerà la loro casa. L'altro giorno ho visto dei negri che la guardavano. Sapete, ho dovuto lamentarmi qualche volta coi Leeds per i bambini, ma erano gente come
si deve. Certo però che lui non voleva seguire i miei consigli per il suo prato. Il dipartimento dell'agricoltura ha dei libretti eccellenti su come eliminare le erbacce. Alla fine ho dovuto metterglieli nella cassetta delle lettere. Onestamente, quando falciava il prato si soffocava per la puzza di cipolle selvatiche.» «Signor Parsons, quando esattamente ha visto quel tipo nel vicolo?» chiese Springfield. «Non sono sicuro, cercavo di pensare.» «Ricorda in che momento della giornata? Mattino? Mezzogiorno? Pomeriggio?» «So come si dividono le giornate, non c'è bisogno che me lo dica lei. Forse nel pomeriggio, non ricordo.» Springfield si accarezzò la nuca. «Mi scusi, signor Parsons, ma devo controllare a fondo. Potremmo entrare nella sua cucina, così lei ci mostra da dove l'ha visto?» «Fatemi vedere il tesserino. Tutti e due.» In casa: silenzio, mobili lucidi, odore di chiuso. Pulito. Pulitissimo. L'ordine disperato di una coppia anziana che comincia a vedere la propria vita farsi incerta. Graham avrebbe preferito rimanere fuori. Era sicuro che nei cassetti c'erano posate d'argento lucide, con un guscio d'uovo tra un cucchiaio e l'altro per evitare rigature. Piantala e spremiamo tutto quello che si può da questo vecchio rimbambito. Dalla finestra sopra il lavello si vedeva benissimo il cortiletto. «Ecco. Soddisfatti?» chiese Parsons. «Da qui si vede là in fondo. Non gli ho parlato, non ricordo com'era. Se vi basta, io ho un sacco di cose da fare.» Graham parlò per la prima volta: «Lei ha detto di essere andato a mettersi la vestaglia e che, quando è ritornato, quello era scomparso. Quindi lei non aveva vestiti addosso?» «No.» «A metà del pomeriggio? Non si sentiva bene, signor Parsons?» «Quello che faccio in casa mia sono affari miei. Se mi va, posso anche mettermi un costume da canguro. Perché non siete là fuori a cercare l'assassino? Probabilmente perché qui dentro fa fresco.» «So che lei è in pensione signor Parsons, quindi immagino che non abbia nessuna importanza se lei si veste o no tutti i giorni. Molte volte lei non
si veste affatto, sbaglio?» Al vecchio si gonfiarono le vene sulle tempie. «Solo perché sono in pensione, non vuol dire che non mi vesto e non mi tengo occupato tutti i giorni. È che avevo caldo ed ero entrato a farmi una doccia. Lavoravo. Stavo spandendo il concime, ho lavorato dalla mattina al pomeriggio, molto di più di quello che farete voi oggi.» «Cosa stava facendo?» «Concimavo.» «In che giorno ha concimato?» «Giovedì. Era giovedì scorso. Il concime me l'avevano consegnato la mattina — un grosso carico — e il pomeriggio l'avevo... l'avevo sparso tutto. Potete chiedere al Garden Center quando è stato.» «E così le è venuto caldo ed è rientrato per farsi una doccia. Cosa stava facendo, in cucina?» «Mi preparavo un tè ghiacciato.» «E ha tirato fuori del ghiaccio? Ma il frigorifero è là lontano dalla finestra.» Parsons guardò prima la finestra poi il frigorifero, sperduto e confuso. Gli occhi avevano un'espressione spenta, come quelli di un pesce sul banco del mercato alla fine della giornata. Poi si illuminarono trionfanti. Si avvicinò al mobiletto accanto al lavello. «Ero qui, stavo prendendo del dolcificante quando l'ho visto. Ecco. Ecco che cosa facevo. Adesso, se avete finito di ficcare il naso...» «Secondo me ha visto Hoyt Lewis» disse Graham. «Anche secondo me» disse Springfield. «Non era Hoyt Lewis. Non era lui.» A Parsons si erano inumiditi gli occhi. «Come fa a saperlo?» chiese Springfield. «Doveva essere Hoyt Lewis e lei ha semplicemente pensato...» «Lewis è abbronzato per il sole. Ha i capelli tutti unti e quelle basette da picchio.» Parsons aveva alzato la voce, parlava così in fretta che era difficile seguirlo. «Ecco perché lo so. Sicuro che non era Lewis. Quel tipo era più pallido e aveva i capelli biondi. Si è girato per scrivere sul blocco e l'ho visto da dietro, sotto il cappello. Biondo. Aveva la sfumatura tagliata via dritta.» Springfield rimase assolutamente immobile. Quando riprese a parlare il tono era ancora scettico. «E di faccia?» «Non so. Doveva avere i baffi.»
«Come Lewis?» «Lewis non li ha.» «Oh» disse Springfield. «Il viso era all'altezza del contatore. Ha dovuto alzare gli occhi per guardarlo?» «No, mi pare che l'avesse all'altezza degli occhi.» «Lo riconoscerebbe, se dovesse rivederlo?» «No.» «Quanti anni aveva?» «Non era vecchio. Non saprei.» «Ha visto se c'era il cane dei Leeds vicino a lui?» «No.» «Senta, signor Parsons, mi rendo conto di essermi sbagliato» disse Springfield, «lei c'è stato davvero di grande aiuto. Se non le dispiace manderemo qui il nostro disegnatore e se lei gli permette di mettersi qui, al tavolo di cucina, forse riuscirà a dargli un'idea di com'era questo tipo. Di sicuro non era Lewis.» «Non voglio vedere il mio nome su nessun giornale.» «Non lo vedrà.» Parsons li seguì all'aperto. «Ha fatto uno splendido lavoro qui in giardino, signor Parsons» osservò Springfield. «Dovrebbero darle un premio.» Parsons non disse nulla. Era rosso in viso e contratto, gli occhi erano sempre umidi. Rimase immobile nei calzoncini corti sformati, fissandoli intensamente mentre uscivano. Poi afferrò il forcone e cominciò a lavorare furiosamente il terreno, tirando colpi alla cieca tra i fiori, spargendo la torba sul terreno. Servendosi della radio della macchina, Springfield svolse un controllo. Nessuno dei servizi pubblici o degli enti municipali aveva mandato un dipendente nel vicolo il giorno precedente il massacro. Springfield riferì la descrizione di Parsons e ordinò di far andare a casa sua il disegnatore. «Ditegli di disegnare prima il palo e il contatore, e di partire da lì. Deve facilitare le cose al testimone.» «Al nostro disegnatore non piace molto andare a casa dei testimoni» spiegò poi a Graham, mentre faceva sgusciare la Ford della polizia nel traffico. «Gli piace farsi vedere dalla segretaria mentre lavora con il testimone che lo guarda da dietro le spalle. Un commissariato è un brutto posto per interrogare qualcuno, se non si vuole spaventarlo. Non appena avremo il
ritratto, lo faremo vedere in tutte le case del vicinato. «Ho la sensazione che sia arrivato un soffio d'aria, Will. Debole, ma sempre un soffio. Non ti pare? Senti, abbiamo fatto un brutto servizio a quel povero diavolo e gliel'abbiamo tirato fuori. Adesso usiamo in qualche modo l'informazione.» «Se quello del vicolo è l'uomo che vogliamo, è la miglior notizia che abbiamo avuto finora,» osservò Graham. Era disgustato di se stesso. «Giusto. Vuol dire che non si limita a scendere da un autobus e ad andare dove gli tira. Pianifica le cose. Ha passato la notte in città. Sa dove andare con un paio di giorni di anticipo. Deve avere una qualche idea. Esamina il posto, uccide prima gli animali, poi la famiglia. Chissà che diavolo deve avere in testa.» Una pausa. «Questo è un po' il tuo territorio, vero?» «Sì. Se questo territorio è di qualcuno, immagino che debba essere mio.» «Lo so che hai visto cose di questo genere. L'altro giorno ti sei seccato perché ti ho chiesto di Lecter, ma ho bisogno di parlarne con te.» «Bene.» «In totale ha ammazzato nove persone, no?» «Che noi sappiamo, nove. Altri due sono sopravvissuti.» «E a quelli cosa è successo?» «Uno è in un ospedale di Baltimora nel polmone d'acciaio. L'altro in una clinica psichiatrica privata di Denver.» «E cosa lo spingeva a farlo? Che tipo di pazzia era, la sua?» Graham guardò fuori dal finestrino verso i passanti sul marciapiede. Parlò con voce distaccata, come se dettasse una lettera. «Lo ha fatto perché gli piaceva. E gli piace ancora. Il dottor Lecter non è matto, nel senso in cui noi definiamo matta la gente. Ha fatto delle cose orrende perché gli piaceva farle. Ma quando vuole si comporta in modo normalissimo.» «Come lo chiamano gli psicologi... cosa c'era che non andava in lui?» «Dicono che è un sociopatico perché non sanno in che altro modo definirlo. Ha alcune delle caratteristiche di quelli che loro chiamano sociopatici. Non ha assolutamente rimorsi o sensi di colpa. E aveva rivelato il primo sintomo, il peggiore: fin da bambino era sadico con gli animali.» Springfield grugnì. «Ma non ha nessuna delle altre caratteristiche» proseguì Graham. «Non era uno sbandato, non aveva precedenti penali. Non era poco intelligente e afflitto da piccole manie, come la maggior parte dei sociopatici. Non è privo di sensibilità. Non sanno come definirlo. I suoi elettroencefalogrammi
mostrano un andamento strano, ma nessuno è stato in grado di capirne molto.» «Tu come lo definiresti?» Graham esitò. «Tra te e te, come lo definiresti?» «È un mostro. Io lo vedo come una di quelle creature penose che ogni tanto nascono negli ospedali. Le alimentano, le tengono al caldo, ma se non le mettono in qualche macchina muoiono. Nel cervello Lecter è proprio come quelli, ma di aspetto è normale e nessuno è in grado di accorgersene.» «Nell'associazione dei capi di polizia ho un paio di amici che sono di Baltimora. E gli ho domandato come avevi fatto a trovare Lecter. Mi hanno detto che non lo sapevano. Come hai fatto? Qual è stato il primo indizio, la prima cosa che hai sentito?» «È stata una coincidenza» disse Graham. «La sesta vittima era stata uccisa nel suo laboratorio. Aveva tutta un'attrezzatura per la lavorazione del legno e teneva lì l'equipaggiamento da caccia. Era stato legato alla rastrelliera dov'erano appesi gli utensili e letteralmente fatto a pezzi. Tagliato e squartato. Aveva delle frecce piantate nel corpo. Le ferite mi ricordavano qualcosa. Ma non riuscivo a ricordare cosa.» «E hai dovuto vedere anche quelli successivi.» «Sì. Lecter era assatanato... i tre assassinii successivi li ha commessi nel giro di nove giorni. La sesta vittima però sulla coscia aveva due vecchie cicatrici. Il medico legale ha controllato all'ospedale locale: ha scoperto che era caduto da un albero cinque anni prima, mentre cacciava con l'arco, e si era infilato una freccia nella gamba. «Il dottore che aveva firmato la cartella sanitaria era del reparto chirurgia, ma il primo ad assistere la vittima era stato Lecter, che era di turno al pronto soccorso. C'era il suo nome sulla cartella di ricovero. Era passato un bel po' di tempo dall'incidente, ma a me è venuto in mente che Lecter forse ricordava se qualcosa gli era sembrato strano riguardo a quella ferita, così andai a trovarlo nel suo ufficio. Ci aggrappavamo a qualunque cosa. «All'epoca faceva lo psichiatra. Aveva un bell'ufficio. Mobili antichi. Mi disse che ricordava poco di quella ferita di freccia, che la vittima era stata portata da uno dei compagni di caccia, nient'altro.» «Però c'era qualcosa che non mi convinceva. Pensavo che fosse qualcosa che Lecter aveva detto, o qualcosa nello studio. Crawford e io controllammo tutto. Controllammo le schedature ma Lecter non aveva precedenti.
Avrei voluto potermene stare solo per un po' di tempo nel suo ufficio, ma non avevamo niente in mano e non riuscimmo a ottenere il mandato. Quindi andai a trovarlo di nuovo. «Era domenica, visitava solo di domenica. Il palazzo era vuoto, solo un paio di persone in sala d'attesa. Mi vide subito. Ad un certo punto, mentre chiacchieravamo e lui si sforzava di darmi una mano, alzai gli occhi verso un vecchio libro di medicina sullo scaffale sopra la sua testa. Capii che era lui. «Quando lo guardai di nuovo, chissà, forse avevo cambiato espressione. Sapevo che era lui e lui sapeva che lo sapevo. Però non riuscivo a capire perché. Non mi fidavo della sensazione. Dovevo trovare un motivo. Dissi qualcosa e uscii nell'atrio, dove c'era un telefono a gettoni. Non volevo metterlo in agitazione finché non fosse venuto qualcuno a darmi una mano. Mi ero appena messo in contatto con il centralino della polizia quando lui uscì dalla porta di servizio a piedi nudi... non l'ho sentito arrivare. Sentii il suo respiro e poi... poi successe il resto.» «Comunque, come avevi capito che era lui?» «Me ne sono reso conto una settimana dopo, in ospedale. Era L'Uomo Ferito, un'illustrazione che si trovava spesso nei vecchi trattati di medicina come quello che avevo visto nel suo ufficio. Si vedono vari tipi di ferite di guerra, tutte sulla stessa persona. Io quella l'avevo vista a un corso di patologia che avevo seguito. La posizione della sesta vittima e le ferite assomigliavano moltissimo a quelle dell'Uomo Ferito.» «L'Uomo Ferito, hai detto? Era tutto quello che avevi in mano?» «Proprio così. Una coincidenza che l'avessi visto. Un colpo di fortuna.» «Altro che fortuna.» «Se non mi credi, perché cazzo me l'hai chiesto?» «Non ho sentito.» «Bene. Non volevo usare questo tono. Comunque così sono andate le cose.» «D'accordo» concluse Springfield. «D'accordo. Grazie per avermene parlato. Mi è utile sapere cose del genere.» La descrizione di Parsons e le informazioni relative al gatto e al cane rappresentavano possibili indicazioni dei metodi dell'assassino. Pareva probabile che esplorasse la zona travestito da incaricato della lettura dei contatori e che provasse l'impulso irresistibile di ferire gli animali domestici delle vittime prima di uccidere tutta la famiglia. Il problema immediato che la polizia si trovava a dover affrontare era
quello di decidere se era opportuno rendere pubblica o meno questa teoria. Se il pubblico fosse stato informato dei segnali di pericolo, la polizia avrebbe potuto venir avvertita in anticipo del prossimo attacco... ma probabilmente anche l'assassino leggeva i giornali. Avrebbe potuto cambiare abitudini. All'interno del dipartimento erano fermamente convinti che dovessero essere tenuti nascosti anche i minimi indizi, da comunicare esclusivamente attraverso una circolare inviata ai veterinari e ai ricoveri di animali di tutta la regione sudorientale chiedendo un rapporto immediato su tutte le mutuazioni subite da animali domestici. Questo però significava non avvertire nel miglior modo possibile i cittadini. Era una questione morale che provocava una situazione di disagio per la polizia. Venne consultato il dottor Alan Bloom di Chicago. Il dottore disse che se l'assassino avesse letto l'avviso sui giornali probabilmente avrebbe cambiato il metodo di esplorazione del campo. Dubitava però che l'uomo fosse capace di smettere di aggredire gli animali domestici, qualunque fosse il rischio a cui andava incontro. Lo psichiatra inoltre spiegò alla polizia che non dovevano affatto dare per scontato che rimanevano venticinque giorni per lavorare, cioè il periodo prima della luna piena del 25 di agosto. Il mattino del 31 luglio, tre ore dopo aver ottenuto la descrizione di Parsons, in una riunione telefonica tra la polizia di Birmingham e di Atlanta e Crawford, a Washington, si giunse a una decisione. Si sarebbe inviato un bollettino riservato ai veterinari, il quartiere sarebbe stato passato al setaccio con l'identikit dell'assassino, poi l'informazione sarebbe stata comunicata ai giornali. Per tre giorni Graham e gli investigatori di Atlanta calcarono i marciapiedi mostrando l'identikit agli abitanti del quartiere dov'erano vissuti i Leeds. Lo schizzo suggeriva appena i lineamenti, ma la loro speranza era quella di trovare qualcuno che fornisse altri particolari. La copia dell'identikit di Graham si rammollì a forza di essere bagnata dal sudore delle mani. Spesso era difficile convincere la gente ad aprire la porta. Di sera Graham se ne stava seduto sul letto in camera sua dopo essersi cosparso di talco le vesciche provocate dal caldo. Con la mente continuava a girare intorno al problema come se fosse un ologramma. Sollecitava quella particolare sensazione che precede la nascita di un'idea, che però si rifiutava di arrivare. Intanto ad Atlanta ci furono quattro incidenti, uno dei quali mortale: le
casalinghe sparavano ai loro uomini che rincasavano tardi. Si moltiplicarono le telefonate degli sciacalli e al comando di polizia andò accumulandosi una fila di segnalazioni inutili. La disperazione si diffondeva come un'epidemia di influenza. Crawford tornò da Washington la sera del terzo giorno, fece un salto da Graham e lo trovò in camera che si toglieva le calze bagnate di sudore. «Lavoro duro?» «Prova ad andare in giro con un identikit domani mattina e vedrai.» «Inutile, stasera la notizia passa ai telegiornali. Hai camminato tutto il giorno?» «Non potevo entrare nei giardini in macchina.» «Sapevo che non ne sarebbe venuto fuori niente da quel giro porta a porta» disse Crawford. «Be', che diavolo ti aspettavi che facessi?» «Il meglio che potevi, nient'altro.» Crawford si alzò per andarsene. «Qualche volta, tenermi occupato con il lavoro è stato come un narcotico, specialmente dopo che avevo smesso di sbronzarmi. Per te è lo stesso, credo.» Graham era irritato. Ovviamente si rendeva conto che Crawford aveva ragione. Graham per carattere tendeva a procrastinare le cose e lo sapeva. Molto tempo prima, a scuola, aveva ovviato alla cosa con le anfetamine. Ora non era più a scuola. C'era qualcos'altro che poteva fare: lo sapeva da giorni. Poteva aspettare finché la disperazione, pochi giorni prima della luna piena, non l'avrebbe spinto a farlo. Oppure poteva farlo subito, quando ancora poteva rivelarsi utile. Aveva bisogno di un parere. Sentiva il bisogno di condividere un punto di vista molto insolito; un atteggiamento mentale che doveva recuperare, dopo quegli ultimi anni caldi e piacevoli trascorsi nei Keys. I motivi schioccavano secchi come le ruote di un carrello delle "montagne russe" che accelera dopo la prima spinta; una volta presa velocità, senza rendersi conto di premersi il ventre con le mani lo disse ad alta voce. «Devo vedere Lecter.» 7 Il dottor Frederick Chilton, direttore dell'ospedale di Stato di Chesapea-
ke per i pazzi criminali — il manicomio criminale di stato — girò intorno alla scrivania per stringergli la mano. «Il dottor Bloom mi ha telefonato ieri, signor Graham... o magari devo chiamarla dottor Graham?» «Non sono dottore.» «Mi ha fatto molto piacere sentire il dottor Bloom, ci conosciamo da tanti anni. Sieda, la prego.» «Apprezziamo la sua collaborazione, dottor Chilton.» «Francamente, a volte mi sembra di essere più il segretario di Lecter che il suo custode» spiegò Chilton. «È già una seccatura il volume della sua corrispondenza. Secondo me, alcuni studiosi ritengono che sia chic entrare in corrispondenza con lui — in certi dipartimenti di psicologia ho visto delle sue lettere in cornice — e per un po' è sembrato che tutti i candidati al dottorato di ricerca nel settore volessero intervistarlo. Naturalmente sono contento di collaborare con lei e con il dottor Bloom.» «Devo vedere il dottor Lecter con la massima segretezza possibile» fece notare Graham. «E può darsi anche che debba rivederlo o telefonargli.» Chilton annuì. «Come prima cosa, il dottor Lecter dovrà rimanere nella sua cella. È l'unico posto — l'unico — in cui possa stare senza manette. Una parete della cella ha una doppia grata che si apre sull'atrio. Farò portare una sedia e, se lei lo desidera, anche uno schermo.» «Devo chiederle di non passargli nessun oggetto, solo fogli di carta senza fermagli né graffette. Niente raccoglitori a molla, matite o penne. Ha già i suoi pennarelli.» «Forse devo mostrargli del materiale che potrebbe stimolarlo» osservò Graham. «Può fargli vedere tutto quello che vuole, purché sia su carta morbida. Gli passi i documenti attraverso la fessura per il cibo. Non gli allunghi nulla attraverso la barriera e non prenda nulla che potrebbe porgerle. I documenti potrà restituirglieli sempre attraverso la fessura. Su questo insisto. Il dottor Bloom e il signor Crawford mi hanno assicurato che lei si sarebbe adattato a questa procedura.» «Senz'altro,» disse Graham. Fece il gesto di alzarsi. «So che lei è ansioso di procedere, signor Graham, ma prima vorrei dirle una cosa che la interessa.» «Può sembrare superfluo mettere in guardia proprio lei sul conto di Lecter. Ma Lecter ha un atteggiamento molto disarmante. Quando l'hanno portato qui, per un anno si è comportato perfettamente, e sembrava collabo-
rasse ai nostri tentativi di terapia. Come conseguenza — questo è avvenuto con il direttore precedente — le misure di sicurezza intorno a lui si sono leggermente allentate. «Il pomeriggio dell'8 luglio 1976 ha detto di soffrire di dolori al torace. In infermeria gli vennero tolte le manette per fargli l'elettrocardiogramma. Uno dei secondini uscì dalla stanza un attimo per fumarsi una sigaretta e l'altro si voltò per non più di un secondo. L'infermiera era molto svelta e robusta. Riuscì a salvarsi un occhio. «Questo dovrebbe essere interessante per lei.» Chilton prese la striscia di un elettrocardiogramma da un cassetto e lo srotolò sulla scrivania. «Qui è disteso sul lettino» disse seguendo la traccia coll'indice, «72 pulsazioni. Qui afferra l'infermiera per la testa e se la tira addosso. E qui viene immobilizzato dal secondino. Incidentalmente, non ha opposto resistenza malgrado il secondino gli abbia slogato la spalla. Ha notato la stranezza? Le pulsazioni non sono mai salite oltre gli 85. Anche quando le ha strappato la lingua.» Chilton non riuscì a leggere nulla sul viso di Graham. Si rilassò contro lo schienale della poltrona e intrecciò le dita sotto il mento. Aveva le mani secche e consunte. «Sa, quando Lecter è stato catturato pensavamo di avere la possibilità unica di studiare un sociopatico puro,» disse Chilton. «È così raro prenderne uno vivo. Lecter è talmente lucido, talmente perspicace; ha studiato psichiatria ed è un assassino plurimo. Pareva collaborasse e noi pensavamo che potesse aprirci uno spiraglio su queste forme di aberrazione. Pensavamo di trovarci nella situazione di Beaumont quando studiava la digestione attraverso la fistole nello stomaco di St. Martin.» «In realtà, credo che attualmente non siamo più vicini a capirlo di quanto non lo fossimo quando è entrato. Lei ha mai avuto occasione di parlare con Lecter?» «No. L'ho visto solo quando... l'ho visto quasi solo in tribunale. Il dottor Bloom mi ha mostrato gli articoli apparsi sui giornali» disse Graham. «Lui invece conosce molto bene lei, signor Graham. Ha riflettuto molto su di lei.» «Ha fatto delle sedute con lui?» «Sì. Dodici. È impenetrabile. Conosce troppo bene i test perché da questi se ne possa tirare fuori qualcosa. Edwards, Fabré, persino il dottor Bloom, hanno avuto dei colloqui. Ho qui i loro appunti. Anche per loro è risultato un enigma. Ovviamente è impossibile dire che cosa nasconda, op-
pure se capisca più di quanto non è disposto a dire. Oh, dopo la condanna ha scritto alcuni articoli brillanti per l'"American Journal of Psychiatry", dove però tratta problemi che non sono i suoi. Credo tema che se lo "risolviamo" — per così dire — nessuno si interesserà più di lui e se ne rimarrà chiuso in una cella per tutta la vita.» Una pausa. Chilton aveva imparato a servirsi della visione periferica per tener d'occhio i pazienti durante i colloqui e pensava di poter osservare Graham senza farsi accorgere. «Qui siamo tutti dell'opinione che l'unica persona che abbia una conoscenza pratica di Hannibal Lecter sia lei, signor Graham. Potrebbe dirmi qualcosa sul suo conto?» «No.» «C'è una domanda che si pongono alcuni del nostro staff: quando lei ha visto le vittime degli assassinii di Lecter — il suo "stile", per così dire — è stato per caso in grado di ricostruire le sue fantasie? E questo le è stato d'aiuto nell'identificarlo?» Graham non rispose. «Siamo molto a corto di materiale relativo a casi del genere. C'è un solo articolo apparso sul "Journal of Abnormal Psychology". Le dispiacerebbe parlarne con qualcuno dei nostri psichiatri? No, no, non oggi — il dottor Bloom ha insistito molto su questo. Dobbiamo lasciarla in pace. La prossima volta, magari.» Il dottor Chilton in vita sua aveva visto molta ostilità: in una certa misura la osservava anche in quel momento. Graham si alzò. «La ringrazio, dottore, Vorrei vedere Lecter, adesso.» Il portone d'acciaio della sezione di massima sicurezza si chiuse alle sue spalle. Sentì il catenaccio scivolare nella sua sede. Graham sapeva che il dottor Lecter dormiva per gran parte della mattinata. Guardò verso il fondo del corridoio. Da dove si trovava non vedeva nella cella di Lecter, ma distingueva che le luci interne erano abbassate. Voleva osservare Lecter mentre dormiva. Voleva avere il tempo di frapporre una barriera. Se avesse sentito montargli nella testa la follia di Lecter, doveva metterla sotto controllo immediatamente. Per coprire il rumore dei propri passi seguì un inserviente che spingeva un carrello con la biancheria. Era molto difficile cogliere di sorpresa il dottor Lecter. Si fermò verso la fine del corridoio. L'intera parete anteriore della cella
era chiusa da sbarre d'acciaio. Dietro le sbarre, in una posizione in cui era impossibile afferrarla, c'era una spessa rete di nylon tesa dal soffitto al pavimento per tutta la larghezza della cella. Attraverso la barriera si vedevano un tavolino e una sedia inchiavardati al pavimento. Il tavolino era coperto di libri non rilegati e di corrispondenza. Si avvicinò alle sbarre, vi posò le mani, poi le tolse. Il dottor Hannibal Lecter dormiva disteso sulla branda, la testa appoggiata a un cuscino contro la parete. Sul petto era posato, aperto, Le Grand Dictionnaire de Cuisine di Alexandre Dumas. Ebbe appena cinque secondi di tempo per osservarlo al di là delle sbarre, poi Lecter aprì gli occhi e disse: «È lo stesso disgustoso dopobarba che avevi in tribunale.» «A Natale me lo regalano sempre.» Il dottor Lecter aveva occhi castani che riflettevano puntini rossi di luce. Graham sentì i peli che gli si rizzavano sul collo. Si posò una mano sulla nuca. «Natale, sì» disse Lecter. «Hai ricevuto il mio biglietto d'auguri?» «Sì. Grazie.» Il biglietto d'auguri natalizi del dottor Lecter era stato inoltrato a Graham dal laboratorio criminale dell'FBI di Washington. Graham l'aveva portato dietro casa, l'aveva bruciato, poi si era lavato le mani prima di toccare Molly. Lecter si alzò e si avvicinò al tavolo. Era un uomo piccolo, esile. Molto ordinato. «Perché non ti siedi, Will? Credo che ci siano delle sedie pieghevoli in un armadietto da quella parte. Per lo meno mi pare che sia da lì che arrivano.» «L'inserviente ne sta portando una.» Lecter rimase in piedi finché Graham non fu seduto. «E come sta l'agente Stewart?» chiese. «Sta bene.» L'agente Stewart aveva abbandonato l'FBI dopo aver visto la cantina del dottor Lecter; ora dirigeva un motel. Graham non glielo disse. Non credeva che Stewart sarebbe stato contento di ricevere posta da Lecter. «Una sfortuna che i suoi problemi emotivi lo abbiano sopraffatto. Secondo me era un giovane agente molto promettente. Tu hai mai delle difficoltà, Will?» «No.» «Naturale che tu non ne abbia.»
Graham aveva la sensazione che Lecter riuscisse a vedergli dentro il cranio. La sua attenzione gli sembrava una mosca chiusa dentro. «Mi fa piacere che tu sia venuto. Quanto è passato... tre anni? I miei visitatori sono tutti professionisti. Banali specialisti in psichiatria e ottusi dottori in psicologia di second'ordine di qualche college che nessuno ha mai sentito nominare. Leccapenne che cercano di proteggere il loro orticello con qualche articolo sui giornali.» «Il dottor Bloom mi ha fatto vedere il suo articolo sulle tossicomanie chirurgiche sul "Journal of Clinical Psychiatry".» «E...?» «Molto interessante, persino per un profano.» «Profano... profano, profano. Un termine interessante» disse Lecter. «Ci sono in giro così tanti sapienti. Così tanti "esperti" che mangiano fondi al governo. E mi dici di essere un profano. Però sei stato tu a prendermi, non è vero, Will? Lo sai come hai fatto?» «Sono sicuro che lei ha letto la deposizione. C'era dentro tutto.» «No che non c'era dentro. Sai come hai fatto, Will?» «È nella deposizione. Che importanza ha, adesso?» «Per me non ha importanza, Will.» «Vorrei il suo aiuto, dottor Lecter.» «Lo immaginavo.» «A proposito dei casi di Atlanta e di Birmingham.» «Sì.» «Sono sicuro che lei avrà letto gli articoli.» «Ho letto i giornali. Non posso tirarne fuori dei ritagli. Ovviamente non mi permettono di tenere un paio di forbici. Sai, a volte minacciano di togliermi i libri. Non vorrei che pensassero che m'interesso a faccende morbose.» Rise. Il dottor Lecter aveva denti piccoli, bianchi. «Vuoi sapere come li sceglie, vero?» «Pensavo che lei avesse qualche idea in proposito. Le chiedo di dirmelo.» «E perché dovrei?» Era una domanda che Graham aveva previsto. Al dottor Lecter difficilmente sarebbe venuto in mente che così si sarebbe potuta arrestare una serie di omicidi multipli. «Ci sono cose di cui lei non dispone» disse Graham. «Materiali di ricerca, persino film. Ne parlerei al direttore.» «Chilton. Devi averlo incontrato prima di venire qui. Un individuo rac-
capricciante, vero? Dimmi la verità, non ti è sembrato che brancicasse con la tua testa come uno studentello con le mutandine di una ragazza? Ti guarda con la coda dell'occhio. L'hai notato, vero? Non ci crederai, ma ha cercato di sottoporre me a un test di appercezione tematica. Se ne stava seduto lì come lo Stregatto di Alice aspettando di veder saltar fuori un Mf 13. Pfui. Scusami, dimenticavo che non sei fra i cinti di alloro. È un cartoncino dove si vede una donna a letto e un uomo in secondo piano. Io avrei dovuto evitare di dare interpretazioni sessuali. Gli ho riso in faccia. Lui ha lasciato perdere e ha detto a tutti che avevo evitato il carcere grazie a una sindrome di Ganser... lasciamo perdere, è una faccenda noiosa.» «Potrebbe aver accesso alla biblioteca di filmati dell'American Medicai Association.» «Non credo che mi fareste avere le cose che mi interessano.» «Provi.» «Per il momento ho già abbastanza da leggere.» «Potrebbe vedere il dossier relativo a questo caso. E c'è un altro motivo.» «Avanti, ti prego.» «Pensavo che sarebbe stato curioso di scoprire se lei è più intelligente della persona che sto cercando.» «E quindi, implicitamente, tu pensi di essere più intelligente, dato che sei riuscito a catturarmi.» «No, lo so di non essere più intelligente di lei.» «E allora come mai mi hai preso, Will?» «Lei aveva degli svantaggi.» «Quali svantaggi?» «La passione. E poi lei è pazzo.» «Sei molto abbronzato, Will.» Graham non rispose. «Hai i calli sulle mani. Non sembrano più mani da poliziotto. Quel dopobarba è una cosa che sceglierebbe un bambino. C'è una nave sulla bottiglia, vero?» Raramente il dottor Lecter stava a capo eretto. Quando faceva una domanda lo teneva piegato, come se inviasse un pronostico di curiosità verso l'interlocutore. Ancora silenzio. «Non credere di potermi persuadere con appelli alla mia vanità intellettuale» disse Lecter. «Non credo che ci riuscirei. O lei è disponibile oppure no. Del resto ci sta già lavorando su il dottor Bloom che è il più...» «Hai con te il dossier?»
«Sì.» «Ci sono anche delle foto?» «Sì.» «Se me le fai vedere potrei prendere in considerazione la cosa.» «No.» «Fai molti sogni, Will?» «Addio, dottor Lecter.» «Non mi hai ancora minacciato di togliermi i libri.» Graham si allontanò. «Allora fammi vedere il dossier. Ti dirò cosa ne penso.» Graham dovette schiacciare il dossier — incompleto — nella fessura. Lecter lo ritirò. «Il sommario è in prima pagina. Può leggerlo adesso» disse Graham. «Ti dispiace se lo faccio in privato? Dammi un'ora.» Graham attese su una poltroncina di plastica in una squallida sala d'aspetto. Arrivarono degli inservienti per prendere un caffè. Non rivolse loro la parola. Teneva lo sguardo fisso sugli oggetti nella stanza, contento di potersi concentrare su di essi. Dovette andare due volte alla toilette. Si sentiva intontito. Il secondino lo fece entrare di nuovo nella sezione di massima sicurezza. Lecter sedeva al tavolo, gli occhi persi nella riflessione. Graham sapeva che aveva trascorso gran parte del tempo guardando le fotografie. «Questo è un ragazzo timido, Will. Mi piacerebbe moltissimo conoscerlo... hai considerato la possibilità che sia sfigurato? O che sia convinto di esserlo?» «Gli specchi.» «Sì. Avrai notato che ha fatto a pezzi tutti gli specchi che c'erano in casa, ma non solo per prendere i frammenti da usare. Non li pianta addosso per ferire. Sono stati messi in modo che possa vedere se stesso. Che possa vedersi nei loro occhi — in quelli della signora Jacobi e — come si chiamava l'altra?» «Leeds» «Sì.» «È molto interessante» disse Graham.» «Non è "interessante". Tu ci avevi già pensato.» «Avevo preso in considerazione l'ipotesi.» «Tu sei venuto qui solo per vedermi. Tanto per sentire di nuovo quel vecchio profumo, non è vero? Perché non te lo vai ad annusare per conto
tuo?» «Voglio il suo parere.» «Per il momento non ne ho.» «Quando ne avrà uno, mi piacerebbe sentirlo.» «Posso tenere il dossier?» «Non ho ancora deciso» rispose Graham. «Perché non c'è nessuna descrizione del terreno circostante? Qui c'è una vista frontale delle case, ci sono le piantine, gli schemi delle stanze in cui quelle persone sono morte, ma si parla poco del terreno circostante. Gli spiazzi dietro com'erano?» «Ampi, cintati, con un po' di siepe. Perché?» «Perché, mio caro Will, se questo pellegrino sente di avere un rapporto speciale con la luna, forse gli piace uscire di casa e guardarla. Prima di ripulirsi, capisci. Hai mai visto del sangue sotto la luce della luna, Will? Sembra nero. Naturalmente mantiene quella lucentezza che lo contraddistingue. Se uno, tanto per fare un'ipotesi, fosse nudo, preferirebbe disporre di un ambiente riparato all'esterno per una cosa del genere. Bisogna avere un po' di rispetto per i vicini, eh?» «Lei crede che uno dei fattori nella scelta delle vittime potrebbe essere il cortile posteriore?» «Oh, sì. E di vittime ce ne saranno altre, è ovvio. Lasciami il dossier, Will. Lo studierò. Quando ne avrai degli altri mi piacerebbe vederli. Puoi telefonarmi. Nelle rare occasioni in cui il mio avvocato mi chiama mi portano un telefono. Prima mi facevano parlare attraverso il citofono, ma ovviamente tutti potevano ascoltare. Mi daresti il tuo numero di casa?» «No.» «Sai come hai fatto a prendermi, Will?» «Arrivederci, dottor Lecter. Eventuali messaggi per me li può comunicare al numero che trova nel dossier.» Graham si allontanò. «Sai come hai fatto a prendermi?» Graham ormai fuori vista si dirigeva accelerando il passo verso il portone d'acciaio. «Il motivo per cui mi hai preso è che noi due siamo uguali» fu l'ultima cosa che Graham udì mentre il portone d'acciaio si chiudeva dietro di lui. Era intontito ma aveva paura di ritornare in sé. Camminava a testa bassa, senza rivolgere la parola a nessuno. Sentiva il sangue pulsargli nelle orecchie. Gli parve che ci volesse pochissimo per uscire. Il manicomio criminale era un unico edificio: solo cinque porte fra Lecter e il mondo esterno.
Aveva la sensazione assurda che Lecter fosse uscito insieme a lui. Si fermò sull'ingresso e si guardò intorno per assicurarsi di essere solo. Da un'auto parcheggiata sul lato opposto della strada, con il teleobiettivo appoggiato al finestrino, Freddy Lounds riuscì a scattare un'ottima istantanea a Graham di profilo sulla porta dell'ospedale con alle sue spalle le parole scolpite nella pietra: "Ospedale di Stato di Chesapeake per i pazzi criminali". Sul "National Tattler" apparve solo un dettaglio della foto, il viso di Graham e le ultime due parole — pazzo criminale — scolpite nella pietra. Quando Graham se ne fu andato il dottor Hannibal Lecter se ne rimase disteso sulla branda a luci spente. Trascorsero diverse ore. Per un po' si dedicò alle sensazioni tattili; la trama della federa sulle mani che teneva incrociate dietro la nuca, la membrana liscia che gli delineava la guancia. Poi giocherellò con gli odori. Alcuni erano concreti, altri no. Avevano versato del cloro negli scarichi: sperma umano. Giù nell'atrio servivano del chili: tessuto kaki intriso di sudore. Graham non gli aveva voluto dare il numero di telefono, l'odore verde, amaro del cockleburr tagliato, di teaweed. Si rizzò a sedere. Graham doveva essere tornato alla vita civile. I suoi pensieri avevano il caldo odore di ottone di un orologio elettrico. Ammiccò diverse volte e inarcò le sopracciglia. Accese le luci e scrisse un biglietto a Chilton chiedendogli di poter telefonare al proprio avvocato. Per legge Lecter aveva il diritto di parlare privatamente con l'avvocato e finora non ne aveva abusato. Siccome Chilton non gli avrebbe mai permesso di andare di persona al telefono gli veniva portato un apparecchio telefonico in cella. Arrivarono due secondini con l'apparecchio, svolgendo un lungo cavo innestato alla presa vicina alla loro scrivania. Uno dei due teneva in mano le chiavi, l'altro una bomboletta di Mace. «Vada in fondo alla cella, dottor Lecter. Faccia al muro. Se si volta o si avvicina alle sbarre prima di aver sentito scattare la serratura, le spruzzo il Mace in faccia. Capito?» «Ho capito benissimo» rispose Lecter. «Mille grazie per aver portato il telefono.» Per comporre il numero dovette infilare le mani nella rete di nylon. L'ufficio informazioni di Chicago gli diede il numero del dipartimento di psichiatria dell'Università di Chicago e quello dell'ufficio del dottor Bloom.
Lecter chiamò il centralino del dipartimento. «Sto cercando di mettermi in contatto con il dottor Alan Bloom.» «Non sono sicuro che oggi sia in sede, comunque le passo il suo ufficio.» «Un secondo solo. Mi è stato dato il nome della sua segretaria, ma purtroppo me lo sono dimenticato.» «Linda King. Un attimo solo.» «Grazie.» Il telefono squillò otto volte prima che qualcuno prendesse la comunicazione. «Ufficio di Linda King.» «Ciao Linda. Linda?» «Linda il sabato non viene.» Era proprio quello che il dottor Lecter sperava. «Forse lei mi può dare una mano, se non le spiace. Sono Bob Greer, della casa editrice Blaine and Edwards. Il dottor Bloom mi ha chiesto di inviare una copia del libro di Overholser, The Psychiatrist and the Law, a un certo Will Graham. Linda avrebbe dovuto farmi avere l'indirizzo e il numero di telefono, ma non l'ha mai fatto.» «Io sono solo una studentessa, Linda sarà qui lun...» «Senta, devo spedire il libro per posta entro cinque minuti e non vorrei disturbare il dottor Bloom a casa perché lui aveva detto a Linda di mandarmelo e non vorrei metterla nei pasticci. Deve essere lì nel suo indirizzario o quello che è. Se me lo trova vengo a ballare al suo matrimonio.» «Non c'è nessun indirizzario.» «E se fosse una normale agenda?» «Sì.» «Faccia la brava, mi trovi quell'indirizzo che non le faccio più perdere tempo.» «Mi ripete il nome?» «Graham. Will Graham.» «D'accordo. Ecco, il numero di casa è 305 JL5-7002.» «Il libro dovrei spedirglielo a casa.» «Qui l'indirizzo di casa non c'è.» «Ma c'è un indirizzo?» «Federal Bureau of Investigation, Tenth and Pennsylvania, Washington, DC. Oh, e c'è anche Casella Postale 3680, Marathon, Florida.» «Benissimo, lei è un angelo.»
«È stato un piacere.» Lecter si sentiva molto meglio. Pensava che avrebbe potuto fare una sorpresina a Graham telefonandogli qualche volta e magari, se non si fosse dimostrato cortese, avrebbe potuto far spedire da una ditta di articoli sanitari una borsa per colostomia, come ricordo dei vecchi tempi. 8 Millecento chilometri verso sud ovest, a St. Louis, nella mensa del Gateway Film Laboratory, Francis Dolarhyde aspettava un hamburger. I piatti della tavola calda erano coperti da una pellicola di plastica. Era fermo accanto al registratore di cassa e beveva del caffè in un bicchiere di carta. Una ragazza dai capelli rossi che indossava la vestaglia del laboratorio entrò nel locale e si fermò a esaminare la distributrice automatica di dolciumi. Lanciò diverse occhiate a Francis Dolarhyde, stringendo le labbra. Alla fine gli si avvicinò e disse: «Il signor D?». Dolarhyde si voltò. Quando non era in camera oscura metteva sempre un paio di occhiali rossi. La ragazza si costrinse a fissare il ponte degli occhiali. «Le dispiacerebbe sedersi qui con me un minuto? Dovrei dirle una cosa.» «Cosa mi puoi dire, Eileen?» «Che sono davvero spiacente. Bob era ubriaco fradicio e — sa — faceva un po' il pagliaccio. Non diceva sul serio. La prego, sieda. Un minuto solo. Le dispiace?» «Mmmm hmmm.» Dolarhyde non diceva mai «sì» aveva difficoltà a pronunciare le sibilanti. Sedettero. Eileen torceva un tovagliolo tra le mani. «Al party si divertivano tutti, eravamo contenti che fosse venuto anche lei» disse. «Eravamo davvero contenti e anche sorpresi. Lei sa com'è Bob, non fa che imitare le voci... dovrebbero prenderlo alla radio. Ha imitato due o tre persone, ha raccontato barzellette e simili... se vuole parla proprio come un negro. Quando ha fatto quell'altra voce, non voleva farla sentire a disagio. Era troppo ubriaco per sapere chi c'era al party.» «Ridevano tutti... e a un certo punto non ridevano più» Dolarhyde evitò di dire «hanno smesso di ridere» sempre a causa delle "s". «È stato quando Bob ha capito quello che aveva fatto.» «Però ha continuato.»
«Lo so» disse la ragazza, costringendosi a sollevare lo sguardo dal tovagliolo verso gli occhiali senza indugiare a metà strada. «Dopo me ne ha parlato. Ha detto che non c'era nessuna intenzione, e visto che ornai c'era dentro, ha cercato di tenere in piedi lo scherzo. Lei avrà visto quanto è diventato rosso.» «Mi ha invitato a... fare un duetto con lui.» «Ha cercato di metterle un braccio intorno alle spalle, signor D. Voleva che ridesse anche lei.» «E mi è venuto da ridere, Eileen.» «Bob è dispiaciutissimo.» «Be', non vorrei proprio. Davvero. Glielo dica pure. E comunque qui al laboratorio non cambierà niente. Cavoli, con un talento come quello di Bob affronterei... battute di continuo.» Era riuscito a evitare la parola "scherzi". «Tra non molto faremo una riunione, vedrà che non ce l'ho con lui.» «Bene, signor D. Lei lo conosce, dietro tutti quegli scherzi è un ragazzo molto sensibile.» «Come no. E anche dolce, immagino.» La voce di Dolarhyde era soffocata dalla mano. Quando era seduto, teneva sempre premuta la nocca dell'indice contro la radice del naso. «Mi scusi?» «Credo che lei sia la donna adatta per lui, Eileen» «Lo credo anch'io, davvero. Beve solo durante il weekend. Ha appena il tempo di cominciare a rilassarsi che sua moglie lo chiama. Fa delle smorfie mentre le parla, ma dopo vedo benissimo che è sconvolto. Una donna queste cose le sa.» Gli toccò leggermente il polso e nonostante gli occhiali vide che gli occhi di Dolarhyde avevano registrato il contatto. «Non se la prenda, signor D. Sono contenta che abbiamo parlato.» «Anch'io, Eileen.» Dolarhyde la osservò allontanarsi. Aveva un succhiotto nell'incavo del ginocchio. Credeva, e non sbagliava, di non esserle simpatico. Del resto non lo era a nessuno. La grande camera oscura era fresca e odorava di prodotti chimici. Lavorando con la luce rossa Francis Dolarhyde controllò il bagno di sviluppo nella vasca A. Ogni ora nella vasca passavano centinaia di metri di film fatti da dilettanti che arrivavano da tutti gli Stati Uniti. Temperatura e freschezza del bagno erano critiche. La responsabilità, così come quella di tutte le operazioni successive fino all'asciugatura erano sue. Diverse volte
al giorno doveva prendere dalla vasca campioni di film e controllarli fotogramma per fotogramma. Il locale era silenzioso. Dolarhyde non voleva che i suoi assistenti chiacchierassero e comunicava con loro quasi esclusivamente a segni. Finito l'orario di lavoro rimase solo in camera oscura per sviluppare, asciugare e tagliare alcuni film che aveva girato personalmente. Tornò a casa verso le dieci di sera. Viveva da solo in una grande casa ereditata dai nonni che si ergeva alla fine di un viale coperto di ghiaia in mezzo a un frutteto a nord di St. Charles, Missouri, sulla sponda opposta del fiume Missouri rispetto a St. Louis. Il proprietario lasciava il frutteto in abbandono. Tra gli alberi verdi ne sorgevano altri secchi e contorti. Era la fine di luglio e in tutto il frutteto aleggiava un odore di mele marce. Di giorno c'erano molte api. Gli abitanti più vicini vivevano a più di mezzo chilometro di distanza. Dolarhyde quando tornava a casa faceva sempre un giro di ispezione intorno alla casa; alcuni anni prima avevano tentato di rubare. Accese le luci in tutte le stanze e si guardò in giro. Un visitatore non avrebbe creduto che vivesse da solo. Negli armadi erano ancora appesi gli abiti dei nonni, sul cassettone della nonna c'erano ancora le sue spazzole con il pettine. La dentiera si trovava in un bicchiere sul comodino. L'acqua era ormai evaporata da molto tempo. La nonna era morta dieci anni prima. L'incaricato delle pompe funebri gli aveva chiesto: «Signor Dolarhyde, le dispiacerebbe farmi avere la dentiera di sua nonna?» Aveva risposto: «Le chiuda gli occhi e basta». Soddisfatto di essere solo in casa, Dolarhyde salì al piano superiore, fece una lunga doccia e si lavò i capelli. Indossò un kimono di tessuto sintetico che dava la stessa sensazione della seta e si distese sul lettino nella stanza che aveva occupato fin dall'infanzia. Il casco asciugacapelli della nonna aveva una cuffia di plastica con un tubo. Si infilò la cuffia e aspettando che i capelli asciugassero, sfogliò una nuova rivista d'alta moda. Il disprezzo e la brutalità di alcune fotografie erano notevoli. Cominciò a sentirsi eccitato. Mosse il paralume metallico della lampada da tavolo illuminando una stampa sulla parete ai piedi del letto, era Il Drago Rosso e La Donna Vestita di Sole. Quell'immagine lo aveva lasciato stupefatto la prima volta che l'aveva vista. Mai in precedenza aveva visto qualcosa che si avvicinasse alle im-
magini che aveva in testa. Sentiva che Blake doveva avergli letto nel pensiero, doveva aver visto il Drago Rosso. Per settimane Dolarhyde era vissuto con la preoccupazione che i pensieri potessero uscirgli dalle orecchie come una nebbia luminosa, rendersi visibili nella camera oscura, danneggiare i film. Si era infilato dei batuffoli di cotone nelle orecchie. Poi temendo che il cotone fosse troppo infiammabile, aveva provato a mettere della paglietta di ferro. Le orecchie però sanguinavano. Infine aveva tagliato dei pezzettini di amianto dal supporto di un ferro da stiro e ne aveva fatto delle palline che poteva infilarsi nelle orecchie. Il Drago Rosso per molto tempo era stato tutto quel che aveva. Ora non più. Avvertì l'erezione. Avrebbe voluto arrivarci lentamente, ma ormai non poteva più aspettare. Chiuse i pesanti tendaggi delle finestre del salotto al piano terreno, poi piazzò schermo e proiettore. Il nonno, malgrado le obiezioni della nonna, in salotto aveva sistemato una poltrona dallo schienale pieghevole (la nonna aveva subito messo un centrino sul poggiatesta). Ma ora Dolarhyde era contento della decisione del nonno: la poltrona era molto confortevole. Posò un asciugamano sul bracciolo. Spense le luci. Reclinato nella camera al buio, avrebbe potuto trovarsi dovunque. Al soffitto aveva appeso un impianto a luci rotanti che proiettavano chiazze multicolori sulle pareti, sul pavimento, sulla sua pelle. Avrebbe potuto benissimo essere sul lettino antigravità di un'astronave, in una bolla di vetro tra le stelle. Quando chiudeva gli occhi gli pareva di sentire i cerchietti di luce passargli sul corpo e quando li riapriva quelle potevano benissimo essere le luci di una città, sopra o sotto di lui. Non c'erano più né alto né basso. L'apparecchio, scaldandosi, aumentava la velocità di rotazione e i circoli di luce gli passavano sul corpo, si allargavano in formazione sui mobili, cadevano come piogge di meteoriti lungo le pareti. Avrebbe potuto trovarsi in una cometa che si tuffava nella Nebulosa del Granchio. Un solo posto era riparato dalla luce. Dolarhyde aveva sistemato vicino all'apparecchio un cartoncino che proiettava un'ombra sullo schermo cinematografico. Qualche volta, in futuro, avrebbe fumato prima, per aumentare l'effetto. Ma questa volta non ce n'era bisogno. Toccò il telecomando per avviare il proiettore. Sullo schermo apparve un rettangolo bianco che divenne grigio attraversato da una striscia rossa mentre la testa della pellicola passava davanti all'obiettivo, poi il terrier
grigio rizzò le orecchie e corse verso la porta di cucina tremando e agitando il mozzicone di coda. Uno stacco e si vide il cane correre lungo il marciapiede, voltando il muso per mordere, sempre correndo. Ora in cucina entrava la signora Leeds con la spesa. Scoppiò a ridere e si accarezzò i capelli. La seguirono i bambini. Un altro stacco: l'immagine malamente illuminata di Dolarhyde nella camera da letto del primo piano. È in piedi, nudo; davanti a lui la stampa de Il Drago Rosso e la Donna Vestita di Sole. Indossa un paio di "occhiali da combattimento", del tipo avvolgente, il preferito dai giocatori di hockey. Ha un'erezione che stimola con una mano. L'immagine si fa sfuocata mentre Dolarhyde si avvicina alla cinepresa con movimenti stilizzati; una mano si allunga per cambiare la lunghezza focale mentre il viso riempie lo schermo. L'immagine tremola, diviene improvvisamente netta fermandosi su un dettaglio della bocca, il labbro superiore sfigurato rovesciato all'indietro, la lingua che spunta tra i denti, un occhio ancora nell'inquadratura. La bocca riempie lo schermo e le labbra, vibranti, lasciano vedere i denti irregolari; lo schermo si oscura quando l'obiettivo entra in bocca. Le difficoltà di ripresa nel pezzo successivo sono evidenti. Un cerchio di luce saltellante inquadra il letto sul quale Charles Leeds cerca di liberarsi dalle coperte; la signora Leeds si rizza a sedere riparandosi gli occhi, si volta verso il marito e gli posa le mani addosso poi rotola verso il bordo del letto e cerca di alzarsi, le gambe impacciate dalle coperte. La cinepresa punta bruscamente verso il soffitto, le modanature passano rapide sullo schermo, l'immagine si stabilizza. La signora Leeds è di nuovo distesa sul letto, una macchia scura si spande sulla camicia da notte, mentre il marito, coprendosi il collo con le mani e un'espressione selvaggia negli occhi, fa per alzarsi. Lo schermo diventa scuro, si sente il rumore di un taglio. Ora la cinepresa è immobile, fissata a un treppiede. Ora sono tutti morti. Messi in posa. Due bambini seduti contro la parete di fronte al letto, uno contro la parete di fronte alla cinepresa. Marito e moglie sono distesi sul letto, nascosti dalle coperte. Il signor Leeds appoggia la schiena alla spalliera del letto, il lenzuolo copre la corda che gli stringe il torace, la testa è piegata di lato. Dolarhyde entra in scena da sinistra con i movimenti stilizzati di un danzatore balinese. Coperto di sangue e nudo, se si eccettuano guanti e occhiali, si mette in posa e saltella tra i morti. Si avvicina al lato del letto lontano
dall'obiettivo, quello della signora Leeds, prende un angolo delle coperte e, con un colpo secco, le butta lontano fermandosi in posa come se avesse appena eseguito una Veronica. Guardando la scena nel salotto dei nonni, Dolarhyde si ritrovò coperto di sudore. Con la lingua spessa leccava di continuo la cicatrice sul labbro superiore mugolando e stimolandosi. Ma persino al culmine del piacere gli dispiacque vedere che nella scena successiva aveva perso tutta la sua grazia e l'eleganza di movimenti, mettendosi a grufolare come un maiale, con il sedere goffamente rivolto verso la cinepresa. Mancavano pause drammatiche e senso di pace, il crescendo dell'azione mancava di gradualità, di ritmo... solo una frenesia brutale. Comunque era ugualmente una cosa meravigliosa. Era meraviglioso guardare il film. Non però quanto l'azione ripresa. I due difetti più appariscenti, pensava, erano, uno, il fatto che nel film non veniva mostrata la morte dei Leeds e, due, la sua interpretazione scadente verso la fine. Tutti i suoi valori parevano andare perduti. Il Drago Rosso non si sarebbe comportato così. Bene. Aveva ancora molti film da fare e, con l'esperienza, sperava che sarebbe riuscito a conservare un certo distacco estetico persino nei momenti più intimi. Doveva riuscirci. Questa era l'opera della sua vita, un'impresa magnifica. Sarebbe sopravvissuta in eterno. Doveva accelerare le cose, scegliere altri attori. Aveva già preparato una copia di svariati picnic familiari per il 4 di luglio. Con la fine dell'estate al laboratorio il lavoro, come sempre, aumentava di netto a mano a mano che arrivavano i film delle vacanze. Un'altra ondata sarebbe arrivata dopo il Giorno del Ringraziamento. Le famiglie gli mandavano ogni giorno la loro richiesta di partecipazione al film. 9 L'aereo da Washington a Birmingham era mezzo vuoto. Graham scelse una poltrona accanto al finestrino senza nessuno a fianco. Rifiutò lo squallido sandwich offerto dalla hostess e posò sul tavolino la pratica Jacobi. Sulla cartelletta aveva elencato i dati comuni tra la famiglia Jacobi e la famiglia Leeds. Entrambe le coppie avevano passato da un bel po' la trentina, entrambe
avevano figli: due maschi e una femmina. Edward Jacobi aveva un altro figlio, nato da un matrimonio precedente, che si trovava al college quando la famiglia era stata assassinata. In tutti e due i casi i genitori avevano un'educazione universitaria e vivevano in villette a un piano in un bel quartiere suburbano. La signora Jacobi e la signora Leeds erano donne attraenti. Le famiglie avevano alcune carte di credito della stessa organizzazione ed erano abbonate ad alcune delle stesse riviste a grande diffusione. Qui però gli elementi comuni terminavano. Charles Leeds era consulente fiscale, mentre Edward Jacobi era tecnico metallurgico. La famiglia di Atlanta era di religione presbiteriana mentre gli Jacobi erano cattolici. I Leeds avevano sempre vissuto ad Atlanta, gli Jacobi s'erano trasferiti a Birmingham da soli tre mesi, provenienti da Detroit. L'aggettivo "casuale" continuava a risuonare nella testa di Graham come una goccia che cade da un rubinetto; «scelta casuale delle vittime», «nessun motivo evidente»... erano le definizioni, usate dai giornali, che gli investigatori ripetevano, rabbiosi e frustrati, nella sala riunioni della squadra omicidi. "Casuale" però non rendeva con precisione la situazione. Graham sapeva che i responsabili di massacri e di omicidi in serie non scelgono a caso le vittime. L'uomo che aveva ucciso gli Jacobi e i Leeds aveva visto in loro qualcosa che l'aveva attratto e spinto a fare quel che aveva fatto. Poteva conoscerli bene — Graham lo sperava — oppure non conoscerli affatto. Era però sicuro che l'assassino li avesse visti qualche tempo prima di ucciderli. Li aveva scelti perché per lui qualcosa aveva un significato preciso e, al centro di tutto, c'erano le donne. Di cosa si trattava? C'erano alcune differenze tra i due delitti. Edward Jacobi era stato colpito da un'arma da fuoco mentre scendeva le scale con una torcia elettrica in mano: probabilmente era stato svegliato da un rumore. La signora Jacobi e i bambini erano stati uccisi con un colpo in testa; la signora Leeds con un colpo all'addome. L'arma era una pistola automatica 9 mm in ambedue i casi. Nelle ferite erano state trovate tracce di paglietta d'acciaio, che indicavano l'impiego di un silenziatore di costruzione artigianale. Sui bossoli non c'erano impronte. Il coltello era stato impiegato solo con Charles Leeds. Il dottor Princi pensava che fosse a lama sottile e molto affilato, probabilmente un coltello
per tagliare la carta. Anche per introdursi in casa erano stati impiegati due metodi diversi; nel caso degli Jacobi era stata forzata la porta del patio, con i Leeds era stato usato un tagliavetri. Sulle fotografie del delitto di Birmingham non si vedeva tanto sangue quanto ne era stato trovato in casa dei Leeds; anche nel primo caso però sulla parete della camera da letto erano state trovate macchie di sangue a un'altezza di una cinquantina di centimetri. Quindi anche a Birmingham l'assassino si era preparato un pubblico. La polizia di Birmingham aveva esaminato i cadaveri, comprese le unghie, per vedere se c'erano impronte digitali, ma non aveva trovato nulla. Un mese dopo la sepoltura, d'estate, a Birmingham, eventuali impronte come quelle trovate in casa Leeds non potevano che essere scomparse. In tutte e due le case erano stati trovati gli stessi capelli biondi, la stessa saliva, lo stesso sperma. Graham appoggiò le fotografie dei due gruppi familiari sorridenti allo schienale della poltrona davanti e rimase a fissarle a lungo nel silenzio sospeso dell'aereo. Che cosa aveva attirato l'assassino verso di loro e non verso altri? Graham, con tutte le sue forze, voleva convincersi che ci fosse un fattore comune e che presto l'avrebbe trovato. Altrimenti avrebbe dovuto entrare in altre case per vedere che cosa gli aveva lasciato il Lupo Mannaro. Graham ricevette ordini dall'ufficio dell'FBI di Birmingham e annunciò il proprio arrivo alla polizia telefonando dall'aeroporto. L'auto, una utilitaria noleggiata, spruzzava dal condizionatore gocce d'acqua che gli cadevano sulle braccia e sulle mani. Si fermò all'agenzia immobiliare Geehan, in Dennison Avenue. Geehan, un uomo alto, calvo, si affrettò a venirgli incontro. Il sorriso svanì quando Graham gli mostrò il tesserino e chiese la chiave di casa Jacobi. «Ci saranno anche dei poliziotti in uniforme?» chiese portandosi una mano sul cranio. «Non so.» «Spero proprio di no, oggi devo farla vedere a due probabili clienti. Una bella casa. La gente la vede e lascia perdere questa. Giovedì scorso ho avuto una coppia di Duluth, pensionati con i soldi, che non ne potevano più di stare nella Sun Belt. Avevo già portato avanti le trattative e parlavo delle
rate — voglio dire che quelli potevano dare addirittura un terzo in contanti — quando è arrivata un'autopattuglia. Gli hanno fatto delle domande e, Cristo, se hanno ottenuto le risposte... Quei bravi agenti gli hanno raccontato tutto, da cima a fondo: dove avevano trovato uno, dove avevano trovato l'altro. E, a questo punto, arrivederci caro il mio Geehan, spiacente di averle fatto perdere tempo. Ho cercato di fargli vedere tutti gli impianti d'allarme che ci avevamo messo ma non mi hanno dato retta. Sono filati via lungo il vialetto sulla loro Sedan de Ville.» «Per caso sono venuti degli uomini soli a vederla?» «A me non l'hanno chiesto. La casa è in mano a diverse agenzie. Però non credo. La polizia... non so quando ci ha dato il permesso di ridipingerla, abbiamo finito solo martedì scorso. Ci sono volute due mani di vernice, in certi punti tre. Fuori stiamo ancora lavorando. Farà proprio un bell'effetto.» «Come fa a venderla prima che venga stabilita la successione?» «Infatti non posso concludere la vendita prima di allora, ma questo non vuol dire che non si possa essere già pronti. Ho bisogno di fare qualcosa. Il documento ce l'ha in mano un mio socio e gli interessi salgono giorno e notte, anche quando si dorme.» «Chi è l'esecutore testamentario del signor Jacobi?» «Byron Metcalf, dello studio Metcalf e Barnes. Quanto pensa che ci starà in quella casa?» «Non so. Finché non avrò finito.» «Può lasciare la chiave nella cassetta delle lettere. Non c'è bisogno che ritorni qui.» Graham aveva la netta sensazione che la pista fosse ormai fredda. La casa era all'estrema periferia, in una zona entrata da poco a far parte della città. Si fermò un attimo sul bordo della superstrada per controllare la mappa poi trovò l'uscita che si immetteva su una strada secondaria asfaltata. Era passato più di un mese dal massacro. Cosa stava facendo in quel periodo? Metteva una coppia di motori diesel in uno scafo Rybovich da 18 metri, faceva segno ad Ariaga che manovrava la gru di far scendere il motore ancora un centimetro. Molly era venuta a trovarlo nel tardo pomeriggio e tutti e tre si erano messi seduti sotto una tenda nel pozzetto della barca ancora in costruzione a mangiare i gamberoni portati da Molly, bevendo birra Dos Equis fredda. Ariaga aveva spiegato come si pulivano i gamberi d'acqua dolce, mentre i raggi del sole, spezzati dall'acqua, giocavano con-
tro il soffitto della timoneria. Il condizionatore gli spruzzò un po' d'acqua sulla camicia. Ora si trovava a Birmingham, non c'erano né gamberoni né gabbiani; alla sua destra si aprivano pascoli e terreni boscosi con capre e cavalli; alla sua sinistra si estendeva Stonebridge, una vecchia area residenziale con alcune ville eleganti e un certo numero di case di gente ricca. Vide l'insegna dell'agenzia immobiliare un centinaio di metri prima di arrivare. La casa degli Jacobi era l'unica sul lato destro della strada. La linfa caduta dai noci americani sulla banchina rendeva appiccicosa la ghiaia che scrosciava contro i parafanghi dell'auto. Un carpentiere issato su una scala stava sistemando delle grate alle finestre; salutò con un cenno della mano Graham che a piedi girava intorno alla casa. Su un lato si apriva un patio pavimentato con lastre di pietra e ombreggiato da una grossa quercia. Di notte l'albero bloccava anche la luce del lampione sulla strada. Era da qui che il Lupo Mannaro era entrato: attraverso le vetrate scorrevoli. Le porte erano state sostituite, sul telaio d'alluminio ancora lucido si notava l'adesivo del fabbricante. Una grata di sicurezza in ferro battuto le proteggeva. Anche la porta della cantina — in acciaio, fissata con chiavistelli — era nuova. Sulle lastre di pietra dell'atrio erano sparsi i pezzi di una vasca da bagno. Graham entrò. Pavimenti nudi e aria di chiuso. Nella casa vuota echeggiava il rumore dei suoi passi. Gli specchi nuovi nei locali da bagno non avevano mai riflesso né le facce della famiglia Jacobi né quella dell'assassino. Tutti mostravano una macchietta confusa dov'era stato staccato il cartellino del prezzo. In un angolo della camera da letto principale c'era un telone ripiegato. Graham vi si sedette e rimase immobile a lungo: i raggi del sole che entravano dalla finestra nuda si mossero di una ventina di centimetri. Non c'era nulla in quel posto. Più nulla. Se fosse venuto qui immediatamente dopo il primo delitto, i Leeds sarebbero stati ancora vivi? si chiese. Valutò quanto questo carico gli pesasse sulle spalle. Nemmeno quando fu uscito di casa e si ritrovò di nuovo sotto il cielo non se ne sentì liberato. Si fermò all'ombra di un noce, le spalle curve, le mani in tasca, e guardò lungo il vialetto in direzione della strada che passava di fronte alla casa. In che modo era arrivato lì il Lupo Mannaro? Senz'altro in macchina. E dove l'aveva parcheggiata? Il vialetto di ghiaia era troppo rumoroso per
una visita notturna, pensò. La polizia di Birmingham però non era dello stesso parere. Andò sulla strada asfaltata, lungo la quale due fossati correvano paralleli per tutta la lunghezza. Se il terreno era duro e asciutto doveva essere possibile attraversare il canaletto e nascondere una macchina tra i cespugli dalla parte della casa. Di fronte alla casa del delitto, sul lato opposto della strada, c'era l'unico cancello di Stonebridge. Un'insegna annunciava la presenza di un servizio di sorveglianza privato. Una macchina sconosciuta sarebbe stata notata. E lo stesso valeva per un uomo a piedi, di notte. Eliminare l'ipotesi che l'assassino avesse parcheggiato di fronte a Stonebridge. Graham rientrò in casa e fu sorpreso di vedere che il telefono era ancora collegato. Chiamò l'ufficio meteorologico e venne a sapere che il giorno prima dell'assassinio erano caduti 75 mm di pioggia. Quindi i fossati dovevano essere pieni. Il Lupo Mannaro non aveva nascosto la macchina vicino alla strada asfaltata. Un cavallo nel pascolo accanto al giardino accompagnò Graham che, passando vicino allo steccato pitturato a calce, si dirigeva verso il retro della casa. Diede una caramella al cavallo e lo abbandonò all'angolo proseguendo lungo lo steccato dietro il garage e i fabbricati annessi. Si fermò quando trovò la buca dove i tre bambini avevano seppellito il gatto. Quando si trovava con Springfield alla polizia di Atlanta i fabbricati annessi se li era immaginati bianchi. Invece erano verde scuro. I bambini avevano avvolto il gatto in uno strofinaccio per i piatti e lo avevano seppellito in una scatola da scarpe con un fiore tra le zampe. Graham posò l'avambraccio sullo steccato e vi appoggiò la fronte. Il funerale di un animale di casa, rito solenne dell'infanzia. Il papà o la mamma che tornavano in casa vergognandosi di pregare. I bambini che si guardavano l'un l'altro scoprendo di avere i nervi saldi proprio quando una perdita lacera. Uno china la testa, tutti lo imitano, il manico della vanga è più alto di tutti e tre. Segue una discussione per decidere se il gatto sia in paradiso con Dio e Gesù; poi per un po' i bambini evitano di alzare la voce. Graham, mentre se ne stava lì con il sole che gli picchiava sul collo, ebbe una certezza: il Lupo Mannaro, proprio come aveva ucciso il gatto, aveva osservato i bambini seppellirlo. Doveva controllare se gli era stato possibile. Non aveva fatto due viaggi sul posto, uno per uccidere il gatto, il secondo per la famiglia. Era venuto, aveva ucciso l'animale e aveva atteso che i
bambini lo trovassero. Impossibile determinare esattamente dov'era stata rinvenuta la bestiola. La polizia non era riuscita a trovare nessuno che avesse parlato con gli Jacobi una decina di ore prima della morte. In che modo il Lupo Mannaro era arrivato e dove era rimasto ad attendere? Oltre lo steccato, dietro la casa, crescevano dei cespugli ad altezza d'uomo, una trentina di metri dopo iniziavano gli alberi. Graham estrasse dalla tasca posteriore la mappa tutta spiegazzata e la aprì sullo steccato. Dietro la casa degli Jacobi si apriva una striscia alberata larga quattrocento metri che proseguiva in tutte e due le direzioni. Dall'altra parte del bosco correva una strada parallela a quella davanti alla casa. Ritornò verso la superstrada misurando la distanza con il contachilometri parziale. Svoltò verso sud poi tornò sulla parallela che aveva visto sulla mappa. Azzerò di nuovo il contachilometri e proseguì lentamente finché fu certo di essere arrivato all'altezza della casa, dall'altra parte del bosco. L'asfalto finiva davanti a un quartiere di case popolari sorto così di recente che la mappa non lo indicava. Fermò la macchina nel parcheggio. La maggior parte delle auto erano vecchie e malconce, due erano posate su blocchi di legno. Un gruppo di bambini negri giocava a pallacanestro su uno spiazzo di terra battuta con un solo canestro privo di rete. Graham sedette un po' sul cofano della macchina per osservarli. Avrebbe voluto togliersi la giacca ma sapeva che la 44 Special e la macchina fotografica piatta appesa alla cintura avrebbero attirato l'attenzione. Si sentiva sempre stranamente imbarazzato quando la gente gli guardava la pistola. I giocatori della squadra con la camicia erano otto mentre quelli a torso nudo erano undici. Giocavano tutti. La partita veniva arbitrata per acclamazione. Un piccolo, di quelli a torso nudo, gettato a terra nella mischia sotto canestro, si trascinò arrabbiato verso casa. Tornò rinfrancato da un biscotto e si gettò di nuovo nel branco. Le urla e i tonfi della palla gli sollevarono il morale. Un canestro, una palla e basta. Lo colpì di nuovo la quantità di oggetti che i Leeds possedevano. E anche gli Jacobi, secondo la polizia di Birmingham, quando nel rapporto era stato escluso il furto come movente dell'o-
micidio. Barche, attrezzi sportivi e da campeggio, macchine fotografiche, fucili e canne da pesca. Un'altra delle cose che le due famiglie avevano in comune. E con il pensiero dei Leeds e degli Jacobi vivi gli venne in mente anche l'immagine di come erano stati ridotti dopo: non riuscì più a guardare la partita. Respirò a fondo e si diresse verso l'oscurità della boscaglia, dall'altra parte della strada. Il sottobosco folto, fin dove cominciavano i pini si fece più rado quando Graham si trovò nell'ombra fitta. Gli fu facile avanzare sul tappeto di aghi. L'aria era calma e immobile. Negli alberi davanti a lui le ghiandaie annunciarono il suo arrivo. Il terreno scendeva leggermente verso il letto asciutto del ruscello dove crescevano alcuni cipressi; nell'argilla rossa si vedevano le impronte degli opossum e dei topi di campagna. C'erano anche impronte umane, alcune lasciate da bambini. Avevano tutte i contorni incerti, era piovuto diverse volte da quando erano state lasciate. Oltre il ruscello il terreno riprendeva a salire trasformandosi in un misto di terriccio e di sabbia dove crescevano le felci. Graham risalì il pendio nella calura finché, sul limitare del bosco, non vide la luce penetrare tra gli alberi. Tra i tronchi si vedeva il primo piano della casa degli Jacobi. Si tuffò di nuovo nel sottobosco che si estendeva dagli alberi fino allo steccato che chiudeva il lato posteriore della proprietà. Quando l'ebbe attraversato si fermò a guardare nel cortile posteriore. Il Lupo Mannaro avrebbe potuto benissimo lasciare la macchina nel parcheggio del nuovo quartiere, attraversare il bosco e arrivare dietro la casa. Poteva benissimo aver attirato il gatto tra i cespugli per strozzarlo, poi, con il corpo dell'animale in una mano, essersi avvicinato strisciando sulle ginocchia fino allo steccato. Graham vedeva il gatto descrivere una parabola per aria, senza girarsi per atterrare sulle zampe, e ricadere di schiena con un tonfo sordo nel cortile. Doveva essere successo di giorno: i bambini di notte non avrebbero né trovato né seppellito il gatto. Aveva atteso per vedere quando lo trovavano. Aveva atteso tutto il giorno nella calura del sottobosco? Se si fosse fermato vicino allo steccato sarebbe stato visibile. D'altra parte, per vedere il cortile da più lontano avrebbe dovuto stare in piedi, contro il sole, visibile dalle finestre di casa. Chiaramente doveva essere tornato indietro, tra gli alberi. E fu quello che
fece anche lui. I poliziotti di Birmingham non erano stati stupidi. Si vedeva dove si erano fatti strada tra i cespugli per rastrellare la zona circostante la casa. Questo però prima di trovare il gatto. Cercavano indizi, oggetti lasciati cadere, tracce... non un posto di vedetta. Si addentrò qualche metro nel bosco poi proseguì di lato zigzagando nell'ombra fitta. Arrivò in una zona collinosa da dove si vedeva parzialmente il cortile, poi scese, avvicinandosi al limitare del bosco. Continuò così scrutando il terreno per più di un'ora finché non notò un bagliore a terra. Lo perse, lo ritrovò. Era l'anello di strappo di una lattina, seminascosto tra le foglie ai piedi di un olmo, uno dei pochi tra i pini. Lo vide da tre metri di distanza e per cinque minuti non si avvicinò esaminando attentamente il terreno intorno. Si accucciò e ripulì la terra dalle foglie avvicinandosi al tronco, per evitare di rovinare eventuali tracce. Piano piano, un po' alla volta, liberò dalle foglie tutta la zona intorno al tronco. Nessuna impronta era rimasta sul tappeto di foglie dell'anno precedente. Vicino all'anello di alluminio trovò un torsolo di mela rinsecchito e roso dalle formiche. Gli uccelli avevano beccato i semi. Esaminò attentamente il terreno per dieci minuti buoni. Alla fine sedette, stirò le gambe indolenzite e appoggiò la schiena al tronco. Un cono di moscerini roteava in un fascio di luce. Un bruco s'inerpicava sotto una foglia. Su un ramo sopra la sua testa c'era un pezzo d'argilla rossa modellato dalla suola di uno scarpone. Graham appese la giacca al ramo e prese con cautela a salire sull'albero, dalla parte opposta, scrutando i rami sopra il pezzo d'argilla. A una decina di metri di altezza guardò e a circa centocinquanta metri di distanza vide la casa. Da quell'altezza sembrava diversa, dominata dal colore del tetto. Vedeva benissimo il cortile e il terreno intorno ai fabbricati annessi. Da quel punto con un buon binocolo era facilissimo vedere l'espressione di un viso. Udiva in lontananza il rumore del traffico e, ancor più lontano, un cane da caccia che rincorreva la preda. Poi all'improvviso il frinire di una cicala soffocò tutto il resto. Un grosso ramo proprio sopra di lui puntava diritto verso la casa degli Jacobi. Graham si issò ancora e guardò dall'altra parte del tronco. Si trovò vicino alla guancia una lattina di bibita gassata, incastrata tra il ramo e il tronco.
«Come sei bella» sussurrò Graham alla corteccia. «Oh, Signore, sei proprio bella. Vieni qui, lattina.» Poteva averla lasciata lì un bambino. Salì ancora muovendosi attentamente tra i ramoscelli, poi girò dall'altra parte finché non vide in basso il ramo sul quale posava la lattina. Un pezzo di corteccia delle dimensioni di una carta da gioco era stato asportato lasciando apparire la parte inferiore, verdastra. Al centro del rettangolo verde, inciso nel legno, Graham vide questa figura
Era un lavoro accurato, preciso, fatto con un coltello molto affilato. Non era opera di un bambino. Fotografò il disegno, variando con cura l'esposizione. Dal ramo si godeva un'ottima vista migliorata oltretutto dal fatto che un ramoscello del ramo superiore era stato tagliato. Le fibre del legno erano comprèsse e le estremità leggermente schiacciate dalla lama. Graham cercò dove fosse finito. Se fosse caduto sul terreno l'avrebbe trovato. Eccolo; era rimasto preso tra le frasche, sotto; foglie marroni rinsecchite tra le foglie verdi. Al laboratorio avrebbero avuto bisogno delle due parti del taglio per stabilire che tipo di lama era. Significava dover tornare con una sega. Prese numerose fotografie dello spuntone, borbottando tra sé. Credo che dopo aver ammazzato e gettato nel cortile il gatto tu sia salito su quest'albero ad aspettare. Credo che tu abbia osservato i bambini e passato il tempo sognando a occhi aperti. Quando si è fatto buio, li hai visti passare davanti alle finestre illuminate, hai visto calare gli scuri, le luci spegnersi una dopo l'altra e, dopo un po', sei sceso e sei entrato in casa. È così, vero? Non doveva essere troppo difficile scendere da qui con una torcia elettrica e la luce della luna piena. Calarsi fu piuttosto difficile. Infilò un ramoscello nell'apertura della lattina, la sollevò delicatamente e scese, un ramo dopo l'altro,, con il ramoscello tra i denti quando doveva tenersi con tutte e due le mani. Tornato al nuovo quartiere Graham scoprì che qualcuno aveva scritto "Levon è un fesso" sulla fiancata della sua automobile. L'altezza a cui era stato scritto indicava che anche i più piccoli abitanti del quartiere avevano fatto grandi progressi nello scrivere.
Si chiese se avessero scritto qualcosa anche sull'auto del Lupo Mannaro. Rimase per qualche minuto seduto, guardando verso la fila di finestre. Dovevano esserci un centinaio di appartamenti. Forse qualcuno avrebbe ricordato uno sconosciuto di razza bianca nel parcheggio, di sera tardi. Valeva la pena di provare, anche se ormai era passato un mese; bisognava chiedere a tutti, e senza perdere tempo: aveva bisogno di chiedere l'aiuto della polizia di Birmingham. Respinse la tentazione di spedire direttamente la lattina a Jimmy Price a Washington. Doveva chiedere uomini alla polizia di Birmingham. Meglio consegnare loro quello che aveva trovato. Cercare impronte sulla lattina era un lavoro semplice. Ma cercare i segni lasciati dall'acido contenuto nel sudore era un'altra questione. Price avrebbe potuto farlo dopo che la polizia di Birmingham avesse passato la polvere per rilevare le impronte, purché nessuno la toccasse con le dita. Meglio consegnarla alla polizia. Sapeva che il laboratorio scientifico dell'FBI si sarebbe buttato sull'incisione nel ramo come una mangusta rabbiosa. Copia delle foto per tutti, nessuno avrebbe perso nulla. Chiamò la squadra omicidi dalla casa degli Jacobi. Gli investigatori arrivarono proprio mentre l'agente immobiliare faceva entrare dei potenziali acquirenti. 10 Eileen stava leggendo un articolo sul "National Tattler" intitolato "Le porcherie nel pane che mangiate!" proprio mentre Dolarhyde entrava nella mensa. La ragazza aveva mangiato solo il ripieno del sandwich di insalata di tonno e scartato il pane. Gli occhi di Dolarhyde, dietro le lenti rosse, caddero sulla prima pagina del settimanale. Oltre a "Le porcherie nel pane che mangiate!" c'erano: "Elvis nel suo rifugio d'amore segreto — Esclusiva!" "Incredibile speranza per i malati di cancro!" e, inquadrato a tutta pagina: "Hannibal il cannibale aiuta la legge: i poliziotti lo consultano per i massacri del Lupo Mannaro". Si avvicinò distrattamente alla finestra mescolando il caffè con il cucchiaino finché non sentì la ragazza alzarsi. Eileen gettò il vassoio nel contenitore dei rifiuti; stava per gettare anche il "Tattler" quando Dolarhyde le toccò una spalla. «Mi daresti quel giornale, Eileen?» «Sicuro, signor D. Lo compro solo per l'oroscopo.»
Dolarhyde andò a leggerlo nel suo ufficio, a porta chiusa. Freddy Lounds firmava due trafiletti nel paginone centrale. L'articolo era impostato sulla ricostruzione mozzafiato degli omicidi Jacobi e Leeds. Siccome la polizia non aveva rivelato molti particolari, Lounds per fare effetto aveva fatto appello alla sua immaginazione. Dolarhyde li trovò banali. Più interessante era invece il riquadro: PAZZO CRIMINALE CONSULTATO DAL POLIZIOTTO CHE HA CERCATO DI UCCIDERE di Freddy Lounds CHESAPEAKE, MARYLAND. — I federali impegnati nella caccia al "Lupo Mannaro", lo psicopatico che ha massacrato due intere famiglie a Birmingham e ad Atlanta, hanno chiesto l'aiuto del più selvaggio assassino attualmente prigioniero. Il dottor Hannibal Lecter, delle cui abitudini innominabili abbiamo parlato sul nostro giornale in un articolo di tre anni fa, è stato consultato questa settimana, nella cella di massima sicurezza del manicomio criminale che lo ospita, da William (Will) Graham, asso degli investigatori federali. Tre anni fa Graham, avendo scoperto l'identità del massacratore, fu sul punto di morire per mano di Lecter. Attualmente è stato richiamato in servizio — era andato anticipatamente in pensione — per guidare la caccia al "Lupo Mannaro". Cosa è successo durante questa bizzarra riunione tra due nemici mortali? Cosa voleva sapere Graham? «Per prendere un personaggio come quello ci vuole qualcuno che gli assomigli» ha detto un alto funzionario federale a chi scrive. Si riferiva a Lecter, soprannominato "Hannibal il cannibale", il quale è sia uno psichiatra sia un assassino plurimo. O INVECE SI RIFERIVA A GRAHAM??? Il "Tattler" è venuto a sapere che Graham, ex docente di medicina legale all'accademia dell'FBI di Quantico, Virginia, è stato ricoverato per quattro settimane in un centro per la cura delle malattie mentali... I funzionali dell'FBI hanno rifiutato di spiegare come mai hanno piazzato in prima linea in questa disperata caccia all'uomo un individuo che ha alle spalle un periodo di instabilità mentale. Non è stato rivelato da che genere di disturbo mentale fosse affetto Gra-
ham, ma un ex infermiere ha detto che si trattava di uno "stato di profonda depressione". Garmon Evans, un aiuto infermiere un tempo dipendente del Bethesda Naval Hospital, afferma che Graham è entrato nel reparto psichiatrico poco dopo aver ucciso Garrett Jacob Hobbs, il "Gufo del Minnesota". Graham, nel 1975, aveva ucciso Hobbs a colpi d'arma da fuoco, ponendo termine agli otto mesi di terrore che questi aveva instaurato a Los Angeles. Evans afferma che Graham, nelle prime settimane di degenza, rifiutava di mangiare e di parlare e rimaneva sempre chiuso in se stesso. Graham comunque, non è mai stato un agente dell'FBI. Alcune persone a conoscenza dei segreti del servizio affermano che ciò è dovuto alle rigorose procedure di selezione dell'FBI, fatte appositamente per rivelare eventuali segni di instabilità. Le fonti dell'FBI sono disposte solamente ad ammettere che Graham, in origine, ha lavorato per il laboratorio di criminologia dell'ente federale e che, dopo gli incredibili successi ottenuti in laboratorio e sul campo, dove aveva svolto il compito di "investigatore speciale", aveva ottenuto una cattedra all'accademia dell'FBI. Il nostro giornale è venuto a sapere che prima di prestare servizio presso l'FBI, Graham era nella squadra omicidi della polizia di New Orleans, posto che aveva lasciato per frequentare la facoltà di medicina legale dell'Università George Washington. Uno degli agenti di New Orleans che prestava servizio con Graham, ha osservato: «Be', si potrebbe dire che è in pensione, ma ai federali piace sapere di averlo ancora a disposizione. È come avere un grosso serpente innocuo sotto il pavimento. Magari non lo si vede spesso, ma fa piacere sapere che è lì a mangiare le bisce velenose». Il dottor Lecter dovrà rimanere tutta la vita chiuso in manicomio. Se dovesse essere dichiarato sano di mente sarebbe processato per nove omicidii di primo grado. L'avvocato di Lecter afferma che l'assassino passa il tempo scrivendo articoli utili per le riviste scientifiche e che porta avanti un'"attiva corrispondenza" con alcuni dei più rispettati esponenti dell'ambiente psichiatrico. Dolarhyde smise di leggere e guardò le fotografie. Erano due, accanto al riquadro. In una si vedeva Lecter bloccato contro un'auto della polizia di stato. L'altra era la foto di Will Graham che Freddy Lounds aveva scattato all'ingresso dell'ospedale. Ciascuna ospitava in un piccolo riquadro una
piccola foto di Lounds. Dolarhyde rimase a osservarle a lungo. Passò e ripassò — lentamente — l'indice sulle figure, sensibilissimo al ruvido della carta da giornale. Gli rimase il polpastrello sporco d'inchiostro. Lo leccò con la lingua e lo ripulì con un kleenex. Quindi ritagliò il riquadro e se lo ficcò in tasca. Di ritorno a casa comprò della carta igienica di quella che si scioglie nell'acqua e che viene usata sulle barche e nei camper, e un vasocostrittore per il naso. Si sentiva bene malgrado la febbre da fieno; come molte persone che hanno subito importanti interventi di rinoplastica, Dolarhyde non aveva peli all'interno del naso ed era tormentato dalla febbre da fieno e da affezioni delle vie respiratorie superiori. Attese con pazienza quando un camion fermo lo tenne bloccato dieci minuti sul ponte sul fiume Missouri che lo portava a St. Charles. Il suo furgone nero, tutto foderato di moquette, era fresco e silenzioso. Lo stereo suonava la musica vacua di Händel. Picchiettò le dita sul volante seguendo la musica e si soffiò il naso. Nella corsia accanto, in una decappottabile, vide due donne. Indossavano calzoncini corti e camicette annodate sotto il seno. Dolarhyde, dall'alto del furgone guardò giù, nella macchina. Le due ragazze sembravano stanche e annoiate; tenevano gli occhi socchiusi, abbagliate dal sole del tramonto. Quella sul sedile di destra appoggiava la nuca allo schienale e teneva i piedi sul cruscotto. Sullo stomaco, nudo, si erano formati due solchi profondi. Dolarhyde notò un succhiotto all'interno della coscia. La ragazza lo sorprese a guardare, si rizzò a sedere e incrociò le gambe. Un'espressione di fastidio e di disgusto le apparve sul viso. Disse qualcosa alla donna al volante. Ambedue guardarono dritto davanti a loro. Stavano parlando di lui, lo sapeva. Si sentiva così allegro che la cosa non riuscì a irritarlo. Poche cose ormai lo irritavano. Sapeva che stava assumendo un'appropriata dignità. La musica era davvero piacevole. Le auto di fronte a Dolarhyde cominciarono ad avviarsi. La corsia accanto invece era sempre ferma. Non vedeva l'ora di essere a casa. Continuò a picchiettare le dita sul volante a ritmo di musica mentre con l'altra mano abbassava il finestrino. Si raschiò la gola e sputò un grumo di catarro verdastro addosso alla donna, colpendola proprio vicino all'ombelico. Sentì alle sue spalle gli in-
sulti, lanciati con voce acuta, mescolarsi alla musica di Händel. Il libro mastro di Dolarhyde — enorme — aveva almeno cent'anni. Rilegato in pelle nera, con gli angoli d'ottone, era così pesante da dover essere sostenuto da un tavolinetto. Era sistemato nel ripostiglio chiuso a chiave in cima alle scale. Dal momento in cui l'aveva visto all'asta fallimentare di una vecchia tipografia di St. Louis, Dolarhyde aveva capito che doveva essere suo. Ora, fatto il bagno e indossato il kimono, aprì il ripostiglio e tirò fuori il libro. Quando l'ebbe sistemato esattamente sotto la stampa del Drago Rosso, si accomodò in una poltrona e lo aprì. Al viso gli salì l'odore della carta macchiata dal tempo. Sulla prima pagina, a grandi lettere che aveva miniato personalmente, erano scritte le parole dell'Apocalisse: "E venne anche un Grande Drago Rosso...". La prima foto che appariva nel libro era l'unica non montata con cura. Perduta tra le pagine c'era la foto ingiallita di Dolarhyde da piccolo insieme alla nonna, sui gradini della grande casa. Si teneva aggrappato alla sua sottana. La donna aveva le braccia conserte e la schiena diritta, come irrigidita. Dolarhyde voltò pagina ignorandola come se fosse capitata lì per sbaglio. C'erano molti ritagli, i primi dei quali parlavano della scomparsa di alcune donne anziane a St. Louis e a Toledo. Tra l'uno e l'altro c'erano pagine coperte con la sua calligrafia: un bel corsivo in inchiostro nero, simile alla scrittura di William Blake. Fissati ai margini, ciuffetti di capelli si allungavano come code di comete fissati sul taccuino di Dio. C'erano anche i ritagli riguardanti gli Jacobi, con i film e le diapositive infilate in piccole tasche incollate alle pagine. Poi venivano gli articoli sui Leeds, con relativo film. Il soprannome "Lupo Mannaro" sulla stampa era apparso solo dopo i fatti di Atlanta. In tutti gli articoli sui Leeds era stato cancellato a pennarello. Dolarhyde fece lo stesso con il ritaglio preso dal "Tattler" ed eliminò a colpi rabbiosi di pennarello rosso tutti i "Lupo Mannaro". Passò a una pagina bianca e ritagliò l'articolo del "Tattler" in modo da poterlo incollare. Era il caso di mettere l'istantanea di Graham? Le parole "manicomio criminale" scolpite nella pietra sopra Graham lo offendevano.
Odiava l'idea di qualunque posto dove la libertà veniva limitata. Graham aveva un'espressione che gli era ostile. Decise di metterla da parte, per il momento. Ma Lecter... Lecter. Non era una bella foto, la sua. Ne aveva una migliore, andò a prenderla in una scatola che teneva nell'armadio. L'avevano pubblicata dopo la cattura dello psichiatra e ne faceva risaltare la bellezza degli occhi. Tuttavia non era del tutto soddisfacente. Secondo lui Lecter avrebbe dovuto venir ritratto come un principe del Rinascimento. E infatti lui, unico tra gli uomini, possedeva la sensibilità e l'esperienza per comprendere la gloria, la regalità, dell'Avvento di Dolarhyde. Sentiva che Lecter conosceva l'immaterialità della gente che moriva per aiutare a raggiungere questi risultati, e che si rendeva conto che essi non erano fatti di carne, ma di luce e di aria e di colore e di rapidi suoni che si spengono subito quando la si trasforma. Come palloncini colorati che scoppiano. Sapeva che sono più importanti per il cambiamento, più importanti della vita, alla quale, imploranti, si tengono aggrappati. Dolarhyde sopportava gli urli di dolore come uno scultore sopporta la polvere che si stacca dalla pietra che scalpella. Lecter era in grado di capire che sangue e respiro erano semplicemente elementi che si trasformavano per alimentare il suo Splendore, proprio come è la combustione la fonte della luce. Gli sarebbe piaciuto incontrare Lecter, parlargli, condividere le reciproche esperienze, godere della loro visione comune, essere riconosciuto da lui come Giovanni Battista aveva riconosciuto l'Uomo venuto dopo di lui, incombere su di lui come il Drago nella Rivelazione numero 666 di Blake, e filmare la sua morte mentre, in agonia, si fondeva con l'energia del Drago. Si infilò un paio di guanti di gomma nuovi e andò alla scrivania. Aprì l'involucro del rotolo di carta igienica, srotolò sette foglietti e li staccò. Infine, con la sinistra, in una calligrafia accurata, scrisse una lettera a Lecter. Il modo che uno ha di parlare non rivela mai come scrive. I discorsi di Dolarhyde erano contratti dai suoi difetti di pronuncia, veri e presunti, e la differenza tra parole dette e scritte era stupefacente. Tuttavia scoprì che non riusciva a esprimere la cosa più importante che sentiva dentro. Voleva che Lecter si mettesse in comunicazione con lui. Aveva bisogno di una risposta personale prima di potergli parlare delle cose davvero im-
portanti. Come fare? Frugò nella scatola tra i ritagli riguardanti Lecter e li rilesse tutti. Finalmente trovò un metodo semplice. Riscrisse la lettera. Quando l'ebbe riletta però gli parve che ci fosse troppa diffidenza, troppa ritrosia. L'aveva firmata "Un tuo avido ammiratore". Rimase per un bel pezzo a rimuginare sulla firma. Sì, proprio "Un tuo avido ammiratore". Sollevò leggermente il mento, in un gesto di sussiego. Infilò in bocca il pollice coperto dal guanto, si tolse la dentiera e la posò sulla carta assorbente. Il palato era di forma piuttosto insolito. I denti erano normali, bianchi e regolari, ma la plastica rosata aveva una forma tortuosa e irregolare per adattarsi ai solchi e alle rientranze delle gengive. Attaccata alla placca c'era una protesi di plastica morbida con una specie di tappo che lo aiutava a chiudere la fessura del palato quando parlava. Da un cassetto della scrivania estrasse un'altra dentiera. L'arcata superiore era identica, anche se mancava la protesi. Tra i denti contorti c'erano chiazze scure che emettevano un leggero fetore. Erano identici ai denti della nonna, nel bicchiere accanto al letto, al piano di sotto. Le narici vibrarono sentendo l'odore. Sorrise, con le guance incavate, infilò la dentiera in bocca umettandola con la lingua. Piegò la lettera all'altezza della firma e vi premette i denti. Quando riaprì il foglio, la firma era circondata da un morso di forma ovale; il suo sigillo, un imprimatur macchiato di sangue disseccato. 11 Alle cinque esatte del pomeriggio l'avvocato Byron Metcalf allentò la cravatta, si versò da bere e posò i piedi sulla scrivania. «È sicuro di non volere niente?» «Un'altra volta.» Graham, intento a togliersi i cardi rimasti attaccati ai polsini, era contento che nell'ufficio ci fosse l'aria condizionata. «Non conoscevo troppo bene gli Jacobi» spiegò Metcalf. «Erano qui solo da tre mesi. Mia moglie e io siamo andati a casa loro un paio di volte a bere qualcosa. Ed Jacobi è venuto a trovarmi appena trasferito perché voleva rifare testamento; ecco come l'ho conosciuto.»
«Però lei è il suo esecutore testamentario.» «Sì. Al primo posto aveva nominato sua moglie, poi venivo io, nel caso in cui lei fosse deceduta o incapacitata. Ha un fratello a Philadelphia ma suppongo che non siano troppo uniti.» «Lei è stato viceprocuratore distrettuale?» «Già, dal '68 al '72. Poi nel 72 ho presentato la candidatura come procuratore. Ho perso, anche se di poco. Devo dire che adesso non mi spiace.» «Qual è il suo punto di vista su quanto è successo qui, signor Metcalf?» «La prima cosa che mi è venuta in mente riguardava Joseph Yabloski, il dirigente sindacale.» Graham annuì. «C'era un movente dietro a quel delitto — il potere — mascherato come l'aggressione di un pazzo. Abbiamo passato al setaccio tutte le carte di Ed Jacobi... eravamo io e Jerry Estridge dell'ufficio del procuratore distrettuale. «Niente. Dalla morte di Ed Jacobi nessuno cavava fuori un sacco di soldi. Aveva un grosso stipendio, più le percentuali su alcuni brevetti, ma spendeva praticamente tutto. Tutto quello che aveva lo ereditava la moglie; poi c'era un po' di terra in California intestata ai bambini e ai loro discendenti. Al figlio sopravvissuto aveva intestato una piccola rendita. Servirà a pagargli altri tre anni di college. Sono sicuro che quando saranno finiti sarà ancora al primo anno.» «Niles Jacobi.» «Esattamente. Quel ragazzo era una grossa rogna per Ed. Viveva con la madre in California. È finito a Chino per furto. Ho idea che la madre sia una sbandata. Ed è andato in California l'anno scorso a trovarlo e se l'è portato dietro. L'ha iscritto al Bardwell Community College. Ha cercato di tenerselo in casa, ma Niles picchiava gli altri figli e si rendeva insopportabile con tutti. La signora Jacobi per un po' l'ha sopportato, ma alla fine hanno deciso di trasferirlo in una casa dello studente.» «Dov'era?» «La sera del 28 giugno?» Metcalf spalancò gli occhi fissando Graham. «La polizia se l'è chiesto. Anch'io, debbo dire. Era andato al cinema poi è tornato a scuola. Hanno controllato. Inoltre il suo sangue è del gruppo zero. Signor Graham, devo passare a prendere mia moglie tra mezz'ora. Se vuole possiamo riprendere la conversazione domani. Mi dica cosa posso fare per lei.» «Vorrei vedere gli effetti personali degli Jacobi. Diari, fotografie, qua-
lunque cosa.» «C'è poca roba: hanno perduto quasi tutto a Detroit in un incendio, proprio prima di trasferirsi qui. Niente di sospetto: Ed stava saldando qualcosa in cantina e le scintille sono cadute su della vernice che aveva sistemato lì; la casa è andata a fuoco. «C'è della corrispondenza personale. L'ho messa nelle cassette di sicurezza, insieme ai valori. Non mi pare di aver visto diari. Tutto il resto è stato sistemato in un magazzino. Forse Niles ha qualche foto, ma ne dubito. Senta una cosa: domani mattina alle nove e mezzo devo essere in tribunale, però posso portarla alla banca, così potrà dare un'occhiata. Poi passo a riprenderla io.» «Ottimo» disse Graham. «Un'altra cosa. Mi servirebbero delle copie di tutto ciò che riguarda il testamento: opposizioni, rivendicazioni, corrispondenza. Vorrei avere tutta la pratica.» «Me l'ha già chiesto l'ufficio del procuratore distrettuale. So che la stanno confrontando con la proprietà dei Leeds ad Atlanta.» «Comunque vorrei averne una copia anch'io.» «Come no, una copia anche per lei. Comunque immagino che sappia che non servirà a nulla.» «Sì. Spero solo che salti fuori lo stesso nome, qui e ad Atlanta.» «Anch'io.» Gli alloggi degli studenti del Bardwell Community College erano costituiti da quattro piccoli dormitori costruiti intorno a un quadrato di terra battuta cosparso di immondizie. Quando Graham arrivò era in pieno svolgimento una guerra di stereo. Batterie opposte di altoparlanti si affrontavano dalle balconate dei vari edifici: i Kiss contro l'Ouverture 1812. Un pallone pieno d'acqua descrisse una parabola nell'aria e si spiaccicò in terra a tre metri da lui. Graham si curvò per passare sotto un filo della biancheria e superò una bicicletta per entrare nel soggiorno dell'appartamentino dove dormiva Niles Jacobi. La porta della camera da letto era semiaperta, dalla fessura usciva musica a pieno volume. Graham bussò. Nessuna risposta. Spinse la porta. Un ragazzo alto dal viso foruncoloso se ne stava seduto su uno dei letti gemelli succhiando una pipa ad acqua lunga un metro e venti. Sull'altro letto era distesa una ragazza in pantaloni. Il ragazzo girò di scatto la testa per affrontare Graham. Si sforzava di articolare un pensiero qualsiasi.
«Cerco Niles Jacobi.» Il ragazzo sembrava sbalordito. Graham spense l'amplificatore. «Cerco Niles Jacobi.» «Solo un po' di roba per l'asma, amico. Non ti capita mai di bussare?» «Dov'è Niles Jacobi?» «Che m'inculino se lo so. Cosa vuoi da lui?» Graham gli mostrò il pezzo di latta. «Sforzati — molto — di ricordare.» «Oh, merda» disse la ragazza. «La narcotici, maledizione. Senti io non valgo niente, parliamone un po', amico.» «Parliamo di dov'è Jacobi.» «Credo di riuscire a saperlo» disse la ragazza. Graham attese. La sentì passare da una stanza all'altra a chiedere. Dappertutto dopo il suo arrivo si sentiva scrosciare lo sciacquone. C'erano poche tracce di Niles Jacobi nella stanza: su una cassettiera, una foto della famiglia. Graham tolse un bicchiere d'acqua e ghiaccio posato sopra e pulì con la manica il cerchio bagnato. La ragazza ritornò. «Prova allo Hateful Snake» disse. Lo Hateful Snake, un bar, aveva le vetrine dipinte di verdescuro. Davanti era parcheggiato uno strano assortimento di veicoli: grossi camion che, senza il cassone, sembravano mutilati, utilitarie, una cabriolet color lilla, vecchie Dodge e Chevrolet storpiate, carrozzate in modo da sembrare dragsters, quattro Harley Davidson superaccessoriate. Un condizionatore, montato nella luce sopra la porta, gocciolava incessantemente sul marciapiede. Graham girò intorno al gocciolio ed entrò. Il locale, affollato, puzzava di disinfettante e di birra rancida. La barista, una donna ben piazzata in tuta, allungò una mano sopra la testa degli avventori per dare a Graham la coca-cola che aveva ordinato. Era l'unica donna. Niles Jacobi, scuro di pelle e magrissimo, si trovava accanto al juke-box. Infilò una moneta nella fessura, ma fu l'uomo accanto a lui a premere i bottoni. Jacobi aveva l'aria dello studente dissoluto, quello che sceglieva la musica no. Il compagno di Jacobi era uno strano miscuglio: volto fanciullesco, corpo solido e muscoloso. Indossava maglietta e jeans, decisamente scoloriti all'altezza delle tasche, piene di oggetti. Le braccia erano nodose e le mani
grosse e brutte. Sul tatuaggio all'avambraccio sinistro, opera di un professionista, c'era scritto: "Nato per scopare". Sull'altro braccio, un rozzo tatuaggio da galera: "Randy". I capelli, tagliati corti in carcere, erano ricresciuti irregolarmente. Graham lo vide allungare un braccio verso il jukebox illuminato e notò sull'avambraccio una piccola zona priva di peli. Avvertì un blocco gelido allo stomaco. Seguì Niles Jacobi e "Randy" tra la folla verso il fondo del locale. Li vide sistemarsi in un séparé. Si fermò a circa mezzo metro dal tavolo. «Niles, mi chiamo Will Graham. Dovrei parlarti qualche minuto.» Randy lo guardò di sotto in su, con un gran sorriso fasullo. Aveva un incisivo guasto. «Ci siamo conosciuti?» «No. Niles, vorrei parlare con te.» Niles inarcò perplesso un sopracciglio. Graham si chiese cosa gli fosse capitato a Chino. «Stavamo parlando di cose private, qui. Fuori dai piedi» disse Randy. Graham guardò pensieroso gli avambracci muscolosi, il pezzo di cerotto alla piega del gomito, la zona di epidermide dove Randy aveva saggiato il filo del coltello. Ho paura di Randy. Spara o lascia perdere. «Hai sentito?» esclamò Randy. «Fuori dai piedi.» Graham sbottonò la giacca e posò sul tavolo il distintivo. «Seduto immobile, Randy. Se provi ad alzarti, ti ritrovi due ombelichi.» «Spiacente, signore.» Sincerità istantanea, da detenuto. «Randy, devi farmi un piacere. Devi infilarti la mano nella tasca posteriore sinistra. Solo due dita. Dentro ci trovi un coltello da dodici centimetri. Posalo sulla tavola... Grazie.» Graham prese il coltello e se lo lasciò cadere in tasca. Era unto. «Adesso, nell'altra tasca c'è il portafoglio. Tiralo fuori. Hai venduto del sangue, oggi, vero?» «E allora?» «E allora fammi vedere lo scontrino che ti hanno dato, quello che porti la prossima volta alla banca del sangue. Aprilo sul tavolo.» Il sangue di Randy era del gruppo 0. Cancellare Randy. «Da quanto sei fuori?» «Tre settimane.» «Chi ti controlla per la libertà vigilata?» «Non sono in libertà vigilata.»
«Probabilmente è falso.» Voleva provocarlo. Poteva incastrarlo perché portava un coltello proibito. Inoltre farsi trovare in un locale dove servivano alcolici era una violazione del regolamento sulla libertà vigilata. Graham sapeva che ce l'aveva con lui perché gli aveva fatto paura. «Randy.» «Sì.» «Fila.» «Non so cosa dirle, mio padre non lo conoscevo tanto bene» spiegò Niles Jacobi mentre Graham lo riaccompagnava alla scuola in macchina. «Ha lasciato la mamma quando avevo tre anni e poi non l'ho più visto... mamma non l'avrebbe permesso.» «La primavera scorsa è venuto a trovarti.» «Sì.» «A Chino.» «Lo sa benissimo.» «Sto solo cercando di metter le cose in chiaro. Cosa è successo?» «Be', era lì in sala colloqui, tutto teso che cercava di non guardarsi in giro... c'è un sacco di gente che crede di essere allo zoo. Mamma mi aveva parlato molto di lui, ma a vederlo non sembrava tanto cattivo. Era solo un tizio lì in piedi, con una giacca sportiva malmessa.» «Cosa ti ha detto?» «Be', io mi aspettavo o che mi prendesse per il collo o che si sentisse in colpa: è quello che capita di solito ai colloqui. Invece mi ha chiesto solo se pensavo di poter andare a scuola. Ha detto che avrebbe chiesto l'affidamento se ci andavo. E se mi fossi sforzato. "Devi essere tu a darti una mano. Provaci e: a pagare la scuola ci penserò io" e roba del genere.» «Questo quanto tempo prima che tu uscissi?» «Due settimane.» «Niles, quando eri a Chino hai mai parlato a nessuno della tua famiglia? A qualche compagno di cella?» Niles Jacobi lanciò una rapida occhiata a Graham. «Oh. Oh, capisco. No. Non di mio padre. Erano anni che nemmeno pensavo a lui, perché avrei dovuto parlarne?» «E qui? Hai mai portato qualche amico in casa dei tuoi genitori?» «Del mio genitore, caso mai. Lei non era mia madre.» «Ci hai mai portato nessuno? Compagni di scuola oppure...» «Oppure teppisti, agente Graham?»
«Esatto.» «No.» «Mai?» «Mai una volta.» «Ti ha mai accennato a minacce, ti sembrava preoccupato per qualcosa gli ultimi due mesi prima del fatto?» «L'ultima volta che l'ho visto era preoccupato sì, ma per i miei voti. Avevo fatto un mucchio di assenze. Mi aveva comprato due sveglie. Non so altro.» «Hai per caso delle sue carte personali: corrispondenza, fotografie, qualunque cosa?» «No.» «Una foto della famiglia però ce l'hai. È sulla cassettiera in camera tua. Vicino alla pipa ad acqua.» «La pipa ad acqua non è mia. Non mi sognerei neanche di mettermi in bocca quello schifo.» «La foto mi serve. La faccio riprodurre e te la rimando. Hai qualche altra cosa?» Jacobi estrasse una sigaretta dal pacchetto e si palpò le tasche cercando i fiammiferi. «No, ho solo quella. Chissà perché me l'hanno data. Mio padre che sorrideva alla signora Jacobi e a tutti i mostriciattoli. Può tenersela. Io così non l'avevo mai visto.» Graham aveva bisogno di sapere di più sugli Jacobi, ma le persone che li avevano conosciuti a Birmingham gli furono di poco aiuto. Byron Metcalf gli consegnò la chiave delle cassette di sicurezza. Lesse il mazzetto di lettere, quasi tutte d'affari, esaminò gioielli e argenteria. Lavorò tre giorni nel magazzino dov'erano stati messi i mobili. Di sera lo aiutava Metcalf. Vennero aperte tutte le casse per esaminarne il contenuto. Le fotografie prese dalla polizia aiutarono Graham a identificare dov'erano sistemati i vari oggetti. La maggior parte dei mobili erano nuovi, comperati con i soldi dell'assicurazione. La famiglia Jacobi non aveva avuto quasi il tempo di lasciare segni sulle cose di loro proprietà. Un particolare attirò la sua attenzione: su uno dei comodini da notte, che portava ancora le tracce della polvere per rilevare le impronte, c'era un grumo di cera verde. Per la seconda volta si chiese se all'assassino non piacesse la luce delle
candele. Il dipartimento di medicina legale e la polizia di Birmingham gli comunicarono volentieri i risultati delle analisi. Per quanto riguardava la lattina trovata sull'albero, il meglio che Birmingham e Jimmy Price riuscirono a tirar fuori fu l'impronta confusa della punta di un naso. Il laboratorio armi da fuoco dell'FBI presentò un rapporto sul ramo tagliato. Il taglio era stato effettuato con una lama spessa e ricurva: un tronchesino. La divisione documentazione aveva inviato il segno inciso nella corteccia al dipartimento di studi asiatici della CIA a Langley. Graham seduto su una cassa da imballaggio lesse il rapporto, piuttosto lungo. Secondo la divisione di studi asiatici, il segno era un carattere cinese che significava "colpiscilo" oppure "colpiscilo in testa", un'espressione usata talvolta nel gioco d'azzardo. Era ritenuta un ideogramma "positivo" o "fortunato". L'ideogramma appariva anche su uno dei pezzi del MahJongg. Indicava il Drago Rosso. 12 Al quartier generale dell'FBI di Washington, Crawford parlava con Graham che gli telefonava dall'aeroporto di Birmingham. Entrò la segretaria che con un cenno richiamò la sua attenzione. «Il dottor Chilton del Chesapeake Hospital sull'interno 2706. Dice che è urgente.» Crawford annuì. «Resta in linea, Will.» Sollevò il ricevitore. «Crawford.» «Sono Frederick Chilton, signor Crawford. Sono...» «Sì, dottore.» «Ho qui un biglietto, o meglio, due biglietti, che sembrano scritti dall'uomo che ha ammazzato quella famiglia ad Atlanta e...» «Da dove vi è arrivato?» «È stato trovato nella cella di Lecter. È scritto su carta igienica — immagini un po' — e ci sono impresse impronte di denti.» «Può leggermelo evitando di toccarlo ulteriormente?» Chilton, sforzandosi di rimanere calmo lesse: Mio caro dottor Lecter,
volevo dirle che sono felice che lei si interessi di me. Poi, quando ho saputo della sua vasta corrispondenza, mi sono chiesto se potevo osare. Ma senz'altro! Non credo che lei dirà a loro chi sono, anche se lo sapesse. A parte questo, il corpo che attualmente mi capita di occupare è cosa di nessuna importanza. Ciò che importa invece è la mia Trasfigurazione. So che solo lei lo può capire. Ho alcune cose che mi piacerebbe moltissimo mostrarle. Un giorno, forse, se le circostanze lo permetteranno. Spero che potremo entrare in corrispondenza... «Signor Crawford, a questo punto c'è un pezzo di carta mancante. Poi prosegue: Da anni non faccio che ammirarla, ho la raccolta completa degli articoli che la riguardano apparsi sulla stampa. A essere sinceri li ritengo prevenuti nei suoi confronti. Come sono prevenuti quelli che riguardano me. Ai giornalisti piace affibbiare soprannomi indegni, non le pare? Il "Lupo Mannaro". Si potrebbe trovare un appellativo più inappropriato? Me ne vergognerei nei suoi confronti, se non sapessi che anche lei è stato vittima delle stesse distorsioni. L'agente Graham mi interessa. Per essere un piedipiatti ha un'aria insolita, non le pare? Non molto bello, ma con un'espressione tenace. Avrebbe dovuto aver imparato da lei a non immischiarsi. Perdoni la carta da lettere. L'ho scelta perché si dissolve molto rapidamente, nel caso lei fosse costretto a inghiottirla. «Qui manca un pezzo, signor Crawford. Le leggo la conclusione: Se sentirò sue notizie, può darsi che la prossima volta le mandi qualcosa di significativo. La saluta il suo avido ammiratore Ci fu silenzio quando Chilton ebbe finito di leggere. «È ancora in linea?» «Sì. Lecter sa che il biglietto è in mano sua?»
«Non ancora. Questa mattina è stato spostato in una cella provvisoria per procedere alla pulizia della sua. L'inserviente per pulire il lavandino invece di usare lo straccio ha usato pezzi di carta igienica presi dal rotolo di Lecter. Ha trovato il biglietto avvolto nel rotolo e me l'ha portato. Mi portano qualunque cosa gli capiti di trovare nascosta.» «Dov'è Lecter in questo momento?» «Sempre nell'altra cella.» «Da dove si trova può vedere la sua?» «Mi lasci pensare... no, no, non può.» «Attenda un secondo, dottore.» Tenne Chilton in attesa fissando per svariati secondi, senza vederli, due tasti che ammiccavano sul telefono. Crawford, pescatore d'uomini, vedeva il galleggiante della sua lenza muoversi contro corrente. Riprese la comunicazione con Graham. «Will... un biglietto, forse del Lupo Mannaro. Era nascosto nella cella di Lecter. Il tono è quello di un ammiratore. Vuole l'approvazione di Lecter, tu lo incuriosisci. Fa domande.» «E in che modo Lecter dovrebbe rispondergli?» «Non lo so ancora. Una parte della lettera è stata strappata, un'altra cancellata. Sembra che la corrispondenza possa continuare finché Lecter non capirà che noi sappiamo. Voglio il biglietto per il laboratorio e voglio buttare all'aria la sua cella, ma è rischioso. Se Lecter mangia la foglia chi ti dice che non avverta quel bastardo? Ci serve che continuino a comunicare, ma ci serve anche il biglietto.» Spiegò a Graham dov'era custodito Lecter e com'era stato trovato il biglietto. «Il manicomio è a centotrenta chilometri da qui. Non posso aspettarti, amico. Cosa ne pensi?» «Dieci morti in un mese: non possiamo giocare la partita per corrispondenza. Io dico di correre a prenderlo.» «Vado» disse Crawford. «Ci vediamo tra due ore.» Crawford fece un cenno alla segretaria. «Tesoro, ordina un elicottero. Voglio il primo che arriva, non m'importa di chi è — se nostro, della polizia, o dei marines. Mi troverò sul tetto fra cinque minuti. Chiama la sezione documenti, digli di portar su un laboratorio portatile. Di' a Herbert di mettere insieme una squadra perquisizioni. Sul tetto. Tra cinque minuti.» Riprese la linea di Chilton. «Dottor Chilton, dobbiamo perquisire la cella di Lecter senza che lui venga a saperlo. Ci serve il suo aiuto. Ha parlato a qualcuno di questa fac-
cenda?» «No.» «Dov'è l'uomo delle pulizie che ha trovato il biglietto?» «Qui nel mio ufficio.» «Per favore, lo trattenga lì, gli dica di starsene zitto. Da quanto tempo Lecter è fuori dalla sua cella?» «Da mezz'ora più o meno.» «È passato più del solito?» «No, non ancora. Ma per le pulizie ci vuole una mezz'ora circa. Tra poco comincerà a chiedersi cos'è successo.» «Okay, mi faccia un piacere: chiami il responsabile dei servizi, il tecnico, chiunque sia. Gli dica di chiudere l'acqua in tutto l'edificio e di staccare l'interruttore generale nel raggio di Lecter. Faccia passare il responsabile con degli utensili. Gli dica che deve fingere di aver fretta, mostrarsi scocciato, troppo preso per rispondere alle domande... capito? Dica che gli spiegherò io. Annulli il giro del camion della raccolta delle immondizie per oggi, se per caso non è già venuto. Non tocchi il biglietto, okay? Stiamo arrivando.» Chiamò il capo sezione del laboratorio analisi scientifiche. «Brian, c'è un biglietto che sta per arrivare in volo. Probabilmente è del Lupo Mannaro. Precedenza immediata. Deve tornare dov'è stato trovato nel giro di un'ora, senza segni, capelli e fibre, impronte latenti. Ti dispiace coordinare tutto con loro?... sì. Vengo lì io a portartelo.» Nell'ascensore, quando Crawford scese dal tetto con il biglietto, faceva caldo — i ventidue gradi obbligatoli negli edifici governativi. Arrivò alla sezione capelli e fibre asciugandosi il sudore dal viso, tutto scompigliato dal vento delle pale dell'elicottero. La sezione capelli e fibre è una piccola divisione tranquilla e indaffarata, del laboratorio analisi scientifiche. L'unico locale è pieno di scatole contenenti prove inviate dalla polizia di tutto il paese: pezzi di nastro adesivo usati come bavaglio o come legaccio per i polsi, tessuti laceri e macchiati, lenzuola in cui è morto qualcuno. Crawford vide Beverly Katz attraverso la finestra di un laboratorio mentre si faceva strada tra le scatole. Sopra un tavolo, coperto da un foglio bianco, era appesa una tutina da bambino. Beverly, lavorando sotto una grossa lampada, raschiava la tuta con una spazzola di metallo, in un senso e nell'altro. Sulla carta cadde un pochino di sabbia e di polvere, e insieme, calando nell'aria immobile, più lento della sabbia ma più veloce della pol-
vere, un capello arrotolato. La donna si chinò sulla carta osservandolo con gli occhi lucenti, da uccello. Crawford la vide muovere le labbra. Sapeva cosa stava dicendo. «Ti ho trovato.» Diceva sempre così. Crawford batté un dito sul vetro e Beverly Katz uscì immediatamente, togliendosi i guanti bianchi. «Non è stato ancora fotografato, vero?» «No.» «Sono pronta per gli esami nella stanza qui vicino.» Infilò un paio di guanti puliti mentre Crawford apriva la valigetta diplomatica. Il biglietto, in due pezzi, era chiuso tra due fogli di plastica. Beverly Katz vide l'impronta dei denti e lanciò un'occhiata a Crawford, senza perder tempo in domande. Crawford annuì: l'impronta era uguale a quella del morso dell'assassino che si era portato al Chesapeake Hospital per un primo confronto. Crawford rimase a osservarla attraverso il vetro. La vide appendere i biglietti su un graticcio sottile sopra un foglio di carta bianca esaminarli con una grossa lente di ingrandimento poi sventolarli con delicatezza. Picchiettò con la lama di una spatola il graticcio e scrutò con la lente d'ingrandimento la carta sotto. Crawford diede un'occhiata all'orologio. Beverly Katz posò il biglietto rovesciato su un altro graticcio; dalla superficie tolse qualcosa con un paio di pinzette sottili come un capello. Fotografò con un grosso rapporto d'ingrandimento i margini lacerati del biglietto, poi lo rimise nella custodia, aggiungendo anche un paio di guanti bianchi puliti. I guanti bianchi, che indicavano di non toccare i biglietti con le mani, li avrebbero accompagnati fino all'analisi per la ricerca di impronte digitali. «Eccolo qui» disse, restituendo la scatola a Crawford. «Un capello, meno di un millimetro di lunghezza. Un paio di granellini blu. Vedrò di cosa si tratta. Che altro hai portato?» Crawford le consegnò tre buste sigillate. «Capelli presi dalla spazzola di Lecter. Peli dei baffi presi dal rasoio elettrico che gli lasciano usare. E questi sono i peli e capelli dell'incaricato delle pulizie.» «Ci vediamo poi» disse Beverly Katz. «Mi piacciono moltissimo i tuoi, di capelli.»
Jimmy Price della sezione impronte latenti fece una smorfia quando vide la carta igienica porosa. Socchiudendo gli occhi guardò sopra la spalla del tecnico addetto al laser all'eliocadmio mentre cercavano di far apparire per fluorescenza le impronte, se c'erano. Apparvero piccole chiazze luminose — macchie di sudore — nient'altro. Crawford fece per domandargli qualcosa, poi cambiò idea e attese. La luce azzurra del laser si rifletteva sulle lenti dei suoi occhiali. «Quelli che l'hanno toccato senza guanti sono tre, vero?» chiese Price. «Sì, l'addetto alle pulizie, Lecter e Chilton.» «Il tipo che puliva i cessi probabilmente non aveva grasso sulle mani. Ma gli altri... è terribile questo affare.» Price mise il biglietto controluce, tenendolo con una pinzetta. Le sue mani, mani da vecchio, non tremavano. «Potrei sottoporlo ai vapori di iodio, ma non garantisco che le macchie poi se ne vadano, nel poco tempo che hai.» «E con la ninidrina? Attivandola con il calore?» In situazioni normali Crawford non si sarebbe avventurato a dar suggerimenti tecnici a Price, ma ormai si aggrappava a qualunque cosa. Aspettava una risposta brusca, ma il tono di Price fu triste e sconsolato. «No. Dopo non potremmo più lavarla via. Non posso tirarti fuori un'impronta, Jack. Non ce ne sono.» «Vaffanculo» disse Crawford. Il vecchio si voltò. Crawford gli posò una mano sulla spalla ossuta. «Al diavolo, Jimmy. Se c'era un'impronta, l'avresti trovata.» Price non gli rispose. Si era già messo a scartare un altro pacchetto che conteneva un paio di mani. Nel contenitore dei rifiuti fumava del ghiaccio secco. Crawford vi buttò i guanti bianchi. Con un nodo allo stomaco per il disappunto Crawford si affrettò verso la sezione documenti dove lo attendeva Lloyd Bowman. Bowman era stato strappato da un tribunale e l'improvviso cambiamento lo aveva sconcertato. Ammiccava come se l'avessero appena svegliato. «Congratulazioni per la tua nuova pettinatura. Sei coraggioso» disse Bowman prendendo con movimenti rapidi e precisi il biglietto e posandolo sul piano di lavoro. «Quanto tempo ho?» «Venti minuti al massimo.» I due pazzi di carta, sotto le lampade di Bowman, sembravano risplendere di luce propria. La carta assorbente verde scura che copriva il piano di
lavoro appariva attraverso il buco oblungo dai contorni frastagliati della prima parte del messaggio. «La cosa più importante, la prima cosa, è sapere in che modo dovrebbe rispondere Lecter» disse Crawford quando Bowman ebbe finito di leggere. «Le istruzioni per la risposta probabilmente si trovano nel pezzo mancante.» Bowman parlava trafficando contemporaneamente con le luci, i filtri, la macchina fotografica. «Qui sopra dice "spero che potremo scambiarci corrispondenza..." poi c'è il buco. Lecter l'ha cancellato con un pennarello, poi l'ha piegato e ne ha strappato la maggior parte.» «Non ha niente con cui tagliare.» Bowman fotografò le impronte dei denti e il verso del biglietto sotto luce radente. La sua ombra balzava da parete a parete mentre faceva ruotare di 360° la lampada intorno al biglietto. Le mani si muovevano nell'aria come fantasmi. «E adesso lo sciupiamo un pochino.» Mise il biglietto tra due lastre di vetro per appiattire il contorno frastagliato della parte mancante. I brandelli erano sporchi di inchiostro rosso. Canticchiava sottovoce. Solo la terza volta Crawford riuscì a capire cosa stava dicendo. «Sei tanto furbo, ma lo sono anch'io.» Sostituì i filtri di una piccola telecamera e mise a fuoco l'obiettivo sul biglietto. Spense le luci nella stanza. Rimasero solo quella rosso cupa di una lampada e quella blu verdastra del monitor televisivo. Le parole "spero che potremo scambiarci corrispondenza" e la parte mancante apparvero ingrandite sullo schermo. La macchia d'inchiostro era scomparsa e vicino ai bordi apparvero frammenti di parole. «L'anilina contenuta negli inchiostri colorati è evidente agli infrarossi» spiegò Bowman. «Queste — qui e qui — potrebbero essere le punte di due T. Qui, verso la fine, c'è la coda di quella che potrebbe essere una M o una N o magari anche una R.» Bowman scattò una fotografia e riaccese le luci. «Jack, tra due persone ci sono solo due modi per comunicare se uno dei due non può ricevere corrispondenza: il telefono e la pubblicazione di messaggi. Lecter può ricevere telefonate urgenti?» «Può ricevere telefonate, ma è un sistema lento, e poi deve passare attraverso il centralino dell'ospedale.» «Allora l'unico metodo sicuro è la pubblicazione.» «Sappiamo che questo angioletto legge il "Tattler": era lì che hanno scritto quella roba su Graham e su Lecter. Che io sappia non ne hanno parlato su nessun altro giornale.»
«In "Tattler" ci sono tre T e una R. La colonna degli annunci personali? Potrebbe essere un posto dove guardare.» Crawford chiamò immediatamente la biblioteca dell'FBI, poi telefonò all'ufficio di Chicago e diede istruzioni. Bowman finì gli esami e gli restituì la busta di plastica. «Il "Tattler" esce questa sera» disse Crawford. «Lo stampano a Chicago il lunedì e il giovedì. Ci faremo dare le bozze degli annunci personali.» «Dovrei trovare qualche altro indizio... roba da poco, credo» disse Bowman. «Spediscilo di corsa a Chicago. Fammi sapere, quando ritorno dal manicomio» disse Crawford uscendo. 13 Il cancelletto girevole della stazione centrale della metropolitana di Washington risputò il biglietto di Graham che uscì nella calura del pomeriggio reggendo la borsa da viaggio. Nella Decima Strada il J. Edgar Hoover Building appariva sfuocato nella calura. Il trasloco dell'FBI nella nuova sede era ancora in corso quando Graham se n'era andato da Washington. Non aveva mai avuto occasione di lavorare lì. Crawford lo aspettava al cancello dell'accesso sotterraneo per aggiungere i propri documenti a quelli frettolosamente preparati per Graham. Graham aveva un'aria stanca e affrontò con impazienza la trafila di firme. Crawford si chiese come dovesse sentirsi, sapendo che l'assassino pensava a lui. Gli venne consegnato un tesserino magnetico come quello che Crawford portava sulla giacca. Graham lo infilò nel cancelletto e si ritrovò in un lungo corridoio bianco. Crawford gli portava la borsa da viaggio. «Ho dimenticato di dire a Sarah di farti venire a prendere in macchina.» «Probabilmente così ci ho messo di meno. Il biglietto è stato rimesso a posto? Nessun problema?» «Nessuno» rispose Crawford. «Mi sono limitato a riportarlo dov'era. Abbiamo allagato il pavimento del raggio. Una finta perdita, con corto circuito. Avevamo lì Simmons — adesso è vicedirettore dell'ufficio di Baltimora — l'abbiamo messo ad asciugare il pavimento quando hanno riportato Lecter in cella. È convinto che l'abbia bevuta.» «In aereo continuavo a domandarmi se per caso non era stato Lecter a
scriverlo.» «Ci ho pensato anch'io finché non l'ho visto. I segni dei denti sulla carta sono uguali a quelli trovati sui corpi delle donne. E poi è scritto con una penna a sfera: Lecter non ne ha. Chi l'ha scritto aveva letto il "Tattler", mentre Lecter non ha nessuna copia del "Tattler". Rankin e Willingham hanno fatto passare la cella da cima a fondo. Un lavoro splendido, ma non hanno trovato un bel niente. Prima hanno scattato delle Polaroid per poter rimettere tutto a posto. Poi è entrato l'uomo delle pulizie che ha fatto quello che fa di solito.» «Quindi tu che cosa pensi?» «Per quanto riguarda le possibilità di identificazione, il biglietto non serve a un accidente» disse Crawford. «Dobbiamo riuscire in qualche modo a far lavorare a nostro favore il contatto, ma in questo momento proprio non saprei come. Tra qualche minuto arriva il resto degli esami di laboratorio.» «Posta e telefono dell'ospedale sono controllati?» «Viene registrato tutto quello che dice al telefono. Sabato pomeriggio ha fatto una telefonata. A Chilton ha detto che chiamava il suo avvocato. Purtroppo era una linea a chiamata diretta, non siamo sicuri che l'abbia realmente fatto.» «E il suo avvocato cos'ha detto?» «Niente. Per il futuro Lecter chiamerà su una linea riservata, così non ci fregherà più. Controlleremo tutta la sua corrispondenza, in partenza e in arrivo, a cominciare dalla prossima distribuzione. Grazie al cielo non c'è bisogno di mandati.» Crawford si avvicinò ad una porta e infilò in una fessura il tesserino appeso alla giacca. «Il mio ufficio nuovo. Entra. All'arredatore doveva essere avanzata della vernice di una nave da guerra. Ecco la copia del biglietto. Le dimensioni sono quelle dell'originale.» Graham lo scorse due volte. Quando lesse il suo nome sentì un ronzio acuto in testa. «La biblioteca conferma che l'articolo che parla di Lecter e di te è uscito solo sul "Tattler"» disse Crawford preparandosi un alka-seltzer. «Ne vuoi uno? Meglio per te. È stato pubblicato lunedì sera, una settimana fa. È apparso in edicola in tutto il paese martedì; in alcune zone — Alaska, Maine e qualche altro posto — solo il mercoledì. Il Lupo Mannaro non può averlo letto prima di martedì. Poi ha scritto a Lecter. Rankin e Willingham stanno facendo passare i rifiuti dell'ospedale per cercare la busta. Brutto lavoro.
Al Chesapeake buttano via insieme carta e pannolini sporchi.» «Comunque, Lecter non riceve il biglietto prima di mercoledì. Strappa la parte relativa alla risposta e cancella un accenno in una riga precedente... non so perché non abbia asportato anche quella.» «Era in un paragrafo pieno di complimenti» disse Graham. «Non è stato capace di rovinarli. Ecco perché non ha buttato via tutto.» Si strofinò le tempie con le nocche. «Bowman è convinto che Lecter cercherà di rispondere attraverso il "Tattler". Secondo lui i due si sono accordati in quel senso. Credi che gli risponderà?» «Senz'altro. È un grafomane. Amicizie epistolari dappertutto.» «Se usano il "Tattler", Lecter deve aver avuto appena appena il tempo di far inserire la risposta nel numero che stampano stasera, anche se l'ha inviata per espresso il giorno che gli è arrivato il biglietto. Chester dell'ufficio di Chicago è andato al "Tattler" a controllare le inserzioni. E proprio in questo momento il giornale è in composizione.» «Speriamo in Dio che quelli del "Tattler" non si insospettiscano» disse Graham. «IL capo tipografo crede che Chester sia un agente immobiliare che vuole vedere in anticipo le inserzioni. Gli vende le bozze sottobanco, una a una, a mano a mano che escono. Ce le facciamo dare tutte, tutte quelle degli annunci a pagamento, tanto per fare un po' di fumo. Bene, se riusciamo a scoprire come deve rispondere Lecter, possiamo imitare il metodo e mandare un messaggio falso al Lupo Mannaro... Ma cosa gli diciamo? In che modo lo utilizziamo?» «La cosa più ovvia è quella di cercare di convincerlo a lasciare un recapito» disse Graham. «Farlo abboccare con qualcosa che gli piacerebbe vedere. "Fatti importanti" di cui Lecter è al corrente per avermi parlato. Un qualche errore che lui ha commesso e che noi ci aspettiamo che ripeta.» «Sarebbe un idiota se ci cascasse.» «Lo so. Vuoi sapere quale sarebbe l'esca migliore?» «Non sono sicuro di volerlo sapere.» «L'esca migliore sarebbe Lecter.» «E come?» «Sarebbe un casino mettere in piedi la cosa, lo so. Potremmo farci consegnare Lecter — Chilton al Chesapeake non ci lascerebbe fare — e tenerlo chiuso in condizioni di massimo isolamento in un ospedale psichiatrico militare. Poi fingeremmo che sia fuggito.»
«Oh, Gesù.» «Una settimana dopo la "grande fuga" mandiamo un messaggio al Lupo Mannaro. Lecter chiede un appuntamento.» «Ma perché diavolo uno dovrebbe aver voglia di incontrare Lecter? Voglio dire, anche se è il Lupo Mannaro.» «Per ucciderlo, Jack» Graham si alzò in piedi. Non c'erano finestre da cui guardare fuori parlando. Si fermò davanti al manifesto delle dieci persone più ricercate d'America, l'unico elemento decorativo dell'ufficio. «Vedi, in questo modo potrebbe assorbirlo, inglobarlo: diventare migliore di lui.» «Mi sembri piuttosto sicuro.» «Sbagli. Chi può esserne sicuro? Nel biglietto c'è scritto "ho alcune cose che mi piacerebbe moltissimo mostrarle. Un giorno, forse, se le circostanze lo permetteranno". Magari si tratta di un invito autentico. Non credo che sia semplicemente una forma di cortesia.» «Chissà cosa deve fargli vedere. Le vittime erano intatte. Non mancava nulla, solo un po' di pelle e di capelli che probabilmente erano stati... che parola ha usato Bloom?» «Ingeriti» disse Graham. «Sa Dio che cos'ha. Tremont. Te li ricordi i costumi di Tremont a Spokane? L'avevano legato a una barella e lui li indicava col mento, perché voleva farli vedere ai poliziotti. Non sono sicuro che Lecter riesca ad attirare allo scoperto il Lupo Mannaro, Jack. Dico solo che è il miglior tentativo che possiamo fare.» «Si diffonderebbe un panico incredibile se la gente pensasse che Lecter è scappato. I giornali ci darebbero addosso. Sarà anche il miglior tentativo, ma è meglio tenerlo per ultimo.» «Probabilmente non si avvicinerebbe alla cassetta fermo posta, però potrebbe avere la curiosità di guardare da lontano, per vedere se Lecter l'ha venduto. Se potesse farlo da una certa distanza. Dovremmo scegliere un posto che si possa tenere sotto osservazione solo da pochi punti distanti e tenerli sotto controllo.» La soluzione gli sembrava fiacca già mentre la diceva. «Il servizio segreto ha un posto che non ha mai usato. Dovrebbero lasciarcelo usare. Se però non mettiamo un avviso oggi, dobbiamo aspettare lunedì prossimo prima che esca il numero successivo. Le rotative partono alle cinque, ora di Washington. A Chicago hanno ancora un'ora e un quarto per far saltar fuori l'annuncio di Lecter, se esiste.» «E per quanto riguarda l'ordine di Lecter di pubblicare l'annuncio... non
potremmo averlo più in fretta?» «Quelli di Chicago si sono messi in contatto con il caporeparto, tenendosi un po' sulle generali» rispose Crawford. «La posta la tengono nell'ufficio del responsabile della pubblicità. Vendono nomi e indirizzi alle ditte che vendono prodotti per gente sola, filtri d'amore, pillole afrodisiache, trafficanti di materiale pomo, roba tipo "conoscete splendide fanciulle asiatiche", corsi di formazione della personalità, e simili. «Potremmo far appello al senso sociale del direttore della pubblicità e riuscire a dare un'occhiata, dicendogli di tenere la bocca chiusa. Però non voglio correre il rischio che il "Tattler" ci sbrodoli tutto addosso. Ci vorrebbe un mandato per perquisirgli gli uffici e sequestrargli la posta. Ci sto pensando.» «Se non salta fuori niente a Chicago, potremmo mettere comunque un annuncio. Se ci siamo sbagliati, riguardo al "Tattler" non ci perdiamo niente» suggerì Graham. «E se invece abbiamo ragione e mettiamo insieme una risposta basata su quello che c'è in questo biglietto e mandiamo tutto a puttane — cioè se la cosa gli puzza — finiamo giù per il cesso. Non ti ho chiesto di Birmingham. Trovato qualcosa?» «A Birmingham è calata la saracinesca, ormai. La casa degli Jacobi è stata ridipinta e messa in vendita. La loro roba è finita in magazzino. Ho controllato le casse. Quelli con cui ho parlato non conoscevano molto bene gli Jacobi. L'unica cosa che hanno detto tutti è che marito e moglie erano molto affettuosi tra di loro. Si accarezzavano sempre. E adesso di loro sono rimasti solo quattro cassoni di roba in magazzino. Avrei voluto...» «Smettila di volere questo e quello, adesso ci sei dentro.» «E il segno inciso sull'albero?» «"Colpiscilo in testa"? A me non dice un bel niente» disse Crawford. «E neanche il Drago Rosso. Beverly conosce il Mah-Jong. È perspicace, ma non riesce a capire. Dai capelli sappiamo che non è cinese.» «Ha tagliato il ramo con un tronchesino. Non vedo...» Squillò il telefono. Crawford disse poche parole. «Sono pronte le analisi, Will. Andiamo nell'ufficio di Zeller. È più grande e un po' meno grigio.» Lloyd Bowman, asciutto come un documento malgrado il caldo, li incontrò nel corridoio. Sventolava con ambedue le mani delle fotografie bagnate e sottobraccio stringeva un fascio di fotocopie. «Jack, devo essere in tribunale alle quattro e un quarto» disse filando via. «È per quel falsario,
Nilton Eskew, e la sua bella, Nan. È una capace di disegnare un biglietto di banca a mano libera. Mi hanno fatto diventare matto per due anni facendosi i traveller's checks con una fotocopiatrice a colori. Non torno a casa senza di loro. Faccio a tempo o devo telefonare al pubblico ministero?» «Ce la fai» disse Crawford. «Siamo arrivati.» Beverly Katz seduta sul divano dell'ufficio di Zeller, sorrise a Graham, controbilanciando il cipiglio di Price, che le sedeva accanto. Il capo della sezione analisi scientifiche, Brian Zeller, era giovane per la carica che ricopriva, ma stava già perdendo i capelli e portava un paio di occhiali con le lenti bifocali. Nella libreria alle sue spalle Graham vide il manuale di scienza della medicina legale di H.J. Walls, il grande trattato Medicina legale in tre volumi di Tedeschi e un'edizione antica di The Wreck of the Deutschland di Hopkins: «Will, credo che ci siamo già incontrati una volta» disse. «Conosci tutti?... Benissimo.» Crawford si appoggiò a braccia incrociate alla scrivania di Zeller. «Qualcuno di voi ha fatto il colpaccio? D'accordo, avete trovato qualcosa che indica che il biglietto non è stato scritto dal Lupo Mannaro?» «No» disse Bowman. «Ho parlato con Chicago cinque minuti fa per comunicare dei numeri che ho trovato impressi sul verso del biglietto. Seisei-sei. Ve li faccio vedere quando arriviamo al punto. Per il momento quelli di Chicago hanno per le mani più di duecento messaggi personali.» Allungò a Graham un fascio di fotocopie teletrasmesse. «Le ho lette. La solita roba: offerte di matrimonio, appelli a persone scappate. Se è tra queste non so come faremo a riconoscerlo.» Crawford scosse la testa. «Non lo so nemmeno io. Proviamo a vedere con le tracce concrete. Jimmy Price ha fatto tutto il possibile ma non ha trovato impronte. Tu hai trovato qualcosa, Bev?» «Il frammento di un baffo. Peso specifico e diametro sono uguali ai campioni di Hannibal Lecter. È uguale anche il colore, nettamente diverso dai campioni trovati a Birmingham e ad Atlanta. Tre granellini blu e delle macchiette scure le ho passate a Brian.» Lo indicò con un cenno delle sopracciglia. «I granuli erano quelli di un normalissimo detersivo commerciale contenente cloro» spiegò questi. «Devono essere caduti dalle mani dell'addetto alle pulizie. C'erano anche alcune minutissime particelle di sangue rappreso. È senz'altro sangue, ma non basta per stabilire di che gruppo è.» «Le lacerazioni alla fine del biglietto non seguono esattamente le perfo-
razioni» proseguì Beverly Katz. «Se troviamo il rotolo in mano a qualcuno, e se non è stato più usato, possiamo fare un confronto. È il caso di mandare in giro una segnalazione, così gli agenti che dovessero arrestarlo si ricorderanno di cercare il rotolo.» Crawford annuì. «Bowman?» «Sharon, che lavora nel mio ufficio, ha cercato di scoprire che tipo di carta è. Carta igienica di quella usata sulle barche e nei camper. La qualità è identica a quella della marca Wedeker, fabbricata a Minneapolis. La distribuiscono in tutti gli Stati Uniti.» Bowman allineò le fotografie su un telaio vicino alla finestra. Aveva una voce stranamente profonda, per un ometto come lui; il cravattino a farfalla, quando parlava, si muoveva leggermente. «Dalla calligrafia si può dire che è una persona che di solito scrive con la destra e che, in questa occasione, si è servito della sinistra e ha volutamente usato le maiuscole. Potete vedere che la scrittura è incerta e che le lettere non sono tutte delle stesse dimensioni. «Le proporzioni poi mi fanno pensare che il nostro uomo sia leggermente astigmatico.» «L'inchiostro sui due pezzi del biglietto sotto la luce naturale sembra appartenere alla stessa penna ma sotto un filtro colorato si nota una leggera differenza. Ha usato due penne, deve aver cambiato nella parte del biglietto mancante. Potete vedere qui dove la prima penna ha cominciato a scrivere male. Non doveva essere stata usata spesso: vedete che ha lasciato una macchia all'inizio? Può darsi che sia stata tenuta con la punta in basso, senza cappuccio, in un portapenne o in un vasetto, il che fa pensare a una scrivania. E poi la superficie su cui è stata appoggiata la carta è abbastanza morbida da far pensare che sia carta assorbente. Se la ritrovassimo potrebbero esserci rimasti i segni. Aggiungerò anche queste indicazioni al rapporto di Beverly.» Bowman passò a una foto del verso del biglietto. L'immagine era stata molto ingrandita e la superficie della carta risultava molto irregolare. Appariva l'ombra dei segni lasciati dalla pressione della penna. «Per scrivere l'ultima parte ha ripiegato il biglietto, e sotto è rimasta la parte che in seguito è stata strappata. Questo ingrandimento, ripreso sotto luce obliqua, mostra alcune impressioni. Possiamo riconoscere "666 an." Forse è qui che la penna ha cominciato a scrivere male per cui ha dovuto ripassarci sopra. Sono riuscito a riconoscerlo solo con una stampa molto contrastata. Per il momento non abbiamo trovato annunci con le cifre 666.»
«La struttura delle frasi è ordinata, non ci sono incoerenze. Da come è stato piegato il biglietto si può pensare che sia stato spedito in una busta normale. Queste due zone scure sono macchie lasciate da inchiostro di stampa. È probabile che il biglietto sia stato messo all'interno di un'innocentissima rivista. «E questo è tutto» concluse Bowman. «Se non hai domande, Jack, vorrei scappare in tribunale. Torno qui dopo aver testimoniato.» «Inchiodali» disse Crawford. Graham esaminò la colonna degli annunci personali sul "Tattler" ("Signora attraente e formosa, cinquantaduenne ma giovanile, cerca cristiano, Leone, non fumatore, 40-70enne, senza figli. Bene accetti anche mutilati. Perditempo astenersi. Necessaria foto".) Preso dalle sofferenze e dalla disperazione che gli annunci rivelavano, non si accorse che tutti gli altri se ne stavano andando finché Beverly Katz gli rivolse la parola. «Spiacente, Beverly. Cosa dicevi?» Guardò gli occhi luminosi e il viso, gentile e segnato. «Dicevo solo che mi fa piacere rivederti qui. Hai un bell'aspetto.» «Grazie.» «Saul sta seguendo un corso di cucina. Per adesso è ancora nella fase iniziale ma appena si calmano un po' le acque vieni a trovarci, così potrà fare pratica su di te.» «Verrò senz'altro.» Zeller tornò al suo laboratorio. Rimasero solo Crawford e Graham. Controllarono l'ora. «Tra quaranta minuti il "Tattler" va in macchina» disse Crawford. Vado e mi faccio dare la posta. Cosa te ne pare?» «Devi farlo.» Crawford informò Chicago dal telefono di Zeller. «Will, dobbiamo essere pronti con un annuncio sostitutivo se facciamo tombola a Chicago.» «Ci penso io.» «Adesso organizzo la buca delle lettere.» Crawford chiamò il servizio segreto e diede istruzioni. Quando posò il ricevitore Graham stava ancora scribacchiando. «Okay, per la buca è una bellezza» annunciò Crawford. «È una cassetta per suggerimenti all'aperto, vicino a un idrante ad Annapolis. Territorio di Lecter. Il Lupo Mannaro dovrebbe capire che è un posto che Lecter conosce. Quelli del servizio segreto vanno là con il messaggio e le istruzioni. Il
nostro uomo può tener d'occhio il posto da un parco che si apre sul lato opposto della strada. Quelli del servizio segreto giurano che il posto ha un'aria innocua. L'avevano organizzato per incastrare un falsario ma poi non ne hanno avuto bisogno. L'indirizzo è questo. E per quanto riguarda il messaggio?» «Dobbiamo mettere due messaggi sullo stesso numero. Nel primo si avverte il Lupo Mannaro che i suoi nemici gli stanno vicini più di quanto non creda. Gli si dice che ad Atlanta ha fatto un grosso sbaglio e che, se lo ripete, è perduto e che Lecter ha spedito per posta delle "informazioni segrete": quelle che io gli ho fatto vedere relativamente a quello che stiamo facendo, agli indizi che abbiamo in mano e così via. Infine diciamo al Lupo Mannaro di cercare un secondo messaggio che inizia con "la tua firma". «Il secondo messaggio comincia con "avido ammiratore..." e indica l'indirizzo della buca per le lettere. Dobbiamo per forza fare così. Anche se il linguaggio è allusivo, l'avvertimento che c'è nel primo messaggio potrebbe incuriosire qualche esaltato. E se questo non riesce a trovare l'indirizzo, può darsi che venga alla buca per le lettere a rovinare tutto.» «Ottimo. Perfetto. Vuoi restare ad aspettare nel mio ufficio?» «Preferirei fare qualcosa. Devo vedere Brian Zeller.» «Fa' pure. Se ho bisogno di te ti recupero in fretta.» Graham trovò il responsabile del laboratorio di sierologia. «Brian, puoi farmi vedere un paio di cose?» «Certo, quali?» «Il campione che hai usato per trovare il gruppo del Lupo Mannaro.» Zeller guardò Graham attraverso le lenti bifocali. «C'era qualcosa che non hai capito, nel rapporto?» «No.» «Qualcosa di poco chiaro?» «No.» «Qualcosa di incompleto?» Zeller pronunciò la parola come se avesse un brutto sapore. «Hai messo giù un rapporto ottimo, non avrei potuto desiderarne uno migliore. Voglio solo tenere in mano le prove.» «Ah, ma certo. Si può fare.» Zeller era convinto che tutti gli agenti addetti alle indagini conservassero le superstizioni dei cacciatori di mestiere. Era dispostissimo ad accontentare Graham. «Siete tutti uguali.» Graham lo seguì tra i banconi del laboratorio, carichi di apparecchiature. «Ho visto che leggi il Tedeschi.»
«Sì» disse Zeller da sopra la spalla. «Qui, come sai, non ci occupiamo di medicina legale, ma sul Tedeschi si trovano un sacco di cose utili. Graham. Will Graham. Sei stato tu a scrivere la monografia sul modo di determinare l'ora della morte basandosi sull'attività degli insetti. Sei tu quel Graham, vero?» «Sì, l'ho scritta io.» Una pausa. «Hai ragione: sul Tedeschi il pezzo di Mant e Nuorteva sugli insetti è ancora il migliore.» Zeller fu sorpreso di sentirgli dire proprio quello che pensava lui. «Be', ci sono più figure e una tabella di onde d'invasione. Senza offesa.» «Certo che no. Sono più bravi. Gliel'ho detto di persona.» Zeller prese da un armadio provette e vetrini e li posò su un tavolo. «Se hai qualcosa da chiedermi mi trovi dove ci siamo incontrati. La luce del microscopio si accende qui di lato.» A Graham il microscopio non serviva. Non aveva dubbi sull'analisi di Zeller. Non sapeva bene cosa voleva. Mise provette e vetrini contro luce, poi guardò anche una bustina trasparente che conteneva due capelli biondi trovati a Birmingham. In una seconda busta c'erano tre capelli scoperti sul corpo della signora Leeds. Sul tavolo davanti a sé aveva sangue, saliva e sperma e il vuoto in cui cercava di materializzare un'immagine, un volto, qualcosa che sostituisse la paura che avvertiva dentro di sé. Dall'altoparlante nascosto nel soffitto arrivò una voce femminile. «Will Graham si rechi urgentemente nell'ufficio dell'agente speciale Crawford.» Trovò Sarah davanti alla macchina per scrivere, con un paio di cuffie in testa. Crawford le guardava da dietro le spalle. «A Chicago hanno trovato un annuncio con il 666» spiegò Crawford senza voltarsi. Lo stanno dettando a Sarah. Dicono che è parzialmente in codice.» Sarah scrisse due righe. Caro Pellegrino, mi ritengo onorato... «È questo. È questo» disse Graham. «Lecter, quando ha parlato con me, l'ha chiamato appunto pellegrino.» sei bellissimo... «Cristo,» esclamò Crawford.
Offro cento preghiere per la tua salvezza. Troverai aiuto in Giovanni 6:22, 8:16, 9:1; Luca 1:7, 3:1; Galati 6:11, 15:2; Atti degli Apostoli 3:3; Apocalisse 18:7; Giona 6:8... Sarah rallentava per ripetere ogni coppia di numeri all'agente che telefonava da Chicago. Quando ebbe finito, l'elenco delle citazioni copriva un quarto di pagina. Era firmata "Che tu sia benedetto, 666". «È tutto» annunciò Sarah. Crawford prese il telefono. «Okay, Chester, com'è andata con il responsabile della pubblicità?... No, hai fatto bene... Non si capisce un bel niente, hai ragione. Resta vicino al telefono, ti richiamo.» «Un codice» osservò Graham. «C'era da aspettarselo. Abbiamo ventidue minuti per trovare un messaggio, se riusciamo a risolverlo. Il capo tipografo ha bisogno di dieci minuti di preavviso e di 300 dollari per infilarlo in questo numero. Bowman si trova nel suo ufficio, hanno rimandato il processo. Telefono all'ufficio crittografia della Langley. Sarah, manda subito un telex all'ufficio crittografia della CIA. Io li avverto che sta arrivando.» Bowman posò il messaggio sulla scrivania e lo allineò esattamente con il piano di carta assorbente. Poi pulì accuratamente le lenti degli occhiali senza montatura. A Graham parve che ci mettesse moltissimo. Bowman aveva la fama di essere uno che non perdeva tempo. Anche quelli della sezione esplosivi lo riconoscevano, e gli perdonavano di non essere un ex marine. «Abbiamo ancora venti minuti» disse Graham. «Capisco. Hai telefonato a Langley?» «L'ha fatto Crawford.» Bowman lesse e rilesse il messaggio, lo guardò al rovescio e di lato, passò le dita lungo i margini del foglio. Quindi prese una Bibbia da uno scaffale. Per cinque minuti si sentì solo il rumore del loro respiro e della velina delle pagine. «No» disse alla fine. «Non ce la facciamo. Meglio usare il tempo che rimane per fare qualcos'altro, se hai qualcos'altro da fare.» Graham gli mostrò una mano vuota. Bowman girò intorno alla scrivania mettendosi di fronte a Graham e si tolse gli occhiali. Sul naso si vedevano due chiazze rosee. «Sei sicuro che questo tuo Lupo Mannaro abbia spedito solo questo biglietto a Lecter?»
«Sì.» «Allora il codice dev'essere piuttosto facile. Devono semplicemente non farsi capire da chi lo legge per caso. Del messaggio mancano solo poco più di sette centimetri, non c'è molto spazio per istruzioni. I numeri non sono quelli del codice carcerario... quello a colpi. Secondo me si basa su un libro.» Crawford si unì a loro. «Un libro?» «Sembrerebbe proprio. Il primo numero, quel "Cento preghiere" potrebbe essere il numero della pagina. Le coppie di numeri potrebbero essere la riga e la lettera. Ma quale libro?» «Non la Bibbia?» chiese Crawford. «No, non è la Bibbia. In un primo momento l'ho pensato anch'io. Mi ha messo fuori strada il "Galati 6:11". Andrebbe bene, ma in realtà è una coincidenza perché poi c'è un "Galati 15:2" e il libro dei Galati ha solo sei capitoli. Lo stesso per Giona 6:8... nel libro di Giona ci sono solo quattro capitoli. Non ha usato la Bibbia.» «Forse il titolo del libro è nascosto nella parte in chiaro del messaggio» suggerì Crawford. Bowman scosse il capo. «Non credo.» «Allora è stato il Lupo Mannaro a indicargli il libro da usare. Deve averlo specificato nel biglietto» intervenne Graham. «Pare proprio che sia così» disse Bowman. «E se torchiassimo Lecter? In un ospedale psichiatrico penso che le droghe...» «Tre anni fa hanno provato a fargli del sodium amytal per scoprire dove aveva seppellito uno studente di Princeton» disse Graham. «Gli ha detto di andare a fare un bagno. E poi se lo spremiamo perdiamo il contatto. Se è stato il Lupo Mannaro a scegliere il libro, doveva sapere che Lecter l'aveva in cella.» «So per certo che non ha ordinato libri e non ne ha chiesti in prestito a Chilton» disse Crawford. «Cos'è uscito sulla stampa a questo proposito, Jack? I libri che Lecter legge.» «Hanno detto che ha libri di medicina, di psicologia, di cucina.» «E allora deve trattarsi di un testo fondamentale, qualcosa che il Lupo Mannaro sa che Lecter ha senz'altro» disse Bowman. «Ci serve un elenco dei libri che ha in cella. Tu ce l'hai?» «No.» Graham si fissò la punta delle scarpe. «Potrei chiamare Chilton... Un momento: quando Rankin e Willingham gli hanno perquisito la cella
hanno preso delle polaroid per poi poter rimettere tutto in ordine.» «Ti spiace chiedergli di venire da me con le foto dei libri?» disse Bowman, riempiendo la borsa. «Dove?» «Alla biblioteca del Congresso.» Crawford chiamò per l'ultima volta l'ufficio crittografico della CIA. Il computer di Langley cercava di elaborare una serie incredibile di griglie alfabetiche. Nessun risultato. Il crittografo fu d'accordo con Bowman: probabilmente il codice era basato su un libro. Crawford guardò l'orologio. «Will, ci restano tre possibilità. Dobbiamo decidere immediatamente. Possiamo non far pubblicare il messaggio di Lecter. Possiamo sostituirlo con nostri messaggi in chiaro e invitare il Lupo Mannaro ad andare alla buca delle lettere. Oppure possiamo lasciar pubblicare l'annuncio di Lecter così com'è.» «Sei sicuro che siamo ancora a tempo a non farlo pubblicare?» «Chester è sicuro che il capo della tipografia lo cancella per 500 dollari, più o meno.» «Non vorrei mettere un messaggio in chiaro, Jack. Probabilmente chiuderebbe il contatto con Lecter.» «Già. Ma non mi va l'idea di far circolare l'annuncio di Lecter senza sapere cosa dice» obiettò Crawford. «Cosa potrebbe dirgli che già non sa? Se ha scoperto che abbiamo un'impronta parziale del pollice e che le sue impronte non si trovano in nessun archivio, potrebbe tagliarsi i pollici, togliersi la dentiera e farci un gran sorriso a tutte gengive in tribunale.» «Nel riassunto che ho dato a Lecter, dell'impronta del pollice non si parlava. Meglio far uscire l'annuncio. Per lo meno così incoraggiamo il Lupo Mannaro a scrivergli di nuovo.» «E se lo incoraggiasse a fare qualche altra cosa?» «Staremmo male per un bel po'» concluse Graham. «Comunque dobbiamo farlo.» Un quarto d'ora dopo a Chicago la grande rotativa del "Tattler" si mise in moto, salì a regime finché il rombo non fece sollevare la polvere dal pavimento della tipografia. L'agente dell'FBI che aspettava tra l'odor di carta e di inchiostro prese una delle prime copie. In prima pagina c'erano i titoli degli articoli più importanti. "Trapianto della testa!" e poi "Gli astronomi vedono Dio!" L'agente controllò che l'annuncio di Lecter fosse regolarmente apparso e
infilò il giornale in una busta pronta per essere spedita a Washington. Avrebbe rivisto quella copia e ricordato l'impronta lasciata dal suo pollice sulla prima pagina... ma questo sarebbe accaduto anni dopo, quando avrebbe portato i figli al museo criminale, durante una visita alla sede centrale dell'FBI. 14 Nell'ora che precede l'alba Crawford si svegliò da un sonno profondo. Aprì gli occhi nella stanza, al buio, e sentì il grosso seno della moglie comodamente posato contro la sua schiena. Non capì come mai si era svegliato, finché il telefono non squillò una seconda volta. Afferrò il ricevitore. «Jack, parla Lloyd Bowman. Ho risolto il codice. È bene che tu lo sappia subito.» «D'accordo, Lloyd.» Cercò con i piedi le pantofole. «Dice: Casa di Graham Marathon, Florida. Salvati. Ammazzali tutti.» «Maledizione. Meglio che mi muova.» «Lo so.» Crawford entrò nello studio senza prendere la vestaglia. Telefonò due volte in Florida, una volta all'aeroporto, poi a Graham in albergo. «Will, Bowman è riuscito a decifrare il messaggio.» «Cosa dice?» «Te lo spiego tra un attimo. Adesso Stammi a sentire. È tutto a posto. Me ne sono già occupato io, quindi non spaventarti quando te lo dico.» «Dimmelo subito.» «È il tuo indirizzo di casa. Lecter ha comunicato a quel bastardo il tuo indirizzo. Un momento, Will. Lo sceriffo di Marathon ha appena mandato due auto a Sugarloaf e da Marathon una lancia della guardia costiera sorveglia la casa dal mare. Il Lupo Mannaro in così poco tempo non può aver fatto nulla. Non fare nessuna mossa. Puoi agire più in fretta se ti do una mano io. E adesso ascolta. «Gli agenti dello sceriffo non faranno spaventare Molly. Le auto si limitano a bloccare la strada che porta alla casa e due agenti si avvicineranno in modo da tenerla d'occhio. La puoi avvertire personalmente quando si sveglia. Passo a prenderti tra mezz'ora.» «Non mi troverai qui.» «Il primo aereo per la Florida parte alle otto. Ci metteremo di meno a farli venire qui. Gli metto a disposizione la casa di mio fratello sul Chesa-
peake. Ho un ottimo piano, Will, te lo dico appena ci vediamo. Se non sei d'accordo, ti metto io sull'aereo.» «Devo prendere qualcosa in armeria.» «Ti ci porto io direttamente.» Molly e Willy furono tra i primi a scendere dall'aereo al National Airport di Washington. Molly riconobbe Graham in mezzo alla folla. Non sorrise ma si voltò verso Willy e gli disse qualcosa mentre, camminando in fretta, precedevano la fila di turisti di ritorno dalla Florida. Fece scorrere lo sguardo su Graham, gli si avvicinò dandogli un bacio leggero. Le dita abbronzate, fredde, gli toccarono la guancia. Graham sentì addosso lo sguardo del bambino. Willy gli strinse la mano a braccio teso. Graham fece una battuta sul peso della valigia di Molly. «La porto io» disse Willy. Una Chevrolet marrone targata Maryland si accodò a loro mentre uscivano dal parcheggio. Graham attraversò il ponte che portava ad Arlington e indicò il mausoleo di Lincoln, quello di Jefferson e il monumento a Washington, prima di puntare verso est in direzione della baia di Chesapeake. A una quindicina di chilometri da Washington la Chevrolet marrone si affiancò alla loro macchina sulla corsia di destra. Il conducente li guardò con una mano all'altezza della bocca e dal nulla nell'auto si materializzò una voce rauca. «Fox Edward, tutto a posto. Buon viaggio.» Graham prese da sotto il cruscotto il microfono nascosto. «Ricevuto, Bobby. Tante grazie.» L'autista della Chevrolet rallentò e fece lampeggiare la freccia. «Per essere sicuri che non ci seguano giornalisti o roba del genere» spiegò Graham. «Capito» disse Molly. Si fermarono a pomeriggio inoltrato per mangiare un piatto di granchi in un ristorante sulla strada. Willy andò a guardare la vasca delle aragoste. «Non mi va proprio questa storia, Molly. Mi spiace» disse Graham. «Adesso dà la caccia a te?» «Non abbiamo nessun motivo per crederlo. Lecter si è limitato a suggerirglielo. Lo spinge a farlo.» «Dà una brutta sensazione.» «Lo so. A casa del fratello di Crawford tu e Willy siete al sicuro. Non lo
sa nessuno, salvo io e Crawford.» «Per il momento preferirei non parlare di Crawford.» «È un bel posto, vedrai.» Molly respirò a fondo e quando vuotò i polmoni la rabbia parve sfuggire insieme al respiro, lasciandola esausta e tranquilla. Apparve un sorriso incerto. «Accidenti, giù a casa per un po' non ci ho visto più dalla rabbia. Abbiamo qualche Crawford tra i piedi?» «Nemmeno per sogno.» Scostò il cestino del pane per prenderle la mano. «Quanto ne sa Willy?» «Sa molto. La madre del suo amico Tommy aveva portato dal supermercato uno di quei giornalacci e Tommy gliel'ha fatto vedere. C'erano un sacco di cose sul tuo conto, evidentemente molto distorte. Diceva di Hobbs, del posto dove sei finito dopo, di Lecter... tutto. È rimasto sconvolto. Gli ho chiesto se aveva voglia di parlarne. E lui mi ha domandato solo se io lo sapevo già. Gli ho risposto di sì, che una volta io e te ne avevamo già parlato, che mi avevi spiegato tutto prima che ci sposassimo. E poi gli ho chiesto se voleva che gli raccontassi come stavano veramente le cose. Mi ha detto che avrebbe chiesto direttamente a te.» «Benissimo. Si è comportato molto bene. Che cos'era, il "Tattler"?» «Non lo so, credo di sì.» «Grazie tante, Freddy.» Un fiotto di rabbia nei confronti di Freddy Lounds lo costrinse ad alzarsi dalla sedia. Andò a gettarsi dell'acqua fredda sul viso nella toilette. Quando squillò il telefono in ufficio, Sarah stava salutando Crawford, pronta ad andarsene. Posò borsetta e ombrello e andò a rispondere. «Ufficio dell'agente speciale Crawford... No, il signor Graham non è in ufficio, ma può dire... Un attimo, glielo... sì, lo troverà domani pomeriggio, ma dica...» Il tono della voce fece avvicinare Crawford. Sarah teneva la cornetta come se la comunicazione si fosse interrotta. «Ha chiesto di Will e ha detto che avrebbe richiamato domani pomeriggio. Ho cercato di tenerlo in linea.» «Chi?» «Ha detto: "Dica solo a Graham che è il Pellegrino". Il dottor Lecter si era rivolto così al...» «Al Lupo Mannaro.»
Mentre Molly e Willy aprivano le valigie Graham andò al negozio di alimentari. Trovò dei meloni gialli maturi. Parcheggiò l'auto di fronte a casa, sul marciapiede opposto e rimase immobile per qualche minuto, le mani strette al volante. Lo imbarazzava che, per colpa sua, Molly avesse dovuto abbandonare quella casa che amava, costretta a finire tra sconosciuti. Crawford aveva fatto del suo meglio. Non era una casa anonima di proprietà dell'FBI con i braccioli delle poltrone ingialliti dal sudore di tante mani. Era una villetta piacevole, pitturata di fresco, con cespugli di impatiens fioriti accanto ai gradini dell'ingresso. Era ben curata, ci aveva vissuto una persona amante dell'ordine. Lo spiazzo dietro casa scendeva verso la baia di Chesapeake e nell'acqua era ormeggiata una zattera. Dietro le tende si vedeva la luce azzurrina della televisione. Molly e Willy stavano guardando la partita di baseball. Il padre di Willy era stato un giocatore di baseball, e anche piuttosto bravo. Aveva conosciuto Molly sull'autobus che li portava a scuola, si erano sposati quando frequentavano il college. Si erano trasferiti in Florida, portando Willy con loro, quando lui era stato ingaggiato dai Cardinals. Avevano trascorso un periodo bellissimo. Le prime due partite erano andate benissimo, poi il padre di Willy aveva cominciato ad avere difficoltà a deglutire. Il chirurgo aveva tentato un intervento ma ormai c'erano delle metastasi. Sei mesi dopo era morto. Willy aveva sei anni. Willy ogni volta che poteva guardava la televisione. Molly solo quando era sconvolta. Graham era senza chiave. Bussò. «Ci vado io.» La voce di Willy. «Un momento.» Molly scostò le tendine. «A posto.» Willy aprì la porta. Stretto in mano, all'altezza della coscia, teneva un coltello da pesca. Graham spalancò gli occhi. Doveva averlo portato in valigia. Molly gli prese il sacco della spesa. «Vuoi un po' di caffè? C'è anche del gin, ma non è la marca che piace a te.» Quando fu andata in cucina Willy chiese a Graham di uscire in giardino con lui. Dal portico posteriore si vedevano le luci delle barche ancorate nella baia. «Will, c'è qualcosa che devo sapere per badare alla mamma?» «Siete tutti e due al sicuro qui, Willy. Ricordi l'auto che ci è venuta die-
tro dall'aeroporto per assicurarsi che nessuno sapesse che venivamo qui? Nessuno può sapere dove siete tu e la mamma.» «Quel matto vuole ammazzarci, vero?» «Non lo sappiamo. Solo che non mi sento tranquillo con lui che sa il nostro indirizzo.» «Lo ammazzerai?» Graham serrò un attimo gli occhi. «No. Io devo solo trovarlo. Poi lo metteranno in un manicomio per curarlo, per impedirgli di far del male a qualcuno.» «Sai, Will, la mamma di Tommy aveva quel giornale. Diceva che tu avevi ammazzato un tipo su nel Minnesota e che poi eri andato in un ospedale per malati di mente. Non l'avevo mai saputo. È vero?» «Sì.» «Stavo per chiederlo alla mamma, ma poi mi è venuto in mente che era meglio chiederlo a te.» «Sono contento che tu me lo chieda direttamente. Non era un ospedale per malattie mentali, curavano tutte le malattie.» La distinzione gli sembrava importante. «Io ero nel reparto psichiatrico. Ti darà fastidio saperlo. Dato che ho sposato la tua mamma.» «Ho promesso a papà che mi sarei preso cura di lei. E ho intenzione di farlo.» Graham sentiva che doveva spiegare a Willy un po' di cose. Abbastanza, ma non troppo. In cucina la luce si spense. Vedeva la silhouette di Molly dietro la porta e sentiva il peso del suo giudizio. Trattando con Willy, le teneva il cuore in mano. Era chiaro che Willy a questo punto non sapeva più cosa chiedere. Lo fece Graham al suo posto. «La questione dell'ospedale è venuta fuori dopo la faccenda di Hobbs.» «Gli hai sparato?» «Sì.» «E com'è successo?» «Tanto per cominciare, Garrett Hobbs era pazzo. Aggrediva le studentesse di un college e... le uccideva.» «Come?» «Con un coltello; comunque io trovai un truciolo di metallo sui vestiti di una delle ragazze. Sai, come quelli che si fanno quando si filettano i tubi dell'acqua... ti ricordi quella volta che abbiamo aggiustato la doccia all'e-
sterno? «Io controllavo gli idraulici, gli specialisti di impianti di riscaldamento e gente simile. Mi ci è voluto un sacco di tempo. Hobbs aveva spedito una lettera di licenziamento a un'impresa edile dove ero andato a controllare. L'ho vista ed era... strana. Non lavorava in nessun posto per cui andai a trovarlo a casa sua. «Stavo salendo le scale del suo appartamento. C'era con me un agente in divisa. Hobbs deve averci visto arrivare. Ero quasi arrivato al pianerottolo quando lui buttò fuori di casa sua moglie che rotolò giù per le scale. Morta.» «L'aveva uccisa lui?» «Già. Allora dissi all'agente di chiamare il pronto intervento. Poi però sentii che dentro c'erano dei bambini che strillavano. Volevo aspettare, ma non ci riuscii.» «Sei entrato in casa sua?» «Proprio così. Hobbs teneva una ragazza bloccata dietro le spalle e aveva un coltello in mano. Le stava facendo male. Così gli sparai.» «La ragazza è morta?» «No.» «Si è rimessa?» «Dopo un po' sì. Adesso sta bene.» Willy digerì le informazioni in silenzio. Da una barca a vela all'ancora arrivava della musica. Aveva evitato di raccontare a Willy i particolari, ma non poteva impedirsi di rivederli. Non gli aveva raccontato della signora Hobbs sul pianerottolo, colpita da numerose coltellate aggrappata a lui. Vedendo che non c'era più niente da fare, sentendo le urla che uscivano dall'appartamento, liberandosi dalle dita insanguinate della donna, aveva buttato giù la porta con una spallata. Hobbs aveva immobilizzato sua figlia e le stava tagliando la gola; la ragazza si divincolava tenendo basso il mento. La 38 fece volar via pezzi di carne mentre Hobbs continuava a squarciarla e non voleva cadere... poi Hobbs seduto sul pavimento che piangeva... dalla gola della figlia usciva un gorgoglio. La tenne giù e vide che aveva la carotide tagliata, ma le arterie erano salve. Lei lo guardava con gli occhi spalancati, affannati e il padre sul pavimento strillava «Visto? Visto?» finché non si era accasciato, morto. Era stato così che Graham aveva perso ogni fiducia nelle 38.
«Willy, quella faccenda di Hobbs mi pesava un sacco. Sai, continuavo a ripensarci, non riuscivo a togliermela dalla mente. Alla fine non riuscivo a pensare quasi a nient'altro. Non facevo che dirmi che avrei potuto gestirla meglio. E poi non riuscii più a sentire niente. Non mangiavo e non parlavo più a nessuno. Ero molto depresso. Così un dottore mi chiese di farmi ricoverare in ospedale e io ci andai. Dopo un po' riuscii a dimenticare. La ragazza ferita venne a trovarmi. Si era rimessa e parlammo molto. Finalmente dimenticai tutto e ripresi a lavorare.» «È così brutto ammazzare qualcuno, anche se si è obbligati a farlo?» «Willy, è una delle cose più brutte al mondo.» «Senti, vado un momento in cucina. Vuoi qualcosa, una coca-cola?» A Willy piaceva fare dei piccoli servizi a Graham ma aggiungeva sempre, come per caso, che comunque l'avrebbe fatto lo stesso: non si muoveva apposta per lui. «Benissimo, una coca-cola.» «La mamma dovrebbe venire fuori a guardare le luci.» Quella sera, sul tardi, Graham e Molly andarono a sedersi sulla veranda dietro casa. Cadeva una pioggerellina leggera e un alone di nebbia circondava le luci delle barche. La brezza che saliva dalla baia faceva venire la pelle d'oca sulle braccia. «Questa faccenda durerà un bel po', vero?» «Spero di no, ma può anche darsi.» «Will, Evelyn ha detto che per questa settimana e per i primi quattro giorni della prossima il negozio me lo può tenere lei. Dopo però devo tornare a Marathon. Almeno un paio di giorni, quando arrivano i clienti. Posso fermarmi da Evelyn e da Sam. Gli acquisti vado a farli per conto mio ad Atlanta. Devo essere pronta per settembre.» «Evelyn sa dove stai?» «Le ho detto semplicemente che andavo a Washington.» «Bene.» «È difficile conservare quello che si ha, vero? Difficile averlo, difficile conservarlo. È maledettamente scivoloso, questo pianeta.» «Maledettamente scivoloso.» «Torneremo a Sugarloaf, vero?» «Certo che ci torneremo.» «Non farti prendere dalla fretta e non correre pericoli. Me lo prometti?» «Promesso.» «Torni presto a Washington?»
Graham era rimasto mezz'ora a parlare al telefono con Crawford. «Poco prima di pranzo. Se proprio vuoi andare a Marathon, dovremo organizzarci un po' domani mattina. Willy può andare a pescare.» «Doveva domandartelo, di quell'altro tizio.» «Lo so, ha fatto bene.» «Quel maledetto giornalista, come si chiama?» «Freddy Lounds.» «Mi sa che lo devi odiare. Vorrei proprio che non avesse tirato in ballo quella faccenda. Andiamocene a letto che ti massaggio la schiena.» Graham provò una punta d'irritazione. Aveva dovuto giustificarsi con un bambino di undici anni. L'aveva sentito dire che per lui non c'era niente di male se era finito nella cella imbottita. E adesso lei gli massaggiava la schiena. Andiamo a letto... Willy è d'accordo. Quando sei teso, tieni la bocca chiusa, se ci riesci. «Se vuoi stare un po' qui a pensare ti lascio solo» disse. Graham non voleva pensare. Assolutamente. «Tu massaggiami la schiena che io ti massaggio davanti» disse. «Avanti.» I venti ad alta quota portarono via la pioggerella e il mattino dopo alle nove il terreno fumava. In lontananza i bersagli del poligono di tiro dello sceriffo apparivano incerti, quasi un miraggio. L'addetto al poligono osservò con il binocolo l'uomo e la donna fermi sulla linea di tiro per accertarsi che seguissero le regole di sicurezza. Sul tesserino del dipartimento della giustizia che l'uomo gli aveva mostrato quando aveva chiesto di usare il poligono c'era scritto "investigatore". Poteva voler dire qualunque cosa. Al direttore del poligono non piaceva che non fosse un istruttore patentato a insegnare il tiro alla pistola. Comunque doveva ammettere che il federale sapeva il fatto suo. Usavano solo un revolver calibro 22, ma l'uomo insegnava alla compagna a sparare in posizione di tiro Weaver, piede sinistro leggermente in avanti, revolver impugnato con tutte e due le mani, tensione isometrica delle braccia. La donna sparava a una sagoma umana a sette metri di distanza. La vide provare e riprovare a estrarre l'arma dalla tasca esterna della borsetta. Continuarono finché il direttore non fu stanco di osservarli. Il rumore degli spari cambiò e il direttore prese di nuovo il binocolo. Vide che si erano messi delle cuffie per attutire il rumore e che la donna impugnava un revolver corto e tozzo. Notò che la lampada dei bersagli si ac-
cendeva continuamente. Quel modello di revolver lo interessava. Si avvicinò alla linea di tiro, fermandosi a pochi metri da loro. Voleva dare un'occhiata all'arma, ma non era il momento giusto. Riuscì però a vederla bene mentre la donna toglieva i bossoli vuoti e inseriva cinque pallottole da un caricatore rapido. Un'arma strana per un federale: una Bulldog 44 special, corta e brutta con quella sua grossa canna. Aveva subito modifiche decisive. Vicino al mirino la canna era forata per mantenerla equilibrata durante il rinculo, il cane era stato accorciato e il calcio ingrossato. Aveva il sospetto che la canna fosse scanalata, per i proiettili corazzati. Un'arma micidiale se caricata con le pallottole che il federale aveva accanto. Si chiese come facesse la donna a tenerla in mano. Interessante anche la progressione delle munizioni impiegate. Prima veniva una scatola di cartucce a carica leggera con pallottola di piombo. Seguivano delle normali cartucce corazzate e infine veniva qualcosa che il direttore di tiro aveva raramente visto, anche se ne aveva sentito molto parlare. Una fila di cartucce "Glaser Safety". La punta dei proiettili sembrava una normale gomma da matita. Era però fissata a una camicia di rame contenente pallettoni del 12 immersi in teflon liquido. Era un proiettile leggero, progettato appositamente per ottenere un'altissima velocità d'uscita e per schiantarsi contro il bersaglio liberando i pallettoni. Sulla carne l'effetto era micidiale. Il direttore di tiro ricordava anche le statistiche. Fino a quel momento le pallottole erano state sparate contro novanta uomini. Tutti e novanta erano stati messi istantaneamente fuori combattimento. In ottantanove casi la morte era stata immediata. Una vittima era sopravvissuta, sorprendendo i medici. Le pallottole Glaser avevano un ulteriore vantaggio: non rimbalzavano, non attraversavano le pareti, uccidendo magari una persona nella stanza adiacente. L'uomo si comportava con molta delicatezza, la incoraggiava, ma qualcosa pareva rattristarlo. La donna aveva ormai sparato tutte le pallottole corazzate e il direttore fu contento di vedere che riusciva a controllare benissimo il rinculo tenendo gli occhi aperti. È vero che per estrarre la pistola dalla borsa e sparare il primo colpo le ci eran voluti quattro secondi, ma tre avevano colpito il centro. Niente male per una principiante. Era in gamba. Era di nuovo alla torre di controllo quando sentì il sibilo diabolico delle Glaser.
La donna le aveva sparate tutte e cinque, una dopo l'altra. Questa non era la tecnica di sparo dei federali. Si chiese cosa diavolo vedessero in quella sagoma che solo cinque Glaser avrebbero potuto uccidere. Graham tornò alla torre per consegnare le cuffie, lasciando la sua allieva seduta su una panchina, a testa bassa, i gomiti sulle ginocchia. Il direttore pensava che dovesse essere soddisfatto dei risultati dell'allieva e glielo disse. I progressi in un giorno solo erano stati rapidissimi. Graham lo ringraziò distratto. La sua espressione lasciò sconcertato il direttore. Aveva l'aria di un uomo che avesse appena subito una perdita irrimediabile. 15 Il "Pellegrino", l'uomo che aveva telefonato, aveva detto a Sarah che avrebbe richiamato il pomeriggio del giorno dopo. Al quartier generale dell'FBI vennero prese certe precauzioni per ricevere la seconda telefonata. Chi era il Pellegrino? Non Lecter: Crawford se n'era assicurato. Era forse il Lupo Mannaro? Crawford era portato a crederlo. Le scrivanie e i telefoni del suo ufficio durante la notte erano stati trasferiti in un locale più grande, dall'altra parte dell'atrio. Graham se ne stava davanti alla porta aperta di una cabina isolata acusticamente. Alle sue spalle c'era il telefono di Crawford. Sarah l'aveva pulito con detergente per materia plastica. Con tutti gli apparecchi che c'erano nella stanza — un analizzatore dello spettro vocale, registratori a nastro, misuratori di stress — che coprivano un'intera scrivania più buona parte di un'altra, e con Beverly Katz accomodata su una sedia, Sarah aveva bisogno di qualcosa da fare. Il grosso orologio sulla parete segnava mezzogiorno meno dieci. Accanto a Graham c'erano Crawford e il dottor Alan Bloom, fermi, con le mani in tasca. Un tecnico seduto di fronte a Beverly Katz prese a tamburellare con le dita sul tavolo fino a quando l'espressione accigliata di Crawford non lo fece smettere. Sulla scrivania di Crawford c'erano due telefoni nuovi: uno collegato direttamente al centralino elettronico della Bell System, l'altro alla sala comunicazioni dell'FBI. «Quanto ti ci vuole per scoprire da che apparecchio chiama?» chiese il
dottor Bloom. «Con la commutazione elettronica ci vuole molto meno di quanto non si creda» disse Crawford. «Forse un minuto, se passa attraverso centralini elettronici. Di più quando la commutazione è elettromeccanica perché devono cercare il commutatore impegnato.» Crawford alzò la voce, rivolto a tutti i presenti. «Se dovesse telefonare non rimarrà molto all'apparecchio, quindi tutto deve funzionare alla perfezione. Vuoi far fare un ripasso, Will?» «Certo. Quando arriviamo al punto in cui io devo parlare, vorrei chiederle un paio di cose, dottore.» Bloom era arrivato ultimo. Avrebbe dovuto tenere una lezione al dipartimento di scienze del comportamento di Quantico quel pomeriggio. Sentiva l'odore di cordite che impregnava gli abiti di Graham. «D'accordo,» disse Graham. «Suona il telefono. Il circuito viene immediatamente inserito e collegato al centralino elettronico della Bell ma un generatore continua a inviare il segnale di chiamata, quindi chi è al telefono non sa che abbiamo già preso la comunicazione. Questo ci permette di avere circa venti secondi di vantaggio.» Fece un segno al tecnico. «Tu spegni il generatore alla fine del quarto squillo, capito?» Il tecnico annuì. «Fine del quarto squillo.» «Ora Beverly prende la cornetta. La voce è diversa da quella che l'uomo ha sentito ieri. Beverly non dà segno di averlo riconosciuto, ha un tono di voce annoiato. Lui chiede di me. A questo punto Bev dice: "Devo cercarlo, rimane in linea?" Sei pronta, Bev?» Graham pensò che fosse meglio non farle ripetere le parole. Al momento buono avrebbero potuto suonare false. «Bene. Noi siamo in linea, ma lui non sente niente. Credo che aspetterà la comunicazione più a lungo di quanto sia disposto a parlare.» «Sei sicuro di non volerlo tenere all'apparecchio il più possibile?» chiese il tecnico. «Diavolo, no» disse Crawford. «Lo teniamo in attesa circa venti secondi, poi Beverly riattacca e gli dice: "Il signor Graham sta arrivando, la metto in comunicazione con lui". A questo punto io prendo il ricevitore.» Graham si rivolse al dottor Bloom. «Secondo lei che atteggiamento dovrei tenere?» «Secondo me si aspetta che lei non sia convinto che sia davvero lui. Direi di mantenere un tono educato ma scettico. Gli spiegherei che c'è una netta distinzione fra la seccatura rappresentata dalle telefonate degli esaltati e l'interesse, l'importanza, che è disposto a dare alla cosa, se la telefonata
viene dalla persona giusta. Gli esaltati si riconoscono facilmente perché non hanno nemmeno la capacità di comprendere quello che è successo e roba del genere.» «Costringilo a dire qualcosa che dimostri che è davvero lui.» Il dottor Bloom guardò per terra accarezzandosi la nuca. «Non sai cosa vuole. Forse vuole comprensione, forse vede in te l'avversario e gli interessa molto sentirti... vedremo. Cerca di capire di che umore è e dagli quello che vuole, un po' alla volta. Dubito che sia il caso di offrirgli un aiuto, a meno che tu non senta che è il caso di farlo. «Se è paranoico te ne accorgi subito. In questo caso giocherei sui suoi sospetti o sulle sue lamentele. Lascialo sfogare. Se la cosa lo prende, può darsi che dimentichi da quanto tempo è all'apparecchio. E tutto quello che ti posso dire.» Bloom posò una mano sulla spalla di Graham e gli parlò a bassa voce: «Senti, non è il caso di fargli una ramanzina o stronzate del genere; forse riesci a fargli fare il salto. Lascia perdere i consigli, fa' quel che ti sembra il caso di fare». Un'altra attesa. Mezz'ora di silenzio. «Telefonata o non telefonata dobbiamo decidere che cosa fare poi,» disse Crawford. «Vuoi provare con la buca delle lettere?» «Non mi pare che ci sia niente di meglio» disse Graham. «In questo modo avremmo due esche, una casa tua in Florida, l'altra la cassetta fermo posta.» Squillò il telefono. Oscillatore inserito. Il centralino della Bell cominciò a rintracciare la chiamata. Quattro squilli. Il tecnico chiuse l'interruttore e Beverly sollevò la cornetta. Sarah ascoltava. «Ufficio dell'agente speciale Crawford.» Sarah scosse il capo. Lo conosceva: un vecchio amico di Crawford della sezione alcol, tabacco e armi da fuoco. Beverly lo congedò in fretta e bloccò la ricerca. Alla sede centrale tutti sapevano che non dovevano impegnare il telefono di Crawford. Crawford espose di nuovo i dettagli della buca per le lettere. Erano annoiati e tesi nello stesso tempo. Lloyd Bowman passò di lì per mostrare come le coppie di numeri delle Sacre Scritture secondo Lecter corrispondessero con la pagina 100 dell'edizione in brossura dei Piaceri della cucina. Sarah distribuì caffè in tazze di carta. Il telefono squillò. Venne inserito il generatore di segnale e il centralino riprese la trafila.
Quattro squilli. Il tecnico chiuse l'interruttore. Beverly prese la chiamata. «Ufficio dell'agente speciale Crawford.» Sarah faceva grandi cenni affermativi con il capo. Graham entrò nella cabina e chiuse la porta. Vedeva muoversi le labbra di Beverly. La vide premere il tasto di attesa e controllare la lancetta dei secondi sull'orologio a parete. Graham si vedeva riflesso nella superficie lucida dell'apparecchio. Due facce contorte, rimandate dal microfono e dal ricevitore. Sentiva la camicia che puzzava di cordite. Non riappendere. Cristo santo, non riappendere. Passarono quaranta secondi. Allo squillo il telefono vibrò leggermente. Lasciamolo suonare. Ancora una volta. Quarantacinque secondi. Ora. «Parla Will Graham. Posso esserle utile?» Una leggera risata. Una voce soffocata: «Credo proprio di sì». «Potrei sapere con chi parlo, per favore?» «La sua segretaria non gliel'ha detto?» «No, ma mi ha fatto interrompere una riunione, e...» «Se lei dice che non vuol parlare al Pellegrino, riappendo immediatamente. Sì o no?» «Signor Pellegrino, se lei ha dei problemi e io posso aiutarla a risolverli, sarò ben contento di parlarne con lei.» «Credo che sia lei ad avere i problemi, signor Graham.» «Spiacente, non la capisco.» La lancetta dei secondi aveva fatto un giro quasi completo. «Lei è un tipo molto impegnato, vero?» disse la voce. «Troppo impegnato per perdere tempo al telefono, a meno che lei non mi dica qual è il suo problema.» «Il mio problema è lo stesso che ha lei. Atlanta e Birmingham.» «Sa qualcosa a questo proposito?» Di nuovo una leggera risata. «Se so qualcosa? A lei interessa il Pellegrino? Sì o no. Se non dice la verità riappendo.» Graham vedeva Crawford attraverso il vetro. Aveva un ricevitore in ciascuna mano. «Sì. Ma vede, io ricevo un sacco di telefonate, quasi tutte da gente che dice di sapere.» Un minuto. Crawford posò una cornetta e scribacchiò qualcosa su un pezzo di carta. «La sorprenderebbe sapere quanta gente finge di sapere» disse Graham «Basta parlargli qualche minuto e ci si rende conto che non hanno nemmeno la capacità di comprendere quello che è successo. Lei sì?»
Sarah gli mostrò il foglietto attraverso il vetro. C'era scritto: "Cabina telefonica di Chicago polizia in movimento". «Facciamo una cosa: lei mi dica un particolare sul conto del Pellegrino e io magari le dirò se ha ragione o no» disse la voce soffocata. «Mettiamo in chiaro di chi stiamo parlando» disse Graham. «Del Pellegrino.» «E come faccio a sapere se questo Pellegrino ha fatto qualcosa che m'interessa. Secondo lei, sì?» «Diciamo di sì.» «È lei?» «Non credo di volerglielo dire.» «È un suo amico?» «In un certo senso.» «Bene, allora me lo dimostri. Mi dica qualcosa che provi fino a che punto lo conosce.» «Prima lei. Mi faccia vedere quanto lo conosce lei.» Una risatina nervosa. «Al primo sbaglio riattacco.» «D'accordo, il Pellegrino usa la mano destra.» «Andiamo sul sicuro. Quasi tutti la usano.» «Il Pellegrino è un incompreso.» «Niente fesserie generiche, per favore.» «È molto robusto.» «Sì, questo lo si può dire.» Graham guardò l'orologio. Un minuto e mezzo. Crawford annuì in segno d'incoraggiamento. Non dirgli nulla che possa modificare. «Il Pellegrino è di razza bianca, alto, diciamo, un metro e ottanta. Comunque, lei non mi ha ancora detto nulla. Non sono nemmeno sicuro che lei lo conosca.» «Vuole concludere la conversazione?» «No, ma lei ha detto che ci sarebbe stato uno scambio. Stavo semplicemente accontentandola.» «Lei crede che il Pellegrino sia pazzo?» Bloom scosse il capo. «Non credo che un uomo prudente come lui possa essere pazzo. Credo che sia diverso. Credo che molta gente sia convinta che è pazzo, e il motivo è che lui non permette alla gente di capirlo.» «Mi descriva esattamente che cosa, secondo lei, ha fatto alla signora Le-
eds e magari le dico se ha ragione o no.» «Non sono disposto a farlo.» «Addio, allora.» Graham ebbe un tuffo al cuore ma sentiva ancora il respiro all'altro capo della linea. «Non sono disposto a dare questi particolari finché...» Sentì spalancarsi la porta della cabina a Chicago e la cornetta cadere con un rumore secco. Dalla cornetta che oscillava appesa al filo arrivarono voci confuse. Nell'ufficio attraverso la derivazione, tutti sentivano. «Immobile, non un movimento. Mani intrecciate dietro la nuca, esci piano dalla cabina. Piano. Adesso appoggiati al vetro a braccia larghe.» Graham si sentiva invaso da una dolce sensazione di sollievo. «Non sono armato, Stan. La carta d'identità è nella tasca interna della giacca. Ehi, quell'affare mi fa solletico.» Una voce perplessa al telefono. «Con chi parlo?» «Will Graham, FBI.» «Sono il sergente Stanley Riddle, dipartimento di polizia di Chicago.» Il tono divenne irritato. «Mi vuol dire cosa diavolo succede?» «Me lo dica lei. Ha fermato un uomo?» «Azzeccato. Freddy Lounds, il giornalista. Lo conosco da dieci anni... Eccoti il taccuino, Freddy... ci sono accuse contro di lui?» Graham era impallidito. Crawford era paonazzo. Il dottor Bloom fissava le bobine del registratore. «Mi sente?» «Sì, ho delle accuse contro di lui» disse Graham con voce strozzata. «Intralcio alla giustizia. Per favore, lo fermi e lo tenga in arresto finché non verrà interrogato dal procuratore federale.» All'improvviso Lounds riprese il telefono. Senza i batuffoli di cotone nelle guance parlava in fretta e con chiarezza. «Will, dammi retta...» «Lo dica al procuratore federale. Mi ripassi il sergente Riddle.» «So qualcosa...» «Mi ripassi Riddle, maledizione.» Crawford si inserì sulla linea. «Gli parlo io, Will.» Graham buttò giù la cornetta con tanta forza che tutti sobbalzarono. Uscì dalla cabina e lasciò la stanza senza guardare nessuno. «Caro il mio Lounds, lei si ritrova in un bel casino» disse Crawford. «Volete prenderlo o no? Io posso darvi una mano. Mi stia a sentire per
un minuto.» Approfittando del silenzio di Crawford, Lounds si lanciò. «Senta, mi ha appena dimostrato quanto le sia stato utile il "Tattler". Prima non ne ero sicuro, adesso sì. Quell'annuncio riguarda il Lupo Mannaro, altrimenti non avreste messo in piedi tutta questa baracca per rintracciare la telefonata. Ecco, splendido. Il "Tattler" è qui al vostro servizio. Tutto quello che volete.» «Come ha fatto a scoprirlo?» «È venuto da me il direttore dell'ufficio pubblicità. Ha detto che il vostro ufficio di Chicago ha mandato un tizio in grigio a controllare gli annunci. E che l'ha visto prendere cinque lettere. Ha detto che era una questione di "frode postale". Frode postale un bel niente. Il direttore aveva fatto delle fotocopie delle lettere prima di consegnargliele. «Le ho guardate. Sapevo che ne aveva prese cinque per non far capire qual era quella che gli interessava. Ci sono voluti un paio di giorni per farle passare tutte. La risposta era sulla busta. Il timbro postale di Chesapeake. Il numero del timbro era quello del manicomio criminale. C'ero già stato, dietro quel suo amico con il pepe su per il culo. Che altro poteva essere? «Comunque dovevo avere la certezza. Ecco perché ho telefonato, per vedere se abboccavate al Pellegrino. Ed è stato proprio così.» «Ha fatto un grosso errore, Freddy.» «A voi il "Tattler" serve e io ve lo metto a disposizione. Annunci, editoriali, controllo della posta in arrivo, qualunque cosa. Basta che lei me lo chieda. So essere discreto. Faccia partecipare anche me, Crawford.» «Non c'è nulla a cui lei può partecipare.» «Okay, e allora non le importerà niente se per caso qualcuno nel prossimo numero metterà sei annunci personali. Tutti indirizzati al Pellegrino, tutti con la stessa firma.» «E io le sbatto addosso una denuncia per intralcio alla giustizia.» «E la cosa potrebbe finire su tutti i giornali del paese.» Lounds sapeva che le sue parole venivano registrate. Ormai non gli importava più. «Giuro su Dio che lo faccio, Crawford. Mando a pallino le sue possibilità prima di perdere le mie.» «Aggiunga trasmissione interstatale di minacce all'altra accusa.» «Lascia che ti dia una mano, Jack. Credimi, ti posso aiutare.» «Va' al comando di polizia, Freddy. E adesso ripassami il sergente.» La Lincoln Versailles di Freddy Lounds puzzava di lozione per capelli e di dopobarba, di piedi e di sigaro. Il sergente fu contento di scendere
quando arrivarono al posto di polizia. Lounds conosceva il capitano e molti dei poliziotti. Il capitano gli offrì del caffè e telefonò all'ufficio del procuratore federale dicendogli di «cercare di risolvere questa stronzata». Nessun agente federale venne a prendere in consegna Lounds, il quale, nel giro di mezz'ora, ricevette una telefonata da Crawford direttamente nell'ufficio del capitano. Poi fu libero di andarsene. Il capitano lo accompagnò alla macchina. Lounds era tesissimo e guidava in fretta, a scatti. Attraversò il Loop puntando ad est, verso il suo appartamento con vista sul lago Michigan. Voleva tirar fuori un bel po' di cose da questa storia e sapeva che ci sarebbe riuscito. Una di queste cose erano i soldi: li avrebbe fatti scrivendo un tascabile. Trentasei ore dopo la cattura del Lupo Mannaro il libro sarebbe già stato in distribuzione. Un'esclusiva sui quotidiani avrebbe rappresentato un grosso colpo giornalistico. Che soddisfazione vedere la stampa normale — il "Chicago Tribune", il "Los Angeles Times", l'incensato "Washington Post", il santificato "New York Times" — riportare il suo materiale con relativo copyright, la sua firma e le sue foto. E a questo punto i corrispondenti di quegli augusti giornali — che lo guardavano dall'alto in basso, che non volevano nemmeno bere con lui — avrebbero potuto pure mangiarsi le palle. Lounds per loro era un reietto perché aveva scelto una fede diversa. Fosse stato un incompetente, un imbecille incapace, i veterani della grande stampa gli avrebbero perdonato di lavorare per il "Tattler", proprio come si scusa un ritardato mentale. Ma Lounds era in gamba. Aveva tutte le qualità di un buon giornalista: intelligenza, coraggio, colpo d'occhio. Inoltre aveva grandi quantità di energia e di pazienza. Contro di lui stava il fatto che era odioso, e quindi antipatico, ai dirigenti dei giornali, e che era incapace di mantenere il distacco dalle storie di cui si occupava. Lounds aveva quel tremendo bisogno di farsi notare che spesso, sbagliando, viene detto ego. Era grasso, sgradevole, piccoletto. Aveva una dentatura da cavallo e il colore degli occhi da roditore era quello di uno sputo sull'asfalto. Per dieci anni aveva lavorato nel mondo della stampa di informazione e alla fine si era reso conto che nessuno l'avrebbe mai mandato a fare il corrispondente presso la Casa Bianca. Aveva capito che i suoi editori gli avrebbero fatto consumare le gambe fino alle ginocchia, lo avrebbero ado-
perato finché non sarebbe stato ridotto a un vecchio ubriacone disperato, relegato a una scrivania inutile, aspettando l'inevitabile cirrosi o la morte nel letto, per incendio accidentale. Le informazioni che lui riusciva ad ottenere, le volevano, non volevano lui. Gli davano il massimo dello stipendio, che non è poi tantissimo quando le donne si è costretti a pagarle. Gli davano pacche sulle spalle, dicevano che lui sì che aveva i coglioni e rifiutavano di mettergli a disposizione un posto con il suo nome nel parcheggio. Una sera del 1969, riscrivendo un articolo in ufficio aveva avuto la rivelazione. Accanto a lui sedeva un certo Frank Larkin intento a trascrivere qualcosa che gli dettavano al telefono. Nel giornale in cui Freddy lavorava, per i vecchi giornalisti raccogliere le notizie al telefono era considerato il livello più infimo. Frank Larkin aveva cinquantacinque anni ma ne dimostrava settanta. Aveva un paio d'occhi acquosi e ogni mezz'ora andava al suo armadietto per buttare giù un goccio. Da dov'era seduto Freddy sentiva il puzzo di alcol. Larkin si era alzato ed era andato a passo strascicato alla macchinetta distributrice rivolgendosi poi con un sussurro rauco al capocronaca, una donna. Freddy ascoltava sempre le conversazioni degli altri. Le aveva chiesto di portargli un asciugamani di carta dalla toilette delle donne. Ne aveva bisogno perché avevano ripreso a sanguinargli le emorroidi. Freddy aveva smesso di picchiare sui tasti. Tolto il foglio dalla macchina per scrivere, ne aveva infilato uno bianco e aveva scritto una lettera di dimissioni. Una settimana dopo cominciava a lavorare per il "Tattler". Iniziò come redattore addetto agli articoli sul cancro, con uno stipendio che era quasi il doppio di quello che prendeva al giornale. Gli editori rimasero ben impressionati dal suo modo di fare. Il "Tattler" poteva pagarlo bene perché alla rivista il cancro rendeva molto. Un americano su cinque muore di cancro. I parenti del malato, disfatti, disperati, che possono solo combattere la malattia con carezze, budini alla banana e finta allegria, si aggrappano alla minima speranza. Le inchieste di mercato rivelarono che se il titolo era "Nuova cura contro il cancro" oppure "Farmaco miracoloso contro il cancro", le vendite nei supermarket salivano del 22,3%. Diminuivano invece del 6%, se l'articolo
iniziava in prima pagina subito sotto il titolo, dato che il lettore poteva leggerlo mentre la cassiera faceva il conto e rendersi conto che non diceva nulla. Gli esperti di marketing scoprirono che la soluzione migliore era mettere un titolone a colori in prima pagina e l'articolo nelle pagine interne, dato che era difficile tenere nello stesso momento il giornale aperto, prendere il portafoglio e manovrare il carrello. L'articolo standard era fatto così: cinque paragrafi ottimistici in corpo 10, seguiti da un pezzo in corpo 8 e poi in corpo 6 per dire finalmente che il "farmaco miracoloso" non era in vendita o che gli esperimenti sulle cavie erano appena iniziati. Erano questi gli articoli che Freddy scriveva, articoli che facevano vendere un sacco di copie al "Tattler". Oltre all'aumentato numero di lettori, arrivarono un sacco di offerte di vendita di medaglie miracolose e di altri aggeggi magici. I fabbricanti pagavano di più per piazzare la pubblicità vicino all'articolo settimanale sul cancro. Molti lettori scrivevano al "Tattler" per avere ulteriori informazioni. Se ne poteva cavare ancora qualche soldo vendendo i nomi a un "evangelista" della radio — uno psicopatico urlante che scriveva loro chiedendo soldi — in una busta con la scritta "Qualcuno che tu ami morirà a meno che..." Freddy Lounds era utile al "Tattler", e il "Tattler", era utile a Freddy Lounds. Ora, undici anni dopo, guadagnava 72.000 dollari all'anno. Era più o meno libero di scrivere gli articoli che preferiva e spendeva i soldi cercando di spassarsela. Cercava di vivere al massimo delle sue possibilità. Da come stavano andando le cose era convinto che sarebbe riuscito a concludere l'affare del tascabile e aveva prospettive nel mondo del cinema. Aveva sentito dire che a Hollywood i tipetti odiosi con i soldi vivevano bene. Freddy si sentiva in forma. Si precipitò giù per la rampa che portava al garage sotterraneo del palazzo in cui viveva e svoltò nel parcheggio con uno stridio di gomme. Ecco sulla parete il suo nome scritto in caratteri alti trenta centimetri. Signor Frederick Lounds. Wendy era già rientrata: la sua Datsun era parcheggiata nello spazio accanto. Ottimo. Gli sarebbe piaciuto portarsela a Washington: i piedipiatti avrebbero strabuzzato gli occhi. Prese l'ascensore fischiettando. Wendy gli stava preparando le valigie. Da tutta la vita non faceva che fa-
re e disfare valigie. Ormai era un'esperta. Tutta linda in jeans e camicetta scozzese, i capelli castani raccolti in una coda di cavallo che le arrivava fino alla nuca avrebbe potuto sembrare una ragazza di campagna, se non fosse stato per il pallore e la silhouette. Il suo corpo sembrava quasi una caricatura della pubertà. Guardò Lounds con occhi che da anni non esprimevano più sorprese e notò che un tremito lo scuoteva. «Lavori troppo, Roscoe.» Le piaceva chiamarlo Roscoe, e chissà perché a lui piaceva sentirsi chiamare così. «Cosa prendi, l'aereo delle sei?» Gli portò qualcosa da bere e tolse dal letto la tuta da paracadutista di tessuto lucido e la scatola dove teneva i toupet, per permettergli di sdraiarsi. «Posso portarti io all'aeroporto. Vado al club solo alle sei.» Il Wendy City era il topless bar dove una volta lei ballava. Ormai non era più costretta a farlo da quando Freddy aveva controfirmato il contratto di acquisto. «Quando mi hai telefonato sembravi la Talpa del Marocco» disse ancora. «Chi?» «Sai, la domenica mattina alla televisione: è molto misterioso e aiuta l'Agente Segreto Scoiattolo. L'abbiamo visto quando avevi l'influenza... devi aver fatto un colpo, oggi. Sbaglio? Sembri proprio contento di te.» «Azzeccato. Ho fatto una puntata oggi, cocca, e mi è andata bene. Ho per le mani un'occasione che è una bellezza.» «Hai tempo di farti un pisolino. Tu ti consumi troppo.» Lounds accese una sigaretta. Ne aveva lasciata un'altra accesa nel portacenere. «Sai una cosa?» disse lei. «Scommetto che se bevi quella roba e ti scarichi riesci a dormire.» La faccia di Lounds che le premeva contro il collo come un pugno finalmente si rilassò, divenne mobile all'improvviso, proprio come un pugno si trasforma in una mano. Il tremito cessò. Le raccontò tutto, sussurrando nell'incavo dei seni, gonfiati al silicone. Wendy con un dito gli tracciava degli otto sulla nuca. «Proprio una bella pensata, Roscoe» disse. «Adesso dormi. Ti porto io all'aereo. Andrà tutto bene. E poi vedrai come ce la spasseremo io e te.» Si sussurrarono i nomi dei posti in cui sarebbero andati. Freddy Lounds si addormentò.
16 Jack Crawford e il dottor Alan Bloom sedevano su due seggiole pieghevoli, gli unici mobili rimasti nell'ufficio di Crawford. «L'armadio era vuoto, caro dottore.» Il dottor Bloom studiò i lineamenti scimmieschi di Crawford chiedendosi cosa stava per arrivare. Dietro i modi brontoloni di Crawford, e la sua mania per gli alka seltzer il dottore riconosceva un'intelligenza gelida come una radiografia. «Dov'è andato Will?» «A fare un giro per calmarsi» rispose Crawford. «Odia Lounds.» «Hai creduto che Will se ne sarebbe andato, visto che Lecter aveva fatto pubblicare il suo indirizzo? Che sarebbe tornato dalla sua famiglia?» «Per un attimo, sì. Era rimasto scosso.» «Comprensibile» disse il dottor Bloom. «E poi mi sono reso conto che a casa non ci può tornare e che non ci possono tornare neanche Molly e il bambino, finché il Lupo Mannaro non viene tolto dalla circolazione.» «Molly, l'hai conosciuta?» «Sì. È splendida, mi piace. Naturalmente sarebbe contenta se mi vedesse finire all'inferno con la spina dorsale a pezzi. Sono stato costretto a nasconderla.» «È convinta che tu usi Will?» Crawford fissò asciutto il dottor Bloom. «C'è qualcosa di cui devo discutere con lui. E poi dovremo controllarlo con te. Quando devi essere di ritorno a Quantico?» «Martedì mattina. Ho telefonato per annullare.» Il dottor Bloom teneva un seminario come ospite al dipartimento di scienza del comportamento dell'accademia dell'FBI.» «A Graham sei simpatico. Sa che non cerchi di fare nessun giochetto con la sua mente» spiegò Crawford. L'osservazione di Bloom sul fatto che lui usasse Graham gli bruciava. «È vero: non ne faccio. E non ci proverei nemmeno» rispose Bloom. «Sono onesto con lui, come lo sarei con un paziente.» «Esattamente.» «No, voglio essergli amico e lo sono. Il settore di studi di cui mi occupo, mi obbliga a osservare. Ma ricorderai che quando mi hai chiesto di fornirti uno studio psicologico su di lui ho rifiutato.»
«Era Petersen del piano di sopra che lo voleva.» «Sei stato tu che me l'hai chiesto. Non importa, se dovessi fare uno studio su di lui, se ci fosse qualcosa che potesse servire ad aiutare gli altri — in senso terapeutico — lo metterei in una forma tale da rendere Will totalmente irriconoscibile. E se dovessi dargli un'impostazione scientifica verrebbe pubblicato solo dopo la morte.» «Tua o di Graham?» Il dottor Bloom non rispose. «Ho notato una cosa che mi ha incuriosito: tu eviti di rimanere solo in una stanza con Graham, vero? Non ti fai notare, ma non sei mai solo con lui. Perché? Credi che sia telepatico, è per questo?» «No. È un eideteker — ha una notevole memoria visiva — ma non credo che abbia facoltà paranormali. Non sarebbe disposto a farsi esaminare da quelli della Duke University... anche se questo non significa nulla. Non sopporta di farsi esaminare. Nemmeno io, del resto.» «Ma...» «Will preferisce immaginarlo come un esercizio puramente intellettuale e, nel senso stretto che il termine ha in medicina legale, ha ragione. È bravo, ma immagino che ci siano altri bravi come lui.» «Non molti.» «Lui ha in più una vera e propria capacità di partecipazione e quella di assumere il punto di vista degli altri» spiegò Bloom. «Può assumere il tuo punto di vista, il mio... e forse anche certi altri punti di vista che gli fanno paura e lo disgustano. È un dono sgradevole, Jack. La capacità di percezione è un'arma a doppio taglio.» «Perché non ti capita mai di trovarti solo con lui?» «Perché ho una certa curiosità professionale nei suoi confronti e lui se ne accorgerebbe subito. Fa in fretta a capire.» «Se scoprisse che lo stai spiando, tirerebbe giù le tende.» «Sgradevole come analogia, ma esatta. Adesso ti sei vendicato abbastanza, Jack. Possiamo arrivare al punto. Non sprechiamo parole. Non mi sento molto bene.» «Una manifestazione psicosomatica, probabilmente.» «Problemi alla prostata, in realtà. Cosa vuoi?» «Ho un canale per parlare al Lupo Mannaro.» «Il "Tattler".» «Esatto. Credi che ci sia un modo per spingerlo a comportamenti autodistruttivi, con quello che gli possiamo dire?»
«Spingerlo a suicidarsi?» «Un suicidio mi andrebbe benissimo.» «Ne dubito. Per certi tipi di malattia mentale, sarebbe possibile. In questo caso, non credo. Se avesse impulsi autodistruttivi non sarebbe così cauto. Non si proteggerebbe con tanta abilità. Se fosse uno schizofrenico paranoico classico si potrebbe spingerlo a scoprirsi e a rendersi visibile. Si potrebbe persino portarlo a farsi del male. Io però non sarei disposto a darti una mano.» Bloom era nemico mortale del suicidio. «No, immagino di no» disse Crawford. «Potremmo farlo arrabbiare?» «Perché vuoi saperlo? A che scopo?» «Permettimi di farti una domanda: potremmo farlo arrabbiare e fargli concentrare la sua attenzione su di noi?» «L'ha già fissata su Graham. È il suo avversario, lo sai. Non girarci intorno. Hai deciso di usare Graham come esca, sbaglio?» «Credo di essere costretto a farlo. O questo, oppure il 25 quello comincia a sentire il prurito. Dammi una mano.» «Non sono sicuro che tu sappia che cosa stai chiedendo.» «Un consiglio... ecco che cosa ti sto chiedendo.» «No, non quello che chiedi a me» disse il dottor Bloom. «Quello che chiedi a Graham. Non voglio che tu lo interpreti male — e normalmente è una cosa che non direi — ma c'è un fatto che dovresti sapere: quale credi che sia uno degli impulsi più potenti di Will?» Crawford scosse la testa. «È la paura, Jack. Will non fa che lottare contro una paura enorme.» «Perché è rimasto ferito?» «No, non solo per questo. La paura nasce dall'immaginazione: è una condanna, è il prezzo dell'immaginazione.» Crawford si fissò le mani tozze che teneva allacciate sulla pancia. Arrossì. Un argomento imbarazzante di cui parlare. «Sicuro. È una cosa che non si deve dire, quando si parla di adulti, vero? Non preoccuparti di avermelo detto. Non credo che sia un eroe. Non sono un fesso totale, dottore.» «Non l'ho mai pensato, Jack.» «Non lo metterei a fare da esca, se non fossi in grado di proteggerlo. D'accordo: se non potessi proteggerlo all'ottanta per cento. D'altra parte, Will ci sa fare abbastanza. Non è il più bravo, ma ha riflessi rapidi. Allora, ci dai una mano a far smuovere il Lupo Mannaro, dottore? Abbiamo già avuto un sacco di morti.» «Solo se Graham sa in anticipo tutti i rischi che corre e se li assume di
sua volontà. Voglio sentirglielo dire di persona.» «Sono come te, dottore. Non faccio il prepotente con lui. Non più di quanto facciamo noi due, tra di noi.» Crawford trovò Graham nella stanza vicino al laboratorio di Zeller. Il locale, assegnato a Graham, era pieno di fotografie e di documenti personali delle vittime. Crawford attese finché Graham non ebbe finito di leggere il Low Enforcement Bulletin. «Se non ti spiace ti dico cos'abbiamo organizzato per il 25.» Non aveva bisogno di spiegare che quel giorno ci sarebbe stata la luna piena. «Quando ci riproverà?» «Già, se il 25 il problema ce l'avremo ancora.» «Non se. Ce l'avremo.» «Tutte e due le volte è successo il sabato sera. A Birmingham, il 28 giugno, la luna piena cadeva il sabato sera. Ad Atlanta è successo il 26 luglio, cioè un giorno prima della luna piena. Comunque era sempre sabato. Questa volta la luna piena è il 25 agosto, lunedì. Siccome gli piacciono i weekend, saremo pronti da venerdì in poi.» «Pronti? Saremo pronti?» «Esatto. Sai quello che dicono nei manuali... qual è l'indagine ideale, in un caso di omicidio.» «Non ne ho mai viste fare in questo modo» disse Graham. «Non riesce quasi mai.» «No. Quasi mai. D'altra parte sarebbe splendido riuscirci: mandare avanti solo una persona. Una sola. Farlo andare sul posto. Dovrà essere sempre in contatto, comunicare continuamente. Avrà il posto a sua disposizione per tutto il tempo che gli servirà. Lui da solo... tu da solo.» Una lunga pausa. «Cosa mi stai dicendo?» «A partire dalla sera di venerdì 22 avremo a disposizione un Grumman Gulfstream pronto alla base dell'aeronautica di Andrews. Me lo sono fatto prestare da quelli della difesa territoriale. Ci caricheremo le apparecchiature più importanti per le analisi. Rimarremo ad aspettare nelle vicinanze: io, tu, Zeller, Jimmy Price, un fotografo e due persone per gli interrogatori. Non appena ci avvertono partiamo. Possiamo essere sul posto entro un'ora e un quarto al massimo.» «E la polizia locale? Non sono obbligati a collaborare. Non staranno ad
aspettarci.» «Stiamo contattando tutti i capi di polizia e gli sceriffi. Dal primo all'ultimo. Gli chiediamo di mettere degli avvisi nelle bacheche e sulle scrivanie degli ufficiali di servizio.» Graham scosse la testa. «Balle. Non saranno disposti a mollare l'osso. E non potrebbero nemmeno.» «Non gli chiediamo poi tanto. Vogliamo solo che quando arriva l'informazione mandino un ufficiale sul posto a dare un'occhiata. Poi fanno entrare il personale medico per avere la sicurezza che non sia rimasto nessuno vivo. E lo fanno tornare fuori. Blocchi stradali, interrogatori... possono fare tutto quello che vogliono. Ma sulla scena del delitto devono mettere i sigilli finché non siamo arrivati noi. Andiamo sul posto e tu entri. Sei collegato direttamente con noi. Parli quando ne hai voglia, altrimenti te ne stai zitto. Puoi metterci tutto il tempo che vuoi. E noi entriamo solo dopo.» «La polizia locale non aspetterà.» «Questo è sicuro. Manderanno qualcuno della omicidi. Ma con questa richiesta qualche effetto lo otterremo. Ci sarà meno folla e tu troverai il posto ancora fresco.» Fresco. Graham appoggiò la nuca alla spalliera della poltrona e fissò il soffitto. «Naturalmente mancano ancora tredici giorni.» «Uffa, Jack.» «Uffa cosa?» «Certe volte mi lasci proprio secco.» «Non ti seguo.» «Sì che mi segui. Tu hai già deciso di usarmi come esca perché non hai nient'altro in mano. Quindi, prima di domandarmelo mi pompi, descrivendo quanto sarà brutto la prossima volta. Come psicologia non è male. Sfruttare un idiota del cazzo. Cosa pensavi che avrei detto? Hai paura che dopo quella volta con Lecter non abbia più i coglioni?» «No.» «Non ce l'avrei con te se lo credessi. Ne conosciamo di gente alla quale è capitato. Non mi va l'idea di andarmene in giro con una corazza antiproiettile e il culo stretto. Comunque, ormai ci sono dentro. Finché quello è in giro, a casa non ci possiamo tornare.» «Non dubitavo che avresti accettato.» Graham capì che era sincero. «Allora c'è sotto qualcos'altro, no?» Crawford non disse nulla.
«Molly no. Niente da fare.» «Cristo, Will, neanch'io ti avrei mai chiesto una cosa del genere.» Graham lo fissò un attimo. «Oh, per l'amor del cielo, Jack. Hai deciso di giocare la partita con Freddy Lounds, sbaglio? Tu e il piccolo Freddy avete fatto un patto.» Crawford fissò una macchiolina sulla propria cravatta. Poi guardò Graham negli occhi. «Lo sai anche tu che è l'esca migliore. Il Lupo Mannaro lo leggerà, il "Tattler". Cos'altro abbiamo in mano?» «E dev'essere proprio Lounds a farlo?» «La tratta lui questa storia.» «E così io per il "Tattler" dico tutto il male possibile sul conto del Lupo Mannaro, che se la prende di brutto. Ti pare che sia meglio della cassetta fermo posta? Lascia stare, lo so anch'io che è meglio. Ne hai già parlato a Bloom?» «Gliel'ho solo accennato. Lavoreremo insieme. E insieme a Lounds. Porteremo avanti anche la faccenda della cassetta fermo posta.» «E lo scenario? Credo che dovremo dargli una buona occasione. Qualcosa di aperto. Un posto dove si possa avvicinare. Non credo che faccia il cecchino. Magari riesce a fregarmi lo stesso, ma non lo vedo con in mano un fucile.» «Metteremo degli uomini di guardia in alto.» Pensavano tutti e due la stessa cosa. Il giubbotto antiproiettile avrebbe arrestato la 9 millimetri e il coltello del Lupo Mannaro, a meno che Graham non fosse stato colpito in faccia. Era impossibile proteggergli la testa, se solo un cecchino nascosto avesse avuto la possibilità di sparargli. «Parlagli tu a Lounds. Non sono obbligato a farlo.» «Deve farti un'intervista, Will» spiegò gentilmente Crawford. «Deve fotografarti.» Bloom aveva avvertito Crawford che su questo punto sarebbe stato difficile convincere Graham. 17 Quando venne il momento dell'intervista, Graham lasciò di stucco sia Crawford sia Bloom. Sembrava che avesse addirittura voglia di andare incontro a Lounds: aveva un'espressione affabile, solo gli occhi azzurri erano freddi. Il fatto di trovarsi alla sede centrale dell'FBI ebbe un effetto salutare sul
comportamento del giornalista. Era educato, quando si ricordava di esserlo, e lavorava in silenzio e con rapidità. Solo una volta Graham si oppose a una sua richiesta: rifiutò di fargli vedere il diario della signora Leeds e la corrispondenza privata della famiglia. Durante l'intervista rispose con un tono civile alle domande. Ambedue consultavano degli appunti presi durante una riunione con il dottor Bloom. Spesso le domande e le risposte venivano riformulate. Alan Bloom aveva incontrato difficoltà nell'elaborazione di un piano per ferire il Lupo Mannaro. Alla fine decise semplicemente di esporre le proprie teorie sul suo conto. Gli altri lo ascoltavano come allievi di karate durante una lezione di anatomia. Il dottor Bloom aveva detto che le azioni e la lettera del Lupo Mannaro indicavano un quadro allucinatorio e di proiezione che compensava un intollerabile complesso di inferiorità. Il fatto che facesse a pezzi gli specchi lasciava pensare che il complesso dipendesse dall'aspetto fisico. Bloom inoltre era convinto che, all'origine, ci fosse un inconscio conflitto con l'omosessualità, una tremenda paura di essere gay. L'opinione era avvalorata da uno strano particolare osservato nella casa dei Leeds: i segni sulla pelle di Charles Leeds e alcune macchie di sangue trovate sotto il cadavere dimostravano che il Lupo Mannaro gli aveva infilato un paio di mutande quando questi era già morto. Secondo Bloom l'aveva fatto per sottolineare la sua mancanza di interesse nei confronti dell'uomo. Inoltre lo psichiatra accennò agli stretti legami fra impulsi aggressivi e sessuali che nei sadici si stabiliscono fin dalla prima infanzia. Le aggressioni selvagge, dirette principalmente verso le donne e attuate di fronte alla famiglia erano chiaramente attacchi portati a una figura materna. Bloom, che diceva queste cose quasi tra sé e sé, camminando avanti e indietro, definiva il soggetto "figlio di un incubo". Crawford, un po' condiscendente e un po' seccato, avvertì un tono di compassione nella voce del dottore. Nell'intervista a Lounds Graham fece dichiarazioni che nessun investigatore avrebbe mai fatto e alle quali nessun giornale serio avrebbe mai dato credito. Sostenne che il Lupo Mannaro aveva un aspetto disgustoso ed era impotente con le donne; sostenne — falsamente — che aveva tentato rapporti
con i maschi che aveva ucciso; disse che indubbiamente il Lupo Mannaro era lo zimbello di tutti quelli che lo conoscevano e che doveva essere frutto di un incesto. Tenne a sottolineare come fosse evidente che il Lupo Mannaro non aveva l'intelligenza di Hannibal Lecter. Promise di comunicare al "Tattler" ulteriori deduzioni sul conto dell'assassino. Molti, nella polizia e nell'FBI, non la pensavano come lui, ma finché la direzione delle indagini era sua, il "Tattler" avrebbe ricevuto direttamente da lui informazioni di prima mano e materiali. Lounds scattò un mucchio di fotografie. La più importante venne presa nel "nascondiglio di Washington" di Graham, un appartamento che "si era fatto prestare finché non avesse inchiodato il Lupo". Era l'unico posto dove poteva "starsene da solo", nell'atmosfera carnevalesca" che circondava le indagini. Nella foto si vedeva Graham in vestaglia seduto a una scrivania, intento a studiare il caso fino a tarda notte. Stava osservando un grottesco identikit del Lupo Mannaro. Alle sue spalle si vedeva un pezzo di cupola del Campidoglio illuminato. Il particolare più importante però lo si notava nell'angolo sinistro della finestra, in basso. Era confuso ma leggibile: l'insegna di un motel, sul lato opposto della strada. Se avesse voluto, il Lupo Mannaro avrebbe potuto trovare l'appartamento. Nella sede centrale dell'FBI Graham venne fotografato davanti a uno spettrometro. L'apparecchiatura non veniva assolutamente utilizzata nelle indagini ma Lounds pensava che facesse impressione. Graham acconsentì persino a farsi fotografare insieme a Lounds, mentre questi lo intervistava. La foto venne presa di fronte alle grandi rastrelliere piene di fucili dell'armeria. Lounds teneva in mano un'automatica calibro nove, uguale a quella usata dal Lupo Marinaro. Graham indicava un silenziatore artigianale, ottenuto da un pezzo di tubo di un'antenna televisiva. Il dottor Bloom fu sorpreso quando vide Graham posare cameratescamente una mano sulla spalla di Lounds un attimo prima che Crawford facesse scattare l'otturatore. Intervista e foto sarebbero apparse il giorno dopo, lunedì 11 agosto, sul "Tattler". Lounds partì per Chicago non appena ebbe tutto il materiale. Disse che voleva controllate personalmente l'uscita dell'articolo. Prese un appuntamento con Crawford per il martedì pomeriggio, a cinque isolati dalla trappola.
A partire da martedì, infatti, quando il "Tattler" sarebbe stato diffuso in tutte le edicole, dovevano scattare due trappole per il mostro. Tutte le sere Graham sarebbe andato alla sua "residenza temporanea" mostrata nella fotografia pubblicata sul "Tattler". Un annuncio personale in codice, che doveva apparire sullo stesso numero, invitava il Lupo Mannaro a recarsi a una "cassetta fermo posta" di Annapolis, sorvegliata ventiquattro ore su ventiquattro. Se il messaggio l'avesse insospettito, forse avrebbe pensato che gli sforzi per catturarlo erano concentrati in quella zona. A questo punto, pensava l'FBI, Graham sarebbe divenuto un bersaglio più invitante. La polizia della Florida sorvegliava Sugarloaf Key. C'era un'atmosfera di insoddisfazione tra quelli che gli davano la caccia: due trappole del genere tenevano impegnati molti uomini, che avrebbero potuto venire utilizzati altrove. Inoltre, il fatto che Graham tutte le sere dovesse andare all'appartamento, limitava i suoi movimenti alla zona di Washington. Secondo Crawford, questa era la mossa migliore. Ma per i suoi gusti l'intera procedura peccava di passività. Aveva la sensazione che stessero giocando con se stessi, quando mancavano meno di due settimane alla luna piena. Domenica e lunedì trascorsero in una strana atmosfera convulsa. I minuti non passavano mai, le ore volavano. Spurgen, istruttore capo presso lo SWAT di Quantico, il martedì pomeriggio fece il giro dell'isolato in macchina. Accanto a lui sedeva Graham, Crawford era sul sedile posteriore. «Il traffico dei pedoni diminuisce nettamente a partire dalle sette e un quarto. Sono tutti a cena» disse Spurgen. Sembrava un giocatore di baseball, con quel suo fisico asciutto e solido e il berrettino tirato indietro sulla testa. «Domani, quando attraversi i binari della ferrovia, faccelo sapere sulla frequenza libera. Dovresti fare in modo di essere lì verso le otto e trenta, otto e quaranta.» Entrò nel parcheggio del palazzo. «Questa trappola non è l'ideale, ma potrebbe essere peggio. Domani sera devi parcheggiare qui. Dopo, ogni sera ti faremo cambiare posto, sempre da questa parte, però. Sono una settantina di metri dall'ingresso. Facciamolo a piedi.» Spurgen, piccoletto e con le gambe un po' storte, precedette Graham e Crawford. Sta cercando il posto dove saltargli addosso, pensò Graham.
«Se capita, probabilmente, capita mentre cammini,» disse il capo dello SWAT. «Vedi, da qui il percorso naturale verso l'ingresso attraversa diritto il parcheggio. Passa lontano dalle macchine che restano qui parcheggiate tutto il giorno. Per avvicinarsi deve venirti incontro allo scoperto. Tu ci senti bene?» «Piuttosto,» rispose Graham. «Benissimo, qui nel parcheggio.» Spurgen cercò un'espressione sul viso di Graham, ma non trovò nulla. Si fermò nel mezzo del parcheggio. «Riduciamo anche l'illuminazione stradale per rendere le cose più difficili a un cecchino.» «Sono più difficili anche per voi, allora» osservò Crawford. «Due dei nostri hanno dei visori a raggi infrarossi Startrom» lo informò Spurgen, «ho portato uno spray riflettente che ti dovrai mettere sulla giacca, Will. A proposito, anche se fa caldo, dovrai sempre portare il giubbotto antiproiettile. D'accordo?» «Certo.» «Di che materiale è?» «Kevlar — che tipo, Jack? — Second Chance?» «Second Chance» disse Crawford. «È piuttosto probabile che ti arrivi addosso da dietro; altrimenti potrebbe venirti incontro per poi girarsi e spararti dopo che ti ha superato» spiegò Spurgen. «In sette casi alle sue vittime ha sparato, no? Ha visto che funziona. Lo farà anche con te, se gli lasci il tempo. Non devi lasciarglielo assolutamente. Adesso ti faccio vedere un paio di cosette nell'atrio e in casa, poi andiamo al poligono. Ce la puoi fare?» «Ce la può fare» disse Crawford. Al poligono, Spurgen era l'alto sacerdote. Fece mettere a Graham dei tappi per le orecchie sotto la cuffia, poi gli fece apparire bersagli da tutte le angolature. Fu sollevato vedendo che Graham non portava la 38 regolamentare, ma lo preoccupò il lampo che usciva dal tamburo. Lavorarono per due ore. Spurgen volle controllare la linguetta del tamburo e le viti di regolazione del perno della 44 di Graham. Graham fece una doccia e si cambiò d'abito per togliersi di dosso l'odore della polvere da sparo. Poi in macchina si diresse verso la baia: era l'ultima notte di libertà che passava in compagnia di Molly e di Willy. Dopo cena portò moglie e figlio adottivo al negozio di alimentari e passò un bel po' di tempo a scegliere meloni. Si assicurò che comprassero molta roba da mangiare; sugli scaffali del reparto giornali c'erano ancora delle copie dell'ultimo numero del "Tattler": si augurò che Molly non vedesse il
numero che sarebbe uscito il giorno dopo. Non voleva farle sapere cos'avevano organizzato. Quando poi lei gli chiese cosa volesse per cena durante la settimana, le disse che non sarebbe tornato per tutta la settimana, doveva andare a Birmingham. Era la prima bugia che le raccontava e si sentì sudicio come una banconota vecchia. La guardò muoversi tra gli scaffali: Molly, la sua bella moglie, appassionata di baseball, sempre attenta e preoccupata a gonfiori e a bernoccoli, con la sua insistenza perché Willy e lui ogni tre mesi facessero una visita di controllo, con il suo terrore controllato del buio; sapeva — a caro prezzo — che vivere è una fortuna. Conosceva il valore di ogni giorno vissuto insieme. Sapeva cogliere gli attimi fuggenti. Gli aveva insegnato a goderseli. Le note del "Canone" di Pachelbel riempivano la stanza immersa nel sole dove ciascuno insegnava all'altro, dove dolcezza e allegria erano addirittura insopportabili, e anche allora la paura gli saettava dentro come l'ombra di un falco: era troppo bello per durare. Molly davanti agli scaffali spostava di continuo la borsetta da una spalla all'altra, come se la pistola che conteneva pesasse molto più di seicento grammi. Graham si sarebbe offeso se avesse sentito quello che borbottava ai meloni: «Devo metterlo in un sacco di gomma, quel bastardo. Tutto qui. Devo mettercelo». Carichi di menzogne, pistole e alimentari si allontanarono solennemente in silenzio, come una pattuglia di soldati. Lei aveva subodorato la balla. Non si dissero una parola finché le luci non furono spente. Poi Molly, in sogno, sentì dei passi pesanti che si avvicinavano, in una casa tutta fatta di stanze che cambiavano continuamente. 18 A Lambert, l'aeroporto internazionale di St. Louis, c'è un'edicola che espone quasi tutti i più importanti quotidiani degli Stati Uniti. I giornali di New York, di Washington, di Chicago e di Los Angeles arrivano per via aerea e li si può leggere il giorno stesso in cui vengono pubblicati. Come molte altre edicole, anche questa appartiene a una catena e, insieme alle solite riviste, il gestore è obbligato a esporre anche una bella fila di porcherie. Quando, alle dieci di sera di lunedì, arrivò il "Chicago Tribune", accanto
a esso cadde anche un pacco di "Tattler". Le copie al centro erano ancor calde di stampa. Il giornalaio si accucciò di fronte all'edicola per attaccare una fila di copie del "Tribune". Aveva un bel po' di cose da fare. Quelli del turno di giorno si dimenticavano sempre di mettere le cose in ordine. Nel suo campo visivo entrò un paio di stivali neri con cerniera lampo. Qualcuno che voleva scorrere le riviste. No, puntavano verso di lui. Voleva qualcosa, maledizione. Il giornalaio voleva finire di allineare le copie del "Tribune", ma l'attenzione insistente del tipo gli fece venire una sorta di prurito alla nuca. Non aveva una clientela fissa, non aveva bisogno di essere educato. «Cosa c'è?» disse rivolto alle ginocchia. «Il "Tattler".» «Deve aspettare. Ho ancora il pacco da disfare.» Gli stivali non si allontanarono. Erano troppo vicini. «Ho detto che deve aspettare fino a quando non ho disfatto il pacco. Capito? Ho da fare.» Una mano e il lampo di una lama d'acciaio. Lo spago del pacco saltò con uno schiocco. Una moneta da un dollaro risuonò sul pavimento di fronte a lui. Una copia perfettamente piegata del "Tattler", estratta dal centro del pacco, fece spargere disordinatamente sul pavimento tutte le altre. Il giornalaio si raddrizzò, avvampando. L'uomo si allontanava con la copia della rivista sotto il braccio. «Ehi. Ehi, lei.» L'uomo si voltò. «Io?» «Già, lei. Le avevo detto...» «Mi aveva detto cosa?» Tornava verso di lui. Gli si fermò troppo vicino. «Mi aveva detto cosa?» Di solito un commerciante aggressivo riesce a intimidire i clienti. Ma c'era qualcosa di orrendo nella calma di quel particolare cliente. Il giornalaio abbassò lo sguardo. «Le vengono venticinque cents.» Dolarhyde gli voltò le spalle e si allontanò. Per mezz'ora il giornalaio si sentì ardere le guance. Come no, quel tizio è venuto qui anche la settimana scorsa. Se torna di nuovo gli dico io dove cazzo deve andare. Ho l'affare giusto sotto il banco per i duri come quello. Dolarhyde non si fermò in aeroporto a leggere il "Tattler". La settimana prima il messaggio di Lecter gli aveva suscitato sentimenti contrastanti. Ovviamente il dottor Lecter aveva avuto ragione a dirgli che lui era bello. Aveva sentito un brivido leggendolo. Difatti era bello. L'aveva un po' delu-
so la paura che il dottore aveva del poliziotto. Lecter non ne capiva molto più del pubblico. Comunque, ardeva dalla curiosità di sapere se il dottore gli aveva inviato un altro messaggio. Avrebbe aspettato fino a casa. Era orgoglioso delle sue capacità di autocontrollo. Mentre in macchina si dirigeva verso casa, ripensò al venditore di giornali. Una volta si sarebbe scusato per averlo disturbato e non sarebbe mai più tornato all'edicola. Per anni si era lasciato gettare addosso merda a palate. Ora non più. L'uomo avrebbe potuto insultare Francis Dolarhyde, ma non poteva affrontare il Drago. Faceva tutto parte dell'Avvento. A mezzanotte sulla sua scrivania la luce era ancora accesa. Il messaggio giunto con il "Tattler" e decrittato, era sul pavimento, insieme a pagine ritagliate della rivista: i ritagli erano disseminati sul suo diario. Questo era aperto sotto il quadro del Drago e la colla con la quale erano stati appiccicati i ritagli era ancora umida. Sotto c'era una bustina di plastica, vuota per il momento. Accanto c'era scritto: "Con Questi Egli Mi Ha Offeso". Dolarhyde si era allontanato dalla scrivania. Sedeva sui gradini della cantina nell'odore fresco di terra e di umidità. Il raggio della torcia elettrica illuminava mobili ricoperti da pezze di tela, il rovescio dei grandi specchi che una volta erano appesi in casa ed ora erano accatastati contro le pareti, il baule che conteneva la cassetta di dinamite. Il raggio della torcia si bloccò contro una grossa sagoma, allineata insieme ad altre uguali sul fondo della cantina. Si avvicinò, sentendo delle ragnatele passargli sul viso. Quando tolse la tela, la polvere lo fece starnutire. Respinse le lacrime e puntò la torcia contro la carrozzella. Aveva lo schienale alto, era pesante e robusta. L'amministrazione della contea l'aveva data alla Nonna, insieme ad altre due, negli anni Quaranta, quando gestiva in quella stessa casa un ospizio per i vecchi. La spinse e le ruote cigolarono. La portò facilmente su per le scale, malgrado il peso. In cucina lubrificò i mozzi. Le piccole ruote anteriori continuavano a stridere, ma quelle posteriori avevano i cuscinetti ancora in buono stato e ruotavano al semplice tocco di un dito. La rabbia che lo lacerava dentro venne addolcita dal ronzio tranquillo delle ruote. Dolarhyde continuò a farle girare canticchiando.
19 Quando martedì a mezzogiorno Freddy Lounds uscì dagli uffici del "Tattler" si sentiva stanco ed euforico. Aveva messo insieme l'articolo sull'aereo per Chicago e l'aveva scritto direttamente in tipografia in trenta minuti esatti. Il resto del tempo l'aveva trascorso lavorando senza tregua al libro, evitando di rispondere al telefono. Sapeva organizzarsi molto bene ed era già riuscito a buttar giù centocinquanta cartelle di testo. Una volta preso il Lupo Mannaro, avrebbe steso il primo capitolo e il resoconto della cattura. Il resto del materiale sarebbe andato insieme senza intoppi. Aveva preso accordi perché tre dei migliori giornalisti del "Tattler" fossero pronti a partire con breve preavviso. Poche ore dopo la cattura sarebbero già stati sul posto dove il mostro viveva, pronti a raccogliere particolari. Il suo agente parlava di grosse cifre. Discutere con lui del progetto in anticipo era, a rigor di termini, una violazione dell'accordo stretto con Crawford. Per nascondere la scorrettezza, tutti i contratti e le comunicazioni sarebbero stati postdatati a dopo la cattura. Crawford aveva in mano una grossa carta: la registrazione delle frasi minacciose di Lounds. La trasmissione da uno stato all'altro di messaggi minacciosi era un reato perseguibile anche se lui si fosse appellato al Primo Emendamento. Inoltre sapeva che sarebbe bastata una sola telefonata di Crawford per fargli avere guai senza fine con quelli delle tasse. Qualche grumo di onestà Lounds l'aveva ancora; si faceva poche illusioni sulla natura del suo lavoro. Ma in questo progetto metteva un fervore quasi religioso. Era posseduto dalla visione che i soldi portassero con sé una vita migliore. Le sue vecchie speranze, sepolte sotto tutte le porcherie che aveva commesse, continuavano a puntare verso l'alba di un giorno migliore e ora si agitavano, sforzandosi di sorgere. Soddisfatto che macchina fotografica e registratore fossero pronti, andò a casa per farsi tre ore di sonno prima di tornare a Washington, dove, nelle vicinanze della trappola, avrebbe incontrato Crawford. Nel garage sotterraneo lo aspettava una seccatura. Il furgone nero, parcheggiato nello spazio accanto al suo, superava la linea tracciata per terra invadendolo. Lounds aprì con forza la portiera sbattendo nel fianco del furgone e la-
sciando un'ammaccatura. Così avrebbe imparato, quel bastardo. Stava chiudendo l'auto quando alle sue spalle la porta del furgone si aprì. Fece per voltarsi — anzi era mezzo girato — quando qualcosa lo colpì sopra l'orecchio. Sollevò le braccia, ma le ginocchia cedettero. Avvertì una stretta terribile alla gola, gli mancò il respiro. Quando i suoi polmoni in fiamme riuscirono nuovamente a inspirare, inalarono cloroformio. Dolarhyde parcheggiò il furgone dietro casa, scese e si stiracchiò. Per tutta la strada da Chicago aveva lottato contro un vento laterale e sentiva le braccia stanche. Osservò il cielo stellato. La notte di San Lorenzo era vicina, non doveva perdere le stelle. Apocalisse: E la sua coda strascinava dietro a sé la terza parte delle stelle del cielo ed egli le gettò in terra... Quel che lui aveva fatto in un'altra epoca. Doveva vedere e ricordare. Dolarhyde aprì la porta posteriore e, come sempre, fece un giro di controllo per tutta la casa. Uscì mascherato con una calza. Aprì il furgone e attaccò uno scivolo al pianale, poi fece rotolar fuori Freddy Lounds che indossava solo le mutande, un bavaglio e una benda sugli occhi. Era semisvenuto ma non era accasciato. Sedeva con il busto perfettamente eretto, la testa contro lo schienale della vecchia carrozzella di quercia. Dalla nuca alla pianta dei piedi era attaccato alla carrozzella con colla epossidica. Dolarhyde lo spinse in casa e lo sistemò in un angolo del salotto con la faccia contro il muro, come se si fosse comportato male. «Ha freddo? Vuole una coperta?» Gli tolse i pezzi di garza che gli coprivano gli occhi e la bocca. Lounds non rispose. Intorno a lui aleggiava ancora odore di cloroformio. «Le prendo una coperta.» Dolarhyde prese un plaid dal divano e glielo avvolse intorno, coprendolo fino al collo, poi gli mise sotto il naso una boccettina di ammoniaca. Lounds spalancò gli occhi. Vedeva confusamente l'angolo della stanza. Tossì. «Ho avuto un incidente? Sono grave?» La voce alle sue spalle: «No, signor Lounds, tra poco starà benissimo». «Mi fa male la schiena. La pelle. Dio, spero di non essere rimasto bruciato.» «Bruciato? Bruciato. No. Rimanga qui. Torno da lei tra un pochino.» «Mi faccia stendere. Senta, chiami il mio ufficio. Mio Dio, sono su una
carrozzella... Ho la spina dorsale rotta... mi dica la verità!» Un rumore di passi che si allontanavano. «Cosa ci faccio qui?» Una nota stridula alla fine. La risposta gli arrivò da lontano. «È qui a rimettere le sue colpe, signor Lounds.» Lounds sentì i passi salire le scale. Poi lo scroscio di una doccia. Riusciva a ragionare meglio ora. Ricordò di essere uscito dall'ufficio e di essere salito in macchina, ma poi nient'altro. Sentiva una pulsazione vicino all'orecchio e il puzzo del cloroformio gli fece venire un conato di vomito. Nella posizione in cui era temeva che il vomito potesse soffocarlo. Spalancò la bocca e respirò a fondo. Sentiva distintamente le pulsazioni del cuore. Avrebbe preferito dormire. Cercò di sollevare il braccio dal bracciolo, aumentando gradualmente lo sforzo. Il dolore che sentì al palmo e al braccio sarebbe bastato a svegliarlo da qualunque sonno. Non dormiva. Cominciò a riflettere a gran velocità. Sforzandosi riusciva a muovere gli occhi quanto bastava per vedere il braccio. Vide come era stato attaccato al bracciolo: non per proteggere una lesione alla spina dorsale. Non era un ospedale, questo. Era stato rapito. Gli parve di sentire un rumore di passi al piano di sopra, ma avrebbe potuto benissimo essere il battito del suo cuore. Cercò di pensare. Si sforzò. Rimani calmo e pensa, sussurrò. Calma e riflessione. I gradini cigolarono quando Dolarhyde tornò di sotto. Lounds avvertì il peso di lui un gradino dopo l'altro. Ora sentiva una presenza alle sue spalle. Gli ci volle qualche parola prima di riuscire a trovare il volume giusto di voce. «Non ti ho visto in faccia. Non ti posso identificare. Non so che aspetto hai. Al "Tattler", lavoro per il "National Tattler", sarebbero disposti a pagare una ricompensa... una grossa ricompensa per me. Mezzo milione, forse anche un milione. Un milione di dollari.» Alle sue spalle silenzio. Poi il cigolio delle molle di un divano. Doveva essersi seduto. «Lei che cosa crede, signor Lounds?» Dimentica paura e dolore e pensa. Subito. Per guadagnare un po' di tempo. Per vivere ancora anni e anni. Non ha ancora deciso di uccidermi. Non si è fatto vedere in viso. «Cosa sta pensando, signor Lounds?»
«Non so cosa mi è successo.» «Lei sa Chi Sono Io, signor Lounds?» «No e non voglio saperlo, mi creda.» «Secondo lei io sono un minorato sessuale pervertito e vizioso. Una bestia, lei ha detto. Probabilmente fatta uscire da un manicomio da un giudice pieno di buone intenzioni.» Di solito Dolarhyde avrebbe evitato le "s". Di fronte a questo spettatore che non aveva la minima voglia di ridere si sentiva libero di farlo. «Adesso lo sa, vero?» Non mentire. Pensa in fretta. «Sì». «Perché scriveva bugie, signor Lounds? Perché dice che sono pazzo? Risponda subito.» «Quando una persona... quando una persona fa delle cose che la maggior parte della gente non capisce, la gente dice che è...» «Pazzo.» «Lo dicevano anche... dei fratelli Wright. Per tutta la storia...» «La storia. Lei capisce che cosa io sto facendo, signor Lounds?» Capire. Ecco. Una possibilità. Dacci dentro. «No, ma credo di averne la possibilità, adesso; poi anche tutti i miei lettori potranno capire.» «Lei si sente privilegiato, per questa possibilità?» «È un privilegio. Ma devo dirle una cosa, da uomo a uomo: ho paura. È difficile concentrarsi quando si ha paura. Se lei ha delle idee grandiose non dovrebbe spaventarmi per convincermi.» «Da uomo a uomo. Da uomo a uomo. Lei adopera questa frase che implica franchezza. Lo apprezzo, signor Lounds. Ma, vede, io non sono un uomo. Ho cominciato come tale, ma con la Grazia di Dio e la mia Volontà, sono diventato Diverso e Superiore a un uomo normale. Lei dice di essere impaurito. Lei crede che ci sia Dio qui presente, signor Lounds?» «Non lo so.» «Lo sta pregando in questo momento?» «A volte prego. A essere sincero, prego quasi solo quando ho paura.» «E Dio le viene in aiuto?» «Non so, dopo non ci penso più, anche se dovrei.» «Dovrebbe. Hmmmm. Ci sono tante cose che dovrebbe capire. Tra poco l'aiuterò a capirle. E adesso mi perdoni un attimo.» «Ma certo.» I passi uscivano dalla stanza. Il rumore di un cassetto di cucina aperto. Lounds aveva scritto molti articoli su delitti commessi in cucina, dove ci sono numerosi oggetti a portata di mano. I verbali di polizia possono far
cambiare completamente l'immagine che ci si forma delle cucine. Lo scroscio del rubinetto. Lounds valutò che doveva essere ormai buio. Crawford e Graham lo aspettavano. Senz'altro l'ora dell'appuntamento era trascorsa. Un soprassalto di tristezza si unì brevemente alla paura. Un respiro alle sue spalle. Un lampo bianco colto con la coda dell'occhio. Una mano, pallida e robusta. Reggeva una tazza di tè addolcita con miele. Lounds lo sorbì con una cannuccia. «Potrei scrivere un articolo importantissimo,» disse tra un sorso e l'altro. «Tutto quello che lei vuole dire. Darò di lei l'immagine che preferisce. O meglio, nessuna immagine, nessuna immagine.» «Shhhh.» Un colpetto con un solo dito sulla sommità del cranio. Le luci si accesero. La carrozzella cominciò a girare. «No. Non voglio vederla.» «Oh, ma deve, signor Lounds. Lei è un giornalista. È qui per riferire. Quando l'avrò fatta girare, apra gli occhi e mi guardi. Se rifiuta, le appiccico le palpebre alla fronte.» Una specie di biascichio, uno scatto e la carrozzella ruotò su se stessa. Lounds tenne gli occhi serrati. Sentì un dito battere con insistenza sul petto, sfiorargli le palpebre. Aprì gli occhi. A Lounds, seduto, parve molto alto, ritto com'era con indosso il kimono. Una calza gli mascherava il viso fino all'atezza del naso. Gli voltò le spalle e lasciò cadere il kimono. Apparvero i grossi muscoli del dorso che si flettevano sotto il tatuaggio della coda che scendeva dalla schiena, avvolgendosi intorno alla gamba. Il Drago voltò lentamente la testa e guardò Lounds al di sopra della spalla scoprendo le zanne aguzze e macchiate di sangue rappreso. «Oh Gesù mio» disse Lounds. Lounds si trovava in mezzo alla stanza da dove poteva vedere lo schermo. Dolarhyde alle sue spalle si era rimesso il kimono e i denti che gli permettevano di parlare. «Vuol sapere Chi Sono Io?» Lounds fece per annuire ma il cuoio capelluto, incollato allo schienale glielo impedì. «Più di ogni altra cosa. Non osavo chiedere.» «Guardi.» La prima diapositiva rappresentava il quadro di Blake, il grande UomoDrago con le ali aperte e la coda pronta a frustare, chino sopra la Donna Vestita di Sole.
«Vede ora?» «Vedo.» Dolarhyde fece passare rapidamente le altre diapositive. Click. La signora Jacobi viva. «Ha visto?» «Sì.» Click. La signora Leeds viva. «Ha visto?» «Sì.» Click. Dolarhyde, il Drago rampante, con i muscoli contratti e la gamba tatuata davanti al letto degli Jacobi. «Ha visto?» «Sì.» Click. La signora Jacobi in attesa. «Ha visto?» «Sì.» Click. La signora Jacobi dopo. «Ha visto?» «Sì.» Click. Il Drago rampante. «Ha visto?» «Sì.» Click. La signora Leeds in attesa, il corpo del marito abbandonato accanto a lei. «Ha visto?» «Sì.» Click. La signora Leeds dopo, tutta coperta di chiazze di sangue. «Ha visto?» «Sì.» Click. La foto di Freddy Lounds, tratta dal "Tattler". «Ha visto?» «Oh Dio.» «Ha visto?» «Oh mio Dio.» Parole sforzate, contratte, come quelle di un bambino che parla piangendo. «Ha visto?» «La prego, no.» «No cosa?» «Non me.» «No cosa? Lei è un uomo, signor Lounds. Vero?» «Sì.» «Lei insinua che io sarei un finocchio?» «Dio, no.» «Lei è finocchio, signor Lounds?» «No.» «Intende scrivere altre menzogne sul mio conto, signor Lounds?»
«Oh no, no.» «Perché le ha scritte, signor Lounds?» «Mi sono state dette dalla polizia. Loro le dicevano.» «Lei cita Will Graham.» «È stato Graham a raccontarmele. Graham.» «E adesso dirà la verità sul mio conto? Su di Me, sulla mia Opera? Il mio Avvento? La mia Arte, signor Lounds? Non è forse Arte questa?» «È arte.» L'espressione terrorizzata di Lounds diede a Dolarhyde la libertà di parlare, senza preoccuparsi delle sibilanti. «Lei ha detto che io, che vedo più lontano di lei, sono matto. Sono matto io che ho fatto fare al mondo un balzo molto più grande di quanto lei non abbia fatto. Io ho osato più di lei, ho lasciato sulla terra la traccia profonda del mio sigillo inimitabile, una traccia che durerà quando lei non sarà altro che polvere. E, rispetto alla mia, la sua vita è come la bava di una lumaca su una pietra. Un leggero muco argenteo che entra ed esce dalle lettere scolpite sul mio monumento.» Le parole che aveva scritto sul diario traboccarono. «Io sono il Drago e lei dice che sono pazzo? I miei movimenti sono seguiti e registrati con la stessa avidità con cui si registrano quelli di una grande cometa. Ha mai sentito parlare della cometa del 1054? No, naturalmente. I suoi lettori la seguono come un bambino segue con il dito la traccia della lumaca, e con gli stessi stanchi circuiti mentali. Si appoggiano alla sua testa vuota e a quella sua faccia proprio come una lumaca segue la propria bava per tornare a casa. «Davanti a Me lei è come una chiocciola contro il disco del sole. Lei ha il privilegio di assistere a un grande Avvento e non se ne rende conto. Lei è una formica nella placenta. «La sua natura le permette di tenere un solo comportamento giusto: di fronte a me, lei, giustamente, trema. Di fronte a me, Lounds non deve mostrare paura. Lei e gli altri insetti come lei. Deve mostrare Timore Reverenziale.» Dolarhyde rimase ritto a capo chino, stringendosi il naso tra il pollice e l'indice. Poi uscì. Non si è tolto la maschera, pensò Lounds. Non si è tolto la maschera. Se torna senza, sono morto. Dio, sono tutto bagnato. Girò lo sguardo verso la porta e attese, ascoltando i rumori che provenivano dalla parte posteriore della casa.
Dolarhyde ritornò e indossava ancora la maschera. Portava una borsetta da picnic e due thermos. «Per il suo ritorno a casa.» Gli mostrò un thermos. «Ghiaccio: ci servirà. Ma prima di partire faremo una piccola registrazione.» Attaccò un microfono al plaid vicino al viso di Lounds. «Ripeta quello che dico.» La registrazione durò mezz'ora. Finalmente: «È tutto, signor Lounds. Si è comportato molto bene.» «E adesso mi lascia andare?» «La lascerò andare. Tuttavia, devo fare ancora qualcosa per aiutarla a capire e a ricordare.» Gli voltò le spalle. «Voglio davvero capire. E voglio dirle che apprezzo che lei mi lasci libero. D'ora in poi sarò leale, lo sa.» Dolarhyde non poteva rispondergli. Aveva cambiato i denti. Il registratore aveva ripreso a girare. Sorrise a Lounds, con i denti coperti di macchie marroni. Gli posò una mano sul cuore e, chinandosi su di lui come se volesse dargli un bacio, gli morse le labbra e le sputò sul pavimento. Alba a Chicago, calura, cielo grigio incombente. Dal salone d'ingresso del "Tattler" uscì un guardiano che si fermò sul bordo del marciapiede fumando una sigaretta e massaggiandosi le reni. Era solo nella strada e, nel silenzio, sentiva lo scatto del semaforo alla fine della salita, a un isolato di distanza. Mezzo isolato a nord del semaforo, nascosto alla vista del guardiano, Francis Dolarhyde se ne stava acquattato nel vano del furgone accanto a Lounds. Il giornalista era stato avvolto completamente in una coperta che gli nascondeva il viso. Le sofferenze di Lounds erano tremende. Sembrava in stato di incoscienza ma la mente lavorava a tutta velocità. C'erano dei particolari che doveva ricordare. Il naso gli teneva sollevata la benda che portava sugli occhi e vedeva le dita di Dolarhyde controllare il bavaglio macchiato di sangue rappreso. Dolarhyde indossò una giacca bianca da infermiere, posò un thermos sulle ginocchia di Lounds e lo fece scendere dal furgone. Bloccò le ruote della carrozzella e si voltò per infilare lo scivolo nel furgone; fu allora che Lounds vide da sotto la benda l'estremità del paraurti posteriore.
Si sforzò di voltare la testa, seguendo il paraurti... Ecco! La targa. Un attimo, ma se la impresse nella mente. La carrozzella si era avviata. Le fessure del marciapiede. Girava l'angolo, scendeva dal marciapiede. Rumore di carta sotto le ruote. Dolarhyde fermò la carrozzella nello spazio tra un cumulo di rifiuti e un camion parcheggiato. Strappò la benda. Lounds strinse gli occhi. Una boccetta di ammoniaca sotto il naso. La voce bassa di lato, vicina. «Mi sente? È quasi arrivato.» Via la benda. «Sbatta gli occhi se mi sente.» Dolarhyde gli aprì un occhio con l'indice e il pollice. Lounds si trovò a guardarlo. «Le ho detto una piccola bugia.» Picchiò un dito sul thermos. «Qui dentro non ci sono le sue labbra in ghiaccio.» Strappò la coperta e aprì il thermos. Lounds fece uno sforzo tremendo quando sentì l'odore della benzina. La pelle degli avambracci rimase attaccata ai braccioli, la struttura massiccia della carrozzella cigolò. Sentì il freddo della benzina avvolgerlo, i vapori riempirgli la gola. Un attimo dopo la carrozzella veniva spostata al centro della strada. «Ti piace fare il cane di Graham, Freddy?» La carrozzella fu avvolta da una vampata, poi prese a scendere verso il "Tattler", le ruote cigolanti. Il guardiano guardò in su. L'urlo di Lounds aveva fatto saltar via il bavaglio in fiamme. Vide la palla di fuoco arrivargli incontro, sobbalzando sulle buche, seguita da una scia di scintille e di fiamme che si riflettevano distorte nelle vetrine dei negozi. La carrozzella cambiò direzione, urtò un'auto parcheggiata e si rovesciò di fronte al palazzo del "Tattler". Una ruota continuò a girare tagliando le fiamme con i raggi. Dalla massa di fuoco si alzavano le braccia ustionate di Lounds. Il guardiano rientrò di corsa nell'atrio. Si chiese se non ci sarebbe stata un'esplosione, se non fosse il caso di tenersi lontano dalle finestre. Schiacciò il pulsante dell'allarme antincendio. Che altro fare? Afferrò un estintore appeso alla parete e guardò fuori. Non era ancora esploso. Si avvicinò prudentemente tra le volute di fumo grasso che si allargavano sul fondo stradale e, finalmente, spruzzò la schiuma addosso a Freddy Lounds.
20 In base agli orari stabiliti, Graham doveva uscire dall'appartamentotrappola di Washington alle cinque e tre quarti del mattino, con notevole anticipo rispetto all'ondata del traffico. Crawford gli telefonò mentre si faceva la barba. «Buongiorno.» «Mica tanto buono» ribatté Crawford. «Il Lupo Mannaro ha beccato Lounds a Chicago.» «Oh, diavolo, no.» «Non è ancora morto e ha chiesto di te. Non gli rimane molto.» «Vado.» «Mi trovi all'aeroporto. Volo 245 della United Airlines. Parte tra quaranta minuti. Puoi fare a tempo a tornare per la trappola, se è ancora innescata.» L'agente speciale Chester, dell'ufficio di Chicago, li aspettava all'aeroporto O'Hara sotto uno scroscio di pioggia. Chicago è abituata alle sirene. La strada davanti a loro si liberava con riluttanza mentre Chester filava con la sirena ululante lungo la strada di scorrimento. La luce rossa sul tetto lanciava lampi rosati nella pioggia battente. Alzò la voce, coprendo la sirena. «La polizia di Chicago dice che è stato beccato nel suo garage. Ho informazioni di seconda mano. Non ci vedono di buon occhio, oggi.» «Quanto è già trapelato?» chiese Crawford. «Tutto. Da cima a fondo.» «Lounds è riuscito a vederlo?» «Se ha fatto una descrizione, non me l'hanno data. Verso le sei e venti la polizia ha diffuso un fonogramma urgentissimo con il numero di targa.» «Ti sei messo in contatto con il dottor Bloom, per conto mio?» «Con sua moglie, Jack. Stamattina il dottor Bloom si è fatto togliere la cistifellea.» «Splendido» fu il commento di Crawford. Chester si fermò sotto il porticato gocciolante dell'ospedale. «Jack, Will, prima che andiate su...» disse voltandosi, «ho sentito che il bel servizio che gli hanno fatto l'ha ridotto male. È bene che siate preparati.» Graham annuì. Durante tutto il volo aveva cercato di soffocare la spe-
ranza che Lounds morisse, per evitare di doverlo vedere. Il corridoio del centro ustionati era ricoperto di piastrelle immacolate. Un medico alto, con un volto giovane e vecchio al tempo stesso, allontanò Graham e Crawford dal capannello di persone davanti alla porta di Lounds. «Le ustioni del signor Lounds sono letali» li informò. «Posso evitargli le sofferenze e intendo farlo. Ha respirato le fiamme e ha gola e polmoni danneggiati. Forse non riprenderà più coscienza. Nelle sue condizioni sarebbe una benedizione. «In caso contrario, la polizia mi ha chiesto di togliergli la cannula che ha in gola per permettergli di rispondere alle domande. Ho acconsentito. Ma solo per poco. «Attualmente le terminazioni nervose sono state anestetizzate dal fuoco. Se sopravviverà ancora, il dolore sarà insopportabile. L'ho detto chiaro alla polizia e lo dico chiaro anche a voi: se mi chiede di fargli cessare il dolore interrompo qualunque interrogatorio. Ci siamo capiti?» «Sì» rispose Crawford. Con un cenno al poliziotto fermo di fronte alla porta, il medico infilò le mani sotto il camice bianco e si allontanò veleggiando come un airone bianco. Crawford lanciò un'occhiata a Graham. «Pronto?» «Pronto.» Lounds era disteso sul letto con la testa sollevata sui cuscini. Capelli e orecchie non c'erano più, gli occhi ciechi erano coperti da compresse di garza che sostituivano le palpebre ustionate. Le gengive erano piene di vesciche. L'infermiera accanto a lui spostò leggermente lo stelo dell'ipodermoclisi per permettere a Graham di avvicinarsi. C'era puzzo di carne bruciata. «Freddy, sono Will Graham.» 'Lounds inarcò il collo contro il cuscino. «Un movimento riflesso, è incosciente» disse l'infermiera. La cannula di plastica che si infilava nella gola gonfia e ustionata sibilava in sintonia con il polmone artificiale. Un sergente della squadra investigativa, pallidissimo, se ne stava seduto in un angolo con un registratore e un taccuino sulle ginocchia. Graham si rese conto della sua presenza solo quando lo fece parlare. «Lounds ha fatto il suo nome al pronto soccorso prima che gli infilassero il tubo.» «Lei era presente?»
«Sono arrivato dopo. Ma quello che ha detto è stato registrato. Ha dato un numero di targa ai pompieri. Poi è svenuto ed è rimasto svenuto durante il tragitto in ambulanza. È rinvenuto per un minuto circa al pronto soccorso, quando gli hanno fatto un'iniezione nel torace. Qualcuno del "Tattler" aveva seguito l'ambulanza... erano lì presenti. Ho una copia della loro registrazione.» «Me la faccia sentire.» Il poliziotto armeggiò con il registratore. «Meglio che usi l'auricolare» disse, sforzandosi di rimanere impassibile. Schiacciò un pulsante. Graham sentì alcune voci e il rumore delle ruote della lettiga, «... mettetelo alla tre» il tonfo della lettiga contro una porta a molla, un conato di vomito e la voce rauca di un uomo che parlava senza labbra. «Lu-ho Hannaro.» «Freddy, l'hai visto? Com'era, Freddy?» «Wendy? Hrego, Wendy. Graham hi ha hregato. Lo saheva huel cazzone. Mi ha hesso la hano addosso nella hoto cohe se hossi il huo hane. Wendy?» Un gorgoglio. Poi la voce di un medico. «Adesso basta. Fatemi posto. Fuori dai piedi. Immediatamente.» Nient'altro. Graham andò accanto a Lounds mentre Crawford ascoltava a sua volta la registrazione. «Stiamo cercando di sapere a chi appartiene la targa» spiegò il sergente. «Ha capito cosa voleva dire?» «Chi è Wendy?» chiese Crawford. «Quella battona che c'è in corridoio. La bionda con le tette. Ha cercato di vederlo. Non sa nulla.» «Perché non l'ha fatta entrare?» chiese Graham voltando loro la schiena. «Niente visitatori.» «Quest'uomo sta morendo.» «E crede che io non lo sappia? Sono qui dalle sei meno un quarto. Cazzo. Mi scusi, infermiera.» «Si prenda qualche minuto» disse Crawford. «Beva un po' di caffè, si dia una rinfrescata alla faccia. Lui non è in grado di parlare. Se dovesse dire qualcosa, sono qui pronto con il registratore.» «Okay, ne ho proprio bisogno.» Quando il poliziotto se ne fu andato, Graham lasciò Crawford accanto al letto e si avvicinò alla donna nel corridoio.
«Wendy?» «Sì.» «Se è sicura di voler entrare, la accompagno io.» «Sì che voglio. Forse dovrei darmi una pettinata.» «Non ha importanza,» disse Graham. Il poliziotto, quando fu tornato, non cercò di buttarla fuori. Wendy teneva il moncherino annerito di Lounds guardandolo fissa. Lounds poco prima di mezzogiorno ebbe un fremito. «Andrà tutto bene, Roscoe» disse Wendy. «Vedrai che ce la spassiamo ancora.» Ancora un fremito e Lounds morì. Il capitano Osborne della squadra omicidi di Chicago aveva un viso grigio e aguzzo come quello di una volpe. In tutto il dipartimento c'erano copie del "Tattler". Una era posata sulla sua scrivania. Non invitò Crawford e Graham a mettersi seduti. «Non avete fatto nulla con Lounds, qui a Chicago?» «No, stava per venire a Washington,» spiegò Crawford. «Aveva prenotato un volo. Senz'altro avrete controllato.» «Già. È uscito dall'ufficio verso l'una e mezzo. È stato aggredito nel garage del suo palazzo; dovevano essere più o meno le due meno dieci.» «Trovato qualcosa nel garage?» «Le chiavi erano state buttate sotto la sua macchina. Il garage non ha custodi. C'era una porta radiocomandata una volta, ma siccome era calata addosso a un paio di auto l'hanno tolta. Nessuno ha visto. È il ritornello, oggi. Stiamo esaminando la macchina.» «Possiamo darvi una mano?» «Vi darò i risultati quando li daranno a me. Lei non ha detto tante cose, Graham. Ma al giornale ne aveva di cose da raccontare.» «Ha le palle girate, capitano?» chiese Crawford. «Io? E perché dovrei averle? Rintracciamo un numero telefonico per conto vostro e incastriamo un giornalista del cazzo. E poi voi non lo accusate di niente. Senz'altro vi siete accordati con lui e ce lo ritroviamo cotto davanti a quel giornale scandalistico. E adesso gli altri giornali lo hanno adottato come se fosse figlio loro. «E adesso il vostro Lupo Mannaro viene a far fuori la gente qui a Chicago. Una bellezza. "Il Lupo Mannaro colpisce a Chicago", ragazzi. Entro mezzanotte ci saranno almeno sei feriti per sbaglio... un tizio cerca di en-
trare in casa sua ubriaco la moglie lo sente... bang. E magari il Lupo Mannaro decide che Chicago gli piace, resta qui a spassarsela.» «Possiamo fare due cose» intervenne Crawford. «Prenderci a cornate, far litigare il capo della polizia e il procuratore degli Stati Uniti, far incazzare tutte le teste di cazzo, dalla parte mia e dalla parte sua. Oppure metterci d'accordo e cercare di prendere quel bastardo. Questa era un'iniziativa mia ed è andata a puttane, lo so benissimo. A voi qui a Chicago non è mai successo? Non voglio star qui a litigare con lei, capitano. Vogliamo prenderlo e tornarcene a casa. Lei cosa vuole?» Osborne spostò un paio di oggetti sulla scrivania, un portapenne, la foto incorniciata di un bambino dal muso di volpe nell'uniforme della banda. Si rilassò sulla poltrona, strinse le labbra ed espirò lentamente. «Al momento voglio un po' di caffè. Ne volete anche voi?» «Volentieri,» disse Crawford. «Anch'io» disse Graham. Osborne distribuì il caffè nei bicchieri di plastica. Indicò un paio di sedie. «Il Lupo Mannaro deve aver portato in giro Lounds e la carrozzella con un furgone o un camion,» disse Graham. Osborne annuì. «La targa che Lounds ha visto è stata rubata a un camion di una ditta che ripara televisori a Oak Park. Ha preso una targa da veicolo commerciale, quindi vuol dire che doveva avere un camion o un furgone. Poi ha sostituito la targa che aveva rubato con un'altra, sempre rubata. Furbo, il tipo. Una cosa sappiamo: la targa è stata presa dopo le otto e mezzo di ieri mattina. La prima cosa che il tecnico ha fatto ieri mattina è stato fare il pieno. Ha usato una carta di credito e l'addetto alla pompa ha messo la targa giusta sulla ricevuta. Dunque senz'altro è stata rubata dopo.» «Nessuno ha visto camion o furgoni?» volle sapere Crawford. «Niente. Il guardiano del "Tattler" non ha visto un accidente. Potrebbe far l'arbitro di lotta libera tanto poco ci vede. I primi a essere chiamati sono stati i pompieri, e a loro interessava il fuoco e basta. Stiamo interrogando uno per uno tutti gli operai che fanno il turno di notte nella zona del "Tattler" e nella zona dove si trovava martedì mattina il tecnico TV. Speriamo di trovare qualcuno che l'ha visto fregare la targa.» «Vorrei vedere di nuovo la sedia a rotelle,» disse Graham. «L'hanno portata al nostro laboratorio. Li avverto che passate di là.» Una pausa. «Lounds era uno coi coglioni, dovete ammetterlo. Ricordare il numero di targa e sputarlo fuori, ridotto com'era. Lei ha sentito che cos'ha
detto in ospedale?» Graham annuì. «Non vorrei girare il dito nella piaga, ma mi interessa sapere se abbiamo capito la stessa cosa. Secondo lei cosa voleva dire?» Graham tradusse con voce monotona: «Lupo Mannaro. Graham mi ha fregato. Lo sapeva quel cazzone. Mi ha messo la mano addosso come se fossi il suo cane.» Osborne non riuscì a capire che cosa provasse Graham. Fece un'altra domanda. «Si riferiva alla foto sul "Tattler"?» «Senza dubbio.» «E perché gli è venuta un'idea del genere?» «Lounds e io avevamo avuto qualche scontro.» «Ma lei nelle foto aveva un atteggiamento amichevole verso Lounds. Il Lupo Mannaro ammazza prima gli animali di casa, non è vero?» «È vero.» Era sveglia la volpe, pensò Graham. «Peccato che non l'abbiate messo legato a fare da esca.» Graham non disse nulla. «In base agli accordi, Lounds avrebbe dovuto essere con noi nel momento in cui il Lupo Mannaro poteva vedere il "Tattler"» disse Crawford. «Quello che ha detto, secondo lei, ha qualche altro significato, qualcosa che ci potrebbe essere utile?» Graham si era perso nei suoi pensieri e dovette ripetere tra sé la domanda di Osborne prima di rispondere. «Da quello che Lounds ha detto sappiamo che il Lupo Mannaro doveva aver visto il "Tattler" prima di ammazzarlo, giusto?» «Giusto.» «Se si parte dall'ipotesi che sia stato il "Tattler" a scatenarlo, non pensa che abbia organizzato tutto in fretta e furia? Il giornale è uscito lunedì sera e lui il martedì, probabilmente il martedì mattina, è già a Chicago a rubare la targa. E poi rapisce Lounds martedì pomeriggio. A lei questo cosa dice?» «Che ha letto subito l'articolo oppure che non veniva da lontano,» disse Crawford. «O l'ha letto qui a Chicago, oppure lunedì sera in qualche altro posto. Bisogna ricordare che aspettava un messaggio tra gli annunci personali.» «O si trovava già qui, o poteva venirci in macchina,» proseguì Graham. «È andato addosso a Lounds troppo in fretta. Non poteva portare in aereo
una sedia a rotelle grossa come quella: non è nemmeno pieghevole. E non è arrivato qui in aereo per poi rubare un furgone, rubare due targhe e andarsene in giro a cercare una vecchia sedia a rotelle. Doveva avercela lui... una nuova non sarebbe servita allo scopo.» Graham si era alzato, e tormentava la corda delle veneziane, fissando la parete di mattoni dall'altra parte del cavedio. «Doveva già avere la sedia a rotelle, oppure la vedeva sempre in giro.» Osborne fece per domandare qualcosa, ma Crawford con una smorfia del viso gli ordinò di aspettare. Graham annodava la cordicella. Le mani gli tremavano. «La vedeva continuamente,» suggerì Crawford. «Hmm» borbottò Graham. «Vedete... l'idea è partita dalla sedia a rotelle. Perché la vedeva o ci pensava. Ecco come gli è venuta l'idea quando ha pensato cosa doveva fare a quei fottuti. Freddy che rotolava in fiamme giù per la strada, che spettacolo!» «Lei crede che sia rimasto a guardare?» «Forse. Senza dubbio se l'è immaginato prima di farlo, quando ancora stava decidendo cosa fare.» Osborne osservò Crawford. Sapeva che era un uomo solido, sapeva che era una persona concreta e se lui stava a sentire questa storia... «Se aveva la sedia a rotelle, o se ce l'aveva sempre sotto gli occhi... potremmo controllare gli ospizi» disse Osborne. «Era perfetta per tenere immobilizzato Freddy» proseguì Graham. «E per un bel pezzo. È rimasto nelle sue mani quindici ore e venticinque minuti, più o meno» disse Osborne. «Se avesse semplicemente voluto far fuori Freddy avrebbe potuto farlo benissimo in garage» disse Graham. «Avrebbe potuto bruciarlo nella sua macchina. Voleva parlargli. Forse fargli un po' di male.» «Deve averlo fatto dentro il furgone, oppure l'ha portato in qualche altro posto» disse Crawford. «Dato il tempo che ci ha messo, direi che la seconda ipotesi è quella giusta.» «Doveva trattarsi di un posto sicuro. Se lo infagottava bene, avrebbe potuto farlo passare inosservato entrando e uscendo da un ospizio» disse Osborne. «Comunque ci sarebbero stati degli inconvenienti» disse Crawford. «Doveva rimettere in ordine, ripulire. Supponendo che avesse la sedia a rotelle, che disponesse del furgone e che avesse anche un posto sicuro dove lavorarselo, non vi pare che questo posto possa essere... casa sua?»
Il telefono squillò. Osborne ringhiò qualcosa nella cornetta. «Cosa?... No, non voglio parlare al "Tattler"... Bene, meglio che non sia una stronzata. Me la passi... Sì, sono il capitano Osborne... a che ora? Chi ha risposto al telefono... al centralino? La faccia smontare, per favore. Ripeta quello che ha detto... Mando lì un agente nel giro di cinque minuti.» Riappese e rimase a guardare meditabondo l'apparecchio. «La segretaria di Lounds ha ricevuto una telefonata cinque minuti fa» annunciò. «Giura che era la voce di Lounds. Ha detto qualcosa, qualcosa che non ha capito, come "... la potenza del Drago Rosso". Ecco cosa le pare di aver sentito.» 21 Il dottor Frederick Chilton aspettava in piedi nel corridoio davanti alla cella di Hannibal Lecter, attorniato da tre robusti infermieri. Uno aveva in mano una camicia di forza e dei legacci per bloccare i movimenti delle gambe, un altro una bomboletta di Mace, il gas paralizzante. Il terzo stava infilando una freccia piena di tranquillante in un fucile ad aria compressa. Lecter, seduto al tavolo, leggeva delle tabelle statistiche prendendo appunti. Aveva sentito il rumore dei passi. Avvertì la presenza del fucile alle sue spalle, ma continuò a leggere senza dar segno di essersi accorto dell'arrivo di Chilton. Chilton gli aveva fatto consegnare i giornali a mezzogiorno, lasciandolo poi aspettare fino a sera, a chiedersi quale sarebbe stata la sua punizione per aver aiutato il Drago. «Dottor Lecter,» lo chiamò Chilton. Lecter girò la testa. «Buonasera, dottor Chilton.» Finse di non accorgersi della presenza dei secondini. Guardava solo il direttore. «Sono venuto a prenderle i libri. Tutti.» «Capisco. Posso chiederle per quanto tempo intende trattenerli?» «Dipende dal suo atteggiamento.» «L'ha deciso lei?» «Qui sono io che decido le misure punitive.» «Naturalmente. Will Graham non avrebbe mai richiesto una misura del genere.» «Arretri verso la rete e si infili questa, dottor Lecter. Non intendo dirglielo due volte.» «Ma certo, dottor Chilton. Spero che sia taglia quarantotto... le quaranta-
sei stringono all'altezza del torace.» Il dottor Lecter indossò la camicia di forza come se fosse un abito da sera. Uno degli infermieri allungò una mano tra le sbarre e gli legò le maniche dietro la schiena. «Lo porti sulla branda,» ordinò Chilton. Mentre i secondini svuotavano gli scaffali, Chilton si pulì le lenti degli occhiali e smosse, aiutandosi con una penna, le carte personali di Lecter. Lecter lo osservava dall'angolo scuro dov'era sistemata la branda. Anche con la camicia di forza conservava una strana grazia. «Sotto la cartella gialla» disse tranquillo, «troverà una lettera di rifiuto che gli "Archives" le hanno spedito. Era finita per errore nella mia posta. Temo di averla aperta senza guardare la busta. Spiacente.» Chilton arrossì. «Meglio togliere la tavoletta al water del dottor Lecter» disse rivolto a un secondino. Chilton diede un'occhiata alla tabella demografica. In alto Lecter aveva segnato la sua età: quarantun anni. «Cosa vuol calcolare con questa?» chiese. «I molti anni che mi rimangono ancora.» Il capo settore Brian Zeller portò la valigetta del corriere e le ruote della sedia a rotelle al reparto Analisi Strutturali. Camminava a passi così rapidi che i pantaloni di gabardine quasi fischiavano. I tecnici, trattenuti dopo la fine del turno di servizio, conoscevano perfettamente il significato di quel fischio: Zeller aveva una gran fretta. Di ritardi ce n'erano già stati abbastanza. Il corriere, spossato perché il volo per Chicago a causa delle condizioni meteorologiche era stato dirottato su Philadelphia, aveva dovuto noleggiare un'auto e farsi tutta la strada fino a Washington. Il laboratorio della scientifica di Chicago è efficiente ma ci sono certe analisi che non è in grado di svolgere. Zeller era pronto a farlo. Consegnò allo specialista dello spettrometro di massa le tracce di vernice rimaste sullo spigolo della portiera di Lounds. A Beverly Katz, del settore capelli e fibre vennero affidate le ruote che avrebbe analizzato insieme agli specialisti della sua sezione. L'ultima fermata fu nella stanzetta torrida in cui Liza Lake era china sul gascromatografo. Stava analizzando le ceneri di un incendio doloso avvenuto in Florida e osservava lo stilo tracciare linee irregolari su un diagramma mobile.
«Fluido per accendini marca Ace» disse. «Ecco con cosa ha fatto partire l'incendio.» Aveva ormai visto tanti di quei campioni che riusciva a riconoscere le varie marche senza controllare sul manuale. Zeller le tolse gli occhi di dosso e si rimproverò severamente per essersi lasciato prendere da un moto di piacere sul lavoro. Si schiarì la gola e le allungò due barattoli di vernice lucenti. «Chicago?» Zeller annuì. Liza controllò lo stato dei barattoli e i sigilli sul tappo. Uno conteneva ceneri raccolte sulla sedia a rotelle, l'altro tessuti organici carbonizzati di Lounds. «Da quanto sono nei barattoli?» «Da almeno sei ore.» «Li faccio subito.» Perforò il tappo con una siringa dall'ago robustissimo, estrasse l'aria e la iniettò direttamente nel gascromatografo. Regolò accuratamente alcune manopole. Mentre il campione di aria percorreva la colonna dell'apparecchiatura, lunga centocinquanta metri, la punta scrivente tracciava una serie di punte sul diagramma mobile. «Senza piombo...» osservò. «E gasohol, gasohol senza piombo. Non capita spesso di vederlo.» Fece passare rapidamente un raccoglitore con i grafici delle varie sostanze. «Non posso ancora dirti di che marca è. Adesso provo con il pentano, poi ti faccio sapere.» «Bene» disse Zeller. Il pentano scioglieva i fluidi contenuti nelle ceneri, e, immesso nel gascromatografo, si volatilizzava subito lasciando i fluidi da analizzare. All'una di notte Zeller aveva ricevuto tutto quel che era stato possibile scoprire. Liza Lake era riuscita a trovare la marca: Freddy Lounds era stato bruciato con un gasohol "Servco Supreme". Una paziente opera di ripulitura delle gomme della carrozzella aveva permesso di riconoscere due tipi di fibre, lana e materiale sintetico. La muffa rimasta nei solchi dei pneumatici indicava che la carrozzella era stata riposta in un posto freddo e buio. I risultati delle altre analisi erano meno soddisfacenti. La vernice non era quella originale usata dai fabbricanti di automobili. Immessa nello spettrografo di massa e confrontata con i prodotti usati dalle industrie automobili-
stiche nazionali, si era rivelata essere smalto Duco prodotto in una grossa partita nel primo trimestre del 1978 e venduto a numerose carrozzerie. Zeller aveva sperato di scoprire la marca del veicolo e, più o meno, l'anno di produzione. Inviò a Chicago i risultati via telex. Il dipartimento di polizia di Chicago rivoleva le ruote. Il pacco risultava piuttosto ingombrante per il corriere. Zeller aveva messo i rapporti scritti delle analisi di laboratorio nella sua borsa, insieme alla posta e a un pacchetto che gli aveva inviato Graham. «Non sono mica l'espresso federale,» si lamentò il corriere quando fu sicuro che Zeller non potesse sentirlo. Il dipartimento della Giustizia dispone di diversi appartamentini nei dintorni del tribunale del settimo distretto di Chicago. Li usano i giuristi, gli esperti e i testimoni dell'accusa durante le sessioni della corte. Graham ne occupava uno, Crawford un altro sul lato opposto del corridoio. Rientrò alle nove di sera bagnato fradicio e stanco. Non aveva approfittato della cena, offertagli durante il volo da Washington, e l'idea del cibo lo disgustava. Quel mercoledì piovoso finalmente stava per finire. Una delle più brutte giornate della sua vita. Gli pareva che per tutto il giorno — nel garage di Lounds, sotto la pioggia sul marciapiedi pieno di crepe dove il giornalista era bruciato — Chester non avesse fatto altro che osservarlo standogli alle spalle. Abbagliato dai lampi dei fotografi, raccontò ai giornalisti di essere «rattristato per la perdita dell'amico Frederick Lounds.» Sarebbe anche andato al suo funerale. Ci sarebbero stati anche un certo numero di poliziotti e di agenti federali nella speranza che l'assassino potesse farsi vedere. Non provava sensazioni particolari, solo una fredda nausea e, di quando in quando, un soprassalto di contentezza morbosa al pensiero di non esser morto bruciato al posto di Lounds. Gli pareva di non avere imparato nulla in quarant'anni, di essersi solo caricato di stanchezza. Preparò un martini abbondante che bevve spogliandosi. Ne prese un altro dopo la doccia mentre guardava il notiziario alla TV. ("Scattata a vuoto trappola dell'FBI, morto anziano giornalista. Ritorneremo su questa notizia nella nostra rubrica 'Testimoni oculari'.") L'assassino era ormai chiamato "il Drago": il "Tattler" aveva diffuso la notizia a tutte le reti.
Preparò un terzo martini e telefonò a Molly. Molly aveva visto il notiziario delle sei e quello delle dieci e letto una copia del "Tattler". Ormai sapeva che Graham si era offerto come esca. «Avresti dovuto dirmelo, Will.» «Forse. Ma non credo fosse il caso.» «E adesso cercherà di uccidere te?» «Prima o poi. Ma adesso gli sarà difficile, dato che sono continuamente in movimento. Sono guardato a vista, Molly e lui lo sa. Non mi succederà niente.» «Hai la voce un po' impastata, hai fatto una visitina all'amico nel frigo?» «Me ne son fatti un paio.» «Come ti senti?» «Uno schifo.» «Alla TV hanno detto che l'FBI non aveva dato nessun tipo di protezione a quel giornalista.» «Avrebbe dovuto essere già da Crawford al momento dell'uscita del giornale.» «Lo chiamano il "Drago", adesso.» «È il nome che si è dato lui.» «Will, c'è una cosa... Voglio prendere su Willy e andarmene via di qui.» «E dove?» «Dai nonni. È un bel po' che non lo vedono, saranno contenti.» «Oh, hmmm.» I genitori del padre di Willy avevano un ranch sulla costa dell'Oregon. «Qui c'è da aver paura. Lo so che dovrebbe essere un posto sicuro, ma non è che dormiamo troppo. Forse mi ha scosso l'addestramento al tiro, non saprei.» «Mi spiace, Molly.» Vorrei riuscire a dirti quanto mi spiace. «Mi mancherai. Mancherai a tutti e due.» Quindi aveva già deciso. «Quando parti?» «Domani mattina.» «E il negozio?» «Evelyn è disposta a prenderlo. Gli ordini dai grossisti per l'autunno li faccio io, solo perché mi interessa, i guadagni se li tiene lei.» «I cani?» «Le ho chiesto di chiamare il canile della contea, Will. Mi spiace, ma forse qualcuno troverà un padrone.»
«Molly, io...» «Se restando qui riuscissi a evitare che ti succeda qualcosa di brutto, resterei. Ma tu non puoi salvare nessuno, Will. E io qui non ti sono di aiuto. Con noi su nell'Oregon dovrai badare solo a proteggere te stesso. Non ho nessuna intenzione di andarmene in giro tutta la vita con questa maledetta pistola, Will.» «Be', forse puoi andare giù a Oakland a vedere le partite di serie A.» Meglio se non l'avesse detto. Dio, quanto era lungo questo silenzio. «Be', senti, ti telefono,» disse Molly, «anzi, immagino che sia meglio che mi telefoni tu.» Graham sentiva dentro di sé qualcosa lacerarlo. Gli mancava il fiato. «Aspetta che chiamo l'ufficio per organizzare la cosa. Hai già prenotato i biglietti?» «Non a mio nome. Pensavo che forse i giornali...» «Bene. Bene. Ti farò accompagnare da qualcuno. Non dovrai passare per l'accettazione e non avrai la minima difficoltà. Vuoi che lo faccia? Su, lasciamelo fare. A che ora è il volo?» «Alle nove e quaranta. American Airlines, volo 118.» «Okay, alle otto e mezzo... dietro lo Smithsonian. C'è un parcheggio, lascia lì la macchina. Ti verrà incontro qualcuno. Si porterà l'orologio all'orecchio, scendendo dall'auto. Okay?» «Va benissimo.» «Senti, hai la coincidenza qui a Chicago? Potrei venire...» «No. Cambio a Minneapolis.» «Oh, Molly. E se vengo su a prenderti quando sarà tutto finito?» «Sarebbe molto bello.» Molto bello. «Hai abbastanza soldi?» «Me li spedisce la banca per telex.» «Cosa?» «Li trovo all'agenzia della Barclay's all'aeroporto. Non preoccuparti.» «Mi mancherai.» «Anche a me, ma non cambierà niente. Al telefono le distanze non contano. Willy ti manda un ciao.» «Un ciao anche da parte mia.» «Sii prudente, tesoro.» Era la prima volta che lo chiamava tesoro. Non gli fece nessun effetto. Non gli facevano effetto i nomi nuovi: tesoro, Drago Rosso.
Il funzionario di servizio a Washington accettò di buon grado di organizzare la partenza di Molly. Graham premette il viso contro il vetro freddo della finestra e rimase ad osservare la pioggia che frustava il traffico, sotto. La strada, grigia, si colorava alla luce dei lampi. Sul vetro rimase l'impronta della fronte, del naso, delle labbra e del mento. Molly se n'era andata. La giornata era finita; rimaneva solo la notte da affrontare, la notte e quella voce incorporea che lo accusava. La donna di Lounds che aveva tenuto stretto fino alla fine quel che rimaneva di una mano. «Pronto, parla Valerie Leeds. Mi spiace ma in questo momento non posso venire al telefono...» «Spiace anche a me» disse Graham. Riempì di nuovo il bicchiere e sedette al tavolino accanto alla finestra, fissando la sedia vuota che aveva davanti. Non staccò gli occhi finché lo spazio sulla sedia non fu riempito da una sagoma umana colma di correnti oscure, una presenza simile a un'ombra contro il pulviscolo di una stanza. Cercò di materializzare la visione, di vedere un viso. Non si muoveva, era priva di espressione, ma gli rivolgeva un'attenzione quasi palpabile. «Lo so che è dura» disse Graham. Era completamente ubriaco. «Devi cercare di fermarti, di trattenerti finché non ti troviamo. Se devi fare qualcosa, cazzo, vieni dietro a me. Io me ne sbatto i coglioni. Dopo starò meglio. Adesso hanno delle cose per aiutarti a smettere. Per aiutarti a far passare questa tua voglia. Aiutami. Un pochino. Molly se ne è andata, il vecchio Freddy è sottoterra. È fra me e te, adesso, amico.» Allungò una mano sopra la tavola per toccarlo, ma la presenza era scomparsa. Si abbandonò sul tavolo, posando una guancia sul braccio. Vedeva l'impronta del viso stagliarsi sulla finestra alla luce dei lampi; un viso sul quale rotolavano le gocce di pioggia. Senza occhi. Un viso pieno di pioggia. Si sforzò di capire il Drago. Certe volte, nel silenzio quasi materiale delle case delle vittime, lo spazio in cui era passato il Drago si era mosso come se cercasse di parlare. A volte Graham si sentiva vicino a lui. Negli ultimi giorni gli era ritornata una sensazione che ricordava di aver provato durante altre indagini: la sensazione che lui e il Drago durante il giorno facessero le stesse cose, che ci fossero dei paralleli nelle loro attività quotidiane. Chissà dove, il Drago mangiava, si faceva la doccia, o dormiva quando anche lui lo faceva.
Si sforzò di conoscerlo. Cercò di vederlo al di là del luccichio delle diapositive e delle provette, tra le righe dei verbali di polizia, cercò di riconoscerne il viso nei vuoti dei caratteri a stampa. Si sforzò come non si era mai sforzato. Ma per cominciare a comprendere il Drago, per udire le gocce gelide che cadevano nella sua oscurità, per osservare il mondo attraverso la sua nebbia purpurea, Graham avrebbe dovuto vedere cose che non sarebbe stato mai in grado di vedere, avrebbe dovuto volare a ritroso nel tempo... 22 Springfield, Missouri, 14 giugno 1938. Marian Dolarhyde Trevane, esausta e con le doglie, scese da un taxi davanti al City Hospital. Salì una scalinata con un vento caldo che le mulinava intorno alle gambe. La valigia che reggeva in una mano era in condizioni migliori dell'ampio vestito da casa che indossava, e lo stesso valeva per la borsa di maglia con la biancheria di ricambio che teneva premuta contro il ventre gonfio. Aveva in tasca due monete da venticinque centesimi e una da dieci, nel ventre portava Francis Dolarhyde. All'addetto all'accettazione mentì dicendo di chiamarsi Betty Johnson. Spiegò che il marito faceva il musicista ma che non sapeva dove si trovasse. Questo era vero. Le diedero un letto nel reparto non solventi della maternità. Marian non guardò nemmeno le pazienti che aveva accanto. Teneva lo sguardo fisso davanti a sé, guardando la pianta dei piedi delle altre gestanti sistemate nei letti di fronte. Quattro ore dopo venne trasferita in sala parto dove nacque Francis Dolarhyde. L'ostetrica osservò che sembrava «più un pipistrello senza naso che un bambino». Vero anche questo. Era nato con una doppia fenditura al labbro superiore e al palato. La parte centrale del labbro superiore, libera, si protendeva in avanti. Il naso era piatto. I responsabili del reparto decisero di non farlo vedere subito alla madre. Provarono a vedere se sarebbe riuscito a sopravvivere senza ossigeno. Lo sistemarono in un lettino in fondo alla nursery, lontano dalla vetrata. Respirava, ma non era in grado di alimentarsi. La fenditura nel palato gli impediva di poppare. I suoi strilli, il primo giorno, non erano ininterrotti come quelli di un bimbo nato eroinomane, ma altrettanto laceranti.
Il pomeriggio del secondo giorno riusciva a emettere solo un leggero mugolio. Quando alle tre del pomeriggio il turno di servizio cambiò, un'ombra massiccia oscurò il suo letto. Prince Easter Mize, centoventi chili buoni, donna delle pulizie e inserviente del reparto maternità, si fermò a osservarlo a braccia conserte. Nei ventisei anni trascorsi nella nursery aveva ormai visto circa trentanovemila neonati: se questo fosse stato nutrito sarebbe sopravvissuto. Il Signore non aveva ordinato a Prince Easter di lasciarlo morire. E la donna era convinta che nemmeno l'ospedale avesse ricevuto istruzioni in questo senso. Estrasse dalla tasca una specie di tappo di gomma forato da una cannuccia di vetro ricurvo. Lo infilò in una bottiglia di latte. Il neonato le stava in una mano. Se lo appoggiò contro il petto, finché non seppe che aveva sentito il battito del suo cuore. Poi lo rialzò un poco e gli infilò la cannuccia in gola. Il bambino bevve circa sessanta centimetri cubi di latte e si addormentò. «Um-hum» borbottò la donna. Lo posò sul lettino e si mise al lavoro: doveva cambiare i pannolini agli altri neonati. Il quarto giorno le infermiere trasferirono Marian Dolarhyde Trevane in una stanza singola. In una brocca di smalto accanto al lavabo c'era un mazzo di fiori lasciati dall'occupante che l'aveva preceduta. Si erano conservati abbastanza bene. Marian era una bella ragazza e il suo viso non era più paffuto come al momento del ricovero. Fissò il dottore quando questi cominciò a parlarle tenendole una mano sulla spalla. Sentiva un forte odore di sapone sulla sua mano e pensò alle rughe che gli vedeva agli angoli degli occhi finché non si rese conto di quello che le stava dicendo. Chiuse gli occhi e li tenne serrati anche quando portarono dentro il bambino. Alla fine si decise a guardarlo. Chiusero la porta quando cominciò a gridare. Infine le fecero un'iniezione calmante. Il giorno dopo se ne andò dall'ospedale, sola. Non sapeva dove andare. A casa non poteva più farsi vedere: la madre gliel'aveva detto chiaro e tondo. Marian contò i gradini che c'erano tra un lampione e l'altro. Ogni tre lampioni sedeva sulla valigia per riposare. Per lo meno aveva quella. In tutte le città, nelle vicinanze della stazione degli autobus, c'era sempre un banco dei pegni. Lo aveva imparato, andando in giro con il marito.
Nel 1938 Springfield non era un centro famoso per la chirurgia plastica. A Springfield, la propria faccia la si portava così com'era. Un chirurgo del City Hospital fece tutto quello che poté per Francis Dolarhyde, prima tenendo in posizione il labbro con una benda elastica, poi chiudendo le due fenditure con un lembo rettangolare: una tecnica attualmente non più usata. I risultati non furono buoni. Il chirurgo si era dato la pena di leggere dei trattati relativi a problemi di questo tipo, e, correttamente aveva deciso che per l'intervento di ricostruzione del palato il bambino avrebbe dovuto aspettare i cinque anni. Operarlo prima avrebbe portato a uno sviluppo irregolare del viso. Un dentista locale si offrì di effettuare una specie di palato artificiale che permetteva al neonato di prendere il latte senza che gli entrasse nella cavità nasale. Lo trasferirono prima al brefotrofio di Springfield, dove rimase un anno e mezzo, poi al Morgan Lee Memorial Orphanage. Dirigeva l'orfanotrofio il reverendo S.B. Lomax, detto Buddy. Padre Buddy riunì bambini e bambine e disse loro che Francis aveva il labbro leporino ma che dovevano badare bene a non dirglielo mai. Suggerì ai bambini di pregare per lui. Nell'anno successivo alla nascita di Francis, Marian Dolarhyde imparò a cavarsela da sola. Prima trovò lavoro come dattilografa nell'ufficio di un importante membro del partito democratico di St. Louis. Con il suo aiuto, riuscì a far annullare il matrimonio con il signor Trevane, responsabile di abbandono del tetto coniugale. Nelle pratiche di annullamento non venne fatto nessun cenno all'esistenza del bambino. Con la madre, Marian aveva chiuso ogni rapporto. («Non ti ho allevata per farti diventare la puttana di quel vagabondo di un irlandese» fu il congedo della signora Dolarhyde quando Marian se ne andò con Trevane.) L'ex marito la chiamò una volta in ufficio. Sobrio e contrito le disse di aver trovato la via della salvezza; voleva anche sapere se lui, lei e il bimbo «che non aveva mai avuto la gioia di conoscere» avrebbero potuto ricominciare una nuova vita insieme. Dava l'impressione di essere completamente al verde. Marian gli disse che il bambino era nato morto e riattaccò il ricevitore.
Si fece vedere, ubriaco, con la valigia in mano, alla pensione dove lei abitava. Quando Marian gli disse di andarsene, le fece notare che lui non aveva colpa se il bimbo era nato morto. Inoltre disse che dubitava che fosse suo. In un accesso di rabbia, Marian Dolarhyde raccontò a Michael Trevane di chi era padre e gli disse che, se voleva tenerselo, a lei andava benissimo. Poi gli ricordò anche che nella famiglia Trevane c'erano stati altri due casi di labbro leporino. Poi buttò l'ex marito in strada e gli disse di non farsi più sentire. Trevane obbedì ma, anni dopo, ubriaco e pieno di risentimento nei confronti del nuovo ricco marito di Marian e della bella vita che lei faceva, telefonò alla signora Dolarhyde. Le raccontò del bimbo deforme e le disse che i denti sporgenti dimostravano che l'effetto ereditario proveniva dalla famiglia Dolarhyde. Una settimana dopo a Kansas City un taxi lo tagliò in due. Dopo l'annuncio di Trevane, la signora Dolarhyde rimase sveglia quasi tutta la notte. Nonna Dolarhyde, alta e asciutta, sedeva nella sedia a dondolo fissando il fuoco. Verso l'alba il dondolo cominciò ad oscillare lentamente. Una decisione era stata presa. Al piano superiore della grande casa, qualcuno cominciò a chiamare ad alta voce, rauco. Il soffitto della stanza di nonna Dolarhyde scricchiolava come se una persona stesse strascicando i piedi verso il bagno. Un tonfo pesante — una caduta — e il grido di dolore di un vecchio. Nonna Dolarhyde non smise di fissare il fuoco. La sedia a dondolo oscillava sempre più rapida. Dopo un po' i richiami cessarono. Verso i cinque anni Francis Dolarhyde ricevette la sua prima ed unica visita all'orfanotrofio. Se ne stava seduto nel fetore del refettorio quando un bambino più grande venne a prenderlo per portarlo nell'ufficio di padre Buddy. La signora in compagnia di padre Buddy era alta e di mezza età, tutta incipriata, con i capelli tirati e raccolti a crocchia. Il viso era cereo. C'era una sfumatura di giallo nei capelli grigi, negli occhi e nei denti. La cosa che colpì Francis — non l'avrebbe mai più dimenticato — fu che la signora sorrise di piacere quando vide la sua faccia. Era la prima volta che capitava. E sarebbe stata anche l'ultima. «Questa signora è tua nonna» annunciò padre Buddy. «Ciao» disse la signora.
Padre Buddy si passò sulla bocca una mano smagrita. «Di' ciao. Avanti.» Francis aveva imparato a pronunciare qualche parola chiudendo le narici con il labbro superiore, ma non aveva mai avuto molte occasioni di dire ciao. Riuscì a malapena a pronunciare uno «hhao». La nonna sembrava ancor più soddisfatta di lui. «Sei capace di dire "nonna"?» «Cerca di dire nonna» ordinò padre Buddy. Le nasali lo avevano sempre sconfitto. Francis scoppiò a piangere. Una vespa ronzava continuando a sbattere contro il soffitto. «Non importa» disse la nonna. «Scommetto che il tuo nome lo sai dire. Lo so che un bambino grande come te è capace. Dimmi come ti chiami.» Francis si illuminò. In questo i bambini più grandi l'avevano aiutato. Voleva farla contenta. Si rianimò. «Faccia di figa» disse. Tre giorni dopo nonna Dolarhyde venne a prendere Francis all'orfanotrofio e lo portò con sé a casa. Cominciò subito a insegnargli a parlare. Si concentravano su un'unica parola. Era "mamma". Due anni dopo l'annullamento, Marian Dolarhyde conobbe e sposò Howard Vogt, un avvocato di successo e con ottimi contatti all'interno della macchina del partito democratico di St. Louis e di quel che rimaneva della vecchia organizzazione di Pendergast a Kansas City. Vogt era vedovo con tre figli piccoli. Era un uomo affabile e ambizioso, di quindici anni più anziano di Marian. Non odiava nulla e nessuno al mondo, salvo il "Post Dispatch" di St. Louis che gli aveva dato una bella ripassata durante lo scandalo delle false registrazioni elettorali del 1936 e che aveva denunciato nel 1940 il tentativo dell'organizzazione di St. Louis di impadronirsi del governatorato. Nel 1943 però la sua stella era di nuovo in ascesa. Vogt era candidato all'assemblea legislativa dello stato e si riteneva possibile una sua nomina alla prossima convenzione per la riforma della costituzione dello stato. Marian era una padrona di casa capace e piacevole e Vogt le comprò una bella casa di pietra e di legno in Olive Street, una casa ideale per dare ricevimenti. Francis Dolarhyde viveva da una settimana con la nonna quando questa la portò in Olive Street. La nonna non aveva mai visto la casa di Marian. La cameriera che aprì
la porta non la conosceva. «Sono la signora Dolarhyde» si annunciò, passandole davanti. Di dietro le spuntavano quattro dita buone di mutande. Entrò con Francis in un grande soggiorno; nel caminetto ardeva un bel fuoco. «Chi è, Viola?» Una voce femminile dal piano di sopra. La nonna coprì il viso di Francis con una mano. Francis sentiva l'odore freddo del guanto di pelle. Un sussurro incalzante. «Vai a vedere la mamma, Francis. Va' dalla mamma. Corri!» Si staccò da lei, contorcendosi sotto l'ardore del suo sguardo. «Va' a vedere la mamma. Corri!» Gli serrò le spalle e lo spinse verso le scale. Francis salì trotterellando verso il pianerottolo e si voltò a guardarla. La nonna con un gesto del mento gli fece segno di proseguire. Su per quel ballatoio sconosciuto, verso la porta aperta della camera da letto. La mamma seduta davanti alla toilette si osservava il trucco in uno specchio dalla cornice luminosa. Si preparava per un comizio: meglio non troppo belletto. Voltava la schiena alla porta. «Ha-hna» pigolò Francis, come gli era stato insegnato. Faceva tutto il possibile per pronunciare bene la parola. «Ha-hna.» Marian lo vide nello specchio. «Se cerchi Ned, non è ancora tornato da...» «Ha-hna.» Francis si mostrò sotto la luce spietata. Marian sentì al piano di sotto la madre chiedere una tazza di tè. Spalancò gli occhi e si irrigidì, immobile. Non si voltò. Spense le luci dello specchio e scomparve. Nell'oscurità emise un unico basso lamento che si spezzò in un singhiozzo. Per se stessa, forse; oppure per lui. Dopo quest'episodio la nonna portò Francis a tutti i comizi politici, spiegando a tutti chi era Francis e da dove veniva. Lo costringeva a dire "ciao" a tutti. Ma a casa il "ciao" non l'avevano mai provato. Il signor Vogt perse le elezioni per milleottocento voti. A casa della nonna, il nuovo mondo di Francis Dolarhyde era rappresentato da una foresta di gambe venate di blu. Nonna Dolarhyde già da tre anni mandava avanti l'ospizio quando lui venne a stare da lei. Con la morte del marito nel 1936 si era trovata in difficoltà finanziarie: era stata allevata da signora e non sapeva fare nessun lavoro.
Le erano rimasti una grossa casa e i debiti del marito defunto. Impossibile prendere pensionanti: la casa era troppo isolata. Minacciarono di buttarla fuori. L'annuncio sul giornale del matrimonio di Marian con il ricco signor Howard Vogt le era parso un dono del cielo. Scrisse svariate volte alla figlia chiedendole aiuto ma non ricevette risposta. Se telefonava una persona di servizio la informava inevitabilmente che la signora Vogt non era in casa. Infine, amareggiata, nonna Dolarhyde prese accordi con la contea e cominciò ad accogliere in casa anziani indigenti. La contea le pagava una certa cifra per ciascuno, e in più, ma senza la minima regolarità, le arrivavano soldi dai parenti che la contea riusciva a reperire. Tirò avanti con difficoltà finché non ricevette alcuni pensionanti privati provenienti da famiglie della borghesia. Mai un aiuto da Marian... e lei sì che avrebbe potuto darle una mano. Ora Francis Dolarhyde giocava sul pavimento tra la selva di gambe. Giocava alle automobiline con le tavolette del Mah-Jongg della nonna, spingendole tra piedi rattrappiti come radici contorte. La signora Dolarhyde riusciva a far portare sempre ai suoi ospiti abiti freschi di bucato, ma le era impossibile convincerli a portare le scarpe. I vecchi se ne stavano tutta la giornata nel soggiorno ad ascoltare la radio. La signora Dolarhyde vi aveva sistemato anche un piccolo acquario, tanto per dar loro qualcosa da guardare, mentre un benefattore l'aveva aiutata a coprire i parquets con del linoleum, contro gli inevitabili casi di incontinenza. Se ne stavano tutti in fila sulle poltrone e sulle sedie a rotelle ad ascoltare la radio, gli occhi spenti fissi sui pesci o sul nulla, o su qualcosa visto tanti anni prima. Francis avrebbe sempre ricordato lo strascichio dei piedi sul linoleum nelle giornate afose colme di ronzii, l'odore di pomodori e di cavoli che arrivava dalla cucina, l'odore dei vecchi, simile a quello della carta da macellaio lasciata asciugare al sole e — sempre — la radio. Bucato bianco, bucato splendente Lava allegra, c'è qui Rinso Francis cercava di stare il più possibile in cucina, perché lì aveva trovato un'amica. La cuoca, Queen Mother Bailey, era cresciuta al servizio della
famiglia Dolarhyde. A volte dava a Francis una prugna che tirava fuori dalla tasca del grembiule e lo chiamava «piccolo opossum, sempre con la testa fra le nuvole». La cucina era calda e sicura. Ma la sera Queen Mother Bailey tornava a casa sua... Dicembre 1943 Francis Dolarhyde aveva cinque anni. Quella notte se ne stava disteso nel letto nella stanza al piano di sopra della casa della nonna. La stanza era nel buio più totale: le finestre erano oscurate, contro eventuali incursioni giapponesi. Non era capace di dire "giapponese". Aveva bisogno di fare pipì; ma nel buio aveva paura ad alzarsi. «Ha-nna. Ha-nna.» Sembrava il belato di una caprettina. Chiamò la nonna finché non fu stanco. «Eahore, ha-nna.» Poi non sentì più lo stimolo, solo una sensazione di calore sulle gambe e sul materasso e poi freddo. La camicia da notte gli si era appiccicata addosso. Non sapeva cosa fare. Respirò a fondo e scese dal letto dal lato della porta. Non successe niente. Posò i piedi sul pavimento. Si alzò in piedi nel buio, con la camicia da notte incollata alle gambe, le guance ardenti. Corse verso la porta e con la fronte urtò la maniglia sopra l'occhio. Ricadde a sedere, balzò in piedi e corse giù per le scale tenendosi alla balaustra. In camera della nonna. Si arrampicò e si infilò sotto le coperte, rannicchiandosi contro il tepore del suo corpo. La nonna si mosse e s'irrigidì. Sentì la tensione della schiena contro la guancia. Un sibilo. «Non ho mai vishto...» Un rumore sul comodino quando la nonna trovò la dentiera, poi uno schiocco quando se la infilò in bocca. «Non ho mai visto un bambino sporco e disgustoso come te. Via di qui, fuori da questo letto.» La nonna accese l'abat-jour. Francis rabbrividiva con i piedi sul tappeto. La nonna gli passò un pollice sul sopracciglio. Le rimase una traccia di sangue. «Hai rotto qualcosa?» Francis fece segno di no con tanta energia che alcune goccioline di sangue caddero sulla camicia da notte della nonna. «Di sopra. Avanti.» Risalendo le scale, il buio gli calò di nuovo addosso. Non poteva accendere le luci, perché la nonna aveva accorciato le cordicelle in modo che lui non le potesse usare. Non voleva tornare nel letto bagnato. Si fermò immobile nell'oscurità, tenendosi aggrappato al fondo del letto. Credeva che
lei non sarebbe più venuta. Gli angoli più bui della stanza sapevano che non sarebbe venuta. E invece venne. Tirò la cordicella che accendeva la luce centrale, reggendo le lenzuola. Cambiò il letto senza rivolgergli la parola. Poi lo afferrò per l'avambraccio e lo trascinò fino al bagno. La luce era sopra lo specchio, la nonna doveva mettersi in punta di piedi per accenderlo. Gli diede un asciugamano, freddo e bagnato. «Togliti la camicia da notte e pulisciti.» Odore di cerotto e il clic clic delle forbici da cucito. La nonna tagliò un pezzo di cerotto, lo mise in piedi sull'asse del water e gli medicò il taglio sulla fronte. «E adesso...» la nonna allungò le forbici sotto il pancino. Avvertì una sensazione di freddo. «Guarda» ordinò. Lo prese per la nuca e lo piegò in avanti costringendolo a vedere il pene minuscolo tra le lame aperte delle forbici. Le richiuse leggermente finché non lo pizzicarono. «Vuoi che te lo tagli via?» Cercò di rialzare la testa, di guardarla, ma lei lo obbligò a tenerla piegata. Singhiozzò, la saliva gli cadde sullo stomaco. «Allora, vuoi?» «No, ha-nna. No, ha-nna.» «Ti garantisco che se sporchi ancora il letto te lo taglio via. Capito?» «Hhi, ha-nna.» «Il bagno sei capace di trovarlo al buio, puoi sederti sulla tazza da bravo bambino. Non c'è bisogno che tu stia in piedi. E adesso a letto.» Alle due del mattino arrivò il vento da sud est, portando con sé il tepore, facendo sbatacchiare i rami dei meli morti e frusciare le foglie di quelli vivi. Il vento gettò via la pioggia tiepida contro il muro della casa dove dormiva Francis Dolarhyde, quarantadue anni. Era disteso nel letto succhiandosi il pollice, i capelli madidi e appiccicati alla fronte e al collo. Dolarhyde si sveglia. Ascolta il suo respiro nel buio e il battito delle palpebre. Le dita hanno un leggero sentore di benzina. Ha la vescica piena. Allunga una mano verso il comodino per prendere il bicchiere che contiene la dentiera. Se la mette sempre prima di alzarsi. Si dirige verso il bagno, senza accendere la luce. Trova la tazza al buio e si mette seduto, da bravo bambino.
23 Le prime alterazioni del comportamento della nonna si manifestarono nell'inverno del 1947 quando Francis aveva otto anni. La signora Dolarhyde smise di prendere i pasti in camera sua insieme a Francis. Si trasferirono al tavolone comune del refettorio dove la nonna cominciò a intrattenere i suoi vecchi pensionanti durante i pasti. Da ragazza, aveva imparato l'arte di intrattenere gli ospiti, ed ora tirò fuori e lucidò il campanellino d'argento che poi posava accanto al suo piatto. Stabilire il ritmo di arrivo delle portate, controllare il servizio, tener testa alla conversazione, portarla su argomenti in cui anche i più timidi si trovano a loro agio, far risaltare davanti agli altri ospiti le qualità di quelli più brillanti è un'arte difficile e attualmente in triste declino. Ai suoi tempi la nonna aveva padroneggiato bene quest'arte. Al tavolo dell'ospizio in un primo momento i suoi sforzi ravvivarono i pasti per due o tre pensionanti in grado di tenere in piedi una conversazione logica. Francis sedeva al capo opposto della tavola, sulla sedia degli ospiti, alla fine di un lungo viale di teste ciondolanti mentre la nonna si sforzava di tirar fuori i ricordi di chi era in grado di ricordare. Manifestò un acuto interesse per il viaggio di luna di miele a Kansas City della signora Floder, rivangò diverse volte insieme al signor Eaton l'epidemia di febbre gialla e ascoltò attenta i borbottii casuali e incomprensibili degli altri. «Non è interessante, Francis?» diceva. Poi agitava il campanello per far servire la portata successiva. Il cibo era costituito da una varietà di pappine di verdure e di carne, ma la signora Dolarhyde lo divideva in portate, rendendo le cose molto più difficili alla cameriera. La cattiva educazione a tavola non veniva mai ripresa a parole. Uno squillo di campanello e un gesto a metà di una frase mettevano a posto quelli che avevano rovesciato il cibo, o si erano addormentati, oppure avevano dimenticato perché si trovavano a tavola. La nonna teneva sempre tutto il personale che le sue finanze le permettevano. Via via che la salute andava declinando, la nonna perdeva peso e poteva tornare a indossare abiti che da moltissimo tempo erano riposti negli armadi. Alcuni erano anche eleganti. Lineamenti e pettinatura la facevano assomigliare molto al ritratto di George Washington che si trova sul biglietto da un dollaro.
Con l'arrivo della primavera le sue maniere a tavola cambiarono un po'. Ora dominava gli ospiti, non ammetteva di essere interrotta e parlava dell'adolescenza trascorsa a St. Charles, rivelando persino fatti intimi a mo' di ispirazione e incitamento per Francis e per gli altri. Era vero che la nonna per una stagione era stata la più bella e che era stata invitata ad alcuni dei balli più importanti di St. Louis, sull'altra sponda del fiume. Questo doveva essere una "lezione pratica" per tutti, diceva, fissando Francis che incrociava le gambe sotto la tavola. «Sono cresciuta in un'epoca in cui, dal punto di vista medico, si poteva fare ben poco per superare i piccoli difetti di natura» diceva. «Avevo una pelle splendida, dei bei capelli e ne approfittavo. Il problema dei denti lo superavo con la forza della mia personalità... e con tanto successo che erano diventati il mio "lato affascinante", per così dire. Lo si potrebbe persino chiamare il mio "fascino esclusivo". Non l'avrei cambiato per nulla al mondo.» Spiegava che non si fidava dei medici ma quando era stato evidente che i disturbi alle gengive le avrebbero fatto perdere i denti, era andata da uno dei più famosi dentisti del Middle West, il dottor Felix Berti, svizzero. I "denti svizzeri" del dottor Berti erano molto popolari in una certa fascia sociale, raccontava la nonna. Cantanti lirici che temevano che la dentatura in disordine modificasse la loro voce, attori e altri personaggi pubblici venivano fin da San Francisco per farsi la dentiera. Il dottor Berti riusciva a copiare esattamente i denti veri dei suoi pazienti ed aveva fatto esperimenti con varie sostanze per scoprirne le risonanze. Quando il dottor Berti ebbe completato la sua protesi, i suoi denti erano tornati quelli di prima. Aveva superato la cosa con la forza della sua personalità e non aveva perduto nemmeno un briciolo del suo fascino, diceva con un sorriso smagliante. Se in tutto ciò c'era una "lezione pratica", Francis non l'apprezzò se non molto tempo dopo; non ci sarebbero stati interventi di chirurgia plastica per lui, finché non sarebbe stato in grado di pagarseli. Francis riusciva a sopportare la cena perché dopo lo aspettava qualcosa di bello. Ogni sera il marito di Queen Mother Bailey arrivava a prenderla, guidando il carro trainato da un mulo che usava per trasportare la legna da ardere. Se la nonna aveva da fare al piano di sopra, Francis poteva salire sul
carro e accompagnarli fino al cancello che dava sulla strada. Aspettava tutto il giorno questo momento: potersene star seduto sul sedile accanto a Queen Mother, con il marito, un uomo alto e spento, quasi invisibile nell'oscurità, mentre le ruote gommate facevano scricchiolare la ghiaia tra il tintinnio dei finimenti. Due muli, dal pelo marrone e a volte color fango, con la criniera tagliata, ritta come una siepe, che si frustavano il posteriore con la coda. L'odore di sudore e di cotone di bucato, di tabacco da fiuto e di finimenti caldi. A volte, quando il signor Bailey durante il giorno aveva ripulito qualche spiazzo dalla boscaglia, sentiva anche odore di fumo, altre volte, quando portava con sé il fucile da caccia, dietro il carro giacevano un paio di conigli o di scoiattoli allungati, come se corressero. Facevano la strada in silenzio; il signor Bailey parlava solo ai muli. Le oscillazioni del carro gli facevano toccare piacevolmente marito e moglie. Rimesso a terra alla fine del viale, Francis ogni volta prometteva di tornarsene subito a casa e osservava la lanterna del carro allontanarsi. Li sentiva parlare mentre si avviavano lungo la strada. A volte Queen Mother faceva ridere il marito e si univa a lui nella risata. Fermo nell'oscurità, Francis era contento di sentire le loro voci e di sapere che non ridevano di lui. Eppure un giorno avrebbe cambiato idea... Ogni tanto Francis aveva come compagna di gioco la figlia di un mezzadro che viveva a tre campi di distanza. La nonna le permetteva di venire a giocare perché, di quando in quando, le piaceva farle indossare i vestitini che Marian portava da piccola. Era una bambina dai capelli rossi molto irrequieta che, quasi sempre, era troppo stanca per giocare. In un caldo pomeriggio di giugno, stanca di dare la caccia ai formicaleoni con gli steli d'erba, chiese a Francis di fargli vedere il coso. In un angolo, tra la stia dei polli e la bassa siepe che li nascondeva dalle finestre del piano terreno, lui glielo fece vedere. Lei contraccambiò facendo scendere le mutandine piene di buchi. Mentre Francis si accucciava per vedere meglio, da dietro l'angolo della stia, frullando disordinatamente le ali nella polvere, arrivò un pollo senza testa. La bambina fece un salto indietro quando il pollo le spruzzò di sangue i piedi e le gambe. Francis balzò in piedi con i calzoncini ancora abbassati: era apparsa Mother Bailey che inseguiva il pollo. «Senti un po', piccolo» disse calma, «se volevi vedere chissà che cosa,
adesso l'hai vista. Avanti, trova qualcos'altro da fare. Fa' quello che devono fare i bambini e tieniti i vestiti addosso. E adesso, voi due, aiutatemi a prendere quel pollo.» L'imbarazzo dei bambini scomparve subito: il pollo non voleva farsi prendere. Ma dalla finestra del piano di sopra la nonna aveva visto tutto... La nonna seguì con lo sguardo Queen Mother che rientrava in casa. I bambini entrarono nel pollaio. La nonna attese cinque minuti poi andò alla porta del pollaio senza far rumore, aprì e li trovò intenti a raccogliere piume per farsene una corona. Spedì la bambina a casa e rientrò seguita da Francis. Gli disse che lo avrebbe rimandato all'orfanotrofio dopo averlo castigato. «Va' di sopra. Vai in camera tua, togliti i calzoni e aspettami che arrivo con le forbici.» Francis attese per ore, disteso sul letto con i calzoncini calati, aggrappato alla coperta in attesa delle forbici. Sentì i rumori della cena, poi gli scricchiolii del carro e gli zoccoli del mulo quando arrivò il marito di Queen Mother. Verso l'alba si addormentò per poi risvegliarsi di colpo: continuava ad aspettare. La nonna non venne. Forse se n'era dimenticata. Francis nei giorni successivi continuò ad attendere: ogni tanto, con un soprassalto di terrore, ricordava le forbici. Non avrebbe mai smesso di aspettare. Evitava Queen Mother Bailey, non le voleva parlare e non le spiegava il perché: credeva che fosse stata lei a raccontare alla nonna quello che era successo nel pollaio. Ora era convinto che le risate che udiva mentre osservava la lanterna del carro allontanarsi giù per il viale fossero dilette a lui. Non poteva più credere a nessuno. Era difficile starsene a letto a dormire quando c'erano delle cose a cui pensare. Era difficile starsene fermi in una nottata così luminosa. Francis sapeva che la nonna aveva ragione. L'aveva offesa moltissimo. L'aveva coperta di vergogna. Tutti dovevano sapere quello che aveva fatto... persino a St. Charles. Non era arrabbiato con lei, sapeva di amarla moltissimo. Voleva comportarsi bene. Immaginava che in casa entrassero degli scassinatoli e che lui difendesse la nonna facendole cambiare idea su di lui. «Dopo tutto non sei un figlio del demonio, Francis. Sei il mio bravo bambino.»
Pensava allo scassinatore che entrava in casa. Entrava deciso a far vedere il suo coso alla nonna. Come poteva proteggerla? Era troppo piccolo per lottare contro uno scassinatore grande e grosso. Rifletté. Nella dispensa Queen Mother teneva un'accetta che ripuliva con carta da giornale quando ammazzava un pollo. Sarebbe andato a prenderla. La responsabilità era sua. Avrebbe vinto la paura del buio. Se voleva davvero bene alla nonna, era di lui che si doveva aver paura. Era di lui che doveva aver paura lo scassinatore. Scivolò al piano di sotto e trovò l'accetta appesa al chiodo. Aveva uno strano odore, come quello che sentiva intorno all'acquaio quando svuotavano le interiora del pollo. Era affilata e il suo peso lo rassicurava. Entrò con l'accetta nella camera della nonna per accertarsi che non ci fossero ladri. La nonna dormiva, ma Francis sapeva esattamente dove si trovava. Avrebbe sentito il respiro dello scassinatore — se ci fosse stato — proprio come sentiva quello della nonna. Avrebbe saputo dove trovargli il collo, proprio come sapeva dov'era quello della nonna. Subito sotto il respiro. Allo scassinatore sarebbe andato addosso senza far rumore, proprio come adesso. Avrebbe alzato l'accetta con tutte e due le mani, proprio come stava facendo. Inciampò in una pantofola accanto al letto. L'accetta oscillò e nella semioscurità urtò la struttura di metallo del paralume. La nonna si girò nel letto e fece un debole rumore con la bocca. Francis rimase immobile. Le braccia gli tremavano per lo sforzo di tenere l'accetta alta sopra la testa. La nonna cominciò a russare. Francis si sentiva quasi scoppiare dal bene che le voleva. Sgusciò fuori dalla stanza; era ansioso di proteggerla. Doveva fare qualcosa. Adesso non aveva più paura del buio ma si sentiva soffocare. Uscì dalla porta posteriore e si fermò sotto la luce della luna guardando verso l'alto, ansimando come se respirasse la luce. Un piccolo disco di luna, distorto sul bianco degli occhi arrovesciati, divenne rotondo quando fu centrato dalle pupille. Sentiva l'amore premergli dentro, insopportabile, non poteva buttarlo fuori con il respiro. Si diresse verso il pollaio, quasi correndo, sentendo la terra fredda sotto i piedi, il freddo dell'accetta contro la gamba. Correva, stava per scoppiare...
Francis, ripulendosi alla pompa dell'acqua vicino al pollaio non aveva mai provato una sensazione così dolce di pace. Vi si immerse pian piano e trovò che era infinita, che lo circondava tutto. Quello che la nonna nella sua bontà non aveva tagliato, quando si lavò via il sangue dal ventre e dalle gambe era ancora lì. Si sentiva la mente limpida e tranquilla. Doveva far qualcosa per la camicia da notte, meglio nasconderla sotto i sacchi, nell'affumicatoio. La scoperta del pollo ucciso lasciò perplessa la nonna. Disse che non le sembrava il lavoro di una volpe. Un mese dopo, Mother Bailey andò a raccogliere le uova e ne trovò un altro. Questa volta gli era stata strappata via la testa. La nonna a cena disse che doveva essere senz'altro la vendetta «di qualche persona di servizio che ho buttato fuori». Disse di aver informato lo sceriffo. Francis sedeva silenzioso al suo posto, aprendo e richiudendo una mano, ricordando l'occhio del pollo che si apriva e chiudeva contro il suo palmo. A volte a letto si toccava tra le gambe per accertarsi che non glielo avessero tagliato via. A volte, quando si toccava, gli pareva di sentire sul palmo l'occhio del pollo. Il comportamento della nonna cambiò ancora, nettamente. Era sempre più litigiosa e incapace di far restare a lungo il personale di servizio. Mancavano le donne delle pulizie, ma era della cucina che voleva occuparsi personalmente dando ordini a Queen Mother Bailey e facendo peggiorare la qualità del cibo. Queen Mother, che per tutta la vita aveva lavorato in casa Dolarhyde, era l'unico membro fisso del personale. Rossa in faccia nel calore della cucina, la nonna passava continuamente da un lavoro all'altro, spesso lasciava i piatti preparati a metà, piatti che non sarebbero mai stati serviti. Ricucinava gli avanzi mentre in dispensa le verdure appassivano. Le venne la fobia degli sprechi. Ridusse la quantità di sapone e di candeggina per il bucato finché tutte le lenzuola diventarono di un brutto colore grigiastro. Nel mese di novembre assunse per le pulizie cinque donne negre, una dopo l'altra. Dopo poco se ne andavano. La sera in cui l'ultima si fu licenziata, la nonna si infuriò. Attraversò tut-
ta la casa urlando, entrò in cucina e vide che Queen Mother Bailey aveva lasciato sul tavolo un cucchiaio di farina, dopo aver preparato dei biscotti. Nei vapori e nel caldo della cucina, mezz'ora prima di cena, si buttò addosso a Queen Mother e le mollò uno schiaffone. Queen Mother, sconvolta, lasciò cadere il mestolo. Gli occhi le si bagnarono di lacrime. La nonna fece il gesto di darle un altro schiaffo. Un grosso palmo roseo la respinse. «Non faccia più una cosa del genere. Lei non è in sé, signora Dolarhyde, ma non lo faccia più.» Urlandole dietro insulti la nonna rovesciò con una manata una pentola di zuppa che si sparse sfrigolando sulla stufa. Poi si rinchiuse in camera sua sbattendo la porta. Francis la sentì scagliare oggetti contro le pareti imprecando. Per tutta la sera non si fece più vedere. Queen Mother ripulì la stufa e diede da mangiare ai vecchi. Raccolse in un cesto le sue poche cose, indossò un vecchio pullover e un cappellino. Cercò Francis ma non riuscì a trovarlo. Era già salita sul carro quando lo vide seduto in un angolo della veranda. Francis la vide ridiscendere pesantemente e venirgli incontro. «Possum, io me ne vado adesso. Non torno più qui. Dico a Sironia, quella degli alimentari, di telefonare alla tua mamma. Se hai bisogno di me prima che la tua mamma arriva, puoi venire a casa mia.» Quando lei fece per dargli un bacio Francis voltò il viso dall'altra parte. Il signor Bailey schioccò la lingua per far partire i muli. Francis osservò la lanterna del carro rimpicciolire. L'aveva osservata altre volte, con una sensazione di tristezza e di vuoto dentro, da quando aveva capito che Queen Mother lo aveva tradito. Adesso non gliene importava più nulla. Era contento. Un fioco lume a petrolio che svaniva giù per il viale. A confronto della luna, non valeva nulla. Chissà che sensazione dava uccidere un mulo... Quando Queen Mother Bailey le telefonò, Marian Dolarhyde Vogt non si fece vedere. Arrivò invece due settimane dopo in seguito a una telefonata dello sceriffo di St. Charles. Si presentò verso metà del pomeriggio, alla guida di una Packard modello anteguerra. Indossava guanti e cappello. Un aiutante dello sceriffo le venne incontro alla fine del viale e si chinò all'altezza del finestrino. «Signora Vogt, sua madre ci ha chiamati verso mezzogiorno, diceva che qualcuno del personale di servizio rubava. Quando sono arrivato qui —
scusi se glielo dico — straparlava e il posto aveva tutta l'aria di essere lasciato andare. Lo sceriffo ha pensato che era il caso di informare lei per prima, capisce? Dato che il signor Vogt è un personaggio pubblico e roba del genere.» Marian lo capì. Il signor Vogt era in quel periodo assessore ai lavori pubblici di St. Louis e non era in ottimi rapporti con il partito. «Per quello che ne so, nessun altro ha visto come stanno le cose» concluse l'aiutante. Marian trovò la madre addormentata. Due dei vecchi erano ancora seduti al tavolo in attesa del pranzo. Una donna si aggirava nel cortile dietro casa, in mutande. Marian telefonò al marito. «Ogni quanto vengono a fare le ispezioni in questi posti?... Non devono aver visto niente... non lo so se i parenti si sono lamentati, ma non credo che questa gente abbia dei parenti... no. Tu stattene fuori. Ho bisogno di qualche negro. Mandamene qualcuno... E anche il dottor Waters. Me ne occupo io.» Il dottore, accompagnato da un infermiere vestito di bianco arrivò di lì a tre quarti d'ora seguito da un camioncino con la cameriera di Marian e altri cinque domestici. Quando Francis tornò da scuola trovò Marian, il dottore e l'infermiere nella camera della nonna. La nonna imprecava. Quando la portarono via in una delle sedie a rotelle dell'ospizio, aveva lo sguardo vitreo e un batuffolo di cotone sull'incavo del gomito. Senza dentiera, il viso appariva avvizzito, quello di una sconosciuta. Anche Marian aveva un braccio bendato: sua madre l'aveva morsa. La nonna seduta sul sedile posteriore accanto all'infermiere se ne andò via sull'auto del medico. Francis rimase a osservare la partenza. Fece per salutarla con la mano, poi la lasciò ricadere. La squadra di pulizia di Marian pulì a fondo e arieggiò la casa, fece un enorme bucato e lavò tutti i vecchi. Marian lavorava con loro e preparò anche un pasto improvvisato. A Francis si rivolgeva solo per chiedergli dove venivano tenute le varie cose. Infine spedì via la squadra e telefonò alle autorità della contea, spiegando che la signora Dolarhyde aveva avuto un attacco cardiaco. Faceva buio quando i funzionari dell'assistenza sociale arrivarono a ritirare i pazienti con un autobus del servizio scolastico. Francis credeva che avrebbero portato via anche lui. Invece di lui non si parlò.
Rimase solo in casa con Marian. La vide seduta al tavolo della sala da pranzo con la testa tra le mani. Uscì fuori e si arrampicò su un melo. Finalmente Marian lo chiamò. Aveva preparato una valigetta con i suoi vestiti. «Devi venire con me» disse dirigendosi verso l'auto. «Sali. Non mettere i piedi sul sedile.» Si allontanarono nella Packard, lasciando la sedia a rotelle vuota in mezzo al cortile. Non ci furono scandali. Le autorità della contea dissero che era un peccato che la signora Dolarhyde si fosse ammalata: il suo ospizio era così ben tenuto. I Vogt non ebbero conseguenze dall'incidente. La nonna fu rinchiusa in una clinica privata per malattie nervose. Francis l'avrebbe rivista solo quattordici anni dopo quando fu dimessa e tornò a casa. «Francis, queste sono le tue sorelle e questo è tuo fratello» disse la madre. Si trovavano nella biblioteca dei Vogt. Ned Vogt aveva dodici anni, Victoria tredici e Margaret nove. Ned e Victoria si scambiarono un'occhiata, Margaret guardò per terra. A Francis venne data una stanza sotto il tetto, in fondo agli alloggi della servitù. Dopo il disastro delle elezioni del 1944, i Vogt avevano licenziato la cameriera addetta al primo piano. Venne iscritto alla Potter Gerard Elementary School, vicina a casa e ben lontana dalla scuola privata episcopale frequentata dai tre fratellastri. Nei primi giorni i tre bambini facevano tutto il possibile per ignorarlo. Ma, trascorsa una settimana, Ned e Victoria salirono la scala della servitù. Francis li sentì sussurrare qualche minuto poi la maniglia girò. La porta era chiusa ma i due fratelli non bussarono. «Apri questa porta» ordinò Ned. Francis aprì. Entrarono senza rivolgergli la parola e si misero a guardare i suoi vestiti, appesi nell'armadio. Ned Vogt aprì un cassetto del piccolo cassettone e ne tirò fuori, con due dita, il contenuto: fazzoletti, regali di compleanno, con le iniziali F.D. ricamate, un barré per chitarra, uno scarabeo vivacemente colorato in una boccettina di medicinali, una copia di Baseball Joe in the World Series che era stato bagnato e un bigliettino firmato "la tua compagna di classe Sarah Hughes". «E questo cos'è?» volle sapere Ned. «Un barré.» «A cosa serve?»
«Per la chitarra.» «Hai una chitarra?» «No.» «E allora perché ce l'hai?» chiese Victoria. «Lo adoperava mio padre.» «Non capisco. Cos'hai detto? Faglielo dire ancora, Ned.» «Ha detto che era di suo padre.» Ned si soffiò il naso in un fazzoletto cifrato e lo lasciò ricadere nel cassetto. «Oggi sono venuti a prendere i pony» disse Victoria. Si era seduta sul lettino. Ned la imitò, appoggiando le spalle alla parete e i piedi sulla coperta. «Basta pony» disse Ned. «Basta casa al lago d'estate. E lo sai perché? Dimmelo tu, bastardo.» «Papà è molto malato e non guadagna più tanti soldi come prima» spiegò Victoria. «Certi giorni non va più neanche in ufficio.» «E lo sai perché è malato, bastardo che non sei altro?» chiese Ned. «Fatti capire quando parli.» «La mamma dice che si ubriaca. Hai capito bene?» «È malato per colpa della tua brutta faccia» intervenne Ned. «Ecco perché la gente non ha votato per lui» rincarò Victoria. «Fuori» disse Francis. Si voltò per aprire la porta e Ned gli tirò un calcio nella schiena. Francis si coprì le reni con le mani il che gli salvò le dita quando Ned gli affibbiò un calcio nello stomaco. «Oh, Ned» disse Victoria. «Oh, Ned.» Ned afferrò Francis per le orecchie e lo tirò davanti allo specchio del cassettone. «Ecco perché sta male!» disse sbattendogli la faccia contro lo specchio. «Ecco perché sta male!» Bam. «Ecco perché sta male!» Bam. Lo specchio era sporco di sangue e di muco. Ned lo mollò e Francis cadde seduto sul pavimento. Victoria lo guardava a occhi spalancati, stringendo il labbro inferiore tra i denti. Lo lasciarono lì. Aveva il viso bagnato di sangue e di saliva, gli occhi lucidi di sofferenza, ma non piangeva. 24 A Chicago per tutta la notte la pioggia tambureggiò sul baldacchino sistemato sopra la fossa di Freddy Lounds. I tuoni rimbombano nella testa dolorante di Will Graham che si alza dal
tavolo per distendersi sul letto. I sogni lo attendono, nascosti sotto il cuscino. La vecchia casa sopra St. Charles, opponendosi al vento, sibila tra il brontolio dei tuoni e gli scrosci di pioggia che battono sulla finestra. Nel buio le scale scricchiolano. Il signor Dolarhyde scende nel kimono frusciante, gli occhi spalancati. Si è appena svegliato. Ha i capelli madidi ma ben pettinati. Si è limato le unghie. Avanza con movimenti lenti e fluidi, concentrato, come se stesse portando una tazza piena fino all'orlo. Accanto al proiettore, due film. Nel cestino sono finite altre bobine, da distruggere. Ne restano due, tra le dozzine di filmetti casalinghi che ha duplicato in laboratorio e che si è portato a casa. Si sistema a suo agio nella poltrona, con accanto un vassoio di formaggi e di frutta e si dispone a vedere i due film. Il primo è di un picnic per il weekend del quattro luglio. Bella famiglia: tre bambine, il padre dal collo taurino che infila le dita robuste nel vasetto dei sottaceti. E la madre. L'inquadratura migliore è quella in cui lei gioca a softball con i figli dei vicini. Dura solo quindici secondi; scatta dalla seconda base, affronta il pitcher e il piatto, gambe allargate, pronta a schizzare via da una parte o dall'altra, i seni che oscillano sotto il pullover mentre sta chinata in avanti. Un'interruzione seccante: un bambino che agita la mazza. Di nuovo la donna: arretra, pronta a rincorrere l'avversario. Posa un piede sul cuscino da barca usato come base e muove un fianco, i muscoli della coscia tesi. Dolarhyde proietta ripetutamente le inquadrature della donna. Piede posato sulla base, movimenti del bacino, muscoli della coscia tesi sotto i jeans tagliati all'altezza della coscia. Blocca l'ultimo fotogramma. La donna e i bambini. Sono sudici e stanchi. Si abbracciano, tra le loro gambe un cane agita la coda. Lo schianto terrificante di un tuono fa tintinnare i cristalli molati nella vetrinetta della nonna. Dolarhyde allunga una mano e prende una pera. Il secondo film è formato da diversi segmenti. Il titolo — La casa nuova — è scritto con monetine su un pezzo di cartone accanto a un salvadanaio rotto a forma di porcellino. Si apre con il padre che strappa dal giardino un cartello con la scritta "in vendita". Lo fissa e guarda verso la macchina con un sorriso imbarazzato. Le fodere delle tasche sono rovesciate in fuori. Un campo lungo tremolante della madre e dei tre bambini sui gradini dell'ingresso. È una bella casa. Stacco sulla piscina. Un bambino, piccolo,
dal viso affilato, si dirige verso il trampolino, lasciando impronte bagnate sulle mattonelle. Nell'acqua appare una testa. Un cagnolino nuota disordinatamente verso una bambina, le orecchie tirate indietro, il muso sollevato, mostrando il bianco degli occhi. La mamma nell'acqua si aggrappa alla scaletta e guarda in su, verso l'obiettivo. I capelli neri e ricci hanno la lucentezza della pelle, il seno gonfia il costume da bagno; si vede la sagoma incerta delle gambe che sforbiciano sotto la superficie dell'acqua. Notte. Una ripresa malamente esposta, con panoramica dalla piscina verso la casa illuminata. Le luci si riflettono nell'acqua. Interno della casa, la famiglia si diverte. Scatole dappertutto, mobili imballati. Un vecchio baule, non ancora riposto in solaio. Una bambina prova gli abiti della nonna. Si mette un ampio cappello da cerimonia. Il padre è sul divano, l'aria un po' sbronza. Ora la cinepresa passa a lui. L'inquadratura è un po' inclinata. La madre prova il cappello davanti allo specchio. I figli le saltellano intorno, i maschi ridono e cercano di strapparle il cappello. La femmina fissa freddamente la madre, valutando come sarà lei in futuro. Un primo piano. La madre si volta e si mette in posa, con un ampio sorriso, portando una mano alla nuca. È proprio bella. Un cammeo le risalta sulla gola. Dolarhyde blocca il fotogramma. Riavvolge il film. E lo riproietta. La donna si volta e sorride molte volte. Con un gesto distratto Dolarhyde prende il film della partita di softball e lo lascia cadere nel cestino. Toglie la bobina dal proiettore e osserva l'etichetta della Gateway: Bob Sherman, Star Route 7, Box 603, Tulsa, Oklahoma. Nemmeno un viaggio lungo. Dolarhyde tiene il film sul palmo, lo copre con l'altra mano come se fosse una creaturina viva sul punto di sfuggirgli. Gli sembra che gli faccia il solletico sul palmo, come un grillo. Ricorda la fretta, i movimenti convulsi in casa dei Leeds, quando le luci erano state accese. Aveva dovuto affrontare il signor Leeds prima di illuminare per la ripresa. Questa volta le cose devono procedere con più regolarità. Sarebbe bellissimo insinuarsi tra la coppia addormentata con la cinepresa in azione e restarsene lì un pochino, accoccolato. Poi colpirli nell'oscurità e, seduto tra
di loro, sentirsi felicemente bagnato. Con la pellicola a raggi infrarossi non dovrebbero esserci problemi: sa come procurarsene un po'. Il proiettore è ancora acceso. Dolarhyde siede con il film in mano mentre sul biancore luminoso dello schermo altre immagini si muovono sotto il lungo sospiro del vento. Non prova nessun senso di vendetta, solo Amore e il pensiero della Gloria futura; le pulsazioni del cuore accelerano e si fanno più deboli, come un rumore di passi che si spegne nel silenzio. Lui, il Drago. Rampante. Rampante e pieno d'amore, mentre gli Sherman si aprono per accoglierlo. Non ricorda assolutamente il passato; solo la Gloria che verrà. Non pensa alla casa materna. Di quel periodo gli rimangono nella coscienza solo pochissimi ricordi indistinti. In un periodo imprecisato, dopo i vent'anni, i ricordi della casa della madre erano scomparsi, lasciando una superficie liscia nella sua mente. Sapeva di aver vissuto solo un mese in quella casa. Non ricordava di aver dovuto andar via a nove anni per aver impiccato il gatto di Victoria. Una delle poche immagini che conservava nella mente era quella della casa stessa, vista dalla strada alla luce di un tramonto invernale, mentre le passava davanti tornando dalla Potter Gerard Elementary School alla casa a un paio di chilometri di distanza in cui era stato messo a pensione. Ricordava bene l'odore della biblioteca dei Vogt, simile a quello emanato da un piano appena aperto, quando sua madre lo riceveva per consegnargli i regali per le feste. Non ricordava invece i visi che apparivano alle finestre del piano di sopra quando si allontanava lungo il marciapiede gelato, con i regali — cose pratiche — che gli bruciavano sotto il braccio; correva a casa per rinchiudersi in un posto che esisteva solo nella sua testa, del tutto diverso da St. Louis. A undici anni aveva una vita fantastica attiva e intensa e, quando la tensione del suo Amore montava troppo, la scaricava. Cacciava gli animali domestici, con prudenza, freddamente attento alle conseguenze. Erano così addomesticati che non c'erano mai difficoltà. Le autorità non riuscirono mai a collegarlo alle tristi macchioline di sangue assorbite dal pavimento di terra battuta dei garage. Tutte queste cose a quarantadue anni non le ricordava. E non gli capitava mai di pensare alle persone che abitavano la casa di sua madre: lei, le sorellastre, il fratellastro.
A volte li rivedeva dormendo, frammenti brillanti di un sogno febbricitante; alterati, alti, facce e corpi vivacemente colorati come le piume di un pappagallo, si curvavano sopra di lui nell'atteggiamento di una mantide. Quando rifletteva, il che succedeva di rado, aveva molti ricordi soddisfacenti. Riguardavano il periodo di servizio militare. Colto a diciassette anni mentre entrava dalla finestra in casa di una donna con uno scopo che non venne mai accertato, ebbe la scelta fra l'arruolamento nell'esercito o una denuncia con conseguenze penali. Decise per l'esercito. Dopo l'addestramento di base venne inviato a una scuola di specializzazione in trattamenti fotografici e quindi spedito a San Antonio, dove al Brooke Army Hospital, lavorò alla produzione di documentali didattici per i medici militari. I chirurghi dell'ospedale si interessarono al suo caso e decisero di migliorargli i lineamenti. Fecero un intervento di plastica al naso, usando cartilagine presa dall'orecchio per allungare la columella e gli rimisero a posto il labbro con la tecnica Abbé, una procedura interessante che richiamò un pubblico di medici nell'aula operatoria. I chirurghi furono orgogliosi del risultato. Dolarhyde non volle vedersi nello specchio e guardò fuori dalla finestra. Le schede di prestito della biblioteca di film mostrano che Dolarhyde richiese molti documentari, quasi tutti relativi a lesioni traumatiche, trattenendoli per tutta la notte. Si raffermò nel 1958 e nel secondo periodo di ferma scoprì Hong Kong. Assegnato a Seul, in Corea, dove sviluppava i film presi dai piccoli ricognitori che verso la fine degli anni Cinquanta l'esercito mandava a incrociare sopra il 38° parallelo, riuscì ad andare due volte in licenza a Hong Kong. Nel 1959 a Hong Kong e a Kowloon si potevano soddisfare tutti gli appetiti. La nonna uscì nel 1961 dalla clinica in una vaga pace indotta dalla Thorazina. Dolarhyde chiese — e ottenne — di essere congedato con due mesi d'anticipo per gravi motivi di famiglia e tornò a casa per prendersi cura di lei. Anche per lui quello fu un periodo stranamente tranquillo. Grazie al nuovo lavoro alla Gateway poté assumere una donna che di giorno si occupasse della signora Dolarhyde. Di sera se ne stavano insieme in salotto senza scambiare parola. Il silenzio era rotto solo dal ticchettio e dal caril-
lon della vecchia pendola. Incontrò sua madre una volta sola, nel 1970, ai funerali della nonna. Le guardò attraverso, come se non la vedesse con quei suoi occhi gialli tanto simili a quelli di lei. Avrebbe potuto benissimo essere uno sconosciuto. L'aspetto di Francis lasciò sorpresa la madre. Era snello, con il torace ampio, il colorito della pelle era quello di lei e aveva un paio di baffi che, sospettava, fossero capelli trapiantati. La settimana dopo gli telefonò e sentì che, dopo un attimo d'esitazione, la cornetta veniva posata. Per nove anni dopo la morte della nonna Dolarhyde non ebbe problemi e non ne ebbe con nessuno. Aveva la fronte liscia e innocente come quella di un bambino. Sapeva di essere in attesa di qualcosa; non sapeva cosa. Un piccolo fatto, che capita a tutti, gli disse che il seme che aspettava di spuntare nel suo cranio era il Tempo: un giorno, in piedi accanto alla finestra sul lato nord della casa, esaminando un film notò che le mani erano invecchiate. Era come se gli fossero apparse all'improvviso e, nella limpida luce del nord, notò che la pelle sulle ossa e sui tendini si era come allentata; le mani erano coperte di minutissime rughe, come la pelle delle lucertole. Mentre le girava sotto la luce, si sentì avvolto da un sentore intenso di cavoli e di pomodoro. Rabbrividì, malgrado nella stanza facesse caldo. Quella sera si allenò più intensamente del solito. Nell'attico aveva sistemato uno specchio a figura intera, accanto agli anelli e ai pesi. Era l'unico specchio della casa, quello in cui poteva ammirare comodamente il proprio corpo, dato che durante gli esercizi portava sempre la maschera. Si esaminò attentamente, facendo lavorare i muscoli. A quarant'anni avrebbe potuto presentarsi con successo a un concorso di culturismo. Ma non era soddisfatto. Meno di una settimana dopo gli capitò di vedere il quadro di Blake. Ne fu immediatamente avvinto. Era una grossa fotografia a colori pubblicata su "Time" in un articolo in cui si parlava della retrospettiva di Blake tenuta al Tate Museum di Londra. Il Brooklyn Museum, per l'occasione, aveva inviato a Londra Il Drago Rosso e la Donna Vestita di Sole. Il critico del "Time" diceva: «Nell'arte occidentale poche immagini de-
moniache emanano come questa una carica così intensa e allucinante di energia sessuale...». Dolarhyde non ebbe bisogno di leggere il testo per rendersene conto. Per giorni e giorni portò con sé la riproduzione, la fotografò e la ingrandì in camera oscura. Era molto agitato. Allenandosi fissava la foto che aveva attaccato accanto allo specchio. Riusciva a dormire solo quando, a forza di esercizi, si ritrovava esausto, e per ottenere un sollievo sessuale proiettava i suoi documentari medici. Fin da nove anni si era reso conto che essenzialmente sarebbe sempre stato solo, una conclusione questa che capita più spesso di trarre sulla quarantina. E a quel punto si sentì sopraffatto da una vita fantastica fresca e vivida come quella dell'infanzia che lo condusse un passo oltre la solitudine. In un momento in cui gli altri uomini prima si rendono conto del proprio isolamento e poi lo temono, Dolarhyde capì le ragioni del suo: era solo perché era Unico. Con il fervore di un convertito vide che, se si fosse sforzato, se avesse seguito quegli impulsi autentici che per tanto tempo aveva soffocato — se li avesse coltivati per ciò che erano realmente, cioè ispirazioni — il suo Avvento sarebbe stato possibile. Nel quadro di Blake il volto del Drago rimane nascosto, ma Dolarhyde si accorgeva sempre più di sapere come era. Proiettando nel salotto i documentari medici, gonfiato dai continui esercizi di sollevamento pesi, si sforzava di allargare il più possibile le mascelle per infilarsi in bocca la dentiera della nonna. Ma la dentiera non si adattava alle sue gengive contorte e dopo poco gli venivano i crampi alle mascelle. In ogni momento libero cercava di allenare le mascelle mordendo un blocchetto di gomma dura finché sulle guance i muscoli non risaltarono gonfi come noci. Nell'autunno del 1979 Francis Dolarhyde ritirò una parte dei suoi considerevoli risparmi e si prese tre mesi di ferie. Partì per Hong Kong portando con sé la dentiera della nonna. Al ritorno, Eileen, la ragazza dai capelli rossi, e gli altri dipendenti dissero che la vacanza doveva senz'altro avergli fatto bene. Dolarhyde era tranquillo. Quasi non notarono che non si appartava più nello spogliatoio degli impiegati o nelle docce... cosa che del resto neanche prima faceva tanto spesso. La dentiera della nonna ora era tornata nel bicchiere sul comodino. E la
nuova dentiera di Francis era chiusa a chiave nella scrivania al piano di sopra. Se Eileen avesse potuto vederlo davanti allo specchio, con i denti a posto e il nuovo tatuaggio che risaltava vivace sotto la luce cruda della palestra, si sarebbe messa a urlare. Una volta sola. Ora Francis aveva tempo, non doveva più fare le cose in fretta. Aveva davanti a sé tutta l'eternità. Questo accadde cinque mesi prima di scegliere la famiglia Jacobi. Gli Jacobi furono i primi ad aiutarlo, i primi a sollevarlo verso la Gloria del suo Avvento. Gli Jacobi erano i migliori, i migliori tra tutti quelli che aveva conosciuto. Prima dei Leeds. E ora, mentre la sua forza e la sua Gloria crescevano, sarebbero venuti gli Sherman e con loro la nuova intimità degli infrarossi. Davvero promettente. Per ottenere quel che gli serviva Francis Dolarhyde doveva abbandonare il suo territorio. Era responsabile della produzione del settore più importante della Gateway — lo sviluppo dei film dei cineamatori — ma la società comprendeva altri quattro settori. La crisi degli anni Settanta si era fatta risentire nettamente in questo campo ed era stata resa più acuta dalla concorrenza dei videoregistratori. La Gateway si era vista costretta a diversificare le lavorazioni. Erano stati installati reparti per il trasferimento di immagini da pellicola a nastro magnetico, per la stampa aerofotogrammetrica; venivano anche offerti servizi speciali per i filmmaker commerciali a passo ridotto. Nel 1979 la Gateway ebbe un colpo di fortuna: firmò un contratto con il dipartimento della Difesa e con quello dell'Energia per lo sviluppo e le prove di nuove emulsioni sensibili ai raggi infrarossi. Il dipartimento dell'Energia aveva bisogno di film a raggi infrarossi per gli studi sulla conservazione del calore. Alla difesa servivano per le ricognizioni notturne. Fu acquistata una piccola società vicina alla Gateway — la Baeder Chemical — dove sarebbe stato realizzato il progetto. Durante l'ora di colazione Dolarhyde attraversò la strada diretto alla Baeder sotto un cielo di un azzurro limpidissimo, evitando con cura le pozze d'acqua rimaste sull'asfalto. La morte di Lounds lo aveva messo di un u-
more eccellente. Trovò la porta che cercava alla fine di un labirinto di corridoi. Sul cartello accanto era scritto: "Materiali sensibili agli infrarossi. Non usare luci di sicurezza, PROIBITO FUMARE, non introdurre bevande calde". Sopra il cartello era accesa una luce rossa. Dolarhyde schiacciò un pulsante e un attimo dopo la luce divenne verde. Entrò nell'anticamera a prova di luce e bussò alla porta interna. «Avanti.» Una voce femminile. Fresco, oscurità totale. Un gorgoglio d'acqua, l'odore familiare dello sviluppo D-76, una traccia di profumo. «Sono Francis Dolarhyde. Sono venuto per l'essiccatore.» «Ah, bene. Scusi, ho la bocca piena. Stavo finendo di fare colazione.» Sentì un rumore di carta appallottolata e gettata nel cestino. «A dire la verità, l'essiccatore lo vuole Ferguson» disse la voce nel buio. «Lui adesso è in vacanza, ma so dove va messo. Voi alla Gateway ne avete uno?» «Ne ho due. Uno è più grosso. Non mi ha detto quanto spazio c'è.» Settimane prima aveva visto un appunto a proposito dell'essiccatore. «Glielo faccio vedere, se può aspettare un momento.» «Senz'altro.» «Appoggi la schiena alla porta» la voce della donna assunse un tono da conferenziere esperto, «faccia tre passi avanti, fino a quando sente le mattonelle. A questo punto trova uno sgabello subito a sinistra.» Trovò lo sgabello. Adesso le era più vicino. Sentiva il fruscio del camice da laboratorio. «La ringrazio per essere venuto giù» gli disse. Aveva una voce limpida, con una sfumatura metallica appena avvertibile. «Lei è il capo del laboratorio, alla sede centrale, vero?» «Sì.» «Lei è quel "signor D." che scaglia i fulmini quando sono sbagliate le richieste di materiali?» «In persona.» «Sono Reba McClane. Spero che non ci sia niente che non va, qui.» «Non ho niente a che fare con il progetto. Ho progettato la camera oscura quando abbiamo comprato la ditta. Sono sei mesi che non mi faccio vedere qui.» Un discorso lungo per Francis, ma al buio gli riusciva più facile. «Ancora un minuto e faccio un po' di luce. Ha bisogno di un metro?» «Ce l'ho.»
Era piuttosto piacevole parlare a quella donna nel buio. La sentì frugare nella borsetta, poi udì lo scatto del portacipria. Gli spiacque quando il timer suonò. «Eccoci. Adesso metto questa roba nel Buco Nero» disse lei. Avvertì un alito freddo, le porte dell'armadio che si chiudevano contro il sigillo di gomma, il sibilo della pompa a vuoto. Un soffio, una fragranza lo sfiorò mentre lei gli passava accanto. Dolarhyde premette le nocche contro la radice del naso, assunse un'espressione pensierosa e attese la luce. Eccola. La donna in piedi accanto alla porta sorrideva approssimativamente nella sua direzione. Dietro le palpebre gli occhi si muovevano a scatti. Dolarhyde vide il bastone bianco appoggiato in un angolo. Allontanò la mano dal viso e sorrise. «Le dispiace se le prendo una prugna?» disse. Ce n'erano parecchie sul piano di lavoro dov'era seduto. «Faccia pure, sono molto buone.» Reba McClane era sulla trentina, con una bella faccia da campagnola e un'aria risoluta. Aveva una piccola cicatrice a forma di stella alla radice del naso. Il colore dei capelli era un misto di biondo e di oro rosso, il taglio alla paggetto era un po' fuori moda, viso e mani erano piacevolmente macchiati di efelidi. Tra le mattonelle e l'acciaio inossidabile della camera oscura si stagliava luminosa come l'autunno. Era libero di guardarla. Poteva percorrerla tutta con gli occhi. Non avrebbe incontrato il suo sguardo. Quando parlava a una donna Dolarhyde spesso avvertiva vampate di calore, trafitture alla pelle. Le sentiva dove pensava che la donna lo stesse guardando. Anche quando distoglievano lo sguardo sospettava che vedessero il suo riflesso. Era sempre attento alle superfici riflettenti, conosceva gli angoli di riflessione della luce con la sicurezza con cui un pescecane conosce le sponde della laguna in cui è chiuso. Ora si sentiva la pelle fresca. Quella della ragazza era lentigginosa, perlacea sulla gola e all'interno dei polsi. «Le faccio vedere dove lo vuole mettere» disse. «Così possiamo prendere le misure.» Misurarono. «Adesso vorrei chiederle un piacere» disse Dolarhyde. «Dica pure.»
«Mi serve della pellicola a raggi infrarossi. Sensibile fino a mille nanometri.» «Deve tenerla nel freezer e poi rimettercela dopo averla impressionata.» «Lo so.» «Se mi dà un'idea dell'impiego a cui è destinata la pellicola forse potrei...» «Riprese da una distanza di circa due metri e mezzo, con un paio di filtri Wratten sulle luci.» Poteva sembrare una faccenda di spionaggio. «Allo zoo» spiegò. «Nel mondo delle tenebre. Vogliono fotografare gli animali notturni.» «Devono essere molto timidi se non si può usare l'infrarosso commerciale.» «Ah-ah.» «Senz'altro gliene posso procurare un po'. C'è una cosa, però. Lei saprà che molto del nostro materiale è riservato al ministero della Difesa. Bisogna firmare una ricevuta per tutto quello che esce di qui.» «Bene.» «Per quando le serve?» «Più o meno per il venti. Non più tardi.» «Non c'è bisogno che le dica che più è sensibile più è difficile da maneggiare. Bisogna tenerla nelle scatole termiche, nel ghiaccio secco, roba del genere. Se vuole dare un'occhiata, verso le quattro esaminiamo alcuni campioni. Così può scegliere l'emulsione più facile da usare.» «Verrò.» Dopo che Dolarhyde se ne fu andato Reba McClane contò le prugne. Ne aveva presa una. Un tipo strano questo signor Dolarhyde. Non aveva sentito nessuna pausa di simpatia imbarazzata, di disagio, nella sua voce quando aveva acceso la luce. Forse sapeva già che era cieca. O forse, meglio ancora, non gliene importava niente. Una cosa piacevole, se era davvero così. 25 A Chicago si stava svolgendo il funerale di Freddy Lounds. Il "National Tattler" aveva pagato una cerimonia funebre accurata, spingendo gli impresari a fare le cose in fretta e furia, in modo che tutto si svolgesse il giovedì, un giorno dopo la morte. Così le foto avrebbero potuto apparire sul
numero pubblicato il giovedì sera. La cerimonia fu molto lunga, sia nella cappella che intorno alla tomba. Un predicatore radiofonico intonò un elogio, insincero e ipocrita, che pareva non finire mai. Graham si sforzava di controllare i residui della sbornia e studiava la folla. Il coro intorno alla tomba restituì fino in fondo il cachet che gli era stato pagato, mentre i fotoreporter del "Tattler" facevano ronzare i motori delle macchine fotografiche. Erano presenti anche due squadre di operatori televisivi con telecamera fissa e due speaker ficcanaso e invadenti. I fotografi della polizia, con credenziali della stampa, fotografavano i presenti. Graham riconobbe diversi agenti in borghese della omicidi di Chicago, le uniche facce che conosceva. E poi c'era Wendy di Wendy City, la ragazza di Lounds. Sedeva sotto il baldacchino, accanto alla bara. Graham non la riconobbe quasi. I capelli biondi erano pettinati all'indietro in una crocchia e indossava un abito nero di sartoria. Durante l'ultimo inno si alzò, fece qualche passo incerto, s'inginocchiò e posò la testa sulla bara, allungando le braccia sulla corona di crisantemi tra i flash dei fotografi. La folla poi si spostò quasi senza far rumore sull'erba spugnosa in direzione dei cancelli del cimitero. Graham camminava accanto a Wendy. Una folla di persone non invitate li fissava attraverso le alte sbarre della cancellata. «Si sente bene?» chiese Graham. Si fermarono tra le lapidi. Wendy aveva gli occhi asciutti, lo fissava diritto negli occhi. «Meglio di lei» rispose. «Si è sbronzato, vero?» «Già. C'è qualcuno che la sorveglia?» «Il distretto di polizia ha mandato qualcuno. Al club stanno in borghese. Il lavoro è aumentato. Più maniaci del solito.» «Mi spiace che le sia capitata una cosa del genere. Lei ha... penso che si sia comportata molto bene all'ospedale. L'ho ammirata.» Wendy annuì. «A Freddy piaceva giocare d'azzardo. Non avrebbe dovuto puntare così forte. Grazie per avermi fatta entrare, comunque.» Guardò lontano socchiudendo gli occhi, riflettendo; l'ombretto le copriva le palpebre come una polvere finissima. Fissò Graham. «Senta, il "Tattler" mi ha dato un po' di soldi. Lo immaginava, no? Per l'intervista e per quel tuffo sulla bara. Non credo che a Freddy sarebbe importato.»
«Si sarebbe infuriato se lei non avesse accettato.» «Proprio quello che ho pensato. Sono dei bastardi ma pagano. Veramente hanno cercato di farmi dire che sono convinta che lei ha mandato deliberatamente il mostro addosso a Freddy mettendogli quella mano sulla spalla nella foto. Non ho acconsentito. Se dovessero pubblicare che io ho detto una cosa del genere, hanno fatto una puttanata.» Graham tacque mentre lei lo studiava. «Forse Freddy non le piaceva... comunque non importa. Ma se lei avesse pensato che questa poteva essere un'occasione non l'avrebbe lasciata perdere. Sbaglio?» «No, Wendy. L'ho proprio messo a far da esca.» «Non avete proprio niente in mano? Ho sentito delle voci da quella gente, ma nient'altro.» «Non abbiamo molto. Qualche dato ottenuto dalle analisi di laboratorio che stiamo seguendo. Ha fatto un lavoro pulito e ha avuto fortuna.» «Lei ne ha?» «Cosa?» «Fortuna.» «Va e viene.» «Freddy non ne ha mai avuta. Mi diceva che con questa faccenda si sarebbe sistemato. Che poteva tirare fuori soldi dappertutto.» «E probabilmente ci sarebbe riuscito.» «Be', Graham, senta, se per caso, sa, le viene voglia di bere qualcosa glielo posso offrire io.» «Grazie.» «Ma per strada rimanga sobrio.» «Ma certo.» Due poliziotti aprirono la strada a Wendy tra i curiosi fuori dal cimitero. Uno di questi indossava una maglietta con la scritta "Con il Lupo Mannaro si scopa solo una volta". Fece un fischio a Wendy. La donna che gli stava accanto gli mollò una sberla. Un massiccio poliziotto si rattrappì accanto a Wendy nell'auto che si immise nel traffico. Un secondo poliziotto li seguì su un'auto civile. Chicago nel caldo pomeriggio puzzava. Graham si sentiva solo e sapeva perché; ai funerali spesso viene voglia di far l'amore... è la vicinanza della morte. Il vento gli fece frusciare tra i piedi i fiori ormai secchi di un vecchio funerale. Per un attimo — un attimo difficile — ricordò il fruscio delle pal-
me sotto la brezza marina. Provava un desiderio intenso di tornarsene a casa, pur sapendo che non l'avrebbe fatto, che non avrebbe potuto farlo, finché il Drago non fosse morto. 26 La saletta di proiezione della Baeder Chemical era piccola: cinque file di sedie pieghevoli separate da un passaggio nel mezzo. Dolarhyde arrivò in ritardo. Si fermò in fondo a braccia conserte, mentre i presenti esaminavano riprese di cartoncini grigi, di cartoncini colorati e di cubi sotto vari tipi di illuminazione, effettuate con una varietà di emulsioni sensibili agli infrarossi. La sua presenza disturbava Dandridge, il giovanotto responsabile della proiezione. Dolarhyde sul lavoro aveva una certa aria di autorità. La società della porta accanto riconosceva in lui un esperto di camera oscura ed era ritenuto un professionista. Dandridge da mesi non lo consultava: una questione di rivalità, nata da quando la Gateway aveva comperato la Baeder Chemical. «Reba, dimmi i dati di sviluppo del campione... numero 8» disse Dandridge. Reba McClane sedeva in fondo a una fila di sedie, con una lavagnetta in mano. A voce chiara, passando le dita nella semioscurità sulla lavagnetta, spiegò le particolarità del trattamento: prodotti chimici usati, tempi e temperatura, procedure di stoccaggio prima e dopo la ripresa. Le pellicole sensibili agli infrarossi devono essere trattate nell'oscurità totale. Reba aveva svolto tutto il lavoro in camera oscura e ordinato i vari campioni con un codice Braille, il tutto al buio. Era facile capire quanto fosse preziosa per la Baeder. Le proiezioni si conclusero, venne il momento di andarsene. Reba McClane rimase seduta al suo posto mentre gli altri uscivano. Dolarhyde la avvicinò, attento ai particolari. Le si rivolse da una certa distanza, mentre nella saletta c'era ancora qualcuno. Non voleva che si sentisse osservata. «Credevo che non fosse venuto» osservò lei. «C'era un apparecchio in panne. Sono arrivato tardi.» Le luci si erano accese. Dolarhyde, che stando in piedi la dominava, ne vide i riflessi sul cuoio capelluto, nella scriminatura dei capelli. «È riuscito a vedere il campione 1000C?»
«Sì, l'ho visto.» «Hanno detto che il risultato era buono. È molto più facile da maneggiare della serie 1200. Crede che andrà bene?» «Andrà bene.» Reba aveva la borsetta e un impermeabile leggero. Dolarhyde arretrò quando la vide farsi strada tra le sedie, preceduta dal bastone. Pareva non aspettarsi nessun aiuto. Lui non si offrì. Apparve la testa di Dandridge. «Reba cara, Marcia ha dovuto scappare. Ce la fai a cavartela da sola?» Sulle guance le apparvero due chiazze rosse. «Me la cavo benissimo da sola, grazie, Danny.» «Te lo darei io un passaggio, tesoro, ma sono in ritardo. Senta, signor Dolarhyde, se non la disturba, potrebbe...» «Danny, ce l'ho già un passaggio.» Tratteneva la rabbia. Mantenne il viso rilassato, ma non era in grado di controllare le sfumature della mimica. Il rossore, comunque, non lo poteva tenere sotto controllo. Osservandola con i suoi gelidi occhi gialli, Dolarhyde la capiva perfettamente; sapeva che la finta simpatia di Dandridge era per lei come uno sputo in faccia. «La porto io» disse, troppo tardi. «No. Grazie, comunque.» Aveva previsto che lui si sarebbe offerto e in un primo momento aveva pensato di accettare. Ma non voleva costringere nessuno. Maledizione a Dandridge, maledizione alla sua goffaggine, avrebbe preso quel maledetto autobus. I soldi per il biglietto li aveva, la strada la conosceva e poteva andarsene dove cazzo le pareva. Si trattenne nello spogliatoio delle donne fino a quando non fu sicura che erano usciti tutti. Il portiere le aprì la porta. Seguì il bordo del salvagente che divideva in due il parcheggio verso la fermata dell'autobus, con il soprabito posato sulle spalle, picchiettando con il bastone e avvertendo la leggera resistenza delle pozze d'acqua. Dolarhyde dal furgone la osservava. Provava delle sensazioni che lo mettevano a disagio; erano pericolose, alla luce del giorno. Per un attimo, sotto i raggi del sole al tramonto, il parabrezza, le pozzanghere, l'acciaio delle reti di cinta balenarono con la lucentezza di un paio di forbici. Il bastone bianco lo confortava. Spazzava via il bagliore delle forbici e il pensiero dell'impotenza di Reba lo metteva a suo agio. Avviò il motore. Reba McClane sentì il furgone alle sue spalle, poi accanto.
«Grazie per avermi invitato.» Reba annuì, sorrise continuò a camminare picchiettando con il bastone. «Salga che le do un passaggio.» «Grazie, ma prendo sempre l'autobus.» «Dandridge è un idiota. Salga...» cosa si diceva in questi casi. «Mi fa piacere». Reba si fermò. Lo sentì scendere dal furgone. Di solito la gente, non sapendo come comportarsi, la prendeva per il braccio. Ai ciechi non piace sentirsi afferrare all'altezza dei bicipiti: l'equilibrio non viene disturbato. È una cosa fastidiosa, come posare i piedi sul piano oscillante di una bilancia. E, come tutti, non amano essere spinti. Dolarhyde non la toccò. Un attimo dopo Reba disse: «È meglio se le prendo un braccio». Era esperta di braccia, ma le dita di lui la stupirono. Erano dure come un corrimano di quercia. Non sapeva quanta energia nervosa avesse dovuto mettere in gioco Dolarhyde per farsi toccare. Il furgone sembrava ampio, alto sul piano stradale. Circondata da risonanze e da rimbombi diversi da quelli di un'auto, si tenne afferrata al sedile finché Dolarhyde non le ebbe allacciata la cintura di sicurezza. La cinghia trasversale le premeva contro un seno. La spostò portandola in mezzo. Parlarono poco. Dolarhyde, quand'erano fermi ai semafori, poteva guardarla. Reba viveva in un appartamento di una casa bifamiliare situata in una via tranquilla che si trovava nelle vicinanze della Washington University. «Entri che le offro qualcosa da bere.» In tutta la vita Dolarhyde non era entrato in casa d'altri più di cinque o sei volte. Quattro volte negli ultimi dieci anni; in casa sua, in quella di Eileen — per poco — in quelle dei Leeds e degli Jacobi. Le case degli altri gli erano sconosciute. Reba sentì oscillare il furgone quando lui scese. Lo sportello si aprì. Il sedile era alto e scendendo urtò leggermente Dolarhyde. Come urtare un albero. Era molto più massiccio, più solido di quanto non avesse giudicato dalla voce o sentendolo camminare. Solido e con un passo leggero. Una volta a Denver aveva conosciuto un centrocampo dei Broncos, venuto per un film, un appello della United Way a favore dei ciechi... Entrata in casa, Reba McClane posò il bastone in un angolo e, all'improvviso, si ritrovò libera. Muovendosi con scioltezza, mise della musica e
appese il soprabito. A Dolarhyde pareva quasi che non fosse cieca. Il fatto di trovarsi in una casa lo eccitava. «Le va un gin con acqua tonica?» «Va bene solo l'acqua tonica.» «Preferisce un succo di frutta?» «L'acqua tonica.» «Lei non beve, vero?» «No.» «Venga in cucina.» Aprì il frigorifero. «Che ne dice di...» fece un rapido inventario tastando con le mani, «un pezzo di torta? Alle noci. È dinamite.» «Ottimo.» Reba tirò fuori una torta intera e la posò sul mobiletto. Allargò le dita posandole sul bordo della torta finché il medio della destra e della sinistra non furono sulle tre e sulle nove. Poi con i pollici trovò il centro. Lo segnò con uno stecchino. Dolarhyde cercò di avviare una conversazione, per impedirle di sentire il suo sguardo. «Da quanto lavora alla Baeder?» Era riuscito ad evitare le "s". «Da tre mesi. Non lo sapeva?» «Mi dicono il minimo indispensabile.» Reba sorrise. «Probabilmente lei ha pestato i piedi a qualcuno quando ha progettato le camere oscure. Senta, i tecnici sono molto soddisfatti di quello che ha fatto. Gli scarichi funzionano e c'è un sacco di spazio. Almeno due metri, dove serve.» Appoggiò il medio della sinistra sullo stecchino, il pollice sul bordo della teglia e gli tagliò una fetta, guidando il coltello con l'indice. Dolarhyde la osservò maneggiare la lama lucente. Strano poter guardare una donna direttamente, quanto gli pareva. In compagnia, quante volte capita di poter guardare quello che si vuole guardare? Per sé Reba preparò un gin tonic piuttosto robusto, poi si trasferirono in soggiorno. Posò una mano su una lampada a stelo, la sentì fredda, la accese. Dolarhyde buttò giù la torta in tre bocconi e rimase seduto, rigido, sul divano. I capelli lisci, lucenti sotto la lampada, le mani robuste posate sulle ginocchia. Reba si accomodò in poltrona allungando le gambe su un divano.
«Quando le faranno, le riprese allo zoo?» «Forse la settimana prossima.» Aveva fatto bene a telefonare allo zoo per offrire la pellicola a raggi infrarossi. Dandridge avrebbe potuto controllare. «È uno zoo proprio bello. Ci sono andata con mia sorella e mia nipote quando sono venute ad aiutarmi a fare il trasloco. Sa, c'è una zona dove si possono toccare certi animali. Ho accarezzato il lama. Una sensazione piacevole, ma per quanto riguarda il profumo, ragazzi... mi è sembrato che mi venisse dietro finché non mi sono cambiata la camicetta.» Questa era una conversazione. Doveva dire qualcosa oppure andarsene. «Come è arrivata alla Baeder?» «Hanno messo un annuncio al Reiker Institute di Denver, dove lavoravo. Un giorno controllavo la bacheca e mi è capitato di trovarlo. In realtà è successo che la Baeder, per ottenere questo contratto con la Difesa, ha dovuto modificare le pratiche di assunzione. Sono riusciti a mettere sei donne, due negri, due chicanos, un orientale, un paraplegico e me in un totale di otto assunzioni. Sa, rientriamo tutti in almeno due categorie.» «Lei fa un bel lavoro per la Baeder.» «Anche gli altri se è per questo. Alla Baeder non regalano niente.» «E prima?» Era leggermente sudato. Difficile conversare. Però guardarla era piacevole. Aveva un bel paio di gambe. S'era fatta un taglietto sulla caviglia, depilandosi. Nelle braccia gli pareva di sentire il peso delle sue gambe, abbandonate. «Ho addestrato per dieci anni i nuovi ciechi all'istituto, dopo aver finito la scuola. E questa è la prima volta che lavoro fuori.» «Fuori dove?» «Fuori nel grande mondo. Il Reiker è un'isola. Voglio dire, insegnavamo alla gente a vivere in un mondo di vedenti e noi non ci vivevamo. Parlavamo troppo tra di noi. Ho pensato che fosse il caso di andarmene un po' in giro. A dire la verità, volevo dedicarmi alle terapie della parola, per i bambini con difficoltà di pronuncia. Un giorno o l'altro forse che ci torno.» Vuotò il bicchiere. «Senta, ho delle polpette in frigo. Sono piuttosto buone. Non avrei dovuto offrirle subito il dessert. Ne vuole?» «Ah-ha.» «Lei sa cucinare?» «Ah-ha.» Un leggero solco le si formò sulla fronte. Si spostò in cucina. «E di un
caffè che ne dice?» «Ah-ha.» Disse qualcosa a proposito dei prezzi del cibo e non ebbe risposta. Tornò nel soggiorno e sedette sul divano, appoggiando i gomiti sulle ginocchia. «C'è una cosa di cui vorrei parlare un minutino, così la togliamo di mezzo. D'accordo?» Silenzio. «È un po' che non dice niente. Per la precisione non ha detto una parola da quando ho parlato di terapie della parola.» La voce era gentile, ma ferma. Nessuna sfumatura di compassione. «Io la capisco bene, perché lei parla molto bene e perché la sto ad ascoltare. Di solito la gente non sta attenta. A me non fanno che chiedermi cosa? cosa? Se non le va di parlare, okay. Ma spero che dirà qualcosa, perché può, e perché a me interessa quello che ha da dirmi.» «Ummm. Molto bene» disse Dolarhyde a bassa voce. Era chiaro che il discorsetto, per lei, era molto importante. Stava invitandolo a entrare nel club del doppio handicap, insieme al paraplegico cinese? Si chiese quale potesse essere il suo secondo handicap. La frase successiva lo lasciò incredulo. «Posso toccarle la faccia? Voglio sapere se sta sorridendo o se è corrucciato.» Tono asciutto. «Voglio sapere se è il caso di tenere la bocca chiusa o meno.» Sollevò una mano e attese. Come se la sarebbe cavata se le avesse morso le dita? si chiese Dolarhyde. Anche con la dentiera normale sarebbe stato facile, come mordere un grissino. Bastava puntare i piedi sul pavimento, far forza contro la spalliera, serrarle il polso: non avrebbe avuto il tempo di tirar via la mano. Crunch, crunch, crunch, crunch. Lasciarle il pollice, magari, per misurare le torte. Le prese il polso tra il pollice e l'indice e osservò la mano, ben fatta. Era piena di piccole cicatrici; c'erano anche taglietti e graffiature recenti. La cicatrice liscia sul dorso era forse una bruciatura. Troppo vicino a casa. Troppo presto per l'Avvento. Lei non avrebbe più potuto assistervi. Per chiedergli una cosa così incredibile non doveva sapere nulla di lui. Non aveva scambiato pettegolezzi sul suo conto. «Le giuro che sto sorridendo» disse. Le "s" erano passate. Era vero che mostrava i suoi bei denti, quelli per il pubblico, in una specie di sorriso.
Le spostò il polso fin sopra le ginocchia e lo lasciò cadere. La mano si posò sulla coscia serrandola appena, le dita accarezzarono il tessuto come uno sguardo costretto a cambiare direzione. «Credo che il caffè sia pronto» disse. «Sto andando.» Doveva andarsene. A casa, per liberarsi dalla tensione. Reba annuì. «Se l'ho offesa l'ho fatto involontariamente.» «No, non mi ha offeso.» Reba rimase seduta, l'orecchio attento allo scatto della serratura. Si preparò un secondo gin tonic. Mise un disco di Segovia e si raggomitolò sulla poltrona. Dolarhyde nel cuscino aveva lasciato un'impronta tiepida. Nell'aria rimanevano tracce del suo passaggio: lucido da scarpe, una cintura di pelle nuova, lozione per barba di buona marca. Che uomo riservato. Aveva sentito parlare di lui solo poche volte in ufficio... Dandridge che diceva: «Quel figlio di puttana di Dolarhyde» a uno dei suoi scagnozzi. Per Reba la riservatezza era una cosa molto importante. Da piccola, quando stava imparando a vivere e a muoversi dopo aver perduto la vista, non aveva avuto nemmeno un po' di privacy. Adesso quando si trovava in pubblico, non era mai sicura di non essere osservata. Per questo le piaceva la riservatezza di Dolarhyde. Non aveva avvertito da parte sua la minima compassione e ne era contenta. Il che le piaceva molto. Come il gin che stava bevendo. All'improvviso Segovia le parve troppo insistente e lo sostituì con un disco di canzoni. Tre mesi duri in una città sconosciuta. L'inverno da affrontare, la difficoltà di trovare il bordo dei marciapiedi nella neve. Reba McClane, snella e coraggiosa, odiava l'autocommiserazione. Non era disposta a compatirsi. Sentiva di avere una vena profonda di quella rabbia tipica delle persone minorate e, non potendo liberarsene, la faceva lavorare a suo favore, per alimentare la sua spinta all'indipendenza, acuendo la determinazione di tirar fuori tutto il possibile da ogni singolo giorno dell'esistenza. A suo modo era una donna indurita. Per lei la fiducia in una specie di giustizia naturale era solo uno specchietto per le allodole; ne era convinta. Qualunque cosa avesse fatto, anche lei sarebbe finita distesa sulla schiena con un tubicino infilato nel naso, a chiedersi: «Tutto qui?». Sapeva che non avrebbe mai potuto vedere la luce, ma che c'erano delle cose che anche lei poteva avere. Cose da godere. Le aveva fatto piacere
aiutare i suoi allievi, un piacere reso stranamente più intenso dalla consapevolezza che, da questo aiuto, non le sarebbero venute né riconoscenza né punizioni. Nella scelta degli amici si teneva lontana dalle persone che cercano di imporre un rapporto di dipendenza e ne approfittano. Qualche caso le era capitato: i ciechi li attirano, sono loro i nemici. Avere rapporti. Reba sapeva di attrarre fisicamente gli uomini: Dio sapeva quanti cercavano di strusciarle le nocche sul seno quando le afferravano il braccio. Il sesso le piaceva molto, ma anni prima aveva imparato una cosa fondamentale sul conto degli uomini; la maggior parte hanno il terrore di addossarsi un peso. Terrore che, nel suo caso, era ancora più intenso. Non le andava l'idea di un uomo che sgusciasse dentro e fuori dal suo letto come un ladro di polli. Ralph Mandy doveva portarla fuori a cena. Aveva un modo particolarmente vigliacco di spiegarle che a lui la vita faceva così paura che non era capace di innamorarsi. Nella sua prudenza gliel'aveva detto troppe volte, e la cosa la irritava. Ralph era divertente, ma lei non aveva la minima intenzione di farlo diventare una cosa di sua proprietà. Non aveva voglia di vederlo. Non si sentiva in vena di parlare e di sentire intorno brandelli di conversazione mentre la guardavano mangiare. Sarebbe stato così bello essere desiderata da qualcuno che aveva il coraggio di prendere su il cappello e andarsene o di restare, se gli piaceva, qualcuno che le permettesse di fare lo stesso, che non si preoccupasse di lei. Francis Dolarhyde, timido, con un corpo da centrocampo e privo di stupidi atteggiamenti. Non aveva mai visto né toccato un labbro leporino e il suo modo di parlare non le provocava associazioni visive. Si chiese se Dolarhyde credesse che per lei non era difficile capirlo perché "i ciechi ci sentono molto meglio". Un luogo comune. Forse avrebbe dovuto spiegargli che non era vero: che i ciechi, semplicemente, stanno più attenti a ciò che sentono. Circolavano tante idee sbagliate sui ciechi. Si domandò se Dolarhyde credesse, come in genere si crede, che i ciechi sono "più puri di spirito" degli altri, che in un certo qual modo la loro minorazione li santifica. Sorrise tra sé. Nemmeno questo era vero.
27 La polizia di Chicago lavorava incalzata dai media e ogni sera facevano il "conto alla rovescia" dei giorni che mancavano alla luna piena. Undici giorni. Le famiglie di Chicago erano spaventate. Contemporaneamente, nel giro di una settimana, aumentarono gli spettattori di film dell'orrore che avrebbero ormai dovuto uscire di programmazione. Fascino e orrore. L'imprenditore uscito sul mercato punk-rock con le magliette del Lupo Mannaro, presentò anche una linea alternativa con la scritta "Col Drago Rosso si scopa una volta sola". Le vendite si suddivisero equamente. Dopo il funerale Jack Crawford fu costretto a presentarsi a una conferenza stampa insieme ad altri funzionari di polizia. Dall'alto era arrivato l'ordine di rendere più visibile la presenza dei federali; Crawford non la rese più udibile, in quanto non aprì bocca. Quando nelle indagini in cui vengono impegnate molte persone c'è poco da mettere sotto i denti, succede che tutte queste persone tendono ad andare avanti e indietro, passando e ripassando sullo stesso terreno fino ad appiattirlo, e assumono l'andamento circolare di un ciclone. Dovunque andasse Graham, trovava investigatori, macchine fotografiche, frenesia di uomini in uniforme, e il crepitio incessante delle radio. Aveva bisogno di fermarsi. Crawford, irritato dalla conferenza stampa, verso sera lo trovò nella quiete di una saletta di riunione dei giurati libera, un piano sopra l'ufficio del procuratore federale. Una luce piacevole scendeva sul feltro verde del tavolo dove Graham aveva sparso fotografie e documenti. Si era tolto giacca e cravatta e se ne stava allungato in una sedia fissando due foto. Davanti teneva quella incorniciata dei Leeds e, accanto, pinzata a una tavoletta appoggiata a una caraffa, quella degli Jacobi. A Crawford l'insieme ricordava quelle piccole cappelle pieghevoli che usano i toreri, pronte per essere aperte in una qualunque stanza d'albergo. Mancava la foto di Lounds. Aveva il sospetto che Graham si disinteressasse completamente del caso Lounds. Ma non voleva sollevare la questione. «Sembra una sala da biliardo» osservò. «Li hai stesi?» Graham era pallido ma sobrio. In mano teneva un grosso bicchiere di succo d'arancia.
«Cristo.» Crawford si lasciò andare su una sedia. «Cercare di mettere insieme un po' di idee là fuori è come voler pisciare su un treno.» «Niente di nuovo?» «A un certo punto, il commissario che sudava per rispondere a una domanda, si è grattato le palle davanti alle telecamere. L'unico fatto degno di nota che ho visto. Guarda la tv alle sei o alle undici se non ci credi.» «Vuoi un po' di succo d'arancia?» «Sarebbe come mandar giù filo spinato.» «Ottimo. Lo stesso per me.» Graham aveva il viso teso. Gli occhi erano troppo lucidi. «E per la benzina?» «Che Dio benedica Liza Lake. Nella zona di Chicago ci sono quarantuno punti di vendita della Servco Supreme. I ragazzi del capitano Osborne li hanno fatti passare tutti, per sapere se erano state vendute delle lattine a gente che guidava furgoni o camion. Per il momento, niente, ma non hanno ancora finito. La Servco ha altre centottantasei stazioni di servizio sparse in otto stati. Abbiamo chiesto la collaborazione delle autorità locali. Ci vorrà un po'. Se Dio mi ama, quello ha comprato la benzina con una carta di credito. Una possibilità c'è.» «Non c'è, se l'ha tirata fuori dal serbatoio con un tubo.» «Ho chiesto alla polizia di non dire che il Lupo Mannaro forse vive in questa zona. La gente ha già abbastanza fifa. Se avessero detto una cosa del genere, stanotte quando tornano a casa gli ubriachi, sarebbe la guerra di Corea.» «Credi ancora che non sia lontano?» «Perché, tu no? È un'ipotesi che quadra, Will.» Crawford prese il referto dell'autopsia di Lounds e lo guardò attraverso le lenti bifocali. «L'abrasione alla testa precedente alle ferite alla bocca. Da cinque a otto ore, non sanno bene. Ora, le ferite alla bocca erano vecchie di qualche ora quando Lounds è arrivato all'ospedale. Erano ustionate, ma hanno potuto stabilirlo analizzando l'interno della bocca. Poi, gli era rimasto un po' di cloroformio nel... diavolo, in qualche posto dalle parti dei polmoni. Credi che fosse in stato di incoscienza quando il Lupo Mannaro l'ha morso?» «No. Doveva volerlo sveglio.» «Proprio quello che ho immaginato. Bene, lo porta via dopo avergli dato una botta in testa: questo è successo nel garage. Lo deve tenere tranquillo con il cloroformio finché non l'ha portato in qualche posto dove, anche se quello fa casino, non lo si sente. Poi lo riporta qui e arriva qualche ora dopo il morso.»
«Avrebbe potuto fare tutto nel retro del furgone, dopo averlo parcheggiato in un posto isolato» osservò Graham. Crawford si massaggiò il naso con le dita. La voce assunse un tono nasale. «Dimentichi le ruote della sedia a rotelle. Bev ha trovato due tipi di fibre: lana e sintetico. Quelle sintetiche magari vengono da un furgone, ma quando mai hai visto un tappeto di lana in un furgone? Quanti tappeti di lana ti è capitato di vedere in un posto in affitto? Quasi niente. Un tappeto di lana si trova in una casa, Will. E la polvere e la muffa venivano da un posto buio dov'era stata messa la carrozzella. Una cantina con il pavimento in terra battuta.» «Può darsi.» «E adesso guarda qui.» Estrasse dalla borsa una carta stradale. Aveva tracciato un cerchio facendo centro su Chicago. «Freddy è rimasto via poco più di quindici ore e le ferite che gli sono state inferte coprono quest'arco di tempo. Adesso farò un paio di supposizioni. Non mi piace, ma così stanno le cose... perché ridi?» «Mi ricordo di quando dirigevi quelle esercitazioni pratiche a Quantico... di quella volta che uno degli allievi ti ha detto di aver fatto una supposizione.» «Non me ne ricordo. Qui, vedi...» «Gli hai fatto scrivere "supposizione" sulla lavagna. Poi hai preso il gesso, l'hai sottolineata e gli hai gridato in faccia: "le supposizioni sono medicine da prendere per via rettale". Ecco cosa gli hai detto.» «Aveva bisogno di un calcio in culo per raddrizzarsi. Adesso guarda qui. Immagina che uscendo da Chicago con Lounds sia incocciato nel traffico del martedì pomeriggio. Dagli un paio d'ore per divertirsi con lui sul posto dove l'ha portato e altre due per tornare indietro. Non può essere andato a molto più di sei ore di macchina. Ecco, questo cerchio intorno a Chicago è il limite di sei ore di guida. È un po' irregolare perché certe strade sono più veloci di altre.» «Forse si è limitato a restare qui.» «Sicuro, ma non può essere andato più lontano di così.» «Quindi hai ristretto la zona a Chicago o all'interno di un perimetro che copre Milwaukee, Madison, Dubuque, Peoria, St. Louis, Indianapolis, Cincinnati, Toledo e Detroit, tanto per nominare le città più importanti.» «Ho fatto di meglio. Sappiamo che ha potuto leggere il "Tattler" quasi subito. Probabilmente lunedì notte.» «Avrebbe potuto trovarlo a Chicago.»
«Lo so, ma una volta fuori città non sono molti i posti dove lo si trova il lunedì sera. Ecco un elenco del reparto distribuzione: ci sono i posti dove viene spedito per via aerea o in autobus il lunedì sera. Vedi, rimangono Milwaukee, St. Louis, Cincinnati, Indianapolis e Detroit. La rivista arriva agli aeroporti e in più o meno novanta edicole aperte tutta la notte, senza contare quelle di Chicago. Ho chiesto agli uffici locali di controllare. Magari un qualche giornalaio si ricorda di un cliente strano di lunedì sera.» «Forse. Buona mossa, Jack.» Evidentemente Graham pensava ad altro. Fosse stato un agente regolare Graham avrebbe minacciato di farlo trasferire per tutta la vita alle Aleutine. Invece disse: «Mi ha telefonato mio fratello questo pomeriggio. Ha detto che Molly se n'era andata». «Già.» «In un posto sicuro, immagino.» Graham era sicuro che Crawford sapesse esattamente dov'era andata. «Dai nonni di Willy.» «Be', saranno contenti di vederlo.» Attese. Nessun commento da parte di Graham. «Va tutto bene, spero?» «Sto lavorando, Jack. Non preoccuparti. No, senti, è solo che lì era nervosa, aveva paura.» Graham estrasse un pacchetto piatto legato con uno spago da sotto una pila di foto scattate al funerale e cominciò a sciogliere il nodo. «E quello cos'è?» «Me l'ha mandato Byron Metcalf, l'avvocato degli Jacobi. Me l'ha fatto arrivare Brian Zeller. È tutto a posto.» «Un minuto, fammi vedere.» Crawford girò e rigirò il pacchetto tra le dita pelose finché non ebbe trovato timbro e firma di S.F. — Semper Fidelis — Ainesworth, Capo della sezione esplosivi dell'FBI che certificava che il pacchetto era stato controllato ai raggi X. «Controllare sempre. Controllare sempre.» «Controllo sempre, Jack.» «Te l'ha portato Chester?» «Sì.» «Ti ha fatto vedere il timbro prima di consegnartelo?» «Ha controllato e me l'ha fatto vedere.» Graham tagliò lo spago. «Sono le copie di tutto il materiale sequestrato in casa degli Jacobi. Ho chiesto a Metcalf di farmelo avere: quando arrive-
rà quello con la roba dei Leeds, potremo fare un confronto.» «Abbiamo già un avvocato che lo sta facendo.» «Ne ho bisogno io. Non li conosco gli Jacobi, Jack. Erano appena arrivati in città. Sono andato a Birmingham un mese dopo, la loro roba era sparsa qua e là o finita in merda. Per i Leeds una sensazione ce l'ho. Per gli Jacobi no. Ho bisogno di conoscerli. Voglio parlare con la gente che frequentavano a Detroit. E voglio passare ancora un paio di giorni a Birmingham.» «Mi servi qui.» «Stammi a sentire: Lounds nel quadro è un'eccezione. Siamo stati noi a farlo arrabbiare con Lounds. L'unico collegamento siamo stati noi a determinarlo. Di prove concrete in questo caso ce ne sono poche e se ne occupa la polizia. Lounds per lui era solo una seccatura, ma i Leeds e gli Jacobi sono quelli di cui ha bisogno. Dobbiamo trovare l'elemento che li collega. Se mai ce la faremo a prenderlo, sarà così che ci arriveremo.» «Dunque hai il documento degli Jacobi» disse Crawford. «Cosa stai cercando? Che genere di cosa?» «Qualunque cosa, Jack. In questo momento una deduzione di tipo sanitario.» Tirò fuori dal pacchetto l'attestato di pagamento dell'imposta di registro sulla casa. «Lounds era in una sedia a rotelle. Valery Leeds ha subito un intervento chirurgico cinque o sei settimane prima di morire... ricordi il diario? Una piccola cisti al seno. Mi sto chiedendo se anche la signora Jacobi non ha subito un intervento chirurgico.» «Non ricordo niente del genere nel rapporto dell'autopsia.» «No, ma potrebbe trattarsi di qualcosa che non si vede. La sua cartella sanitaria è divisa tra Detroit e Birmingham. Forse qualcosa è andato perduto. Se avesse subito un intervento, ci sarebbe una detrazione nella dichiarazione dei redditi, magari una richiesta di rimborso all'assicurazione.» «Pensi a un infermiere ambulante? Che ha lavorato in tutti e due i posti: Detroit oppure Birmingham e Atlanta?» «Se uno passa un po' di tempo in un ospedale per malattie mentali, impara un po' il mestiere. Quando esce, potrebbe farsi passare per infermiere e trovare lavoro» disse Graham. «Hai voglia di cenare?» «Più tardi. Sono un po' intontito dopo cena.» Andandosene, Crawford dal buio della soglia si voltò a guardarlo. Quel che vide lo lasciò indifferente: la luce del soffitto rendeva più profondi i solchi sul viso di Graham intento a studiare le carte, con le vittime che lo
fissavano dalle foto. C'era un odore di disperazione nella stanza. Sarebbe stato meglio rimetterlo in movimento? Crawford non poteva permettersi di lasciarlo lì a rodersi per nulla. Ma se si fosse roso per qualcosa? Gli eccellenti istinti amministrativi di Crawford, non addolciti dalla compassione, gli suggerivano di lasciarlo in pace. Alle dieci di sera Dolarhyde era ormai esausto a forza di allenarsi coi pesi, aveva rivisto i suoi film cercando di soddisfarsi. Ma non riusciva a scacciare l'irrequietudine. Al pensiero di Reba McClane sentiva l'eccitazione battergli sul petto come un medaglione gelido. Non doveva pensare a lei. Disteso sul lettino, con il torace gonfio e arrossato dallo sforzo, guardò il notiziario alla televisione per vedere come se la cavava la polizia con Freddy Lounds. Ecco Will Graham in piedi vicino alla bara mentre il coro ululava a più non posso. Era snello, Graham. Sarebbe stato facile spezzargli la schiena. Meglio che ucciderlo. Spezzargli la spina dorsale e torcerla, tanto per sicurezza. Così la prossima indagine l'avrebbe fatta sulla sedia a rotelle. Non c'era fretta. Che Graham continuasse ad aver paura. Ormai la tranquilla sensazione di potenza che provava non lo lasciava più. Il dipartimento di polizia di Chicago alla conferenza stampa faceva solo un po' di fumo; sotto tutte le chiacchiere a proposito dell'impegno dedicato alla vicenda, il succo era: nessun progresso nel caso di Freddy. Nel gruppo, dietro i microfoni c'era anche Jack Crawford. Dolarhyde lo riconobbe dalla foto del "Tattler". Un portavoce del "Tattler", affiancato da due gorilla disse: «Questo atto selvaggio e insensato farà solo risuonare più alta la voce del "Tattler"». Dolarhyde sbuffò. Forse sarebbe stato così. Comunque "l'atto selvaggio e insensato" aveva chiuso la bocca a Freddy. Sui giornali ora lo chiamavano "Il Drago". Le sue azioni erano "ciò che la polizia aveva indicato come 'i delitti del Lupo Mannaro'". Un progresso decisivo. Rimanevano solo le notizie locali. Uno zoticone dai lineamenti prognati faceva un servizio sullo zoo. Chiaramente erano disposti a spedirlo dovunque pur di tenerlo fuori dai piedi. Dolarhyde fece per prendere il telecomando quando sullo schermo ap-
parve una persona con la quale aveva parlato solo poche ore prima al telefono, il direttore dello zoo, dottor Frank Warfield, che era stato così contento della pellicola offertagli da Dolarhyde. Il dottor Warfield e un dentista stavano curando una tigre con un dente spezzato. Dolarhyde voleva vedere la tigre, ma il giornalista glielo impediva. Finalmente si spostò. Allungato sulla poltrona, guardando prima il suo torace poderoso e poi lo schermo, Dolarhyde vide il grande felino disteso in stato di incoscienza su un robusto tavolo operatorio. Il dente era in preparazione. Di lì a qualche giorno, a quanto diceva l'imbecille, l'avrebbero incapsulato. Dolarhyde li osservò lavorare con calma tra le zanne della tigre. «Posso toccarle il viso?» aveva detto Miss Reba McClane. Voleva dirle qualcosa. Gli sarebbe piaciuto darle un'idea di quanto era stata sul punto di fare. Desiderava che ricevesse un lampo della sua Gloria. Ma non poteva riceverlo e poi sopravvivere. D'altra parte doveva vivere: era stato visto in sua compagnia e abitava troppo vicina a casa sua. Aveva tentato di farne partecipe Lecter, ma Lecter l'aveva tradito. Comunque, gli sarebbe piaciuto fare partecipe qualcuno della sua Gloria. Farne partecipe lei, solo un poco, in un modo che le permettesse di sopravvivere. «Lo so che è una questione politica, e lo sai anche tu, ma più o meno è quello che stai facendo in questo momento» disse Crawford a Graham. Camminavano lungo la State Street Mall diretti verso il palazzo degli uffici federali. Era il tardo pomeriggio. «Tu continua a fare quello che stai facendo, fai un elenco degli elementi paralleli, e al resto ci penso io.» Il dipartimento di polizia di Chicago aveva chiesto alla sezione scienza del comportamento dell'FBI un profilo particolareggiato delle vittime. Quelli della polizia affermavano che se ne sarebbero serviti per programmare l'impiego delle pattuglie di rinforzo durante il periodo della luna piena. «Si parano il culo, ecco cosa stanno facendo» esclamò Crawford. «Le vittime erano persone con un certo reddito e loro hanno bisogno di fare la ronda nei quartieri ricchi. Lo sanno che la gente strillerà: i boss delle circoscrizioni non fanno che chiedere sorveglianza rinforzata da quando Freddy ci ha lasciato le penne. Se pattugliano i quartieri delle fasce medio alte e invece il Drago colpisce nel South Side, che Dio aiuti le autorità municipa-
li. Se però dovesse capitare, potranno dire che la colpa è di quei disgraziati dell'FBI. Già li sento... "Sono stati loro a dirci di fare così. È esattamente quello che ci hanno detto.» «Non credo che sia più probabile che colpisca a Chicago piuttosto che in un altro posto» disse Graham. «Non c'è nessun motivo per pensarlo. Perché non lo può preparare Bloom, il profilo? È consulente per quella sezione.» «Non lo vogliono da Bloom, ma da noi. Dare la colpa a Bloom non gli servirebbe a un accidenti. E poi è ancora in ospedale. Ho l'ordine di farlo. Qualcuno del municipio ha telefonato a qualcuno del dipartimento della Giustizia. Precedenza assoluta, mi hanno detto. Will, allora vuoi farlo?» «Sì. Del resto è proprio quello che sto facendo.» «Questo lo so.» disse Crawford. «Continua». «Preferirei tornare a Birmingham.» «No» concluse Crawford. «Per questa storia resta qui con me». La fine del venerdì ardeva in lontananza, verso ovest. Mancavano dieci giorni. 28 «Allora, me lo dici che razza di "gita" è questa?» chiese Reba McClane a Dolarhyde il sabato mattina, dopo dieci minuti di silenzio. Erano a bordo del furgone. Reba sperava che si trattasse di un picnic. Il furgone si fermò. Sentì Dolarhyde abbassare il finestrino. «Dolarhyde» disse lui. «Il dottor Warfield deve averle lasciato il mio nome.» «Sissignore. Vuol mettere questo sotto il tergicristallo quando parcheggia?» Si avviarono lentamente. Reba sentì che la strada curvava leggermente. Odori pesanti e sconosciuti portati dal vento. Il barrito di un elefante. «Lo zoo» disse. «Splendido.» Il picnic le sarebbe piaciuto di più. Che diavolo, anche così andava bene. «Chi è il dottor Warfield?» «Il direttore dello zoo.» «Siete amici?» «No. Gli abbiamo fatto un piacere dandogli il film. Adesso ce lo ripagano.» «Come?» «Potrai toccare la tigre.»
«Non farmi troppe sorprese!» «Hai mai visto una tigre?» Reba fu contenta che fosse capace di farle questa domanda. «No. Mi ricordo di un puma quand'ero piccola. Era tutto quello che avevano allo zoo di Red Deer. Spiegami un po' com'è questa faccenda.» «Stanno curandole un dente. Devono farle... l'anestesia. Se vuoi puoi toccarla.» «Ci sarà molta gente a guardare?» «No. Niente pubblico. Warfield, io, forse altri due. La tv arriva dopo. Allora vuoi?» Uno strano senso d'urgenza nella domanda. «Ma certo che voglio! Grazie... È una bella sorpresa.» Il furgone si fermò. «Ah, e come faccio a essere sicura che non è sveglia?» «Falle il solletico. Se ride, scappi.» Il pavimento dell'ambulatorio veterinario sotto le scarpe sembrava di linoleum. La stanza era fresca, rimbombava. Sulla parete lontana dovevano esserci dei caloriferi, ne sentiva le radiazioni calde. Uno scalpiccio ritmato, pesante, e Dolarhyde la aiutò a muoversi finché Reba non si sentì confinata in un angolo. La tigre era entrata, ne sentiva l'odore. Una voce. «Adesso tiratela su. Piano. Giù. La fascia possiamo lasciargliela sotto, dottor Warfield?» «Sì. Avvolgete quel cuscino in uno di quei panni verdi e metteteglielo sotto la testa. Quando abbiamo finito mando John a chiamarvi.» Un rumore di passi che si allontanavano. Reba si aspettava che Dolarhyde le dicesse qualcosa. Niente, invece. «L'hanno portata dentro» disse lei. «Erano in dieci, con un telone. È grossa. Tre metri. Il dottor Warfield le sta auscultando il cuore. Adesso le guarda un occhio. Eccolo che arriva.» Un corpo, di fronte a lei, schermò i rumori. «Il dottor Warfield, Reba McClane» li presentò Dolarhyde. Reba allungò la mano. Un'altra mano, grande e morbida, gliela strinse. «Grazie per avermi permesso di venire» disse. «È proprio una bella esperienza.» «Sono contento che lei sia venuta. È un vero piacere. E, a proposito, abbiamo molto gradito la pellicola che ci avete dato.» La voce era quella profonda di un uomo di mezza età, di un uomo istruito, di razza nera. Della Virginia, le parve.
«Stiamo aspettando per essere sicuri che il cuore e il respiro siano regolari prima che il dottor Hassler cominci. Adesso Hassler si sta sistemando la lampada sulla fronte. Detto tra noi, se la mette solo per tenere fermo il parrucchino. Venga che glielo presento. Signor Dolarhyde?» «Vada avanti lei.» Allungò una mano verso Dolarhyde. Ci volle un po' di tempo perché si decidesse a prendergliela, con una pressione leggera. La palma le lasciò una traccia di sudore sulle nocche. Il dottor Warfield le posò una mano sul braccio e si diressero lentamente verso il tavolo operatorio. «È profondamente addormentata. Lo sa più o meno come è fatta? Gliela descrivo in tutti i particolari, se vuole.» Tacque, non sapendo bene come domandarglielo. «Ricordo di aver visto delle foto nei libri quand'ero piccola, e una volta nello zoo vicino a dove abitavo ho visto un puma.» «Questa tigre è come un super puma» disse il dottore. «Torace più ampio, testa più massiccia, scheletro e muscoli più robusti. È un maschio di quattro anni, del Bengala. È lungo circa tre metri dalla punta del naso alla punta della coda e pesa circa 380 chili. È disteso sul fianco destro sotto una luce molto intensa.» «Sì, la luce la sento.» «Ha un aspetto impressionante; strisce nere e arancioni, e l'arancione è così luminoso che pare quasi diffondersi nell'aria intorno.» All'improvviso al dottor Warfield parve crudele parlare di colori. Una breve occhiata al viso di Reba lo rassicurò. «È a due metri da noi, riesce a sentirne l'odore?» «Sì.» «Forse il signor Dolarhyde le avrà detto che uno spiritoso ha infilato attraverso le sbarre la vanga del nostro giardiniere. La tigre si è rotta il canino sinistro, in alto, contro la lama. Pronto, dottor Hassler?» «Va tutto bene. Gli diamo ancora un paio di minuti.» Warfield le presentò il dentista. «Mia cara, lei è la prima bella sorpresa che Frank Warfield mi fa» disse Hassler. «Esamini questo. E un dente d'oro, meglio una zanna d'oro.» Gliela posò in mano. «Pesante, vero? Qualche giorno fa ho ripulito il dente spezzato e ne ho preso il calco. Adesso lo incapsulo con questo. Naturalmente avrei potuto benissimo farlo bianco, ma così mi pare più divertente. Il dottor Warfield le dirà che appena posso mi piace mettermi in mostra.
Purtroppo non vuole che io metta la pubblicità sulla gabbia.» Reba sotto le dita sensibili, sentì la forma, la curvatura e la punta della zanna. «Che bel lavoro!» Accanto sentiva un respiro lento e profondo. «I bambini faranno un salto quando la vedranno sbadigliare» osservò Hassler. «E mi sa che nessun ladro tenterà di rubargliela. E adesso, il divertimento. Lei non è apprensiva, vero? Quel giovanotto muscoloso che l'accompagna ci sta guardando come un falco. Non la sta costringendo, vero?» «No! No, sono io che voglio.» «Ci troviamo di fronte al dorso» disse Warfield. «La tigre è addormentata, a una settantina di centimetri da lei, distesa sul tavolo all'altezza della vita. Ed ecco cosa facciamo adesso: le faccio appoggiare la sinistra — lei non è mancina, vero? — sul bordo del tavolo e lei potrà esaminare la tigre con la destra. Faccia con comodo. Io le rimango qui accanto.» «Anch'io» disse il dottor Hassler. L'esperienza piaceva anche a loro. Sotto il calore delle luci i capelli di Reba avevano il profumo della segatura fresca sotto il sole. Reba avvertiva il calore alla sommità del cranio, le dava prurito al cuoio capelluto. Sentiva l'odore dei suoi capelli caldi, del sapone di Warfield, l'odore di alcol e di disinfettante, e quello del felino. Per un attimo si sentì mancare. Si aggrappò al bordo del tavolo e allungò una mano finché con le dita non toccò la pelliccia, anch'essa scaldata dal calore delle lampade; sotto, uno strato più fresco e poi il tepore del corpo. Premette la mano sul pelo spesso, accarezzandolo delicatamente, sentendolo scivolare sotto il palmo, nel senso del pelo e contropelo, sentì anche la pelle scivolare sulle costole che salivano e scendevano. Strinse la pelle, e il pelo le si insinuò tra le dita. Toccando l'animale avvampò in viso e si lasciò prendere da improvvisi guizzi dei muscoli facciali che aveva imparato a controllare. Warfield e Hassler, contenti, la videro dimenticare se stessa, come se fosse al di là di un vetro irregolare, come se posasse il viso su una superficie fatta di sensazioni nuove. Dolarhyde la osservava dall'ombra; i muscoli della schiena guizzarono. Un rivolo di sudore gli scese lungo le costole. «Le cose importanti sono dall'altra parte» le disse il dottor Warfield all'orecchio. La accompagnò dall'altro lato del tavolo; Reba con una mano accarezzò
tutto il profilo della coda. Dolarhyde avvertì un'improvvisa contrazione nel petto quando vide le dita di Reba passare con una carezza sui testicoli lanosi. Reba li strinse un attimo e continuò la carezza. Warfield sollevò una zampa e gliela posò in mano. Lei avvertì il ruvido dei polpastrelli e sentì un leggero puzzo, lasciato dal pavimento della gabbia. Il dottore premette un dito per far uscire l'unghia. I muscoli robusti e morbidi delle spalle le riempirono le mani. Poi toccò le orecchie, la grossa testa e, con prudenza, guidata dal veterinario, il ruvido della lingua. Il respiro caldo le mosse leggermente i peli dell'avambraccio. Infine, il dottor Warfield le mise lo stetoscopio alle orecchie. Posò le mani sul torace e, alzando il viso, si sentì riempire dal rombo del cuore della tigre. Mentre si allontanavano sul furgone Reba McClane era silenziosa, rossa in viso, euforica. Si rivolse una sola volta a Dolarhyde per dirgli a bassa voce: «Ti ringrazio... moltissimo. Se non hai niente in contrario, mi piacerebbe moltissimo bere un martini.» «Aspettami un minuto,» disse Dolarhyde parcheggiando nel cortile di casa sua. Era contenta che non l'avesse portata al suo appartamento. Puzzava di chiuso e dava sicurezza. «Non stare a mettere ordine. Portami dentro e dimmi che è tutto pulito.» «Aspettami qui.» Prese il sacchetto delle bottiglie e fece un rapido giro di ispezione. Si fermò in cucina prendendosi per un attimo il viso tra le mani. Non era sicuro di cosa stava facendo. Presentiva un pericolo, ma non da parte di lei. Non riusciva a costringersi a guardare su per le scale. Doveva fare qualcosa e non sapeva come. Doveva riportarla a casa. Prima dell'Avvento non avrebbe assolutamente osato fare niente del genere. Ma ora si rendeva conto di poter fare qualunque cosa. Qualunque cosa. Tornò fuori nella luce del tramonto ed entrò nella lunga ombra azzurra del furgone. Reba McClane si tenne aggrappata alle sue spalle finché non ebbe posato i piedi per terra.
Sentiva la casa incomberle addosso. Capì che era alta dall'eco che fece la porta del furgone nel chiudersi. «Quattro passi sull'erba. Poi c'è una rampa» la avvertì. Gli si appoggiò a un braccio. Un tremito. Leggero odore di traspirazione e di cotone. «Una rampa. Come mai?» «Una volta ci vivevano dei vecchi, qui.» «Adesso non più.» «No.» «Dà una sensazione di fresco, di altezza» osservò Reba in salotto. Odore di museo. Era incenso quell'odore? Un orologio a pendolo ticchettava lontano. «È una casa grande, vero? Quante stanze?» «Quattordici.» «È vecchia. I mobili in questa stanza sono vecchi.» Sfiorò un paralume orlato di frange, lo accarezzò con le dita. Che uomo timido. Sapeva benissimo che l'aveva eccitato vederla con la tigre; aveva avuto un brivido da cavallo quando gli si era appoggiata al braccio uscendo dall'ambulatorio veterinario. Un gesto di buon gusto da parte sua organizzare quella faccenda. Forse anche eloquente. «Martini?» «Ti accompagno, lo preparo io» disse togliendosi le scarpe. Versò il vermut nel bicchiere controllando il livello col dito. Poi, una buona dose di gin e due olive. Aveva trovato subito i punti di riferimento; il ticchettio dell'orologio, il ronzio di un condizionatore sotto la finestra. Sul pavimento, davanti alla porta della cucina, dove per tutto il pomeriggio era caduta la luce del sole, c'era una zona tiepida. Dolarhyde la accompagnò alla sua poltrona. Lui sedette sul divano. L'aria era carica. Come la fluorescenza nel mare, sottolineava i movimenti. Trovò un posto dove posare il bicchiere, sul tavolinetto accanto al divano. Dolarhyde mise della musica. La stanza gli sembrava cambiata. Era la prima persona che entrava in quella casa, e ora il salotto era diviso in due parti, la sua e quella di lei. La luce si affievoliva, accompagnata dalla musica di Debussy. Le chiese qualcosa a proposito di Denver e Reba raccontò pochi fatti distratta, come se pensasse ad altro. Lui le descrisse la casa e il grande giardino che la circondava, chiuso da una siepe. Non c'era molto bisogno di parlare.
Nel silenzio, mentre lui cambiava disco, gli disse: «Quella tigre meravigliosa, questa casa... sei pieno di sorprese, D. Credo che nessuno ti conosca.» «Gliel'hai chiesto?» «A chi?» «A chiunque.» «No.» «E allora come fai a dirlo?» La concentrazione per evitare al massimo le "s" mantenne neutrale il tono della domanda. «Oh, delle ragazze che lavorano alla Gateway l'altro giorno mi hanno vista salire sul tuo furgone. Scoppiavano dalla curiosità. Di colpo mi sono ritrovata in compagnia davanti alla macchinetta della coca cola.» «Cosa volevano sapere?» «Solo qualche pettegolezzo piccante. Quando hanno scoperto che non ce n'erano se ne sono andate.» «E cos'hanno detto?» Reba non voleva che la curiosità delle donne diventasse una presa in giro verso se stessa. In quella direzione non avrebbe ottenuto nulla. «Si chiedevano un sacco di cose» spiegò. «Ti trovano molto misterioso e molto interessante. In fondo è un complimento.» «Ti hanno detto come sono?» La domanda era stata fatta in tono leggero, con molta abilità, ma Reba sapeva che nessuno scherza mai veramente. La affrontò a testa bassa. «Non gliel'ho chiesto. Però — sì — mi hanno spiegato che aria hai, secondo loro. Vuoi saperlo? Parola per parola? Se non vuoi, non devi chiedermelo.» Era sicura che glielo avrebbe chiesto. Nessuna risposta. All'improvviso Reba sentì di essere sola, che lo spazio che lui occupava era più vuoto del vuoto, una specie di buco nero che inghiottiva tutto senza emettere nulla. Ma sapeva anche che, se si fosse allontanato, l'avrebbe udito. «Credo che te lo dirò» proseguì. «Gli piace quell'aria dura e pulita che hai. Dicono anche che hai un corpo notevole.» Evidentemente non poteva fermarsi lì. «Dicono anche che, per quanto riguarda la tua faccia, sei molto suscettibile, e che non dovresti esserlo. Okay, a dirlo è quella scema con il chewing-gum, si chiama Eileen?» «Sì, Eileen.» Ah, un segnale di rimbalzo. Le pareva di essere un radioastronomo.
Reba aveva delle doti imitative eccellenti. Sarebbe stata capace di imitare con una fedeltà stupefacente il modo di parlare di Eileen, ma era troppo intelligente per mimare davanti a Dolarhyde il modo di parlare di un altro. Citò Eileen come se stesse leggendo una trascrizione delle sue parole. «"Non è brutto. Giuro su Dio che sono andata fuori con un sacco di tizi peggio di lui. Una volta sono uscita con un giocatore di hockey — per chi giocava, per i Blues? — che aveva una fossa sul labbro, dove gli si era staccata la gengiva. Ce l'hanno tutti i giocatori di hockey. È un po', sai... da macho, direi. Il signor D. ha una pelle bellissima e cosa non darei per avere i suoi capelli". Soddisfatto? Oh, e mi ha chiesto se sei vigoroso come sembri.» «E tu?» «Le ho detto che non lo sapevo.» Vuotò il bicchiere e si alzò. «Dove diavolo ti sei messo, D?» Lo capì quando lui passò davanti a un altoparlante dello stereo. «Aha. Eccoti qui. Vuoi sapere cosa ne penso io?» Trovò la sua bocca con la punta delle dita e la baciò, premendo delicatamente le labbra contro i suoi denti serrati. Si rese conto immediatamente che era la timidezza non il disgusto a irrigidirlo. Dolarhyde era stupefatto. «E adesso mi fai vedere dov'è il bagno?» Lo prese per un braccio e, insieme, attraversarono l'atrio. «Sono capace di tornare indietro da sola.» In bagno si pettinò e tastò il piano del lavabo cercando del dentifricio o del colluttorio, poi cercò di trovare lo sportello dell'armadietto per scoprire che mancava; rimanevano solo i cardini. Con prudenza toccò gli oggetti uno a uno, temendo di incontrare un rasoio, finché non incontrò una bottiglietta. Svitò il tappo, annusò per controllare se era proprio colluttorio e ne versò un poco in bocca. Quando fu tornata in salotto sentì un rumore familiare, il meccanismo di un proiettore. «Mi sono portato a casa un po' di lavoro da fare» spiegò Dolarhyde, porgendole un martini appena fatto. «Sicuro» rispose Reba. Non sapeva come prenderla. «Se devi lavorare, posso andarmene. Può arrivare fin qui un taxi?» «No. Ti voglio qui. Davvero. È solo un film che devo controllare. Ci metto poco.» Fece per accompagnarla alla poltrona. Reba sapeva dov'era il divano e preferì sedere là.
«È sonoro?» «No.» «Posso lasciare accesa la musica?» «Uhm-hmmm.» Sentiva di interessargli. Voleva che lei rimanesse, era solo spaventato. Non era il caso. Bene. Sedette. Il martini era meravigliosamente secco. Dolarhyde si accomodò all'altra estremità del divano, il suo peso fece tintinnare il ghiaccio nel bicchiere. Il proiettore stava nuovamente riavvolgendo la pellicola. «Se non ti spiace, mi sdraio un momento» gli disse. «No non muoverti, ho tutto lo spaziò che voglio. Se mi addormento, svegliami, okay?» Si allungò sul divano tenendo il bicchiere sullo stomaco; la punta dei capelli gli sfiorava la mano, accanto alla coscia. Dolarhyde schiacciò il pulsante del telecomando e il film iniziò. Voleva vedere il film sui Leeds o quello sugli Jacobi con questa donna nella stanza. Voleva guardare lo schermo, Reba, lo schermo, Reba. Sapeva che non sarebbe sopravvissuta a una cosa del genere. Ma le ragazze l'avevano vista salire sul furgone. Non pensarci nemmeno. Le ragazze l'avevano vista salire sul furgone. Poi avrebbe visto anche il film degli Sherman, quelli che voleva andare a trovare. Avrebbe visto la promessa di un futuro sollievo, e in presenza di Reba, libero di guardarla quanto gli fosse piaciuto. Sullo schermo apparve il titolo La casa nuova, scritto con monetine appiccicate a un foglio di cartone. Campo lungo della signora Sherman con i figli. Allegria in piscina. La signora Sherman aggrappata alla scaletta guarda verso l'obiettivo, la curva del seno gonfia il costume da bagno bagnato, le gambe pallide sforbiciano nell'acqua. Dolarhyde era orgoglioso del proprio autocontrollo. Avrebbe pensato a questo film, non all'altro. Ma dentro di sé, si rivolse alla signora Sherman, come si era rivolto a Valerie Leeds ad Atlanta. Adesso mi vedi, sì. Ecco come ti senti quando mi vedi, sì. Giochi e scherzi con gli abiti vecchi. La signora Sherman indossa il cappello a tesa larga. È davanti allo specchio. Si volta con un gran sorriso mettendosi in posa, con una mano sulla nuca. Al collo porta un cammeo. Reba McClane si stiracchia sul divano. Posa il bicchiere sul pavimento. Dolarhyde avverte una sensazione di peso e di tepore. Gli ha appoggiato il
capo sulla coscia. La nuca è pallida, la luce del proiettore vi disegna riflessi. Rimane assolutamente immobile, muove solo il pollice per bloccare la proiezione, fa riavvolgere la pellicola. Sullo schermo, la signora Sherman con il cappello, in posa davanti allo specchio. Si volta verso l'obiettivo e sorride. Adesso mi vedi, sì. Ecco come ti senti quando mi vedi, sì. Mi senti adesso? Sì. Trema. I calzoni lo stringono. Ha caldo. Sente un alido caldo attraverso il tessuto. Reba ha fatto una scoperta. Il pollice preme convulso il telecomando. Adesso mi vedi, sì Ecco come ti senti quando mi vedi, sì Mi senti adesso? Sì Reba gli apre la cerniera dei calzoni. Una lama di paura lo attraversa. Non ha mai avuto un'erezione davanti a una donna viva. È il Drago: non deve avere paura. Le dita lo liberano. Oh. Adesso mi senti? Sì. Lo senti questo, sì. So cosa fai, sì. Ti batte il cuore, sì. Doveva tenere le mani lontane dal collo di Reba. Non toccarla. Le ragazze li avevano visti insieme nel furgone. La mano stringe il bracciolo del divano. Le dita penetrano nella fodera. Ti batte il cuore, sì Vola via adesso Sta volando Cerca di venir fuori, sì E adesso di corsa leggero di corsa più leggero e... Finito Oh, finito. Reba abbandona il capo sulla coscia volgendo verso di lui una guancia bagnata. Gli infila una mano sotto la camicia abbandonandola sul tepore del torace. «Spero di non averti scioccato» disse.
Fu la sua voce — viva — a lasciarlo scioccato. Allungò una mano per vedere se le batteva il cuore. Batteva. Reba gli strinse delicatamente la mano. «Santo cielo, sei ancora pronto, vero?» Una donna viva. Che cosa bizzarra. Colmo di forza — la sua o quella del Drago — la sollevò senza difficoltà dal divano. Non pesava nulla, era molto più facile da portare, perché non era abbandonata. Al piano di sopra no. Al piano di sopra no. In fretta. Da qualche parte. Subito. Il letto della nonna, il copriletto di satin liscio sotto di loro. «Oh, aspetta, me le tolgo. Oh, si sono strappate. Non importa. Avanti. Santo cielo, che beello. No, per favore, non farmi stare sotto. Fammelo prendere da sopra.» E insieme a Reba, l'unica donna viva che avesse mai avuto, chiuso con lei in questa bolla di tempo, sentì per la prima volta che tutto era come doveva essere: era la propria vita che diffondeva, era se stesso che inviava al di là della morte in quella sua oscurità stellata, via da questo pianeta di sofferenze, facendo risuonare lontananze armoniose di suoni di pace e di riposo. Nel buio accanto a lei, le chiuse una mano nella sua e la strinse delicatamente per chiudere la via del ritorno. Mentre Reba dormiva, Dolarhyde, che aveva assassinato undici creature, ascoltò più e più volte il battito del suo cuore. Immagini. Perle barocche che volavano nell'oscurità amichevole. Una pistola a razzo che aveva sparato puntando contro la luna. Un grande fuoco artificiale chiamato "il Drago semina le sue perle" che aveva visto a Hong Kong. Il Drago. Si sentiva annientato, calmo. E per tutta la notte, accanto a lei, rimase in ascolto, temendo di sentire se stesso scendere lungo le scale in kimono. Una volta, durante la notte Reba si stiracchiò, allungando una mano sonnacchiosa finché non trovò il bicchiere posato sul comodino. La dentiera della nonna si mosse urtando il vetro. Dolarhyde le portò dell'acqua. Reba lo abbracciò nel buio. Quando si fu riaddormentata, Dolarhyde le staccò la mano dal suo enorme tatuaggio e se la posò sul viso. All'alba si addormentò profondamente.
Reba McClane si svegliò alle nove e sentì il suo respiro regolare. Si stiracchiò impigrita nel lettone. Dolarhyde non si mosse. Reba riandò con la mente alla disposizione della casa, a com'erano sistemati i tappeti, alla direzione dell'orologio. Quando ebbe tutto chiaro in mente si alzò in silenzio e trovò il bagno. Rimase a lungo sotto la doccia. Quando fu uscita sentì che lui dormiva ancora. Le mutandine strappate erano finite sul pavimento. Le trovò tastando con i piedi e le infilò nella borsetta. Fece scivolare l'abito di cotone sopra la testa, raccolse il bastone e uscì all'aperto. Le aveva detto che lo spiazzo, fuori, era ampio e livellato, circondato da siepi inselvatichite ma, all'inizio, si mosse con cautela. La brezza mattutina era fresca, il sole caldo. Si fermò nel cortile raccogliendo tra le mani i semi del sambuco portati dal vento. La brezza le si insinuò tra le curve del corpo, fresco per la doccia. Alzò le braccia nella sua direzione e avvertì un senso di frescura tra i seni, sotto le braccia, tra le gambe. Le api passavano ronzando. Non ne aveva paura, la lasciarono in pace. Dolarhyde si svegliò, per un attimo stupito di non trovarsi in camera sua al piano di sopra. Spalancò gli occhi gialli, ricordando la notte precedente. Si voltò di scatto verso il cuscino a fianco. Nessuno. Stava aggirandosi per casa? Cosa poteva trovare? Era successo qualcosa durante la notte? Qualcosa che l'avrebbe costretto a ripulire. L'avrebbero sospettato. Forse avrebbe dovuto scappare. Guardò in bagno, in cucina. Poi nel sotterraneo, dov'era rimasta una sola sedia a rotelle. Al piano di sopra. Non voleva salire di sopra. Comunque, doveva controllare. Il tatuaggio guizzò mentre saliva le scale. Dal quadro in camera da letto l'immagine del Drago lo guardava. Non poteva stare in quella stanza, insieme al Drago. Da una delle finestre la vide in giardino. «FRANCIS.» La voce proveniva dalla sua stanza. Era quella del Drago. Lo disorientò, questa sua nuova duplicità. L'aveva provata per la prima volta posando la mano sul cuore di Reba. Il Drago non gli aveva mai parlato, prima. Era spaventoso. «FRANCIS, VIENI QUI.» Cercò di escludere la voce che lo chiamava e che continuava a chiamarlo mentre scendeva correndo le scale. Cosa poteva aver scoperto? La dentiera della nonna nel bicchiere; ma l'aveva nascosta quando le aveva portato l'acqua. Comunque non poteva
vedere nulla. Il nastro di Freddy. Era nel registratore a cassette in salotto. Andò a controllare. La cassetta era stata riavvolta completamente. Non ricordava se era stato lui a farlo dopo averla fatta sentire per telefono al "Tattler". Non doveva ritornare in casa. In casa chissà che cosa avrebbe potuto succedere. Avrebbe potuto capitargli una sorpresa. Poteva scendere il Drago dal primo piano. Sapeva come sarebbe stato facile farla a pezzi. Le ragazze l'avevano vista nel furgone. Warfield avrebbe ricordato di averla vista insieme a lui. Si vestì di fretta e furia. Reba sentì sulla pelle la barra fredda dell'ombra di un tronco, poi di nuovo il sole. Si aggirava per il giardino; il calore del sole e il ronzio del condizionatore le dicevano attimo dopo attimo dove si trovava. Tenere la rotta, una disciplina che si era imposta per tutta la vita, qui era facile. Continuò a girare per il cortile, accarezzando con le mani i cespugli e i fiori ormai passati. Una nuvola nascose il sole; Reba si fermò, non capendo bene in che direzione stava andando. Cercò di sentire il condizionatore. Era stato spento. Un attimo di disagio, poi batté le mani e sentì l'eco rassicurante, rimandatole dalla casa. Aprì il coperchietto dell'orologio da polso e toccò le cifre in rilievo. Doveva svegliare subito D. Doveva tornare a casa. La porta della cucina sbatté. «Buongiorno» disse. Le chiavi di Dolarhyde tintinnarono mentre le veniva incontro sul prato. Le si avvicinò, cauto, come se l'aria che spostava potesse farla cadere, e vide che non aveva paura di lui. Non sembrava imbarazzata o vergognosa per quello che avevano fatto la notte, non pareva arrabbiata. Non scappava, non lo minacciava. Si chiese se fosse perché non gli aveva visto i genitali. Reba lo abbracciò e gli posò il capo sul torace solido. Il cuore gli batteva più rapido. Riuscì a restituirle il buongiorno. «Mi è piaciuto moltissimo, D.» Davvero? Che cosa si doveva rispondere in casi del genere? «Ottimo. Anche a me.» Sembrava andar bene. Portala via di qui. «Adesso però devo andare a casa» gli stava dicendo. «Deve arrivare mia sorella che mi porta fuori a pranzo. Puoi venire anche tu, se vuoi.» «Devo tornare in laboratorio» le disse, modificando la bugia che aveva già preparato.
«Vado a prendere la borsetta.» Oh no. «Te la prendo io.» Quasi incapace di capire ciò che provava veramente, quasi altrettanto incapace di esprimerlo, Dolarhyde non sapeva cos'era successo tra lui e Reba, non sapeva perché. Era confuso, impaurito per il fatto di ritrovarsi in Due. Lei lo minacciava, lei non lo minacciava. E poi c'era un'altra questione, quei suoi movimenti, quel suo accettarlo, nel letto della nonna. Spesso Dolarhyde non scopriva ciò che provava finché non aveva agito. Non sapeva ciò che provava per Reba McClane. Un incidente sgradevole mentre la riportava a casa lo rianimò un po'. Appena superato il Lindbergh Boulevard, all'uscita dell'Interstatale numero settanta, Dolarhyde entrò in una stazione di servizio della Servco Supreme per fare il pieno. Il benzinaio era un uomo grosso, imbronciato, dall'alito puzzolente di alcol. Fece una smorfia quando Dolarhyde gli chiese di controllare l'olio. Ne mancava circa un litro. L'uomo infilò il lato acuminato del beccuccio nella lattina e lo rovesciò nell'imboccatura del motore. Dolarhyde scese per pagare. Il benzinaio sembrava entusiasta all'idea di pulire il parabrezza dal lato del passeggero. Non faceva che strofinare. Reba McClane sedeva a gambe incrociate con la gonna sollevata oltre le ginocchia. Tra i sedili si notava il bastone bianco. L'inserviente riprese a pulire e guardava sotto il vestito. Dolarhyde alzò gli occhi dal portafoglio e lo colse. Infilò una mano dentro il finestrino e avviò il tergicristallo, mandando le spazzole a sbattere contro le dita dell'altro. «Ehi, attento.» Il benzinaio passò a togliere la latta dell'olio dal motore. Sapeva di essere stato sorpreso sul fatto. Sorrideva incerto. Dolarhyde girò intorno al furgone avvicinandoglisi. «Figlio di troia.» «Ehi, cosa diavolo le prende?» Era più o meno dell'altezza e del peso di Dolarhyde, ma non ne aveva nemmeno lontanamente la forza. Era abbastanza giovane da poter avere ancora i suoi denti, ma non se li curava. Il loro colore verdastro faceva venire il voltastomaco a Dolarhyde. «Cosa ti è successo ai denti?» chiese piano. «Cosa gliene frega?»
«Te li sei tolti per il tuo amichetto, buco di culo marcio?» gli era vicinissimo. «Togliti di mezzo.» Con voce calma: «Porco. Idiota. Lurido. Imbecille». Con uno spintone, Dolarhyde lo sollevò da terra mandandolo in volo a sbattere contro il furgone. La lattina cadde sull'asfalto. Dolarhyde la raccolse. «Non correre. Ti piglio.» Estrasse il beccuccio dalla lattina e guardò l'estremità affilata. Il benzinaio si era sbiancato. C'era qualcosa nel viso dell'altro che non aveva mai visto prima. In un attimo di rabbia Dolarhyde vide il beccuccio piantato nel cuore del benzinaio, un fiotto di sangue sgorgarne prosciugandogli il cuore. Poi attraverso il parabrezza vide il viso di Reba. Scuoteva la testa, diceva qualcosa. Cercava la manopola per abbassare il vetro. «Ti hanno mai rotto le ossa, faccia di merda?» Il benzinaio scosse in fretta la testa. «Non volevo offenderla, signore. Giuro su Dio.» Dolarhyde prese il beccuccio di metallo tra le mani portandoglielo all'altezza del viso. I muscoli del torace si gonfiarono, lo piegò in due. Poi diede uno strattone alla cintura del benzinaio e glielo lasciò cadere nei pantaloni. «Tienteli per te, i tuoi occhi da maiale.» Gli infilò i soldi della benzina nel taschino della camicia. «Adesso scappa pure» disse. «Ma guarda che ti prendo quando voglio.» 29 Il nastro, in un pacchettino indirizzato a Will Graham, c/o direzione centrale FBI, Washington, arrivò il sabato. Era stato spedito da Chicago, il giorno dell'assassinio di Lounds. Il laboratorio e la sezione impronte latenti non trovarono nulla di utile né sulla cassetta né sulla busta. Ne venne spedita una copia a Chicago con il corriere. A metà del pomeriggio l'agente speciale Chester la consegnò a Graham, nel locale della giuria. Alla cassetta era allegato un biglietto di Lloyd Bowman. L'analisi dello spettro vocale conferma che si tratta della voce di Lounds.
Evidentemente ripeteva sotto dettatura. Il nastro è nuovo, è stato fabbricato al massimo tre mesi fa e non è mai stato usato. La sezione scienza del comportamento ne sta analizzando il contenuto. Dovrebbe ascoltarlo anche il dottor Bloom, quando si sarà rimesso: decidi tu. È chiaro che l'assassino cerca di innervosirti. Secondo me lo farà una volta di troppo. Un'asciutta dichiarazione di fiducia, molto gradita. Graham sapeva di dover ascoltare il nastro. Attese finché Chester non se ne fu andato. Non voleva ritrovarsi solo in quella stanza con la voce di Lounds. L'aula del tribunale, vuota, era meglio: dalle alte finestre entrava un po' di sole. Le donne delle pulizie erano appena passate e nell'aria aleggiava ancora della polvere. Il registratore era minuscolo, di colore grigio. Graham lo posò su uno dei tavoli dei difensori e schiacciò il tasto. La voce monotona di un tecnico: «Caso numero 426238 articolo 814, etichettato e archiviato, costituito da un nastro a cassetta. Riversamento della registrazione originale». Un'improvvisa variazione della qualità del sonoro. Graham si aggrappò alla ringhiera della giuria con tutte e due le mani. La voce di Lounds, stanca e spaventata. «Ho goduto di un grande privilegio. Ho visto... ho visto meravigliato... meravigliato e reverente... reverente... la forza del Drago Rosso.» C'erano numerose interruzioni nella registrazione originale. Ogni volta si sentiva lo scatto dello stop. Graham vide il dito posato sul tasto. Quello del Drago. «Ho mentito sul Suo conto. Tutto ciò che ho scritto sono menzogne che mi ha detto Will Graham. Mi ha costretto a scriverle. Ho... ho bestemmiato il Drago. Ma... il Drago è misericordioso... ora voglio servirlo. Il Drago... mi ha aiutato a capire... il Suo Splendore; d'ora in poi non farò che lodarlo. Giornali, quando stamperete queste mie parole, mettete sempre "Lui" con la maiuscola. «Lui sa che mi hai costretto a mentire, Will Graham. E proprio perché sono stato costretto a mentire, Will Graham, Lui sarà più... più misericordioso verso di me che verso di te. «Toccati la schiena, Will Graham... senti le piccole... prominenze subito sopra il bacino. Tocca la spina dorsale tra l'una e l'altra... è il punto esatto...
in cui il Drago te la spezzerà.» Graham tiene le mani strette alla balaustra. Nemmeno per idea me la tocco. Il Drago non sapeva come si chiamava la regione iliaca, oppure non voleva usare il termine giusto? «Hai molte cose... di cui temere. Dalle... dalle mie labbra ne sentirai delle altre.» Una pausa, seguita da un urlo orrendo. E poi, peggio ancora, il grido gorgogliante di un uomo senza labbra: «aledetto astardo ahehi rohesso». Graham schiacciò la testa fra le ginocchia finché le macchie luminose che aveva davanti agli occhi non furono scomparse. Spalancò la bocca e respirò a fondo. Solo dopo un'ora fu di nuovo in grado di riascoltare il nastro. Prese il registratore e lo portò nella stanza della giuria. Troppo vicino. Tornò nell'aula, lasciandolo in funzione. Le parole gli arrivavano dalla porta. «Ho goduto di un grande privilegio...» Non era più solo. Riconobbe un giovane impiegato dell'FBI di Chicago. Con un cenno gli fece segno di entrare. «È arrivata una lettera per lei» disse l'impiegato. «Il signor Chester mi ha detto di portargliela. Mi ha detto anche che può stare sicuro: è stata passata ai raggi X.» Estrasse la lettera dalla tasca interna della giacca. Una busta pensate, color lilla. Graham sperò che fosse di Molly. «C'è il timbro, vede?» «Grazie.» «E poi oggi è giorno di paga.» Gli porse un assegno. Nell'altra stanza l'urlo di Freddy. Il giovanotto rabbrividì. «Spiacente» disse Graham. «Non so come fa a sopportarlo.» «Vada a casa» suggerì Graham. Andò a sedere sui banchi della giuria per leggersi la lettera. Voleva un diversivo. La lettera era di Hannibal Lecter. Caro Will, Ti mando alcune righe per congratularmi per lo scherzetto che hai fatto al signor Lounds. L'ho ammirato enormemente. Sei davvero furbo! Il signor Lounds mi ha offeso spesso con le sue ciarle ignoranti, ma su una cosa mi ha illuminato: quel tuo ricovero in manicomio. Quell'incapace del, mio avvocato avrebbe dovuto tirar fuori la co-
sa in tribunale, ma lasciamo perdere. Sai, Will, tu ti preoccupi troppo. Staresti molto meglio se fossi più rilassato con te stesso. Il nostro carattere non ce lo costruiamo, Will; ci viene consegnato insieme ai polmoni, al pancreas e a tutti gli altri organi. Perché combatterlo? Voglio darti una mano, Will, e comincerò col farti questa domanda: quando eri così depresso dopo aver sparato al signor Garrett Jacob Hobbs, uccidendolo, non è stato l'atto in sé che ti ha buttato giù, vero? Sinceramente, non ti sei sentito male perché ti era piaciuto così tanto ucciderei Prova a rifletterci su, ma non te ne preoccupare. Perché non dovrebbe piacere? A Dio senz'altro piace: Lui lo fa di continuo... e noi non siamo fatti a Sua immagine e somiglianza? Forse leggendo i giornali di ieri avrai notato che la sera di mercoledì scorso, nel Texas, Dio ha fatto crollare il tetto di una chiesa addosso a trentaquattro suoi fedeli, proprio mentre gli stavano leccando i piedi con un inno. Non ti pare che gli debba essere piaciuto? Trentaquattro. E a te ha concesso Hobbs. La settimana scorsa ha fatto fuori centosettanta filippini, in un incidente aereo... e a te ha lasciato un miserabile Hobbs. Non ti lesinerà un miserabile omicidio. Anzi, due, adesso. Tutto a posto. Leggi i giornali. Dio è sempre in testa. Tante cose, Hannibal Lecter, M.D. Graham sapeva che Lecter, sul conto di Hobbs, si sbagliava di grosso ma, per un mezzo secondo, si chiese se nel caso di Freddy Lounds una puntina di ragione non l'avesse. Il nemico che aveva dentro di sé era pronto ad accettare qualunque accusa. Nella fotografia pubblicata sul "Tattler" aveva posato la mano sulla spalla di Lounds per suggerire che quei particolari offensivi sul conto del Drago li aveva detti veramente, oppure aveva voluto far correre un piccolo rischio a Freddy? Il sapere con sicurezza che coscientemente non avrebbe mancato l'occasione di uccidere il Drago, lo condannava. «Non ne posso più di voi pazzi, figli di puttana che non siete altro» disse
ad alta voce. Doveva staccare. Telefonò a Molly, ma a casa dei nonni di Willy nessuno rispose. «Probabilmente sono in giro con quella loro maledetta motorhome» borbottò. Uscì a prendere un caffè e anche per rassicurarsi di non volersene stare nascosto nella stanza della giuria. Nella vetrina del gioielliere vide un delicato braccialetto antico, d'oro. Gli costò buona parte dell'assegno. Fece preparare un pacchettino, con i francobolli per la spedizione. Solo quando fu sicuro di essere solo davanti alla buca delle lettere scrisse l'indirizzo di Molly nell'Oregon. Non si rendeva conto, a differenza di Molly, che i regali li faceva quando era arrabbiato. Non aveva la minima voglia di tornare al lavoro, ma doveva farlo. Il pensiero di Valerie Leeds lo spronava. Sono spiacente di non poter venire al telefono in questo momento, aveva detto Valerie Leeds. Gli sarebbe piaciuto conoscerla. Gli sarebbe piaciuto... pensieri inutili, infantili. Era distrutto, si sentiva egoista, risentito, ridotto dalla stanchezza a uno stato mentale infantile, in cui gli standard di misura erano i primi che aveva imparato: qual era la direzione nord sulla Highway 61 e dove "un metro e ottanta" era la statura di suo padre. Si costrinse a concentrarsi sul profilo minuzioso che stava elaborando basandosi su un fascio di rapporti e sulle proprie osservazioni. Benessere. Era uno degli elementi comuni. Ambedue le famiglie erano benestanti. Strano che Valerie Leeds risparmiasse sui collant. Si chiese se non venisse da una famiglia povera. Molto probabilmente, i suoi figli erano un po' troppo ben tenuti. Anche Graham veniva da una famiglia povera, aveva seguito suo padre dai cantieri di Biloxi e di Greenville alle barche del lago Erie. Sempre il nuovo arrivato in classe, sempre lo sconosciuto. Nei confronti dei ricchi nutriva un'ostilità semisepolta. Senz'altro Valerie Leeds doveva provenire da una famiglia povera. Sentiva la tentazione di rivedere il suo film. Poteva proiettarlo nell'aula del tribunale. No. Non erano i Leeds il problema più immediato. Li conosceva. Non conosceva gli Jacobi, invece. Il fatto di non conoscerli lo angustiava. L'incendio della loro casa di Detroit gli aveva portato via tutto: album di foto di famiglia, probabilmente
anche i diari. Cercò di conoscerli attraverso gli oggetti che desideravano, che avevano comperato e usato. Era tutto ciò che aveva. Il malloppo dei verbali del caso Leeds era alto sette centimetri buoni e l'elenco degli oggetti di loro proprietà ne costituiva una buona parte: tutto messo insieme dopo il trasloco a Birmingham. Guarda tutta questa merda. Tutto assicurato, tutto numerato in base alle richieste dell'assicurazione. Si può stare sicuri che chi ha subito un incendio, la volta dopo assicura tutto. Invece delle fotocopie dell'inventario presentato all'assicurazione, Byron Metcalf, l'avvocato, gli aveva spedito delle copie carbone, confuse e difficili da leggere. Jacobi aveva un motoscafo per lo sci d'acqua, e anche Leeds ne aveva uno. Jacobi aveva una bici da cross, Leeds aveva una moto da cross. Si umettò il pollice e voltò pagina. Il quarto articolo elencato nella seconda pagina era un proiettore Chinon Pacific. Graham si bloccò. Come aveva fatto a non accorgersene? A Birmingham, nel magazzino, aveva guardato in tutte le casse, in tutti gli scatoloni, alla ricerca di qualunque cosa potesse fornirgli un'immagine privata degli Jacobi. Dov'era finito il proiettore? Poteva fare un controllo incrociato con l'inventario che Byron Metcalf aveva preparato quando aveva fatto mettere in magazzino tutte le loro cose. I singoli articoli erano stati controllati uno per uno dal responsabile del magazzino che aveva firmato il contratto. Gli ci vollero quindici minuti per scorrere l'elenco. Niente proiettori, nessuna cinepresa, niente film. Si rilassò contro lo schienale della sedia fissando gli Jacobi che gli sorridevano dalla foto. Dove diavolo è finito quel proiettore? Era stato rubato? L'aveva rubato l'assassino? E se era stato lui, l'aveva passato a un ricettatore? Dio buono, fammelo trovare da un ricettatore. La stanchezza gli era passata. Voleva sapere se, per caso, non mancava anche qualche altra cosa. Passò un'ora a confrontare l'inventano del magazzino con gli elenchi dell'assicurazione. C'era tutto, salvo gli oggetti preziosi. Dovevano trovarsi nell'inventario delle cose che Byron Metcalf ave-
va messo nella cassetta di sicurezza a Birmingham. C'erano tutti. Salvo due. "Scatola portaoggetti di cristallo, 10x7 cm, bordata in argento" era scritto sull'elenco dell'assicurazione. Su quello dell'avvocato mancava. "Cornice d'argento 22,5x27,5 cm lavorata a tralci e fiori". Anche questa non era finita nella cassetta di sicurezza. Rubata? Andata persa? Erano tutti oggetti piccoli, facili da nascondere. Di solito l'argento, quando finisce nelle mani di un ricettatore viene fuso subito. Sarebbe stato difficile rintracciarlo. Ma l'attrezzatura cinematografica portava dei numeri di matricola. Rintracciarla era possibile. Li aveva rubati l'assassino? Fissando la fotografia macchiata degli Jacobi, Graham ebbe un soprassalto di gioia: aveva trovato un nuovo collegamento. Ma le risposte si rivelarono deludenti e di poca importanza. C'era un telefono nella stanza, Graham chiamò la squadra omicidi di Birmingham. Si fece mettere in comunicazione con il responsabile del turno dalle tre alle dieci. «Ho notato che per il caso degli Jacobi avete tenuto un elenco delle persone entrate e uscite, dopo avere messo i sigilli. Giusto?» «Mi dia il tempo di mandare qualcuno a controllare,» disse il responsabile. Graham sapeva che l'elenco doveva esserci. Era una buona procedura quella di segnare tutte le persone che entravano o uscivano dalla scena di un delitto, e il vedere che la polizia di Birmingham aveva seguito questo criterio, gli aveva fatto piacere. Attese cinque minuti, poi un impiegato prese il ricevitore. «Okay, elenco entrati e usciti, cosa vuol sapere?» «È Niles Jacobi, figlio delle vittime... c'è sull'elenco?» «Umm-hmmm, centro. Due luglio, ore diciannove. Ha ricevuto il permesso di portare via i suoi effetti personali.» «È indicato se aveva una valigia?» «No. Spiacente.» Byron Metcalf rispose con voce rauca, affannato. Graham si chiese cosa stesse facendo. «Spero di non averti disturbato.» «Cosa posso fare per te, Will?» «Devi darmi una mano con Niles Jacobi.» «Cos'ha fatto ancora?»
«Credo che si sia fregato un paio di cose, dopo il massacro.» «Ummm.» «In base al tuo inventario manca una cornice d'argento. Quand'ero a Birmingham ho preso una foto, senza cornice, della famiglia nella stanza del pensionato dove abita Niles. Era incorniciata, si vedono i segni lasciati dal cartoncino.» «Piccolo bastardo. Gliel'ho fatto avere io il permesso di andare a prendere i vestiti e qualche libro che gli serviva» spiegò Metcalf. «Niles ha degli amici costosi. Però quello che mi interessa di più sono un proiettore e una cinepresa. Mancano anche quelli. Voglio sapere se li ha presi lui. Probabilmente sì ma, in caso contrario, forse è stato l'assassino. E allora dobbiamo scoprire i numeri di matricola, e controllare i negozi di roba usata. Dobbiamo metterli sull'elenco nazionale degli oggetti rubati. Probabilmente la cornice è stata fusa, ormai.» «Quando mi vedrà penserà a quello.» «Una cosa... se il proiettore l'ha preso davvero Niles, può darsi che il film l'abbia conservato, dato che non poteva tirarci fuori niente. Mi serve, ho bisogno di vederlo. Se lo affronti direttamente, quello nega tutto e se il film è nelle sue mani lo butta via.» «Okay» disse Metcalf. «La macchina che usa fa parte del patrimonio della famiglia. L'esecutore testamentario sono io quindi posso perquisirla senza mandato. Il mio amico giudice senz'altro mi fa avere un pezzo di carta per andare a controllare nella sua stanza. Ti faccio sapere.» Graham tornò al lavoro. Benessere. Mettilo nel profilo da fornire alla polizia. Si chiese se le due donne uccise non andassero mai a far la spesa in abbigliamento da tennis. In certe zone andava di moda. Ma qualche volta era una cosa sciocca: una doppia provocazione che sollevava contemporaneamente risentimento di classe e brutte intenzioni. Graham le immaginò intente a spingere il carrello del supermercato, le gambe abbronzate sfiorate dal gonnellino a pieghe, le calze di spugna tese dai polpacci... le immaginò passare davanti all'uomo dall'aria brutale, con gli occhi da barracuda entrato per comperare un pranzo a base di carne fredda da buttar giù in macchina. Quante erano le famiglie con tre bambini, un animale domestico e una serratura normalissima a proteggerli dal Drago? Quando immaginava le probabili vittime future, vedeva famiglie di gente intelligente, che aveva avuto successo, che abitava in belle case.
Ma la persona che il Drago si sarebbe trovato ad affrontare non aveva né figli, né animali domestici, e la sua non era una bella casa. La persona che il Drago avrebbe dovuto affrontare era Francis Dolarhyde. 30 IL tonfo dei pesi nella palestra sistemata in solaio rimbombava in tutta la vecchia casa. Dolarhyde alzava, e stendeva più peso di quanto non avesse mai fatto. Anche il costume che indossava era diverso: il tatuaggio era nascosto sotto i calzoni di una tuta. Il corpetto copriva la riproduzione del Drago Rosso e la Donna Vestita di Sole. Il kimono, appeso al muro, sembrava la pelle mutata da un serpente. Serviva a coprire lo specchio. Dolarhyde era senza maschera. Su. Centotrenta chili dal pavimento al torace in una sola alzata. E adesso sopra la testa. «A CHI STAI PENSANDO?» Sconcertato dalla voce, lasciò quasi cadere il manubrio, oscillò sotto il peso. A terra. I dischi caddero con uno schianto metallico sul pavimento. Si voltò, le braccia muscolose distese, fissando ad occhi spalancati nella direzione da dove proveniva la voce. «A CHI STAI PENSANDO?» Sembrava venire da sotto il corpetto della tuta, ma il tono rauco e l'intensità gli raschiavano in gola. «A CHI STAI PENSANDO?» Sapeva chi gli parlava. Ne fu spaventato. Fin dall'inizio lui e il Drago erano stati una sola persona. Con l'Avvento, lui si sarebbe trasformato e il Drago era la parte più elevata di se stesso. I loro corpi, le loro voci, le loro volontà erano una cosa sola. Non più, da quando era arrivata Reba. Non pensare a lei. «CHI È PIÙ GRADEVOLE?» chiese il Drago. «La signorina... erhman... Sherman.» Gli fu difficile dirlo. «AVANTI, PARLA. NON TI CAPISCO. A CHI STAI PENSANDO?» Dolarhyde, l'espressione concentrata, afferrò la sbarra dei pesi. Su. Sopra la testa. Molto più difficile, questa volta. «La signorina... erhman, bagnata nell'acqua.» «STAI PENSANDO ALLA TUA AMICHETTA, VERO? VUOI CHE DIVENTI LA TUA AMICHETTA, VERO?»
I pesi ricaddero con un tonfo secco. «Non he l'ho, l'ahihetta.» Il terrore peggiorava la pronuncia. Doveva chiudere le narici con il labbro superiore. «BUGIA, E STUPIDA, ANCHE.» La voce del Drago era forte e chiara. Pronunciava le s senza difficoltà. «TI SEI DIMENTICATO DELL'AVVENTO. PREPARATI PER GLI SHERMAN. SOLLEVA QUEL PESO.» Dolarhyde afferrò la sbarra e si tese nello sforzo; anche la mente entrò in tensione, in sintonia con il corpo. Cercò disperatamente di pensare agli Sherman. Si costrinse a pensare al peso della signora Sherman nelle sue braccia. Era lei la prossima. Era la signora Sherman. Lottava nel buio con il signor Sherman. Lo schiacciava sul pavimento finché la perdita di sangue non gli faceva frullare il cuore come quello di un uccello. Era l'unico cuore che udiva. Non quello di Reba. Quello no. La paura gli faceva perdere le forze. Sollevò i pesi all'altezza delle cosce, non riuscì a portarli sul torace. Pensò di trovarsi in mezzo agli Sherman, disposti intorno a lui, con gli occhi sbarrati, mentre prendeva ciò che era dovuto al Drago. Non serviva. Si sentiva vuoto. I pesi ricaddero. «PROVA FALLITA.» «Signora...» «NON SEI NEANCHE CAPACE DI DIRE "SIGNORA SHERMAN." NON HAI LA MINIMA INTENZIONE DI PRENDERE GLI SHERMAN. TU VUOI REBA MCCLANE. VUOI CHE DIVENTI LA TUA AMICHETTA, VERO? VUOI DIVENTARE IL SUO AMICO.» «No.» «BUGIA!» «Holo un ohino.» «SOLO UN POCHINO? MOCCIOSO, LABBRO LEPORINO CHE NON SEI ALTRO, DI CHI VUOI ESSERE AMICO? VIENI QUI. TE LO FACCIO VEDERE IO CHI SEI.» Dolarhyde non si mosse. «NON HO MAI VISTO UN BAMBINO SPORCACCIONE E DISGUSTOSO COME TE. VIENI QUI.» Obbedì. «LEVA IL CORPETTO.» Obbedì di nuovo. «GUARDAMI.» Il Drago splendeva sulla parete. «TOGLI IL KIMONO. GUARDATI NELLO SPECCHIO.»
Guardò. Non poté evitare di distogliere il viso dalla luce. Vide che sbavava. «GUARDATI. TE LA DO IO UNA SORPRESA PER LA TUA AMICHETTA. TOGLITI QUEGLI STRACCI.» Le mani lottavano tra loro all'altezza della cintura. I calzoni si lacerarono. Se li strappò con la destra, si strinse i brandelli addosso con la sinistra. La destra li strappò dalla sinistra, tremante, senza forze. Li gettò in un angolo e ricadde sul tappeto, raggomitolandosi su se stesso come un'aragosta tagliata in due. Si abbracciò le ginocchia, mugolando, ansimando. Il tatuaggio riluceva sotto le lampade spietate della palestra. «NON HO MAI VISTO UN BAMBINO SPORCACCIONE E DISGUSTOSO COME TE. VA' A PRENDERLI.» Uscì a quattro zampe e tornò con i denti del Drago. «METTITELI NEL PALMO DELLA MANO. STRINGI E CHIUDILI.» Dolarhyde gonfiò i pettorali. «LO SAI QUANTO TAGLIANO. E ADESSO METTILI LÌ, SOTTO LA PANCIA. PRENDILO TRA I DENTI.» «No.» «OBBEDISCI. E ADESSO GUARDA.» I denti cominciavano a fargli male. Lacrime e saliva gli bagnarono il torace. «SEI UN RIFIUTO CHE L'AVVENTO SI È LASCIATO DIETRO. SEI UN RIFIUTO, ECCO IL NOME ADATTO PER TE. TU SEI FACCIA DI FIGA. DILLO.» «Sono faccia di figa.» Per dirlo fu costretto a chiudere le narici con il labbro superiore. «PRESTO MI LIBERERÒ DELLA TUA SPORCIZIA» disse il Drago senza il minimo sforzo. «SARÀ UNA BUONA COSA?» «Buona.» «CHI SARÀ LA PROSSIMA, QUANDO SARÀ VENUTO IL MOMENTO?» «La signora... erhman...» Una fitta di dolore lancinante, di dolore e di paura. «TE LO STRAPPO VIA.» «Reba. Reba. Ti do Reba.» La pronuncia era già migliore. «NON MI DAI NIENTE. È MIA. TUTTI SONO MIEI. REBA MCCLANE E POI GLI SHERMAN.»
«Reba e poi gli Sherman. La polizia se ne accorgerà.» «HO GIÀ PROVVEDUTO, PER IL GIORNO STABILITO. NE DUBITI?» «No.» «COME TI CHIAMI?» «Faccia di figa.» «PUOI METTERE VIA I MIEI DENTI. CON QUEL LABBRO LEPORINO CHE FA PIETÀ VUOI TENERTI TUTTA PER TE LA TUA AMICHETTA, VERO? LA FACCIO A PEZZI E CI STROFINO QUEL TUO BRUTTO MUSO. SE NON FAI QUELLO CHE DICO TI IMPICCO CON LE SUE BUDELLA. LO SAI CHE POSSO FARLO. METTI CENTOTRENTACINQUE CHILI SULLA SBARRA.» Dolarhyde aggiunse i dischi. Fino ad allora aveva sollevato al massimo centoventi chili. «SOLLEVALA.» Se non avesse avuto la forza del Drago, Reba sarebbe morta. Lo sapeva. Si sforzò finché non vide rosso. «Non ce la faccio.» «TU NON CE LA FAI. MA IO SÌ.» Dolarhyde afferrò la sbarra, che si curvò mentre il peso saliva fino all'altezza delle spalle. su. La sbarra salì senza difficoltà sopra il capo. «ARRIVEDERCI, FACCIA DI FIGA.» disse, Drago pieno d'orgoglio, vibrante sotto la luce intensa. Il lunedì mattina Francis Dolarhyde non andò a lavorare. Uscì di casa puntualissimo, come sempre. Il suo aspetto era impeccabile, la guida regolare e precisa. Inforcò gli occhiali da sole alla curva del ponte sul Missouri, poi puntò verso il sole del mattino. La foderina di plastica faceva un rumore cigolante contro lo schienale del sedile accanto al posto di guida. Dolarhyde si chinò di lato e la sistemò sul pavimento, ricordando che doveva prendere il ghiaccio secco e farsi dare la pellicola da... Attraversò il canale, l'acqua scorreva sotto. Osservò la spuma bianca sulla superficie del fiume in movimento e, all'improvviso, gli parve che fosse lui a muoversi mentre il fiume rimaneva fermo. Si sentì invadere da una strana sensazione di disgregamento, di crollo. Staccò il piede dall'acceleratore. Il furgone rallentò sulla corsia di destra e si fermò. Le auto dietro rimasero bloccate, cominciarono a strombazzare. Non le sentiva.
Rimase seduto al posto di guida, scivolando lentamente verso nord sulla superficie immobile del fiume, il sole negli occhi. Da sotto le lenti scure le lacrime scendevano, cadevano calde sugli avambracci. Qualcuno scrutava dentro il finestrino. Un automobilista, pallido e gonfio di sonno, era sceso dalla macchina dietro. Gridava qualcosa. Dolarhyde lo guardò. Dall'altra estremità del ponte vide dei lampi di luce blu venire nella sua direzione. Sapeva di dover proseguire. Chiese al piede di premere di nuovo l'acceleratore, ci riuscì. Con un balzo all'indietro l'uomo al finestrino riuscì a non rimanere schiacciato. Si infilò nel parcheggio di un grosso motel vicino allo svincolo della Nazionale 270. C'era un autobus del servizio scolastico nel parcheggio. Dal vetro posteriore spuntava la campana di una tromba. Si chiese se anche lui doveva salire sull'autobus insieme ai vecchi. No, non doveva. Si guardò attorno, cercando la Packard della madre. «Sali. Non mettere i piedi sul sedile» gli disse sua madre. No, neanche lì doveva salire. Era fermo nel parcheggio di un motel alla periferia occidentale di St. Louis, voleva Scegliere e non poteva. Di lì a sei giorni, se fosse riuscito ad aspettare tanto, avrebbe ucciso Reba McClane. Emise un improvviso mugolio dal naso. Forse il Drago sarebbe stato disposto a prendere prima gli Sherman e aspettare la prossima luna piena. No, non sarebbe stato disposto. Reba McClane non sapeva del Drago. Credeva di avere a che fare con Francis Dolarhyde. Voleva salirgli sopra. Aveva accolto volentieri il suo corpo nel letto della nonna. «Mi è piaciuto moltissimo, D.» gli aveva detto in cortile. Forse le piaceva Francis Dolarhyde. Era una cosa spregevole, perversa per una donna. Sapeva di doverla disprezzare per questo, ma, oh Dio quant'era stato bello. Reba McClane era colpevole, le piaceva Francis Dolarhyde. La sua colpa era provata. Se non fosse stato per la forza del suo Avvento, se non fosse stato per il Drago, non sarebbe mai riuscito a portarla in casa sua. Non sarebbe stato in grado di avere rapporti sessuali. Oppure sì? «Santo cielo, che bello.» Ecco cos'aveva detto. Accanto al furgone passava la folla di quelli che si erano fermati al mo-
tel per far colazione. Le occhiate distratte che gli rivolgevano gli camminavano sul corpo come minuscole zampette. Aveva bisogno di riflettere. A casa non poteva andare. Prese una stanza al motel, telefonò in ufficio e disse che era ammalato. Gli diedero una stanza anonima e silenziosa, nella quale l'unico ornamento erano delle stampe di battelli a vapore. Nessun'altra immagine sulle pareti. Si distese vestito sul letto. C'erano delle crepe irregolari nell'intonaco del soffitto. Ogni pochi minuti doveva alzarsi per andare a orinare. Rabbrividiva e subito dopo sudava. Passò un'ora. Non voleva dare Reba McClane al Drago. Pensò a cosa gli avrebbe fatto il Drago se non gliel'avesse consegnata. Il terrore arriva a ondate; il corpo non è in grado di sopportarlo a lungo. Negli intervalli di calma tra le ondate, Dolarhyde riusciva a pensare. Come poteva evitare di consegnarla al Drago? Un'idea — una via d'uscita — gli ritornava di continuo in testa. Si alzò. L'interruttore della luce del bagno schioccò. Dolarhyde guardò la tenda della doccia, sostenuta da un robusto tubo del diametro di un paio di centimetri fissato alle piastrelle. La staccò e la usò per coprire lo specchio. Si aggrappò al tubo, si sollevò con un braccio solo, strisciando con le dita dei piedi sulla parete della vasca. Era abbastanza resistente. Anche la sua cintura era robusta. Poteva costringersi a farlo. Di quello non aveva paura. Legò un'estremità della cinghia al tubo. Dopo aver formato un cappio con la fibbia. La striscia di cuoio era robusta, non oscillava, cadeva diritta. Sedette sulla tavoletta della tazza e la fissò. La caduta non era sufficiente, ma sarebbe riuscito a resistere. Si sarebbe costretto a non allargare il cappio con le mano finché la debolezza non gli avrebbe impedito di sollevare le braccia. Ma come poteva essere sicuro che la sua morte sarebbe stata anche la morte del Drago, adesso che erano Due? Forse il Drago non sarebbe morto. Come poteva aver la certezza che l'avrebbe lasciata in pace? Forse sarebbero passati giorni prima che trovassero il suo corpo. Si sarebbe chiesta dov'era finito. Sarebbe andata a casa sua a cercarlo, tastando qua e là? Sarebbe andata al piano di sopra, avrebbe trovato una sorpresa? Il Drago Rosso ci avrebbe messo un'ora a sputarla giù per le scale. Doveva telefonare per avvertirla? Ma che cosa poteva fare Reba contro di Lui, anche se l'avesse messa in guardia? Niente. Poteva solo sperare di morire subito, sperare che Lui, nella Sua rabbia, mordesse subito, in pro-
fondità. Al piano di sopra il Drago attendeva in un quadro che aveva incorniciato con le sue stesse mani. Attendeva nei libri d'arte e nelle innumerevoli riviste, rinasceva ogni volta che un fotografo faceva... faceva cosa? Sentiva nel cervello la voce potente del Drago che insultava Reba. L'avrebbe insultata prima di morderla. E avrebbe insultato anche lui — Dolarhyde — le avrebbe detto che non valeva nulla. «Questo non farlo. Non.... farlo» disse Dolarhyde alle piastrelle che gli rimandavano l'eco. Ascoltava la sua voce, la voce di Francis Dolarhyde, quella voce che Reba McClane capiva facilmente, la propria voce. Per tutta la vita se n'era vergognato, l'aveva usata per dire cattiverie, cose spiacevoli agli altri. Ma non aveva mai sentito la voce di Francis Dolarhyde insultarlo. «Questo non farlo.» La voce che ora sentiva non l'aveva mai — mai — insultato. Aveva ripetuto le prepotenze del Drago. Si vergognò, ricordandosene. Probabilmente, pensò, come uomo non valeva molto. Gli venne in mente che non se n'era mai accertato davvero: ora era curioso. Gli rimaneva un brandello di orgoglio che Reba McClane gli aveva dato. Gli diceva che morire nel bagno di un motel era una fine triste. Che altro fare? Qual altra via d'uscita rimaneva? Una via c'era — una bestemmia quando gli venne in mente — lo sapeva. Ma era una via d'uscita. Camminò avanti e indietro per la stanza, fra i letti, dalla porta alle finestre. Fece esercizi di dizione. Le parole gli venivano bene se respirava a fondo tra una frase e l'altra e se parlava lentamente. Tra un'ondata di paura e l'altra riusciva a parlare molto bene. Fu sopraffatto da un'ondata intensa che lo fece vomitare. Un intervallo di calma l'avrebbe seguita. Ne attese l'arrivo poi corse al telefono e chiamò Brooklyn. Una banda musicale di studenti delle superiori stava salendo sull'autobus. Videro arrivare Dolarhyde, che doveva passare in mezzo a loro per raggiungere il furgone. Un ragazzetto grasso dalla faccia tonda fece una smorfia, gonfiò il torace e fletté i bicipiti quando Dolarhyde l'ebbe superato. Due ragazze ridacchiarono. La tromba ragliò dal finestrino mentre lui passava accanto, Dolarhyde non sentì mai le risate alle sue spalle. Venti minuti dopo parcheggiava il furgone nel vialetto a trecento metri
dalla casa della nonna. Si asciugò il viso, respirò a fondo tre o quattro volte. Strinse la chiave di casa nella sinistra, il volante nella destra. Un mugolio acuto gli uscì dal naso. Una volta ancora, più forte. Più forte, sempre più forte. Via. La ghiaia schizzò via dalle ruote quando il furgone balzò in avanti, la casa ballonzolava davanti al parabrezza. Il furgone si fermò sbandando nel cortile, Dolarhyde scese correndo. In casa senza guardare né a destra né a sinistra, giù di corsa in cantina, afferrare il lucchetto del baule, cercare le chiavi. Erano al piano di sopra. S'impedì di pensare. Un mugolio acuto, nasale, il più forte possibile per intorpidire il pensiero, per mascherare le voci... Salì le scale di corsa. Davanti allo scrittoio, frugare nel cassetto per le chiavi, non guardare il quadro del Drago ai piedi del letto. «COSA STAI FACENDO?» Dov'erano le chiavi, dov'erano le chiavi? «COSA STAI FACENDO? FERMO. NON HO MAI VISTO UN BAMBINO SPORCACCIONE E DISGUSTOSO COME TE. FERMO.» I movimenti delle mani si fecero più lenti. «GUARDA... GUARDAMI.» Si aggrappò ai bordi dello scrittoio, cercò di guardare verso il muro. Distolse lo sguardo finché gli occhi non gli fecero male, mentre la testa si girava contro la sua volontà. «COSA STAI FACENDO?» «Niente.» Il telefono squillava, squillava, squillava. Sollevò la cornetta, voltando le spalle al quadro. «Ehi, D., come ti senti?» La voce di Reba McClane. Si schiarì la gola. «Bene.» Quasi un sussurro. «Ho provato a chiamarti in ufficio. Mi hanno detto che eri ammalato... hai una voce terribile.» «Parlami.» «Certo che ti parlo. Perché credi che ti abbia chiamato? Cosa c'è che non va?» «Influenza.». «Ti fai vedere da un dottore?... Pronto? Ti ho chiesto se ti fai vedere da un dottore?»
«Parla più forte.» Frugò in un cassetto, poi in un altro. «Non mi senti bene? Di', non dovresti startene lì da solo, malato come sei.» «DILLE DI VENIRE STASERA A PRENDERSI CURA DI TE.» Dolarhyde riuscì appena in tempo a premere una mano sul microfono. «Mio Dio, cosa è stato? C'è qualcuno lì con te?» «La radio, ho sbagliato a toccare manopola.» «Ehi, D., vuoi che faccia venir lì qualcuno? Non mi sembri entusiasta. Vengo io. Mi faccio portare da Marcia durante l'intervallo.» «No.» Le chiavi erano nascoste sotto una cintura arrotolata. Ora le aveva in mano. Arretrò in anticamera, portandosi dietro il telefono. «Sto bene. Ci vediamo presto.» Grosse difficoltà con le s. Scese correndo le scale. Il cavo del telefono si staccò dal muro e l'apparecchio rotolò giù per i gradini. Un urlo rabbioso, selvaggio. «VIENI QUI FACCIA DI FIGA.» Giù in cantina. Nel baule, accanto alla cassa di dinamite c'era una valigetta piena di banconote, di carte di credito, di patenti di guida sotto vari nomi; c'erano anche una rivoltella, il coltello e lo sfollagente. Afferrò la valigia, corse al pianterreno, passò rapidissimo davanti alla scala, pronto a lottare se il Drago fosse sceso. Poi sul furgone e via a gran velocità sbandando sulla ghiaia del vialetto. Sull'autostrada rallentò e si fermò sulla banchina per vomitare della bile gialla. Un po' di paura scomparve. Proseguendo a velocità regolamentare, attento a usare le frecce molto prima di svoltare si diresse prudentemente verso l'aeroporto. 31 Dolarhyde fece fermare il taxi e pagò la corsa davanti a un palazzo sulla Eastern Parkway, a due isolati dal Brooklyn Museum. Il resto della strada lo fece a piedi. Accanto gli passavano i patiti del jogging, diretti verso il Prospect Park. Fermo sul salvagente vicino alla stazione della metropolitana poté vedere bene l'edificio del museo in stile neoclassico. Era la prima volta che lo vedeva, anche se ne aveva letto il catalogo: l'aveva ordinato quando gli era capitato di leggere "Brooklyn Museum" scritto in caratteri minuscoli, sotto le riproduzioni de Il Drago Rosso e la Donna Vestita di Sole. Sopra l'ingresso erano scolpiti nella pietra i nomi dei grandi pensatori, da Confucio a Demostene. Era una costruzione imponente, affiancata da un
giardino botanico, una casa adatta per un Drago. Sotto la strada rombavano i treni della metropolitana, le vibrazioni gli facevano solletico ai piedi. Dalle grate usciva un soffio d'aria viziata che si mescolava con l'odore della tintura dei baffi. Un'ora alla chiusura. Attraversò la strada ed entrò. La guardarobiera gli prese la valigetta. «È aperto domani il guardaroba?» le chiese. «Domani il museo è chiuso.» Era una donna avvizzita in un grembiule blu. Gli voltò le spalle. «Quelli che vengono domani depositano le loro cose qui al guardaroba?» «No. Il museo è chiuso, è chiuso anche il guardaroba.» Bene. «Grazie.» «S'immagini.» Si aggirò tra le grandi vetrine della Oceanic Hall e della Hall of the Americas al pianterreno: terrecotte delle Ande, armi primitive, artigianato e maschere potenti degli indiani della costa del nord ovest. Rimanevano solo quaranta minuti prima della chiusura. Non aveva più tempo per imparare la disposizione del pianterreno. Ormai sapeva dov'erano le uscite e gli ascensori riservati al pubblico. Salì al quinto piano. Sapeva di essere più vicino al Drago, ma non importava: impossibile girare l'angolo e trovarselo di fronte. Il Drago non veniva esposto; il dipinto era conservato al buio da quando era tornato dalla mostra alla Tate Gallery. Al telefono aveva saputo che raramente lo si esponeva. Aveva quasi duecento anni ed era dipinto ad acquarello; la luce avrebbe fatto sbiadire i colori. Si fermò di fronte al Temporale sulle montagne rocciose, Mt. Rosalie, 1866 di Albert Bierstadt. Da qui si vedevano le porte chiuse del magazzino. Lì si trovava il Drago. Non una copia, non una fotografia: l'originale. Lì sarebbe venuto il giorno dopo, all'appuntamento. Percorse l'intero perimetro del quinto piano, attraversò il corridoio dei ritratti senza vederli. Erano le uscite che gli interessavano. Scoprì dov'erano l'uscita di sicurezza e gli scaloni principali, si fissò in mente la posizione degli ascensori per il pubblico. I custodi erano uomini di mezza età, gentili. Portavano scarpe dalla suola spessa, nelle gambe l'abitudine di anni e anni trascorsi in piedi. Notò che non avevano armi. Solo una delle guardie nell'atrio era armata. Forse era il guardiano notturno.
Gli altoparlanti annunciarono la chiusura. Dolarhyde si fermò sotto la rappresentazione allegorica di Brooklyn osservando la folla disperdersi nella piacevole serata estiva. I patiti del jogging continuavano a correre stando fermi, aspettando, mentre la gente attraversava il marciapiede diretta alla metropolitana. Dolarhyde trascorse alcuni minuti al giardino botanico. Quindi fermò con un cenno un taxi e diede al conducente l'indirizzo di un negozio che aveva trovato sulle pagine gialle. Alle nove di sera di lunedì Graham posò la borsa accanto alla porta dell'appartamento di Chicago dove abitava e infilò una mano in tasca per prendere le chiavi. Aveva trascorso una lunga giornata a Detroit interrogando il personale dell'ospedale dove la signora Jacobi aveva lavorato come volontaria prima che la famiglia si trasferisse a Birmingham; aveva controllato anche gli elenchi del personale. Cercava una persona un po' girovaga, qualcuno che avesse lavorato sia a Detroit sia ad Atlanta, oppure a Birmingham e ad Atlanta; qualcuno che potesse mettere le mani su un furgone e su una carrozzina a rotelle e che avesse visto la signora Jacobi e la signora Leeds prima di intrufolarsi in casa loro. Crawford era convinto che il viaggio fosse tempo perso, ma lo aveva incoraggiato a farlo. E aveva avuto ragione: era stato uno spreco di tempo. Che andasse all'inferno. Crawford aveva ragione troppo spesso. Sentì il telefono squillare. Le chiavi rimasero prese nella cucitura della tasca. Le strappò fuori tirandosi dietro un bel pezzo di filo. Sul pavimento caddero delle monetine, scivolate lungo la gamba dei calzoni. «Puttana miseria.» Aveva quasi raggiunto il telefono quando gli squilli cessarono. Forse era Molly. La chiamò nell'Oregon. Rispose il nonno di Willy con la bocca piena. Nell'Oregon era ora di cena. «Dica solo a Molly di chiamarmi quando ha finito» gli disse Graham. Gli squilli lo raggiunsero sotto la doccia mentre stava facendosi lo shampoo. Si tolse la schiuma dai capelli alla bell'e meglio e corse tutto gocciolante a rispondere. «Pronto, labbra di fuoco.» «Grazie del complimento, ma sono Byron Metcalf da Birmingham.» «Scusami.»
«Ci sono notizie buone e notizie cattive. Sul conto di Niles Jacobi avevi ragione. È stato lui a portare via quella roba da casa. L'ha venduta, ma gli ho tirato fuori qualcosa, approfittando di un po' di hashish che aveva in camera. La brutta notizia è questa: lo so che speravi che il Lupo Mannaro l'avesse rubata e passata a un ricettatore. «La notizia buona invece è che ci sono dei film. Però non li ho ancora in mano. Niles dice che sotto il sedile della sua macchina sono rimaste due bobine. Le vuoi sempre, vero?» «Certo, certo che le voglio.» «Ecco, quel suo amichetto intimo — Randy — si è fatto prestare la macchina. Non l'abbiamo ancora trovato ma non ci vorrà molto. Vuoi che metta i rullini sul primo aereo per Chicago e ti avverta quando arrivano?» «Senz'altro, Byron. Sarebbe un'ottima cosa, grazie.» «Non è il caso di ringraziarmi.» Molly gli telefonò proprio mentre si stava addormentando. Quando si furono rassicurati reciprocamente che tutto andava per il meglio, non ebbero più molto da dirsi. Willy si divertiva moltissimo, disse Molly. Lo fece venire al telefono per dargli la buonanotte. Ma Willy oltre a dargli la buonanotte aveva novità. Ecco la grande notizia: il nonno gli aveva comperato un pony. Molly aveva evitato di parlarne. 32 Il Brooklyn Museum il martedì è chiuso al pubblico, vengono ammessi solo gli studenti d'arte e gli studiosi. A chi svolge ricerche il museo offre molte facilitazioni. Gli addetti sono esperti e ben disposti e spesso consentono di venire il martedì dietro appuntamento, per vedere opere non esposte al pubblico. Francis Dolarhyde uscì dalla stazione della metropolitana poco dopo le due. Per assumere l'aria di uno studioso aveva con sé un blocco per appunti, un catalogo della Tate Gallery e una biografia di William Blake. Sotto la camicia aveva nascosto una calibro nove piatta, uno sfollagente di cuoio e una taglierina dalla lama affilata come un rasoio. Una fascia elastica gliele serrava contro il ventre piatto. Sopra indossava una giacca sportiva abbottonata. Aveva in tasca una pezzuola imbevuta di cloroformio chiusa ermeticamente in un sacchetto di plastica.
In mano reggeva una custodia per chitarra, nuova. Vicino all'uscita della metropolitana, al centro della Eastern Parkway, ci sono tre cabine telefoniche. Uno degli apparecchi è stato asportato, degli altri due ne funziona uno solo. Dolarhyde inserì alcune monete nella fessura finché all'altro capo Reba disse: «Pronto». Sentiva sullo sfondo i rumori della camera oscura. «Pronto, Reba» disse. «Ehi, P. Come ti senti?» Il rumore del traffico intorno a lui gli rendeva difficile capire. «Bene.» «Telefoni da una cabina. Credevo che fossi a casa ammalato.» «Vorrei parlarti.» «Okay. Richiamami a casa sul tardi, d'accordo?» «Ho bisogno di... vederti.» «Anch'io vorrei vederti, ma stasera non si può. Devo lavorare. Mi telefoni?» «D'accordo. Se non...» «Scusa?» «Ti ritelefono.» «Ho voglia di vederti, di vederti presto, D.» «Già. Arrivederci... Reba.» Bene. La paura gli stringeva lo stomaco, il ventre. La scacciò e attraversò la strada. Il martedì si entra al museo da una sola porta, sul lato destro. Dolarhyde entrò seguendo quattro studenti d'arte. Li vide posare zainetti e borse contro il muro e mostrare il lasciapassare. Il guardiano dietro il banco li controllò. Arrivò il turno di Dolarhyde. «Lei ha un appuntamento?» Dolarhyde annuì. «Signorina Harper, studio di pittura». «Firmi il registro, per favore.» Il guardiano gli offrì una penna. Dolarhyde ne aveva già una pronta. Firmò "Paul Crane". Il guardiano formò un numero interno. Dolarhyde gli voltò le spalle ed esaminò la Festa della vendemmia di Robert Blum, sistemato sopra l'ingresso, mentre il guardiano chiedeva la conferma. Con la coda dell'occhio vedeva un altro sorvegliante nell'atrio. Sì, era proprio lui quello con la pistola. «In fondo all'atrio, accanto al banco di vendita c'è una panchina vicino all'ascensore principale» disse il portiere. «Aspetti lì. La signorina Harper
scende per venire a prenderla.» Gli consegnò un tesserino bianco e rosa da appendere alla giacca. «Le spiace se lascio qui la chitarra?» «La tengo d'occhio.» Con le luci spente il museo sembrava diverso. Le grandi bacheche di vetro erano immerse in una luce crepuscolare. Dolarhyde attese tre minuti sulla panchina, poi la signorina Harper uscì dall'ascensore riservato al pubblico. «Il signor Crane? Sono Paula Harper.» Era più giovane di come gli era sembrata al telefono quando l'aveva chiamata da St. Louis; una donna dall'aria pratica, di una bellezza severa. Indossava gonna e camicetta come se fosse una divisa. «Lei ha telefonato a proposito dell'acquarello di Blake» disse. «Andiamo di sopra che glielo faccio vedere. Prendiamo l'ascensore del personale... da questa parte.» Superarono il banco di vendita buio del museo e attraversarono una stanzetta dove erano esposte delle armi primitive. Dolarhyde diede una rapida occhiata intorno tanto per darsi un contegno. In fondo al settore delle Americhe c'era un corridoio che portava a un piccolo ascensore. La signorina Harper schiacciò il pulsante di chiamata, incrociò le braccia sul petto e attese. Gli occhi azzurri si posarono sul lasciapassare rosa e bianco attaccato al bavero. «Le ha dato un lasciapassare per il sesto piano,» osservò. «Non importa... oggi il quinto non è sorvegliato. Che ricerca sta svolgendo?» Dolarhyde fino a quel momento se l'era cavata a cenni e sorrisi. «Una ricerca su Butts» spiegò. «William Butts?» Annuì. «Ho letto pochissimo sul suo conto. Lo si trova solo nelle note a piè di pagina, come mecenate di Blake. È interessante?» «Ho appena cominciato. Dovrò anche andare in Inghilterra.» «Mi pare che alla National Gallery ci siano due acquarelli che ha fatto per Butts. Li ha già visti?» «Non ancora?» «È meglio che scriva in anticipo.» Dolarhyde annuì. L'ascensore arrivò. Quinto piano. Sentiva dei brividi ma gambe e braccia erano pronte. Di lì a poco la situazione sarebbe andata o in un senso o nell'altro. Fosse andata
male non si sarebbe lasciato prendere. La signorina Harper lo guidò lungo la galleria dei ritratti americani. L'altra volta non ci era passato, ma capiva dove si trovava. Tutto a posto. In corridoio però lo attendeva un imprevisto: quando lo vide si bloccò, raggelato. Paula Harper si accorse di non essere più seguita e si voltò. Vide Dolarhyde irrigidito di fronte a una nicchia sulla parete dov'erano appesi i ritratti. Tornò indietro e capì cosa stava fissando. «È il ritratto di George Washington dipinto da Gilbert Stuart» lo informò. No, non lo era. «È simile a quello che si vede sui biglietti da un dollaro. Lo chiamano il ritratto Lansdowne perché Stuart lo ha fatto per il marchese di Lansdowne per ringraziarlo dell'appoggio dato alla Rivoluzione americana... si sente bene, signor Crane?» Dolarhyde era sbiancato. Quello era peggio di tutti i biglietti da un dollaro che gli era capitato di vedere. Dalla tela, Washington, con il 'suo sguardo cupo e la brutta dentiera, lo fissava. Dio mio come assomigliava alla nonna. Si sentiva come un bambino colto in fallo. «C'è qualcosa che non va, signor Crane?» Rispondi, se no mandi tutto all'aria. Muoviti. Mio Dio, che bello. SEI IL BAMBINO... No. Di' qualcosa. «Sto facendo una terapia di cobalto» disse. «Vuole mettersi seduto per qualche minuto?» C'era effettivamente un leggero odore di medicinali intorno a lui. «No. Vada pure avanti, la seguo.» Non mi freghi, nonna. Che Dio ti maledica, ti ammazzerei se non fossi già morta. Già morta. Già morta. La nonna era già morta! Morta, morta per sempre. Mio Dio, che bello. L'altro però non era morto e Dolarhyde lo sapeva. Seguì la signorina Harper tra soprassalti di paura. Superarono una doppia porta ed entrarono nello studio di restauro e nei magazzini. Dolarhyde si guardò rapidamente in giro. Era uno stanzone lungo, tranquillo, ben illuminato e pieno di quadri coperti da panni. Lungo una parete si allineava una fila di cubicoli: gli uffici. La porta di quello più lontano era semiaperta, sentì il rumore di una macchina per scrivere.
In vista c'era solo Paula Harper. La donna lo accompagnò a un tavolo da lavoro alto e gli portò uno sgabello. «Aspetti qui. Adesso le porto l'acquarello.» Scomparve tra gli scaffali. Dolarhyde sbottonò la camicia all'altezza dello stomaco. Miss Harper stava arrivando. Reggeva una cartelletta nera delle dimensione di una ventiquattrore. Era lì dentro. Dove trovava la forza per reggerlo? Non gli era mai venuto in mente che fosse piatto. Aveva letto le dimensioni dell'acquarello sui cataloghi — quarantaquattro centimetri per trentatré — ma non ci aveva badato. Se lo aspettava immenso. Invece era piccolo. Piccolo, ed era lì in quella stanza silenziosa. Non si era mai reso conto di quanta forza il Drago assorbisse dalla vecchia casa nel frutteto. Miss Harper gli stava dicendo qualcosa. «... bisogna tenerlo qui perché alla luce potrebbe sbiadire. Ecco come mai non lo esponiamo spesso.» Posò la scatola sul tavolo e aprì la chiusura a scatto. «Mi scusi, devo andare ad aprire la porta a Julio». Richiuse la scatola e andò verso la porta a vetri portandola con sé. Fuori, un uomo che spingeva un carrello l'attendeva. La signorina Harper apri i battenti e lo fece entrare. «Va bene là?» «Sì, grazie, Julio.» L'uomo uscì. Ecco di nuovo la signorina Harper con la sua scatola. «Spiacente, signor Crane. Oggi Julio spolvera i quadri e deve ripulire alcune cornici.» Aprì di nuovo la scatola e ne estrasse una cartelletta bianca. «Devo informarla che non lo può toccare. Me ne incarico io... è il regolamento. D'accordo?» Dolarhyde annuì. Non riusciva a parlare. La donna aprì la cartelletta e sfilò il foglio di plastica e la velina che coprivano l'acquarello. Eccolo. Il Drago Rosso e la Donna Vestita di Sole... l'uomo drago rampante sulla donna implorante e prostrata, imprigionata nelle spire della coda. Era senz'altro piccolo ma quanta energia! Stupefacente. Le migliori riproduzioni non ne rendevano minimamente tutte le sfumature. Dolarhyde in un istante notò tutti i particolari: la calligrafia di Blake sui margini, due macchioline marroni sul bordo destro. L'immagine lo colpì con forza. Era troppo... i colori erano talmente intensi.
Guarda la donna stretta dalla coda del Drago. Guardala. Vide che i capelli avevano l'esatta sfumatura di quelli di Reba McClane. Vide che si trovava a sei metri dalla porta. Trattenne le voci che sentiva dentro di sé. Spero di non averti scioccato, aveva detto Reba McClane. «Evidentemente ha usato i gessetti oltre all'acquarello» stava dicendo Paula Harper. Era ferma in una posizione da dove poteva osservare tutto quello che lui faceva. Non abbandonava nemmeno per un attimo il dipinto con lo sguardo. Dolarhyde infilò una mano sotto la camicia. In lontananza squillò un telefono. Il rumore della macchina per scrivere cessò. Dall'ultimo cubicolo spuntò la testa di una donna. «Paula, al telefono. È tua madre.» La signorina Harper non voltò la testa, non perse d'occhio né Dolarhyde né il dipinto. «Ti dispiace farti dire cosa vuole?» disse. «Dille che la richiamo.» La donna scomparve nell'ufficio. Un attimo dopo si risentì la macchina per scrivere. Dolarhyde non resisteva più. Adesso, in questo momento. Ma fu il Drago a fare la prima mossa. «NON HO MAI VISTO...» «Cosa?» La signorina Harper spalancò gli occhi. «... un topo così grosso!» esclamò Dolarhyde indicando con un dito. «È salito su quella cornice!» La signorina Harper si voltò. «Dove?» Lo sfollagente saltò fuori dalla camicia. La colpì alla nuca con una semplice rotazione del polso. La donna si afflosciò, lui la afferrò per la camicetta premendole la pezzuola imbevuta di cloroformio sul viso. Paula Harper emise un solo mugolio acuto e rimase immobile. Dolarhyde la depose sul pavimento tra il tavolo e gli scaffali dei quadri. Poi, rimanendo chino, fece cadere a terra la cartelletta con l'acquarello e rimase accucciato accanto alla donna. Un fruscio, un respiro pesante, di nuovo gli squilli del telefono. La donna uscì dall'ufficio in fondo. «Paula?» Si guardò intorno. «È tua madre» disse a voce alta. «Ha bisogno di parlarti subito.» Arrivò dall'altra parte del tavolo. «Me ne occupo io del visitatore se devi...» Li vide: Paula Harper per terra, i capelli sul viso e, chinato su di lei con la pistola in pugno, Dolarhyde che si infilava l'ultimo brandello del di-
pinto in bocca. Balzò in piedi, sempre masticando. Scattò verso di lei. La donna corse verso l'ufficio, richiuse la porta, afferrò il telefono e lo fece cadere sul pavimento, si gettò a terra a quattro zampe cercando di formare un numero mentre la porta premuta dall'esterno si piegava. I tasti illuminati del telefono esplosero in luci colorate quando il manganello la colpì dietro l'orecchio. Il ricevitore rotolò sul pavimento. Dolarhyde nell'ascensore riservato al personale guardò le lucine accendersi e spegnersi; teneva la pistola premuta all'altezza dello stomaco, nascosta dai libri. Primo piano. Uscì nelle gallerie deserte. Camminava in fretta, le scarpette da corsa cigolavano sul pavimento. Sbagliò a girare e si trovò a passare accanto alle maschere di balena, alla grande maschera di Sisuit, perdendo secondi. Si mise a correre all'altezza dei totem Haida. Andò verso i totem, guardò a sinistra, rivide le armi primitive e capì dove si trovava. Sbirciò nell'atrio tenendosi nascosto dietro l'angolo. L'usciere stava guardando la bacheca a una decina di metri dal bancone. Il guardiano armato era più vicino alla porta. Sentì la fondina cigolare quando lo vide chinarsi per togliere una macchia dalla punta di una scarpa. Se reagiscono, elimina prima lui. Infilò la pistola nella cintura e abbottonò la giacca. Attraversò l'atrio, staccando il lasciapassare dalla giacca. L'usciere si voltò sentendo il rumore dei passi. «Grazie» disse Dolarhyde. Prese il lasciapassare con due dita, tenendolo per i bordi, e lo lasciò cadere sul banco. L'usciere annuì. «Le dispiace infilarlo là, per favore?» Squillò il telefono sul banco. Era difficile staccare il lasciapassare dal piano di vetro. Un altro squillo. Fa' in fretta. Dolarhyde riuscì a prendere il lasciapassare e lo infilò nella fessura. Andò a prendere la custodia della chitarra accanto al mucchio degli zainetti. L'usciere stava per rispondere. Uscì dirigendosi in fretta verso il giardino botanico. Era pronto a sparare, se l'avessero inseguito. Nel giardino, sulla sinistra, Dolarhyde si accucciò nello spazio tra una siepe e un riparo per gli attrezzi. Aprì la custodia della chitarra e tirò fuori una racchetta da tennis, una palla, un asciugamano, un sacchetto da drogheria ripiegato e un grosso mazzo di sedano. Si strappò di dosso giacca e camicia facendo volare via i bottoni e si tol-
se i calzoni. Infilò nel sacchetto da drogheria prima libri e vestiti, poi le armi. Dall'apertura spuntava il ciuffo di sedano. Ripulì manico e cerniere della custodia e la nascose sotto la siepe. Attraversò diagonalmente il giardino verso Prospect Park, con l'asciugamani intorno al collo e sbucò in Empire Boulevard. Davanti correvano i soliti patiti del jogging. Mentre li seguiva nel parco, arrivò ululando la prima auto della polizia. Nessuno ci badò. E nemmeno Dolarhyde. Un po' correndo e un po' camminando, con la racchetta e il sacchetto del droghiere in mano, facendo rimbalzare la palla da tennis, sembrava un uomo che si stava raffreddando dopo un duro allenamento e che, sulla via di casa, si era fermato a fare la spesa. Si costrinse a rallentare; non poteva correre a stomaco pieno. Ornai poteva decidere il passo da tenere. Poteva decidere qualunque cosa. 33 Crawford sedeva nell'ultima fila del banco della giuria sgranocchiando noccioline. Graham chiuse gli scuri dell'aula. «Se per questo pomeriggio il profilo è pronto, dammelo» gli disse Crawford. «Mi hai detto che me lo davi martedì e oggi è martedì.» «Te lo finisco. Prima però voglio vedere questo.» Aprì la busta espresso inviata da Byron Metcalf e ne estrasse il contenuto: due rullini impolverati di pellicola superotto chiusi in un sacchetto di plastica per sandwich. «Metcalf vuole denunciare Niles Jacobi?» «Per furto no, dato che probabilmente sarà lui a ereditare tutto... lui e il fratello di Jacobi» spiegò Graham «Per l'hashish, non saprei. Il procuratore distrettuale di Birmingham pare che voglia dargli una bella strigliata.» «Ottimo» disse Crawford. Dal soffitto dell'aula di fronte al banco della giuria, calò lo schermo. Graham inserì la pellicola nel proiettore. «Per quanto riguarda i controlli delle edicole dove il Lupo Mannaro può aver trovato subito il "Tattler", ho ricevuto un rapporto da Cincinnati, uno da Detroit e un mucchio da Chicago» disse Crawford. «Ci sono un po' di maniaci da controllare.» Graham avviò il proiettore. Una partita di pesca. I figli degli Jacobi sulla sponda di uno stagno con canne e mulinello.
Graham cercò di non immaginarseli sottoterra, nella loro piccola bara. Cercò di vederli solo mentre pescavano. Il galleggiante della bambina sobbalzò e scomparve. Un pesce aveva abboccato. Crawford appallottolò rumorosamente il pacchetto delle noccioline. «Quelli di Indianapolis si stanno facendo il culo a interrogare gli edicolanti e a controllare le stazioni di servizio della Servco Supreme» disse. «Vuoi guardare il film, sì o no?» Crawford rimase zitto fino alla fine del rullino. «Splendido, ha preso un persico» disse. «E adesso per quel profilo...» «Jack, tu sei arrivato a Birmingham subito dopo il massacro. Io, un mese dopo. Tu hai visto la casa quando era ancora la loro casa, io invece no. Ormai avevano portato via tutto e l'avevano rimessa a nuovo. Adesso, Cristo santo, lasciameli guardare che poi te lo finisco il tuo profilo.» Mise in macchina il secondo film. Sullo schermo apparve una festa di compleanno. Gli Jacobi seduti al tavolo da pranzo. Cantavano. Sulle loro labbra Graham lesse «taaanti augu-uu-ri a te». Donald Jacobi, undici anni, davanti all'obiettivo. Sedeva a capo-tavola, davanti alla torta. Le candeline si riflettevano nelle lenti degli occhiali. Accanto, fratello e sorella l'osservavano spegnere le fiammelle. Graham cambiò posizione sulla sedia. La signora Jacobi si chinò in avanti per prendere il gatto e buttarlo giù dalla tavola. I capelli neri le coprirono il viso ondeggiando. Poi la si vide portare al figlio una grossa busta dalla quale partiva un lungo nastro. Donald la aprì e tirò fuori un biglietto d'auguri. Guardò verso l'obiettivo e voltò il biglietto sul quale era scritto "Buon compleanno... segui il nastro". La cinepresa seguì ondeggiando la processione in cucina. Si vedeva la porta, chiusa da un saliscendi. Poi giù per le scale della cantina — prima Donald poi gli altri — sempre seguendo il nastro. L'altro capo era legato al manubrio di una bicicletta da cross. Graham si chiese perché non l'avessero nascosta fuori casa. Uno stacco ed ebbe la risposta. La ripresa era stata fatta all'aperto, era evidente che doveva esser piovuto molto. Il cortile era inzuppato d'acqua, la casa sembrava diversa. L'agente immobiliare Geehan dopo il massacro l'aveva fatta pitturare di un altro colore. Si aprì la porta esterna della cantina da dove emerse il signor Jacobi reggendo la bicicletta. Era la prima vol-
ta che lo si vedeva. Un soffio di vento sollevò il ciuffo di capelli che nascondeva la calvizie. Posò cerimoniosamente la bicicletta a terra. Il film terminava su Donald che, con cautela, inforcava per la prima volta la bicicletta. «Molto triste» disse Crawford. «Ma questo lo sapevamo già.» Graham riprese a proiettare il secondo film. Crawford scosse la testa e si mise a leggere qualcosa che aveva in borsa aiutandosi con una matita luminosa. Sullo schermo il signor Jacobi usciva dalla cantina con la bicicletta. Alle sue spalle la porta si richiuse. Un lucchetto oscillava appeso a un gancio. Graham bloccò il fotogramma. «Ecco. Ecco a cosa gli serviva il tronchesino, Jack: per tagliare il lucchetto ed entrare dalla cantina. Perché non è entrato da lì?» Crawford spense la matita luminosa e guardò lo schermo. «Cosa?» «So che aveva un tronchesino: l'ha usato per tagliare il rametto quando sorvegliava la casa dal bosco. Perché non l'ha usato per entrare dalla porta della cantina?» «Non poteva.» Con un sorrisetto da coccodrillo Crawford attese. Gli piaceva moltissimo cogliere in fallo la gente. «Ci ha provato? Sono rimasti i segni sul lucchetto? Io la porta non l'ho vista: Geehan ne aveva fatta mettere una di acciaio col catenaccio quando sono andato a vedere la casa.» Crawford spalancò le fauci. «È una tua supposizione che sia stato Geehan a metterla. Invece non è stato lui. La porta d'acciaio c'era già quando li hanno uccisi. Deve averla messa Jacobi. Era a Detroit, doveva essere abituato ai catenacci.» «E quando l'ha messa?» «Non so. Ovviamente dopo il compleanno del figlio... quando è stato? Dovrebbe esserci la data di nascita nel referto dell'autopsia.» «Il compleanno era il 14 aprile, lunedì» disse Graham, fissando lo schermo con il mento appoggiato su una mano. «Voglio sapere quando Jacobi ha fatto cambiare la porta.» Crawford sentì un brivido al cuoio capelluto. Capì cosa intendeva Graham. «Credi che il Lupo Mannaro sia andato a dare un'occhiata alla casa quando c'era ancora la vecchia porta col lucchetto.» «Si era portato un tronchesino, no? A cosa serve per entrare in una casa?» disse Graham. «A tagliare lucchetti, sbarre o catene. Ma Jacobi di sbarre o di cancelli chiusi da una catena non ne aveva, no?»
«No.» «Allora vuol dire che si aspettava di trovare un lucchetto. Il tronchesino è un arnese pesante, piuttosto lungo; il Lupo Mannaro andava in giro di giorno e da dove ha parcheggiato deve aver fatto un bel pezzo di strada per arrivare vicino alla casa. Per quanto ne poteva sapere, se qualcosa andava storto avrebbe potuto anche essere costretto a scappare in fretta e furia. Non l'avrebbe portato se non avesse saputo che gli doveva servire. Vuol dire che si aspettava di trovare il lucchetto.» «Così tu pensi che sia andato a esplorare il posto prima che Jacobi cambiasse la porta. Poi è andato lì per ammazzarli e si è nascosto nel bosco ad aspettare...» «Questo lato della casa dal bosco non si vede.» Crawford annuì. «Allora ha aspettato nel bosco. Loro sono andati a letto, lui si è avvicinato con il tronchesino e ha trovato la porta nuova col catenaccio.» «Diciamo che ha trovato la porta nuova. Aveva previsto tutto, e poi si è trovato davanti questa» disse Graham allargando le mani. «La cosa lo infastidisce, lo lascia frustrato. Adesso è difficile entrare. Così, in fretta e facendo rumore, va a dare un'occhiata alla porta del patio. Ha fatto casino entrando: ha svegliato Jacobi e ha dovuto farlo fuori sulle scale. Non è così che agisce il Drago. Non è così pasticcione. È prudente e non si lascia niente dietro. Ha fatto un lavoro pulito quando è entrato in casa dei Leeds.» «Va bene, d'accordo» disse Crawford. «Se scopriamo quando Jacobi ha fatto cambiare la porta forse scopriamo quanto tempo è passato fra il momento in cui l'assassino è andato a vedere la casa e quello in cui li ha uccisi. O per lo meno l'intervallo minimo. Mi sembra utile. Forse ci faremo dare una mano dalle autorità di Birmingham. Controlleremo di nuovo le agenzie di noleggio auto. Questa volta controlleremo anche i furgoni. Vado a dire due paroline al nostro ufficio di Chicago.» Le due paroline dovevano essere molto enfatiche: in quaranta minuti netti un agente dell'FBI di Birmingham, seguito a ruota dall'agente immobiliare Geehan, stava già urlando qualcosa a un carpentiere che lavorava tra le impalcature di una casa nuova. Le informazioni del carpentiere vennero subito trasmesse via radio a Chicago. «L'ultima settimana di aprile» disse Crawford posando il telefono. «Ecco quando hanno messo la porta nuova. Dio santo, due mesi prima di essere ammazzati. Perché è andato a vedere la casa con due mesi di anticipo?»
«Non lo so, ma ti assicuro che ha visto la signora Jacobi, o tutta la famiglia, prima di andare a vedere la casa. A meno che non li abbia seguiti da Detroit, deve aver visto la signora Jacobi tra il dieci aprile, quando hanno fatto trasloco a Birmingham, e la fine di aprile, quando è stata cambiata la porta. Doveva trovarsi a Birmingham in uno di quei giorni. L'ufficio di Birmingham si sta interessando della cosa?» «Anche la polizia» rispose Crawford. «Dimmi una cosa: come faceva a sapere che c'era una porta che dalla cantina comunicava direttamente con la casa? Non è detto che sia sempre così... nel Sud almeno.» «Senza dubbio avrà visto l'interno della casa.» «Quel tuo amico, Metcalf, ha gli estratti conto degli Jacobi?» «Li avrà senz'altro.» «Proviamo a vedere se hanno fatto entrare operai in casa per far riparare qualcosa tra il dieci aprile e la fine del mese. So che sono stati fatti controlli fino a un paio di settimane prima della strage ma forse non siamo risaliti abbastanza indietro. Lo stesso vale per i Leeds.» «Abbiamo sempre pensato che abbia visto la casa dei Leeds dall'interno» disse Graham. «Dalla stradina non poteva vedere che la porta della cucina era a vetri. C'è un graticcio davanti alla veranda. Però lui era lì pronto con il tagliavetri. E non hanno fatto venire nessuno per riparazioni nei tre mesi precedenti.» «Se va a perlustrare i posti con tanto anticipo forse non siamo risaliti abbastanza indietro con i controlli. Adesso lo faremo. Comunque, quando era lì nel vicolo vicino ai Leeds e fingeva di leggere il contatore dietro la casa due giorni prima di ucciderli — forse li ha visti entrare. Potrebbe aver guardato dentro quando la porta della veranda era aperta.» «No, le porte non sono allineate... non ricordi? Guarda qui.» Graham inserì nel proiettore il filmetto dei Leeds. Il terrier grigio alzò le orecchie e corse verso la porta della cucina. Valerie Leeds e i figli entrarono con la spesa. Dalla porta della cucina si vedeva solo il graticcio. «D'accordo, vuoi mettere Byron Metcalf a lavorare sull'estratto conto di aprile per vedere se qualche operaio è andato a casa loro o se hanno comprato qualcosa da un commesso viaggiatore? No... ci penso io, tu intanto metti insieme il profilo. Ce l'hai il numero di Metcalf?» Graham era tutto assorbito dai Leeds. Disse distrattamente a Crawford i tre numeri di Byron Metcalf. Fece di nuovo passare il film, mentre Crawford usava il telefono nella
stanza della giuria. Prima il film dei Leeds. Ecco il cane. Non aveva il collare e il vicinato era pieno di cani, ma il Drago sapeva qual era il cane dei Leeds. Ed ecco Valerie Leeds. Gli si strinse il cuore. Ecco la porta alle sue spalle, nient'affatto sicura con quel suo grosso pannello di vetro. Vederli sullo schermo lo disturbava. Lo infastidiva aver pensato a loro come a semplici segni col gesso su un pavimento macchiato di sangue. Ed ecco i figli degli Jacobi, disposti intorno alla tavola, con il baluginio delle candele che gli si rifletteva in viso. Per un attimo Graham vide il grumo di cera sul comodino degli Jacobi, le macchie di sangue nell'angolo della camera da letto dei Leeds. Qualcosa... Crawford tornò nell'aula. «Metcalf dice di chiederti...» «Sta' zitto!» Crawford non si offese. Attese immobile, gli occhietti socchiusi, illuminati. La pellicola continuava a scorrere, luci e ombre si riflettevano sul viso di Graham. Ecco il gatto degli Jacobi. Il Drago sapeva che era loro. Ecco la porta interna della cantina. C'era anche una porta esterna, con il lucchetto. E il Drago aveva portato un tronchesino. Il film terminò, la coda prese a roteare, frustando il proiettore. Tutto ciò che il Drago voleva sapere si trovava sui due film. Non erano stati mostrati in pubblico, in nessun club di dilettanti, in nessun festi... Guardò la scatola verde ormai familiare che conteneva le bobine dei Leeds. Portava il loro nome e l'indirizzo. E quello del laboratorio di sviluppo: Gateway Film Laboratory, St. Louis, Missouri, 63102. La mente memorizzò St. Louis, proprio come memorizzava tutti i numeri di telefono che gli capitava di vedere. Cosa c'era a St. Louis? Era uno dei posti in cui il "Tattler" usciva il lunedì sera, il giorno stesso in cui veniva stampato... il giorno prima del rapimento di Lounds. «Cristo,» disse Graham. «Oh, Cristo.» Strinse le tempie tra le mani per impedire al barlume di pensiero di sfuggire. «Metcalf è ancora al telefono?»
Crawford gli porse il ricevitore. «Byron, sono Graham. Senti, quelle bobine che mi hai mandato... erano in una scatola?... certo, certo, sicuro, lo so che me le avresti mandate. Ho bisogno urgente di una mano. Hai lì l'estratto conto degli Jacobi? Okay, voglio sapere dove hanno fatto sviluppare i film. Probabilmente li hanno consegnati a un negozio che li ha spediti al laboratorio. Se c'è un assegno intestato a un fotografo possiamo scoprire a chi si sono rivolti. È urgente, Byron. Appena posso ti spiego. L'ufficio di Birmingham comincia immediatamente a controllare i negozi. Se trovi qualcosa informa prima loro poi noi. Me lo fai il piacere? Splendido. Cosa? No, Labbra di Fuoco non te la presento.» Gli agenti dell'FBI di Birmingham controllarono quattro negozi di articoli fotografici prima di trovare quello a cui si erano rivolti gli Jacobi. Il direttore disse che le pellicole venivano spedite sempre allo stesso laboratorio. Quando telefonarono da Birmingham Crawford si era visto e rivisto dodici volte il film. Fu lui a ricevere il messaggio. Con un gesto stranamente formale porse la mano a Graham. «È la Gateway» annunciò. La voce della hostess arrivò dagli altoparlanti del 727 mentre Crawford con un cucchiaino mescolava un alka seltzer sciolto in un bicchiere di plastica. «Il passeggero Crawford, per favore.» Le rivolse un cenno stando seduto e la hostess si avvicinò. «Signor Crawford, le dispiace venire con me nella cabina di comando?» Tornò dopo quattro minuti e si infilò sul sedile accanto a Graham. «Il Lupo Mannaro oggi era a New York.» Graham fece una smorfia facendo scattare i denti. «No. Si è limitato a dare una botta in testa a un paio di donne al Brooklyn Museum e — senti un po' questa — si è mangiato un quadro.» «Mangiato?» «Mangiato. La squadra furti opere d'arte di New York è entrata in azione quando hanno scoperto cosa si era mangiato. Hanno due impronte parziali prese dal lasciapassare di plastica che gli avevano dato. Le hanno spedite di corsa a Price poco fa. E quando Price le ha confrontate con le altre... centro. Non l'abbiamo identificato, ma è lo stesso pollice che abbiamo trovato sull'occhio del figlio dei Leeds.»
«A New York» disse Graham. «Che oggi fosse a New York non vuol dire niente. Potrebbe lavorare sempre alla Gateway. In questo caso oggi non dev'essere andato a lavorare. Ci semplifica le cose.» «Che cosa si è mangiato?» «Un affare intitolato il Drago Rosso e la Donna Vestita di Sole. Dicono che è di William Blake.» «E le donne?» «Con lo sfollagente ha il tocco delicato. La più giovane è in osservazione all'ospedale. Alla più vecchia hanno dato quattro punti. Leggera commozione cerebrale.» «Hanno fornito la sua descrizione?» «La più giovane sì. Silenzioso, brusco, capelli e baffi scuri... mi sa che aveva la parrucca. Il custode alla porta ha confermato. La più vecchia... per quel che ne sa, poteva anche essere travestito da coniglio.» «Però non ha ucciso nessuno.» «Strano» disse Crawford. «Dal suo punto di vista era meglio se le eliminava tutte e due. Avrebbe avuto più vantaggio per scappare e si sarebbe risparmiato un paio di identikit. Il reparto scienza del comportamento ha chiesto un parere a Bloom in ospedale. Sai cosa gli ha detto? Bloom dice che forse sta cercando di smettere.» 34 Dolarhyde sentì il gemito dei flap che si abbassavano. Oltre l'ala nera dell'aereo le luci di St. Louis ruotarono lentamente. Sotto i suoi piedi il carrello d'atterraggio si abbassò vibrando, e andò in sede con un colpo sordo. Ruotò la testa a destra e a sinistra per alleviare la tensione che avvertiva nel collo muscoloso. A casa. Aveva corso un grosso rischio, ma tornava a casa con un premio: la capacità di scelta. Poteva scegliere di avere per sé Reba McClane viva. Poteva averla vicino, parlarle, poteva avere con sé nel letto quella sua stupefacente, innocua, mobilità. Ormai non doveva più temere il ritorno a casa. Il Drago ormai l'aveva nel ventre. Poteva entrare, prendere la riproduzione del Drago appesa al muro e appallottolarla, se avesse voluto.
Non doveva più preoccuparsi dell'Amore che provava per Reba. Se provava dell'amore per lei, poteva lasciare gli Sherman al Drago e risolvere così la questione, tornare da Reba tranquillo e senza pensieri, trattarla con dolcezza. Dal terminal le telefonò a casa. Non era ancora rientrata. Provò alla Baeder Chemical. C'era una sola linea, di notte, ed era occupata. Immaginò Reba che, finito il lavoro, andava alla fermata dell'autobus picchiettando con il bastone, il soprabito sulle spalle. Al volante del furgone impiegò meno di quindici minuti nello scarso traffico serale per arrivare al laboratorio. Alla fermata dell'autobus Reba non c'era. Parcheggiò dietro la Baeder, vicino all'ingresso che portava alle camere oscure. Le avrebbe detto che l'avrebbe aspettata all'uscita per accompagnarla a casa. Era orgoglioso della sua nuova capacità di scelta, voleva approfittarne. Intanto, mentre aspettava, avrebbe potuto prendere alcune cose che teneva in ufficio. All'interno della fabbrica poche luci erano accese. La camera oscura di Reba era chiusa a chiave. Sopra la porta la luce non era né rossa né verde. Era spenta. Schiacciò il campanello. Nessuna risposta. Forse gli aveva lasciato un messaggio in ufficio. Sentì un rumore di passi nel corridoio. Dandridge, il responsabile amministrativo della Baeder, passò davanti alle camere oscure senza nemmeno alzare gli occhi. Aveva fretta e reggeva un grosso pacco di pratiche del personale. Sulla fronte di Dolarhyde si formò una piccola ruga. Dandridge era a metà del parcheggio, diretto all'edificio della Gateway, quando Dolarhyde uscì dalla Baeder, alle sue spalle. Nel parcheggio c'erano due furgoni delle consegne e una mezza dozzina di auto. La Buick era quella di Fisk, il direttore del personale della Gateway. Cosa stavano facendo? Alla Gateway di notte non si lavorava. Quasi tutte le finestre erano buie. Dolarhyde percorse il corridoio, illuminato solo dalle luci rosse che segnalavano l'uscita, diretto verso il suo ufficio. Dietro il vetro smerigliato della direzione del personale le luci erano accese. Sentì delle voci dentro: quella di Dandridge e quella di Fisk. Un rumore di passi femminili che si avvicinavano. La segretaria di Fisk girò l'angolo del corridoio davanti a Dolarhyde. Copriva i capelli con un
foulard per nascondere i bigodini e stava portando i libri mastri del reparto contabilità. Aveva fretta. I libri mastri erano pesanti. Bussò con il piede sulla porta dell'ufficio di Fisk. Le aprì Will Graham Dolarhyde rimase agghiacciato, al buio. La pistola l'aveva lasciata nel furgone. La porta dell'ufficio si richiuse. Si allontanò di fretta; le scarpe da corsa non facevano rumore sul pavimento liscio. Avvicinò il viso al vetro della porta d'uscita e osservò attentamente il parcheggio. Notò dei movimenti sotto la luce dei riflettori. Un uomo con una torcia elettrica stava facendo qualcosa, accanto a uno dei furgoni delle consegne. Muoveva leggermente la mano libera: stava spargendo della polvere sullo specchietto retrovisore esterno per rilevare le impronte digitali. Alle spalle di Dolarhyde, in un punto imprecisato del corridoio, c'era un uomo. Camminava. Togliersi dalla porta. Si accucciò, girò l'angolo, scese le scale verso le caldaie, sul lato opposto dell'edificio. Salendo su un tavolo da lavoro poteva arrivare alle finestre che si aprivano all'altezza del terreno, tra i cespugli. Si tirò sul davanzale e si infilò tra i cespugli, camminando a quattro zampe, pronto a scappare o a lottare. Da questa parte tutto era tranquillo. Si rialzò, infilò una mano in tasca e attraversò la strada a passo normale. Nelle zone buie si metteva a correre, riprendeva a camminare quando passava un'automobile. Fece un ampio giro intorno alla Gateway e alla Baeder Chemical. Il furgone era sempre parcheggiato accanto al marciapiedi, dietro la Baeder. Intorno, tutta una zona scoperta. Tutto a posto. Scattò attraversando la strada e balzò dentro, afferrando la valigetta. L'automatica era carica. Mise una pallottola in canna e posò la pistola sopra il cruscotto, coprendola con una maglietta. Si allontanò lentamente — sta' attento a non trovare il semaforo rosso — svoltò piano all'incrocio e si immise nel traffico. Doveva riflettere, ma gli riusciva difficile in quel momento. Dovevano essere stati i film. In qualche modo Graham era venuto a sapere dei film: sapeva dove. Però non sapeva chi. Se avesse saputo chi non avrebbe avuto bisogno delle cartelle del personale. Ma perché anche i registri della contabilità? Per le assenze, ecco perché. Un confronto tra le assenze e i giorni in cui il Drago aveva colpito. No, era sempre stato di sabato, salvo nel caso di Lounds. Le assenze nei giorni che precedevano il sa-
bato; ecco cosa avrebbe cercato. Lo avrebbe incastrato con quelle: le ore di straordinario non venivano conteggiate per compensare le assenze. Percorse lentamente il Lindbergh Boulevard gesticolando con la mano libera, via via che prendeva in esame un punto dopo l'altro. Cercavano le impronte digitali. Ma non ne aveva mai lasciate, salvo forse sul lasciapassare di plastica del Brooklyn Museum. L'aveva raccolto in fretta, ma tenendolo per i bordi. Comunque un'impronta dovevano averla. Perché rilevare le impronte se non potevano fare un confronto? Stavano controllando il furgone. Non c'era stato tempo di vedere se controllavano anche le auto. Il furgone. Col furgone aveva trasportato Lounds e la sedia a rotelle: ecco cosa gli aveva dato l'informazione. O forse a Chicago qualcuno l'aveva visto. C'erano un sacco di furgoni alla Gateway: privati, della ditta. No, Graham sapeva semplicemente che lui aveva un furgone. Lo sapeva perché lo sapeva e basta. Graham sapeva. Graham sapeva. Era un mostro, quel figlio di puttana. Avrebbero preso le impronte digitali di tutti sia alla Gateway sia alla Baeder. Se non l'avessero scoperto quella notte, l'avrebbero scoperto il giorno dopo. Avrebbe dovuto scappare per sempre, senza tregua; la sua faccia su tutti i bollettini di ricerca, in tutti gli uffici postali, in tutte le stazioni di polizia. Stava andando tutto a pezzi. Di fronte a loro era piccolo, insignificante. «Reba» esclamò ad alta voce. Adesso lei non poteva più salvarlo. Lo stavano stringendo e lui era solo un miserabile labbro le... «TI DISPIACE ADESSO DI AVERMI TRADITO?» Sentiva la voce del Drago rimbombargli dentro, in profondità, profonda come i brandelli del dipinto che aveva nell'intestino. «Non ti ho tradito. Volevo solo poter scegliere. Hai detto che ero...» «DAMMI QUELLO CHE VOGLIO E TI SALVERÒ.» «No. Scapperò.» «DAMMI QUELLO CHE VOGLIO E SENTIRAI SPEZZARSI LA SPINA DORSALE DI GRAHAM.» «No.» «ORA AMMIRA QUELLO CHE HAI FATTO OGGI. ADESSO SIAMO VICINI. POSSIAMO TORNARE A ESSERE UNA SOLA PERSONA. MI SENTI DENTRO DI TE? MI SENTI, VERO?» «Sì.»
«E LO SAI CHE TI POSSO SALVARE. LO SAI CHE TI SPEDIRANNO IN UN POSTO PEGGIORE DI QUELLO DI PADRE BUDDY. DAMMI QUELLO CHE VOGLIO E SARAI LIBERO.» «No.» «TI UCCIDERANNO. RIMARRAI A CONTORCERTI PER TERRA.» «No.» «E QUANDO NON CI SARAI PIÙ, QUELLA SCOPERÀ CON GLI ALTRI, QUELLA...» «No! Sta' zitto.» «QUELLA SCOPERÀ CON ALTRI, CON ALTRI UOMINI, UOMINI BELLI, GLI PRENDERÀ IN BOCCA IL...» «Piantala. Sta' zitto.» «RALLENTA E NON DIRÒ QUELLA PAROLA.» Dolarhyde staccò il piede dall'acceleratore. «COSÌ VA BENE. DAMMI QUELLO CHE VOGLIO E VEDRAI CHE NON SUCCEDERÀ. DAMMELO E TI LASCERÒ SEMPRE SCEGLIERE, POTRAI SCEGLIERE SEMPRE, E PARLERAI BENE, VOGLIO CHE TU PARLI BENE, RALLENTA, BENE COSÌ, LA VEDI LA STAZIONE DI SERVIZIO? FERMATI LÌ CHE TI DEVO PARLARE...» 35 Graham uscì dagli uffici per riposarsi qualche istante la vista nell'atrio semibuio. Si sentiva inquieto, a disagio. Ci stavano mettendo troppo tempo. Crawford stava facendo passare i 380 dipendenti della Gateway e della Baeder il più fretta possibile — era bravissimo in queste cose — ma il tempo correva e prima o poi la notizia si sarebbe diffusa. Crawford era arrivato alla Gateway con una squadra ridotta al minimo. («Vogliamo trovarlo, non metterlo in allarme» aveva detto agli altri. «Se riusciamo a scoprire chi è entro stanotte, possiamo prenderlo fuori dalla fabbrica, magari a casa sua o nel parcheggio».) Il dipartimento di polizia di St. Louis collaborava alle indagini. Il tenente Fogel, della squadra omicidi, accompagnato da un sergente era arrivato in silenzio con un'auto senza contrassegni, portando un Datafax. Collegato a un telefono della Gateway pochi minuti dopo il Datafax trasmetteva già i dati dei dipendenti sia alla sezione identificazioni dell'FBI di Washington, sia al dipartimento della motorizzazione dello stato del Mis-
souri. A Washington i nomi sarebbero stati confrontati con quelli dell'archivio impronte digitali civili e criminali. I nomi dei dipendenti della Baeder che avevano ricevuto il nulla osta di sicurezza venivano inviati con un contrassegno particolare per accelerare le operazioni. Il dipartimento della motorizzazione avrebbe controllato i nomi trasmessi con quelli di tutti i proprietari di furgoni. Erano stati richiamati alla Baeder solo quattro dipendenti: Fisk, il direttore del personale; la sua segretaria; Dandridge, della Baeder Chemical; e il capo contabile della Gateway. Si era preferito non avvertirli per telefono. Gli agenti federali erano andati a casa loro e gli avevano chiesto di venire in fabbrica. («Guardateli bene prima di spiegargli perché avete bisogno di loro» aveva detto Crawford. «E dopo non lasciate che usino il telefono. Le notizie come questa viaggiano in fretta»). Avevano sperato di poter arrivare subito all'identificazione grazie ai denti, ma nessuno dei quattro li aveva riconosciuti. Graham guardò verso il fondo del corridoio, illuminato dalle luci rosse che segnalavano l'uscita. Qualcosa non andava. Che altro potevano fare stanotte? Crawford aveva ordinato che la signorina Harper, l'impiegata del Brooklyn Museum, venisse fatta arrivare in aereo appena fosse stata in grado di affrontare il viaggio. Il mattino dopo, probabilmente. La polizia di St. Louis disponeva di un ottimo furgone per sorvegliare senza essere visti. La signorina Harper, stando all'interno, avrebbe potuto osservare gli impiegati mentre entravano. Se non l'avessero preso quella notte stessa, tutte le tracce dell'operazione avrebbero potuto essere eliminate prima dell'inizio del lavoro. Graham non s'illudeva: sarebbero stati fortunati se avessero potuto lavorare in segreto per tutto il giorno successivo, prima che la notizia si diffondesse. Il Drago avrebbe notato qualunque cosa sospetta. E avrebbe tagliato la corda. Le era sembrato che non ci fosse niente di male in una cenetta in compagnia di Ralph Mandy. Reba McClane sapeva che prima o poi gliel'avrebbe dovuto dire: non bisognava lasciare le cose in sospeso. Le parve che Mandy sapesse cosa lo aspettava quando lei insistette perché ciascuno pagasse la propria parte. Glielo disse in macchina mentre la riaccompagnava a casa; gli spiegò
che la loro non era una cosa importante, che con lui si era divertita molto e desiderava restargli amica, ma che ora si era impegnata con un altro. Forse lo aveva ferito un po', ma sapeva che in parte lui era anche sollevato. Le parve che l'avesse presa piuttosto bene. Sulla porta non gli disse di entrare. Lui le chiese di darle il bacio della buonanotte e Reba acconsentì volentieri. Le aprì la porta e le consegnò le chiavi. Attese finché lei non ebbe chiusa la porta a chiave. Non appena si voltò per andarsene, Dolarhyde gli sparò una volta alla gola e due volte al petto. Tre schiocchi di pistola con il silenziatore. Uno scooter fa più rumore. Dolarhyde sollevò il corpo di Mandy senza difficoltà e lo abbandonò tra i cespugli e la casa. Vedere Reba che baciava Mandy era stato come una coltellata. Poi il dolore era passato. Continuava a sembrare Francis Dolarhyde e a parlare come lui... la recitazione del Drago era ottima: impersonava benissimo Dolarhyde. Reba si stava lavando la faccia quando udì il campanello. Quattro squilli prima che facesse a tempo ad arrivare alla porta. Afferrò la catenella senza toglierla. «Chi è?» «Francis Dolarhyde.» Aprì la porta lasciando però la catena nel gancio. «Ripeti, per favore.» «Dolarhyde. Sono io.» Sapeva che era lui. Staccò il gancio. Le sorprese non le piacevano. «Credevo che mi avresti telefonato, D.». «Volevo. Ma è un caso di emergenza. Davvero» disse premendole la pezzuola imbevuta di cloroformio sul viso mentre entrava. La strada era vuota. Quasi tutte le case erano buie. La portò al furgone. I piedi di Ralph Mandy spuntavano tra i cespugli del giardino. Mandy non gli interessava più. Reba si svegliò mentre erano ancora in viaggio. Era distesa sul fianco, con la guancia schiacciata contro la moquette polverosa del furgone, il sibilo dell'albero di trasmissione proprio sotto l'orecchio. Cercò di toccarsi il viso con le mani. Nel farlo sentì che qualcosa le schiacciava il seno. Aveva gli avambracci legati. Li toccò con il viso. Era stata legata dai gomiti ai polsi con quella che sembrava una striscia di tessuto morbido. Anche le gambe erano legate dalle caviglie alle ginocchia. Qualcosa le teneva la bocca serrata.
Cosa... Cosa...? Dolarhyde se ne stava sulla porta e poi... ricordò di aver cercato di distogliere il viso, poi ricordò la sua forza tremenda. Oh, Signore... cos'era successo...? Dolarhyde se ne stava sulla porta e poi si era trovata a respirare, soffocando, qualcosa di freddo e aveva cercato di distogliere il viso, ma qualcosa le teneva stretta la testa. Si trovava nel furgone di Dolarhyde. Riconobbe le risonanze della carrozzeria. Era in movimento. La paura le montava dentro. L'istinto le diceva di starsene tranquilla, ma nella gola sentiva vapori di cloroformio e di benzina. Vomitò contro il bavaglio. La voce di D. «Ci vorrà ancora poco.» Una svolta, poi il furgone passò sulla ghiaia; i ciottoli rimbalzavano contro i parafanghi e sul fondo. È matto. Bene. Ecco cosa: matto. "Matto" è una parola che fa paura. Cos'era stato? Ralph Mandy. Doveva averli visti insieme sulla porta di casa. Questo lo aveva fatto esplodere. Cristo santo, tienti pronta. Una volta al Reiker Institute un uomo aveva cercato di prenderla a schiaffi. Era rimasta immobile, senza far rumore e lui non era riuscito a trovarla... anche lui non ci vedeva. Questo qui invece quella sua vista del cazzo ce l'aveva. Tienti pronta. Pronta a parlare. Dio, poteva uccidermi con questo bavaglio sulla bocca. Dio, poteva uccidermi senza capire quello che gli stavo dicendo. Tienti pronta. Pronta e zitta. Digli solo che lasci perdere, non è successo niente. Non lo dirò a nessuno. Rimani passiva finché ce la fai. Quando non ne puoi più, aspetta finché non gli hai trovato gli occhi. Il furgone si fermò e oscillò quando Dolarhyde scese. Lo sportello laterale scivolò via. Odore di erba e di pneumatici surriscaldati. Grilli. Entrò nel vano di carico. Quando la toccò malgrado non volesse mugolò, allontanando il viso. Dei colpetti leggeri sulla spalla non riuscirono a farle smettere di divincolarsi. Ci riuscì una sberla.. Cercò di dire qualcosa malgrado il bavaglio. Si sentì sollevare, portar via. I suoi passi risuonavano sulla rampa. Adesso sapeva dov'era. A casa sua. In che parte della casa? Il ticchettio della pendola sulla destra. Tappeto, pavimento. La camera da letto dove avevano fatto l'amore. Si sentì cadere. Si ritrovò sul letto. Cercò di farsi sentire al di là del bavaglio. Lui se ne stava andando. Rumori, fuori. Lo schianto dello sportello del furgone. Eccolo che viene. Sta
posando qualcosa sul pavimento... bidoni di metallo. Sentì odore di benzina. «Reba.» La voce di D. Normale ma così calma. Strana e terribilmente calma. «Reba, non so cosa... cosa dirti. Era così bello con te e non sai che cosa ho fatto per te. E mi sono sbagliato, Reba. Mi hai fatto diventare debole e poi mi hai fatto male.» Reba cercò di parlare. «Se ti slego e ti faccio sedere ti comporti bene? Non cercare di scappare, tanto ti prendo. Ti comporti bene?» Voltò il viso in direzione della voce e annui. Il contatto dell'acciaio gelido contro la pelle, il sussurro della lama sul tessuto; le braccia erano libere. Poi le gambe. Quando le tolse il bavaglio si ritrovò con le guance bagnate. Lentamente, con prudenza si rizzò a sedere. Devi cogliere l'occasione, la migliore che hai in mano. «D., non sapevo che ci tenessi tanto a me. Sono contenta, ma, vedi, mi hai spaventata molto.» Nessuna risposta, ma sapeva di averlo davanti. «È stato per quel vecchio scemo di Ralph Mandy che ti sei arrabbiato? L'hai visto a casa mia? È così, vero? Gli dicevo che non volevo vederlo più. Perché voglio vedere solo te. Ralph non lo rivedrò più.» «Ralph è morto» disse Dolarhyde. «Mi sa che non gli è piaciuto molto.» Fantasie. Dà corpo alle sue fantasie. «E poi non ti ho mai fatto del male, D. Non ho mai avuto la minima intenzione di farlo. Dai, siamo amici, facciamo l'amore, divertiamoci e dimentichiamo questa storia.» «Zitta,» disse Dolarhyde, calmo. «Ti dirò una cosa. La più importante che hai mai sentito. Importante come il Discorso della montagna, come i Dieci comandamenti. Capito?» «Certo, D. Io...» «Zitta. Reba, a Birmingham e ad Atlanta sono successe delle cose notevoli. Sai di cosa sto parlando?» Reba scosse la testa. «Se ne è parlato molto. Due gruppi di persone sono stati trasformati. La famiglia Leeds e la famiglia Jacobi. La polizia crede che siano stati assassinati. Hai capito di cosa sto parlando, adesso?» Reba fece per negare, poi ricordò e annuì, lentamente. «Lo sai come lo chiamano l'Essere che ha fatto visita a quelle famiglie? Puoi dirlo.»
«Il Lupo...» Una mano le serrò la bocca. «Pensa bene e rispondi correttamente.» «Il Drago qualcosa. Il Drago... Il Drago Rosso.» Le era vicino. Sentiva il suo respiro sul viso. «SONO IO IL DRAGO.» Reba balzò all'indietro spinta dall'intensità e dal timbro spaventoso della voce e sbatté contro la testata del letto. «Il Drago ti vuole, Reba, ti ha sempre voluto. Io non volevo darti a Lui. Oggi per te ho fatto una cosa che gli impedirà di averti. E mi sono sbagliato.» Adesso era se stesso, era D., poteva parlargli. «Ti prego, ti prego, impediscigli di prendermi. Non vorrai... ti prego... non vorrai. .. io sono per te. Tienimi con te. Ti piaccio, lo so che ti piaccio.» «Non ho ancora deciso. Forse non potrò evitare di consegnarti a Lui. Non so. Vediamo se ti comporti come ti dico. Sei disposta? Posso fidarmi di te?» «Cercherò. Ma non spaventarmi troppo, altrimenti non ce la faccio.» «Alzati, Reba. In piedi vicino al letto. Sai dove ti trovi?» Reba annuì. «Lo sai in che stanza ti trovi, vero? Mentre dormivo sei andata in giro per la casa, vero?» «Mentre dormivi?» «Non fare la stupida. Quando abbiamo passato la notte qui. Sei andata in giro per casa, no? Hai trovato qualcosa di strano? L'hai preso e l'hai fatto vedere a qualcuno? Hai fatto qualcosa del genere, Reba?» «Sono semplicemente uscita fuori. Dormivi e sono uscita. Te lo giuro.» «E allora sai dov'è la porta principale.» Reba annuì. «Reba, toccami sul petto. Alza piano le mani.» Piantargli le unghie negli occhi? Una pressione leggera delle dita sui due lati della carotide. «Non fare quello che stai pensando, se non vuoi che stringa. Toccami solo il torace. La gola. La senti la catenella con la chiave? Sfilamela dalla testa. Attenta... bene così. E adesso vedrò se posso fidarmi di te. Vai a chiudere a chiave la porta e ritorna qui, con la chiave. Avanti. Ti aspetto. Non cercare di scappare. Ti prenderei.» Prese in mano la chiave e la catenella le sbatté contro la coscia. Trovare la direzione con le scarpe era più difficile, ma preferì tenerle. Il ticchettio
della pendola la aiutava. Tappeto, pavimento, di nuovo tappeto. La vicinanza del divano. Va' a destra. Qual è la mia arma migliore? Tenerlo sulla corda o starci? Gli altri l'avevano tenuto sulla corda? Respirava così forte che la testa le girava. Non lasciare che la testa ti giri. Non morire. Dipende se la porta è aperta o meno. Devi sapere dove si trova lui. «Vado bene?» Sapeva di andare nella direzione giusta. «Ancora cinque passi più o meno.» La voce proveniva dalla camera da letto. Bene. Avvertì un soffio d'aria sul viso. La porta era semiaperta. Si tenne fra la porta e la voce alle sue spalle. Infilò la chiave nella serratura sotto la maniglia. Fuori. Ora. Dall'altra parte, in fretta, chiudere la porta, girare la chiave. Giù dalla rampa, senza bastone, cercando di ricordare dov'era il furgone, di corsa. Contro qualcosa — un cespuglio — urlando. Urlando: «Aiuto. Aiuto. Aiuto, aiutatemi». Di corsa sulla ghiaia. La tromba di un camion in lontananza. C'era l'autostrada da quella parte; camminando in fretta, trottando e correndo, il più in fretta possibile, cambiando direzione quando sentiva l'erba invece della ghiaia, zigzagando giù per il vialetto. Alle sue spalle un rumore di passi frettolosi e pesanti, passi di corsa sulla ghiaia. Si chinò e ne raccolse una manciata, attese finché non le fu vicino e gliela gettò addosso, sentì che lo colpivano. Uno spintone all'altezza della spalla la fece piroettare, un braccio robusto sotto il mento, sulla gola. Premeva, premeva, sangue che le ronzava nelle orecchie. Scalciò all'indietro, colpì uno stinco mentre tutto diventava sempre più tranquillo. 36 In due ore fu completato l'elenco dei dipendenti maschi di razza bianca, tra i venti e i cinquant'anni, proprietari di un furgone: ventisei nomi. Il dipartimento della motorizzazione del Missouri, in base ai dati delle patenti, fornì l'informazione sul colore dei capelli, che però non era un fattore essenziale; il Drago avrebbe potuto portare la parrucca. La signorina Trillman, la segretaria di Fisk, preparò delle copie dell'elenco e le distribuì.
Il tenente Fogel ne stava scorrendo una, quando ronzò il cicalino della radio. Parlò brevemente con il comando poi posò una mano sul ricevitore. «Signor Crawford... Jack. Un certo Ralph Mandy, di razza bianca, trentotto anni, è stato trovato ucciso a colpi di arma da fuoco qualche minuto fa nella zona di University City: è più o meno in centro, vicino alla Washington University. L'hanno trovato nel giardino di una casa dove abita una certa Reba McClane. I vicini dicono che lavora per la Baeder. La porta è aperta e la donna non è in casa.» «Dandridge!» chiamò Crawford. «Reba McClane, cosa sa di lei?» «Lavora in camera oscura. È cieca. Viene da non so dove in Colorado...» «Conosce un certo Ralph Mandy?» «Mandy?» ripeté Dandridge. «Randy Mandy?» «Ralph Mandy, lavora qui da voi?» Un rapido controllo mostrò che non lavorava per la Baeder. «Una coincidenza, forse» disse Fogel. «Forse» disse Crawford. «Spero che non sia successo niente a Reba» osservò Miss Trillman. «La conosce?» chiese Graham. «Ci siamo parlate qualche volta.» «E questo Mandy?» «Non lo conosco. L'unico uomo con cui l'ho vista... l'ho vista salire sul furgone del signor Dolarhyde.» «Il furgone del signor Dolarhyde, signorina Trillman? Di che colore è?» «Aspetti che ci penso. Marrone scuro o forse nero.» «E dove lavora il signor Dolarhyde?» chiese Crawford. «È il responsabile della produzione» rispose Fisk. «Il suo ufficio dov'è?» «Proprio in fondo all'atrio.» Crawford si voltò per rivolgersi a Graham, che però si era già avviato. L'ufficio era chiuso a chiave. Lo aprirono con un passepartout del reparto manutenzione. Graham allungò dentro una mano e accese la luce. Si fermò sulla soglia ed esaminò minuziosamente la stanza. Era pulitissima. Anonima. Niente oggetti personali in vista. Sugli scaffali c'erano solo manuali tecnici. La lampada era posata sul lato sinistro della scrivania, quindi Dolarhyde non era mancino. Doveva trovare in fretta l'impronta del pollice sinistro di un uomo che usava principalmente la destra.
«Cerchiamolo sulla pinzetta di un raccoglitore» disse a Crawford, fermo alle sue spalle. «Dovrebbe usare il pollice sinistro per aprirlo.» Stavano facendo passare i cassetti quando Graham notò sulla scrivania l'agenda degli appuntamenti. Scorse all'indietro le pagine piene di scarabocchi, fermandosi a sabato 28 giugno, il giorno del massacro degli Jacobi. Le pagine del giovedì e del venerdì precedenti erano vuote. Cercò l'ultima settimana di luglio. Anche in questo caso il giovedì e il venerdì erano vuoti. Sul mercoledì c'era un appunto: "Am 552 3.45-6.15". Graham la ricopiò. «Voglio sapere dove va questo volo». «Me ne occupo io, tu continua qui» disse Crawford. Si diresse verso un telefono dall'altra parte dell'atrio. Graham stava guardando un tubetto di adesivo per dentiere trovato nell'ultimo cassetto della scrivania. Crawford, sulla porta, lo chiamò. «Va' ad Atlanta, Will. Andiamo a prenderlo.» L'acqua fredda le inondò il viso, le bagnò i capelli. Si sentiva stordita. Era distesa su qualcosa di duro, inclinato. Girò la testa. Legno. Un asciugamani bagnato le passò sul viso. «Ti senti bene, Reba?» La voce calma di Dolarhyde. Cercò di ritrarsi da quella voce. «Ahhhh». «Respira a fondo.» Trascorse un minuto. «Credi di farcela a stare in piedi? Provaci.» Ci riuscì, sorretta dal braccio di lui. Una contrazione allo stomaco. Dolarhyde attese finché lo spasmo non fu passato. «Sali lungo la rampa. Ricordi dove ti trovi?» Annuì. «Prendi la chiave dalla porta, Reba. Vieni dentro. Adesso gira la chiave e mettimela al collo. Bene. Controlliamo, tanto per sicurezza.» Sentì il rumore della maniglia. «Bene. Adesso va' in camera da letto; la strada la sai.» Reba barcollò e cadde sulle ginocchia, la testa ciondolante. Dolarhyde la prese per le braccia e, sorreggendola, la portò in camera da letto. «Siedi su questa sedia.» Obbedì. «ORA DAMMELA.» Reba si sforzò di alzarsi; due grosse mani la presero per le spalle ributtandola giù. «Sta' seduta, non muoverti, se no non posso tenerlo lontano da te» disse
Dolarhyde. Reba riacquistava la lucidità. Avrebbe preferito di no. «Ti prego, fa' il possibile» disse. «Reba, per me è tutto finito.» Si era alzato, stava facendo qualcosa. L'odore di benzina era fortissimo. «Allunga una mano. Tocca questo. Non prenderlo, toccalo e basta.» Sentì qualcosa che assomigliava a un paio di narici di acciaio, l'interno era liscio. La canna di un fucile. «È un fucile da caccia, Reba. Calibro dodici. Sai cosa può fare?» Annuì. «Adesso togli la mano.» Il metallo freddo della canna le premeva alla base del collo. «Reba, volevo potermi fidare di te. Volevo fidarmi.» Sembrava quasi che stesse piangendo. «Mi piacevi tanto.» Stava piangendo. «Anche tu, D. Mi piaci. Ti prego, non farmi del male adesso.» «Per me è finita. Non posso lasciarti a Lui. Sai cosa ti farebbe?» Singhiozzava. «Sai cosa ti farebbe? Ti ammazzerebbe a morsi. Meglio che tu venga con me.» Sentì strofinare un fiammifero. Odore di zolfo, poi un rombo. Calore. Fumo. Fuoco. La cosa che più la terrorizzava. Il fuoco. Non c'era niente di peggio. Si augurò di morire al primo colpo. Tese i muscoli delle gambe, pronta a scappare. Piangeva a dirotto. «Oh, Reba, non ce la faccio a vederti bruciare.» La canna si staccò. Mentre balzava in piedi ci fu una doppia esplosione. Con le orecchie che le ronzavano, credette di essere stata colpita, di essere morta, sentì fisicamente più che udire il tonfo sul pavimento. Fumo e crepitio di fiamme. Il fuoco. L'incendio la riportò in sé. Avvertiva il calore sulle braccia e sul viso. Uscire. Fece qualche passo, inciampò contro i piedi del letto. Camminare carponi, stare bassi, sotto il fumo. Non correre, se vai a sbattere contro qualcosa muori. Era chiusa in casa. Chiusa in casa. Muovendosi carponi, le mani sul pa-
vimento, trovò un paio di gambe — dall'altra parte — trovò dei capelli, una ciocca, posò le mani su qualcosa di molliccio. Solo carne maciullata, frantumi aguzzi di ossa, un bulbo oculare. La chiave intorno al collo... in fretta. Afferrarla con tutte e due le mani, far forza sulle gambe, strappare. La catena si spezzò. Cadde indietro, si rialzò frenetica. Si voltò, confusa. Cercava di sentire, di ascoltare, con le orecchie assordate, al di sopra del ruggito delle fiamme. Il bordo del letto... quale? Inciampò nel corpo, cercò di sentire. BONG, BONG, i rintocchi della pendola. BONG, BONG, nel soggiorno, BONG, BONG, verso destra. La gola riarsa dal fumo. BONG, BONG. ECCO la porta. Sotto la maniglia. Non lasciarla cadere. Fa' scattare la serratura. Ecco, aperta. Aria. Giù per la rampa. Aria. Cadde nell'erba. Si tirò su, sulle mani e sulle ginocchia. Si raddrizzò sulle ginocchia e batté le mani. Sentì l'eco della casa e si allontanò, sempre carponi, respirando a fondo, finché non riuscì a rialzarsi, a camminare, a correre. Urtò qualcosa, riprese a correre. Trovare la casa non fu tanto facile. Alla Gateway Francis Dolarhyde aveva lasciato come recapito una casella postale di St. Charles. Anche all'ufficio dello sceriffo dovettero controllare su una mappa della società elettrica per essere sicuri. Lo sceriffo accolse la squadra di St. Louis, sull'altra sponda del fiume e poi, in carovana, si avviarono in silenzio lungo la statale 94. Nell'auto di testa un aiutante dello sceriffo accanto a Graham indicava la strada. Crawford sul sedile posteriore succhiava rumorosamente qualcosa. Incontrarono poco traffico alla periferia nord di St. Charles: un camioncino pieno di bambini, un autobus della Greyhound, un carro attrezzi. Notarono il bagliore mentre uscivano dal paese. «Eccola!» esclamò l'aiutante. «È là!» Graham premette l'acceleratore. Filarono rombando lungo la strada mentre il bagliore si faceva più intenso, più grande. Crawford schioccò le dita per farsi dare il microfono della radio. «A tutte le unità, quella che brucia è la sua casa. Fate attenzione. Forse sta venendo fuori. Sceriffo, se non le dispiace metta qui un blocco stradale.» Una fitta colonna di scintille e di fumo si allungava verso sud est incombendo sopra i campi.
«Qui» disse l'aiutante, «svolti sullo sterrato.» Videro immediatamente la sagoma della donna stagliarsi contro le fiamme; la videro nel momento in cui lei li udiva arrivare e alzava le braccia verso di loro. Un attimo dopo l'enorme incendio esplodeva verso il cielo, verso di loro, mentre travi in fiamme, telai di finestre descrivevano lente parabole nel cielo notturno, e il furgone fiammeggiante rotolava lontano. La silhouette arancione degli alberi attaccati dal fuoco improvvisamente scomparve. La terra vibrò, lo spostamento d'aria fece oscillare le auto della polizia. La donna era caduta faccia a terra sul vialetto. Crawford, Graham e gli aiutanti dello sceriffo balzarono giù e corsero verso di lei, mentre sulla strada piovevano pezzi infuocati. Alcuni le passarono di fianco correndo con le armi impugnate. Crawford prese Reba da un aiutante dello sceriffo che le spegneva le scintille nei capelli. La prese fra le braccia, il viso vicino al suo, arrossato dal riflesso delle fiamme. «Francis Dolarhyde» disse. La scosse con delicatezza. «Dov'è Francis Dolarhyde?» «È là dentro» rispose Reba, puntando una mano sporca verso le fiamme e lasciandola subito cadere. «È la dentro. Morto.» «È sicura?» Crawford scrutò gli occhi che non vedevano. «Ero con lui.» «Per favore, mi dica cosa è successo.» «Si è sparato in faccia. Ci ho messo dentro una mano. Ha dato fuoco alla casa. Si è sparato. Ci ho messo dentro la mano. Era sul pavimento. Ci ho messo dentro la mano; posso sedermi?» «Certo,» disse Crawford. La accompagnò sul sedile posteriore dell'auto e le sedette accanto. La circondò con le braccia e la lasciò piangere. Graham, in mezzo alla strada, rimase a guardare le fiamme finché non ebbe il viso rosso e riarso. Il vento faceva passare folate di fumo sulla luna. 37 Il vento del mattino era umido e caldo. Spingeva brandelli di nuvole sopra i camini anneriti, l'unica cosa rimasta in piedi della casa di Francis Dolarhyde. Sottili volute di fumo si allungavano basse sui campi.
Rare gocce di pioggia cadevano sulle braci esplodendo in nuvolette di vapore. Un camion dei pompieri era fermo nelle vicinanze con la luce blu accesa. S.S. Aynesworth, capo della sezione esplosivi dell'FBI, tenendosi sopravvento rispetto alle macerie, accanto a Graham, si versava del caffè da un termos. Aynesworth fece una smorfia quando vide un pompiere infilare un rastrello nelle ceneri. «Grazie al cielo è ancora troppo caldo. Così non combina guai» disse parlando con un angolo della bocca. Era stato attento a dimostrarsi cordiale con le autorità locali. Ma con Graham era libero di dire quel che pensava. «Diavolo, devo darmi da fare. Quando tutti gli assistenti speciali, gli agenti e simili avranno finito i loro panini e si saranno fatti la loro cagata, questo posto sembrerà un porcile del cazzo. Dovrebbero essere già in piedi a darmi una mano.» Finché da Washington non era arrivato il suo amato furgone, Aynesworth aveva dovuto arrangiarsi con gli strumenti che aveva potuto portare con sé in aereo. Dal baule di un'autopattuglia tirò fuori uno zainetto da marine sbiadito e indossò una tuta e un paio di stivali di amianto. «Will, come è stata l'esplosione?» «Un lampo di luce molto intenso che si è spento subito. A questo punto alla base è diventato di un colore più cupo. Ha buttato intorno una quantità di roba: telai delle finestre, pezzi di tetto, assi che volavano via quasi orizzontali e che sono finite nei campi. C'è stata prima l'onda d'urto poi lo spostamento d'aria. L'aria ci è venuta addosso, poi è stata risucchiata indietro. Pare quasi che sia stata lei a spegnere l'incendio.» «L'incendio tirava bene quando c'è stata l'esplosione?» «Già, le fiamme uscivano dal tetto e dalle finestre del pianterreno e del primo piano. Gli alberi bruciavano.» Aynesworth reclutò due pompieri, disse loro di stargli vicino con una manichetta mentre un terzo, in tuta d'amianto, faceva la guardia con un palanchino pronto a intervenire nel caso gli fosse caduto addosso qualcosa. Liberò i gradini della cantina, rimasti allo scoperto e si calò nell'intrico di travi annerite. Ogni pochi minuti doveva risalire. Scese otto volte. Il risultato di tutti questi sforzi fu un pezzo piatto di metallo strappato, che però parve renderlo felice. Rosso in viso e bagnato di sudore, si tolse la tuta d'amianto e sedette sul
predellino dell'autopompa gettandosi sulle spalle un impermeabile da pompiere. Posò per terra il pezzetto di metallo e soffiò via una pellicola di cenere. «Dinamite» spiegò a Graham. «Guarda qui, la vedi l'impronta frastagliata che ha lasciato? Questo affare dev'essere la cerniera di un baule. Ecco cos'è successo, con ogni probabilità. Dinamite chiusa in un baule. Però non dev'essere scoppiato in cantina. Io direi al piano terra. Lo vedi a che altezza è stato tranciato quel tronco quando l'ha colpito il piano di marmo del tavolo? L'esplosione l'ha buttato fuori, di lato. La dinamite era dentro qualcosa che ha tenuto lontane le fiamme per un po'.» «Resti umani?» «Non dev'essere rimasto granché, ma qualcosa si trova sempre. Dobbiamo setacciare tutto. Vedrai che lo troviamo. Te lo consegnamo in un sacchettino.» Verso l'alba al De Paul Hospital Reba McClane, grazie a un sedativo, si era finalmente addormentata. Volle che un'agente della polizia femminile le rimanesse vicina accanto al letto. Durante la mattinata si svegliò diverse volte e le prese una mano. Quando chiese là colazione fu Graham a portargliela. Come cominciare? A volte era più facile se l'approccio era impersonale. Con lei non gli pareva che potesse funzionare. Le spiegò chi era. «Lo conosce?» chiese Reba all'agente. Graham fece vedere alla donna le sue credenziali. Ma non ce n'era bisogno. «So che è un agente federale, signorina McClane.» Alla fine gli raccontò tutto. Tutto delle ore trascorse con Francis Dolarhyde. Aveva la gola infiammata e si fermava spesso per succhiare ghiaccio tritato. Graham le chiese anche le cose sgradevoli e Reba le spiegò nei particolari. A un certo punto gli chiese di uscire mentre la donna poliziotto allungava un catino per raccogliere la colazione. Quando rientrò nella stanza notò che era pallida, ma che si era lavata il viso. Un'ultima domanda, poi chiuse il taccuino. «Non le farò più domande del genere» disse, «ma mi piacerebbe venire a trovarla di nuovo. Tanto per darle un salutino e sapere come sta.»
«Come potrebbe farne a meno?... Una donna affascinante come me.» Per la prima volta le vide gli occhi pieni di lacrime e capì che cosa la rodeva. «Le dispiacerebbe uscire un attimo, agente?» disse Graham. Quando furono soli le prese la mano. «Senta un po'. Dolarhyde aveva molte cose che non andavano, ma con lei si è comportato bene. Mi ha detto che era gentile e attento. Ne sono convinto. È lei che gli ha fatto venir fuori queste cose. E alla fine non è stato capace di ucciderla e neanche di guardarla morire. Uno che studia queste malattie dice che stava cercando di smettere. Perché? Perché lei lo ha aiutato. Questo probabilmente è servito a salvare alcune vite. Lei non ha attirato un mostro, ma un uomo con un mostro sulla schiena. Non c'è niente che non vada in lei. Se si convince a credere il contrario, si distrugge. Tra un giorno o due torno a trovarla. Sono sempre in mezzo a poliziotti e ogni tanto ho bisogno di un diversivo... e — una cosa — faccia qualcosa per i suoi capelli.» Reba scosse la testa e con un cenno gli indicò la porta. Forse sorrideva un poco, non ne era sicuro. Telefonò a Molly dall'ufficio dell'FBI di St. Louis. Rispose il nonno di Willy. «È Will Graham, mamma» disse il nonno. «Salve, signor Graham.» I nonni di Willy lo chiamavano sempre «Signor Graham». «Mamma dice che si è suicidato. Stava guardando lo spettacolo di Donahue quando l'hanno interrotto per dare la notizia. Una bella fortuna. Vi siete risparmiati un sacco di lavoro con le accuse. Un risparmio anche per noi contribuenti. È vero che era un bianco?» «Sì, signore. Biondo. Un tipo scandinavo.» I nonni di Willy erano di origine scandinava. «Potrei parlare a Molly?» «Adesso tornerà giù in Florida, signor Graham?» «Tra breve. Molly è lì?» «Mamma, vuole parlare a Molly. È in bagno, signor Graham. Mio nipote sta facendo colazione per la seconda volta. È stato fuori a cavalcare in quest'aria buona. Dovrebbe vedere quanto mangia. Scommetto che ha messo su cinque chili. Eccola che arriva.» «Pronto.» «Ciao bellezza.»
«Belle notizie, eh?» «Pare proprio.» «Ero fuori in giardino. Mamma è venuta fuori a dirmelo quando l'ha saputo dalla tv. Quando l'avete scoperto?» «Ieri sera tardi.» «Perché non mi hai chiamato?» «Mamma probabilmente dormiva.» «No, stava guardando Johnny Carson. Will, non ti so dire quanto sono contenta che tu non abbia dovuto andarlo a prendere.» «Rimarrò qui ancora un pochino.» «Quattro o cinque giorni?» «Non so bene. Forse meno. Ho voglia di vederti, bambina.» «Anch'io ho voglia di vederti quando l'avrai finita con quella faccenda.» «Oggi è mercoledì. Entro venerdì dovrei...» «Will, mamamma si è organizzata per far venire giù da Seattle tutti gli zii e le zie di Willy la settimana prossima e...» «Al diavolo mamamma. E poi che cos'è questo "mamamma"?» «Quando Willy era piccolino non riusciva a dire...» «Torna a casa con me.» «Will, sono io che ti ho aspettato. Non riescono mai a vedere Willy e qualche giorno ancora...» «Vieni tu. Lascia lì Willy, la tua ex cognata potrà ficcarlo su un aereo la settimana prossima. Ti dico una cosa: fermiamoci a New Orleans. C'è un posto che si chiama...» «Mi sa che non si può. Sto lavorando part-time in un negozio di articoli western in paese, e devo almeno dargli un minimo di preavviso.» «Cosa c'è che non va, Molly?» «Niente. Non c'è niente che non va... Sono così triste, Will. Lo sai che sono venuta qui dopo che il padre di Willy era morto.» Diceva sempre "il padre di Willy" come se fosse un ufficio. Non pronunciava mai il suo nome. «Ed eravamo tutti molto uniti... mi sono rimessa, calmata. Anche adesso mi sono rimessa e...» «Piccola differenza: io non sono morto.» «Non metterla in questo modo.» «In che modo? In che modo non devo metterla?» «Sei arrabbiato.» Graham chiuse un attimo gli occhi. «Pronto.»
«Non sono arrabbiato, Molly. Fa' quello che vuoi. Ti richiamo quando lì le cose si sono risolte.» «Potresti venire tu qui.» «Credo di no.» «Perché no? C'è un sacco di posto. Mamamma farebbe...» «Molly, non gli sono simpatico e lo sai perché. Ogni volta che mi guardano gli ricordo lui.» «Questo non è giusto e non è neanche vero.» Graham era stanchissimo. «Okay. Sono degli stronzi e mi danno la nausea... preferisci questa?» «Non dire queste cose.» «Vogliono il ragazzo. Forse tu gli sei simpatica, anzi probabilmente gli sei simpatica, se gli capita di pensarci. Ma quello che vogliono è il ragazzo. Per questo accettano anche te. A me invece non mi vogliono, anche se me ne frego. Io voglio te. In Florida. E anche Willy, quando si sarà stufato del suo pony.» «Una dormita e ti sentirai meglio.» «Ne dubito. Senti, ti telefono quando saprò qualcosa qui.» «Va bene.» Riappese. «Merda schifosa» disse Graham. «Merdaccia schifosa.» Crawford fece capolino dalla porta. «Ti ho sentito dire "merdaccia schifosa"?» «Esattamente.» «Be', tirati su. Ha telefonato Aynesworth. Ha qualcosa per te. Dice che è meglio che andiamo subito, i locali cominciano a piantare grane.» Graham e Crawford tornarono alle rovine annerite che erano state una volta la casa di Dolarhyde e trovarono Aynesworth intento a versare con cura della cenere in latte di vernice nuove. Era coperto di sporcizia e una grossa vescica gli gonfiava il collo, sotto l'orecchio. L'agente speciale Janowitz del reparto esplosivi lavorava giù in cantina. Sul vialetto un ciccione passeggiava innervosito accanto a una Oldsmobile coperta di polvere. Intercettò Crawford e Graham mentre attraversavano il cortile. «È lei Crawford?» «Sì.» «Sono Robert L. Dulaney. Sono il medico legale e questa è la mia giurisdizione.» Mostrò il suo biglietto da visita. C'era scritto: "Votate per Ro-
bert L. Dulaney". «Quel vostro uomo laggiù ha in mano delle prove che avrebbe dovuto consegnare a me. È un'ora che mi sta facendo aspettare.» «Mi dispiace per il fastidio, signor Dulaney. Seguiva le mie istruzioni. Si metta pure a sedere nell'auto che risolvo la faccenda.» Dulaney li seguì. Crawford si voltò. «Lei ci scuserà, signor Dulaney. Vada a sedere nella sua macchina.» Aynesworth sogghignava, i denti bianchi risaltavano nel viso annerito. Era tutta la mattina che setacciava cenere. «Nella mia qualità di capo sezione è per me un grande piacere...» «Menarti l'arnese, lo sappiamo tutti» intervenne Janowitz risalendo dalla cantina. «Silenzio nei ranghi, soldato Janowitz. Porti qui gli articoli interessanti.» Gettò a Janowitz un mazzo di chiavi. Dal baule di una berlina dell'FBI Janowitz tirò fuori una lunga scatola di cartone. Sul fondo era legato un fucile da caccia con il calcio bruciato e le canne contorte dal calore. In una scatola più piccola c'era un'automatica annerita. «La pistola è quella meno conciata» spiegò Aynesworth. «La sezione balistica forse riuscirà a tirarne fuori qualcosa. Andiamo, Janowitz, va' a prendere il resto.» Janowitz gli consegnò tre contenitori termici di plastica. «Sull'attenti, Graham.» Per un attimo l'espressione allegra scomparve. Questo era un rito da cacciatori, come tingere col sangue la fronte di Graham. «Non era un bello spettacolo, amico.» Affidò i contenitori nelle mani di Graham. In uno c'era un pezzo di femore carbonizzato dal quale spuntava l'articolazione dell'anca; in un altro un orologio da polso. Il terzo conteneva i denti. L'arco del palato era annerito e spezzato; ne rimaneva solo metà ma si vedeva un incisivo acuminato, inconfondibile. A Graham sembrava di dover dire qualcosa. «Grazie. Grazie tante.» Si sentì ondeggiare leggermente poi si rilassò tutto. «... un pezzo da museo» stava dicendo Aynesworth. «Dobbiamo consegnarlo a quel tacchino, vero Jack?» «Già. Comunque ci sono dei professionisti nell'ufficio del medico legale
di St. Louis. Verranno qui e faranno un ottimo calco. Quello ce lo daranno.» Crawford e gli altri fecero capannello intorno alla macchina del medico legale. Graham rimase solo con la casa. Ascoltò il vento sibilare sui comignoli. Sperava che Bloom potesse venire sul posto, quando si fosse rimesso. Probabilmente sarebbe venuto. Avrebbe voluto conoscere Dolarhyde. Voleva sapere che cos'era successo in quel posto, che cosa aveva fatto nascere il Drago. Ma per il momento ne aveva abbastanza. In cima a un comignolo luccicava un colibrì. Emise un fischio. Graham ricambiò il fischio. Tornava a casa. Sorrise quando si sentì spingere dai potenti jet dell'aereo che lo portava via da St. Louis. Una virata verso il sole, poi verso sud est, finalmente verso casa. Molly e Willy erano già sul posto. «Lasciamo perdere i mi spiace qui mi spiace là. Ti vengo a prendere a Marathon, cocco» gli aveva detto al telefono. Col tempo sperava che avrebbe ricordato i pochi momenti buoni di quella storia... la soddisfazione di veder della gente dedicarsi con impegno al proprio lavoro. Probabilmente avrebbe potuto trovarla dovunque, bastava sapere dove cercare. Sarebbe stato da presuntuoso ringraziare Lloyd Bowman e Beverly Katz. Quindi si limitò a telefonare e a dire che gli aveva fatto piacere ritrovarsi a lavorare con loro. Una cosa lo scocciava un po': quel che aveva provato quando Crawford, a Chicago, si era allontanato dal telefono per dirgli: «È la Gateway». Probabilmente non aveva mai provato una sensazione di gioia così intensa, così sfrenata. Lo seccava ammettere che il più bel momento della sua vita l'aveva avuto in quel locale della giuria, al tribunale di Chicago. Quando, ancora prima di sapere, sapeva. Non aveva detto a Lloyd Bowman cos'aveva provato; non c'era motivo. «Sai, quando gli si è illuminata la lampadina del teorema, Pitagora ha sacrificato cento buoi alle Muse» aveva detto Bowman. «Non c'è niente di più dolce, vero? Non rispondermi... dura di più se non la si spreca parlandone.»
Avvicinandosi a casa — a casa e a Molly — Graham diventava sempre più impaziente. A Miami aveva dovuto scendere sulla pista per salire sul vecchio DC-3 che collegava Miami a Marathon. Gli piacevano i DC-3. Gli piaceva tutto, quel giorno. Il DC-3 — l'Aunt Lula — era stato costruito quando Graham aveva cinque anni e aveva le ali sempre coperte di olio sputato dai motori. Aveva la massima fiducia nell'aereo. Gli corse incontro come se fosse atterrato in uno spiazzo della giungla per venirlo a salvare. Le luci di Islamorada si avvicinarono, poi l'isola scivolò via sotto un'ala. Graham vedeva i frangenti al largo della sponda atlantica. Di lì a qualche minuto sarebbero scesi su Marathon. Era come la prima volta che era arrivato sull'isola. Anche allora era salito sull'Aunt Lula e in seguito molte volte, al tramonto, era andato all'aeroporto a vederlo atterrare, lento e sicuro, con i flap abbassati, le fiamme che uscivano dai tubi di scappamento e tutti i passeggeri al sicuro dietro i finestrini illuminati. Era bello assistere anche al decollo, ma quando il vecchio aereo descriveva un ampio arco verso nord si sentiva triste e vuoto e nell'aria rimaneva il sapore acre degli arrivederci. Aveva imparato a guardare solo gli atterraggi, i saluti d'accoglienza. Questo prima che ci fosse Molly. Con un rutto definitivo, l'aereo si posò sulla pista. Graham vide Molly e Willy in piedi dietro la rete, sotto i riflettori. Willy se ne stava solidamente piantato di fronte alla madre. Non si mosse finché lui non li ebbe raggiunti. Solo allora andò a girellare intorno, a osservare quel che gli interessava. A Graham piaceva proprio per questo. Molly era alta come Graham, un metro e settantacinque. I baci con il viso alla stessa altezza sono piacevoli in pubblico, probabilmente perché di solito capita di scambiarli solo a letto. Willy si offrì di portargli la valigia, Graham preferì affidargli la custodia dei vestiti. Sulla via di casa, verso Sugarloaf Key, con Molly al volante, Graham ricordò i particolari illuminati dai fari, immaginò quelli che non vedeva. Quando nello spiazzo dietro casa aprì la portiera sentì l'ansito del mare. Willy entrò in casa con la custodia in bilico sulla testa; il fondo gli schiaffeggiava i polpacci. Graham si fermò distrattamente nello spiazzo allontanando le zanzare dal viso.
Molly gli accarezzò una guancia. «Sai, dovresti entrare in casa prima che ti mangino.» Annuì. Aveva gli occhi umidi. Molly attese un attimo ancora, si rattrappì e lo guardò dal basso in alto, facendo sbattere le ciglia. «Martini e gin, bistecche, coccole e tutto il resto. Da questa parte, signore... più la bolletta della luce, quella dell'acqua e tutte le interurbane con il mio bambino» aggiunse a labbra strette. Graham e Molly desideravano moltissimo che le cose tra loro tornassero come prima. Quando invece si resero conto che non era così, questa consapevolezza, di cui evitavano di parlare, cominciò a vivere tra loro come un ospite sgradito. Le mutue assicurazioni che cercavano di scambiarsi al buio, di notte, e alla luce, durante il giorno, pareva attraversassero un prisma rifrangente che le portava a mancare il bersaglio. Molly non gli era mai sembrata così bella. Da una dolorosa lontananza Graham ne ammirava la grazia inconsapevole. Lei cercava di dimostrarsi affettuosa, ma era stata nell'Oregon e aveva fatto risuscitare il morto. Willy avvertiva la situazione e con Graham era freddo, educato in maniera irritante. Arrivò una lettera di Crawford. Molly la portò in casa e non ne parlò. Nella busta c'era una foto della famiglia Sherman, tratta da un filmetto casalingo. Nel biglietto che l'accompagnava, Crawford spiegava che nell'incendio della casa di Dolarhyde non tutto era bruciato: rastrellando i campi intorno alla casa era stata trovata la foto insieme a qualche oggetto che l'esplosione aveva scagliato lontano dalle fiamme. «Queste persone probabilmente si trovavano sul suo itinerario» scriveva Crawford. «Adesso ne sono sicuro. Penso che ti farà piacere saperlo.» Graham fece leggere il biglietto a Molly. «Vedi? Ecco perché ne valeva la pena.» «Lo so. Questo lo capisco. Davvero.» Con la luna erano arrivati branchi di pesce persico. Molly preparò una cena al sacco, andarono a pescare, accesero un fuoco per cucinarli ma non erano buoni. Il nonno e mamamma spedirono a Willy una foto del pony e Willy la appese a una parete in camera sua. Passarono cinque giorni a casa: il giorno dopo Graham e Molly sarebbe-
ro tornati a lavorare a Marathon. L'ultimo giorno andarono a pescare nella risacca poi, a piedi, si trasferirono mezzo chilometro oltre la linea curva della spiaggia, in un posto dove altre volte col pesce avevano avuto fortuna. Graham aveva deciso di parlare della loro situazione. La spedizione non cominciò bene. Willy lasciò perdere la canna che Graham gli aveva preparato e portò con sé quella nuova che si era portato dalla casa del nonno. Per tre ore pescarono in silenzio. Graham fu spesso sul punto di aprir bocca ma non gli sembrava mai il momento giusto. Era stufo di non essere accettato. Prese quattro triglie usando pulci della sabbia come esca. Willy invece non prese nulla. Usava un grosso Rapala con tre ami piccoli che gli aveva dato il nonno. Pescava con troppa fretta, gettando e ritirando continuamente la lenza, finché non fu tutto rosso in viso, con la maglietta appiccicata alla pelle. Graham entrò nell'acqua, prese una manciata di sabbia nella risacca, e tornò indietro con due pulci che agitavano le zampette. «Cosa ne diresti di usare una di queste, socio?» disse porgendogliene una. «Adopero il Rapala. Era di mio padre, lo sapevi?» «No» rispose Graham. Lanciò un'occhiata a Molly, che si abbracciò le ginocchia e guardò lontano, verso un'aquila di mare che volteggiava in alto. La vide alzarsi e togliersi la sabbia di dosso. «Vado a preparare qualche sandwich» gli disse. Quando fu lontana, Graham ebbe la tentazione di parlare al ragazzo da solo. No. Willy sentiva quel che sentiva sua madre. Avrebbe atteso, avrebbe parlato a tutti e due quando lei fosse tornata. Questa volta ce l'avrebbe fatta. Ci sarebbe riuscito. Molly tornò di lì a poco, senza i sandwich, camminando a passi rapidi sulla sabbia solida, al bordo dell'acqua. «C'è Jack Crawford al telefono: Gli ho detto che l'avresti richiamato ma ha detto che è urgente» disse osservandosi un'unghia. «Meglio che corri.» Graham arrossì. Piantò il manico della canna nella sabbia e trotterellò verso le dune. Era più breve che fare il giro lungo la spiaggia se non si portavano oggetti che potevano impigliarsi nei cespugli. Sentì un ronzio portato dal vento e, temendo un serpente a sonagli, al
momento di addentrarsi nei cespugli controllò per terra. Vide un paio di stivali, il luccicchio di una lente e un tessuto color kaki apparire di colpo. Si ritrovò a guardare negli occhi gialli di Francis Dolarhyde. Il terrore gli diede un tuffo al cuore. Lo scatto della sicura. Apparve un'automatica, Graham allungò un piede proprio mentre dalla canna usciva una vampata giallo pallida e l'arma finì tra i cespugli. Graham a terra sulla schiena. Un bruciore al fianco sinistro, scivolando all'indietro giù lungo la duna. Dolarhyde balzò in alto e gli atterrò a piedi uniti sullo stomaco. Impugnava un coltello, non alzò nemmeno lo sguardo quando udì l'urlo acuto dalla spiaggia. Bloccò Graham tra le ginocchia, alzò la lama e l'abbassò con un grugnito. Il coltello mancò l'occhio di Graham e si piantò profondamente nella guancia. Dolarhyde si chinò in avanti premendo con il peso del corpo sul manico del coltello per trapassargli il cranio con la lama. La canna sibilò. Molly con tutte le sue forze aveva tirato una frustata al viso di Dolarhyde. I grossi ami Rapala si piantarono in profondità nella guancia, il mulinello fischiò dando corda quando lei tirò indietro la canna per colpire di nuovo. Dolarhyde ruggì, si afferrò il viso e uno degli ami gli si piantò nella mano. Con una mano libera, l'altra attaccata al viso, tirò via il coltello e si mise a rincorrerla. Graham rotolò all'indietro, si rizzò sulle ginocchia, poi in piedi, una luce selvaggia negli occhi e, sputando sangue, si mise a correre. Lontano da Dolarhyde, lontano, finché non si accasciò. Molly fuggì in direzione delle dune, preceduta da Willy. Dolarhyde li rincorreva trascinandosi dietro la canna che rimase presa in un cespuglio costringendolo a fermarsi con un urlo finché non pensò di tagliare la lenza. «Corri Willy, corri, corri! Non guardarti indietro» ansimò Molly. Aveva le gambe lunghe, correva spingendo il figlio davanti a sé; alle loro spalle gli schianti nella boscaglia si facevano sempre più vicini. Avevano cento metri di vantaggio quando si erano buttati nel sottobosco, ne rimanevano settanta quando entrarono in casa. Molly salì di corsa le scale, infilò le mani con furia nell'armadio di Willy. «Tu resta qui» ordinò. E adesso giù per le scale, ad affrontarlo. Giù in cucina, non ancora pronta, impacciata con il caricatore.
Dimenticò la posizione di tiro e dimenticò di mirare con tutti e due gli occhi aperti, ma l'impugnatura era salda e quando la porta esplose verso di lei gli fece un buco grosso come un pugno in una coscia e poi gli sparò in faccia mentre si accasciava contro il battente della porta e gli sparò di nuovo in faccia quando fu seduto a terra e gli corse addosso e gli sparò due volte in faccia mentre lui si abbandonava contro la parete, con i capelli in fiamme che gli nascondevano il viso fino al mento. Willy strappò una striscia da un lenzuolo e andò a cercare Will. Le gambe gli tremavano, cadde diverse volte attraversando lo spiazzo dietro casa. Gli agenti dello sceriffo e le ambulanze arrivarono prima che Molly pensasse di chiamarli. Era sotto la doccia quando entrarono in casa con le pistole spianate. Si strofinava con forza la faccia e i capelli, dov'erano sprizzati sangue e frantumi di ossa. Non fu capace di rispondere quando un agente le chiese qualcosa al di là della tenda della doccia. Finalmente uno degli agenti prese il ricevitore rimasto appeso al filo e rispose a Crawford, che da Washington, aveva sentito gli spari. «Non so, lo stanno portando qui adesso» disse l'agente. Fuori dalla finestra passò la barella. «Mi sembra conciato piuttosto male.» 38 Sulla parete ai piedi del letto c'era un orologio; le cifre erano piuttosto grosse: si potevano riconoscere anche oltre la barriera dei sedativi e della sofferenza. Quando Will Graham riuscì ad aprire l'occhio destro vide l'orologio e capì subito dove si trovava: in un centro di rianimazione. Sapeva che doveva guardare le lancette. Il loro movimento gli dava, la sicurezza che anche questa stava passando, che sarebbe passata. Proprio per questo l'orologio era stato messo lì. Le lancette segnavano le quattro. Non sapeva se erano le quattro del pomeriggio o del mattino e non gliene importava, bastava che si muovessero. Si assopì. Quando riaprì l'occhio erano le otto. C'era qualcuno al suo fianco. Con prudenza mosse l'occhio. Era Molly, guardava fuori dalla finestra. Era smagrita. Cercò di parlare, ma una intensa fitta di dolore gli riempì il lato sinistro del capo quando cercò di muovere la mascella. Testa e torace non pulsavano all'unisono, ma con un ritmo
sincopato. Mugolò nel momento in cui lei uscì dalla stanza. Entrava luce dalla finestra quando lo presero, lo toccarono e gli fecero delle cose che lo costrinsero a tendere le corde del collo. C'era una luce gialla quando vide sopra di sé il volto familiare di Crawford. Si sforzò di ammiccare. Crawford sorrise e Graham vide che aveva un rimasuglio di spinaci tra i denti. Strano. A Crawford le verdure in genere non piacevano. Fece segno che voleva scrivere. Crawford gli fece scivolare il taccuino sotto la mano e gli mise una penna tra le dita. «Willy bene?» scrisse. «Sì, sta bene» rispose Crawford. «Anche Molly. Era qui mentre tu dormivi. Dolarhyde è morto, Will. Te lo giuro, morto. Gli ho preso personalmente le impronte e ho fatto fare il confronto a Price. Nessun dubbio. È morto.» Graham tracciò un punto interrogativo. «Ci arriveremo. Resto qui, ti racconto tutto quando stai bene. Mi fanno stare qui solo cinque minuti.» «Adesso» scrisse Graham. «Il dottore ti ha parlato? No? Allora prima parliamo di te: ti rimetterai. Adesso hai un occhio gonfio per la coltellata in faccia. Ti hanno dato i punti, ma ci vorrà tempo. Poi ti hanno tolto la milza. Del resto a cosa serve? Price l'ha persa in Birmania nel '41.» Un'infermiera batté sul vetro. «Devo andare. Da queste parti non rispettano i tesserini. Quando scade il tempo ti buttano fuori subito. Ci vediamo poi.» Molly era nella sala d'aspetto del centro di rianimazione, insieme a molta altra gente dall'aria disfatta. Le andò incontro. «Molly...» «Ciao, Jack» disse lei. «Tu sì che hai l'aria di star bene. Sei venuto per un trapianto di faccia?» «Non fare così, Molly.» «L'hai visto com'è ridotto?» «Sì.» «Non credevo che sarei stata capace di guardarlo, ma ce l'ho fatta.» «Lo riaggiusteranno. Me l'ha garantito il dottore. Possono farlo. Vuoi che stia qualcuno con te, Molly? Sono venuto giù con Phyllis...»
«No. Non fare più nient'altro per me.» Si voltò, per cercare un fazzoletto. Quando aprì la borsetta Crawford notò la lettera: una busta lussuosa color lavanda che gli era già capitato di vedere. Era una cosa che odiava ma che doveva fare. «Molly.» «Cosa c'è?» «Will ha ricevuto una lettera?» «Sì.» «Te l'ha consegnata l'infermiera?» «Sì. Ci sono anche dei fiori che hanno mandato tutti i suoi amici da Washington.» «Posso vederla?» «Gliela darò io quando avrà voglia di leggerla.» «Per favore, fammela vedere.» «Perché?» «Perché è meglio se non legge quel che scrive quella... certa persona.» Non doveva avere usato l'espressione giusta perché Molly guardò la lettera e la lasciò cadere con la borsetta e tutto. Un rossetto rotolò sul pavimento. Chinandosi per raccoglierla, Crawford sentì il ticchettio dei tacchi che si allontanavano rapidi. Molly scappava abbandonando la borsetta. La consegnò all'infermiera. Crawford sapeva che era pressoché impossibile per Lecter procurarsi il materiale che gli sarebbe stato necessario ma era sempre meglio non correre rischi. Fece fare un esame fluoroscopico della lettera al reparto raggi X, poi la aprì su tutti e quattro i lati con un tagliacarte per vedere se c'erano macchie o tracce di polvere: si poteva trovare la soda al Chesapeake Hospital; c'era anche una farmacia. Finalmente rassicurato, lesse: Caro Will, Ed eccoci qui, tu ed io, a languire nei rispettivi ospedali. Tu sopporti le tue sofferenze, io la mancanza di libri: il sapiente dottor Chilton ha ordinato che mi venissero tolti. Ci troviamo a vivere in un'epoca barbara, vero, Will? — un'epoca che non è né saggia né selvaggia. La sua maledizione sono le
mezze misure. In qualunque società razionale o mi avrebbero ucciso o mi avrebbero lasciato i miei libri. Ti auguro una rapida convalescenza e spero che non ne uscirai troppo imbruttito. Ti penso spesso. Hannibal Lecter L'addetto alle radiografie guardò l'orologio. «Ha ancora bisogno di me?» «No. Dov'è l'inceneritore?» Quando tornò, quattro ore dopo, per i cinque minuti di visita non trovò Molly né in sala d'attesa né nel reparto rianimazione. Graham era sveglio. La prima cosa che disegnò fu un punto interrogativo. «Come è morto D.?» scrisse sotto. Crawford glielo spiegò. Graham per un minuto rimase assolutamente immobile, poi scrisse: «Scappato come?». «Bene» disse Crawford. «Partiamo da St. Louis. Dolarhyde dev'essere andato a cercare Reba McClane. È entrato nel laboratorio quando c'eravamo noi e ci ha visti. Hanno trovato le impronte sulla finestra del locale caldaie: l'hanno riferito solo ieri.» Sul taccuino: «Corpo?». «Pensiamo che fosse quello di un tizio che si chiamava Arnold Lang: è scomparso. Hanno trovato la sua auto a Memphis. Era stata distrutta. Tra un minuto mi buttano fuori. Ti racconto come sono andate le cose per ordine. «Dolarhyde sapeva che gli eravamo addosso. Ci è filato via sotto il naso alla Baeder ed è andato in macchina a una stazione di servizio della Servco Supreme a Lindbergh, sulla statale 270, dove lavorava Arnold Lang. «Reba McClane ha detto che Dolarhyde aveva litigato con l'addetto di una stazione di servizio due sabati fa. Pensiamo che si trattasse di Lang. «Ha fatto fuori Lang e ha portato il corpo a casa. Poi è andato a cercare Reba McClane. Lei stava abbracciando Ralph Mandy davanti alla porta. Lui ha sparato a Mandy e lo ha trascinato sotto la siepe.» Entrò l'infermiera. «Per l'amor del cielo, è una faccenda della polizia» esclamò Crawford. L'ultima frase la disse in fretta, mentre l'infermiera lo portava fuori tirandolo per la manica. «Ha cloroformizzato Reba McClane e ha portato anche lei a casa. Là c'era il corpo dell'altro» disse dal corridoio. Per sapere il seguito del racconto Graham dovette aspettare quattro ore.
«Le ha raccontato un po' di storie. "Ti uccido o non ti uccido?"» annunciò Crawford entrando. «Sai tutta la storia della catenina al collo... l'ha fatto per essere sicuro che lei toccasse il cadavere. Così avrebbe potuto dirci che era sicura di aver toccato un cadavere. Bene, allora fa la scena. "Non sopporto di vederti bruciare" dice e fa saltare la testa a Lang con il calibro dodici. «Lang era perfetto. E poi anche a lui mancavano i denti. Forse Dolarhyde sapeva che l'arcata dentale molte volte sopravvive agli incendi... chissà cosa sapeva? Comunque dopo che lui gli aveva sparato, Lang non aveva più l'arcata dentale. Gli ha fatto saltar via la testa e deve aver rovesciato una poltrona o qualcosa del genere per simulare il rumore del corpo che cadeva. La chiave gliel'aveva già messa al collo. «A questo punto Reba si muove a tastoni per cercare la chiave. Dolarhyde da un angolo controlla. La ragazza è stordita per gli spari, non sente i rumori che fa lui. «Ha fatto partire l'incendio ma non ci ha ancora buttato su la benzina. Reba deve uscire dalla stanza sana e salva. Se si fosse lasciata prendere dal panico, se fosse andata a sbattere contro un muro o fosse rimasta bloccata, immagino che le avrebbe dato una botta in testa per poi portarla fuori: non avrebbe capito in che modo era riuscita a uscire. Ma perché il marchingegno funzionasse lei doveva uscire di casa. Oh, diavolo. Ecco di nuovo l'infermiera.» Graham scrisse in fretta: «Con che macchina?». «Bisogna ammirarlo» rispose Crawford. «Sapeva che avrebbe dovuto lasciare il furgone davanti alla casa. Non poteva andar là con due mezzi, e uno gli serviva per tagliare la corda. «Ecco cos'ha fatto: ha costretto Lang ad attaccare il suo furgone al carro attrezzi. Poi l'ha fatto fuori, ha chiuso il distributore e si è trainato il furgone a casa. Ha lasciato il carro attrezzi in una stradina nei campi dietro casa, ha ripreso il furgone ed è andato a prendere Reba. Quando ha visto che lei era sana e salva, ha tirato fuori la dinamite, ha versato la benzina e ha tagliato la corda da dietro. Con il carro attrezzi è tornato alla stazione di servizio e ha preso la macchina di Lang. Tutto quadra. «Ci sono diventato matto sopra finché non abbiamo capito com'era andata. È confermato, perché ha lasciato un paio di impronte sulla sbarra del carro attrezzi. «Probabilmente l'abbiamo incontrato sulla strada mentre stavamo andando a casa sua... sì, signora. Vengo. Sì, signora.»
Graham voleva fargli ancora un'altra domanda, ma era troppo tardi. Il turno successivo fu occupato da Molly. Sul taccuino di Crawford Graham scrisse: «Ti amo». Molly annuì e gli tenne la mano. Un minuto dopo un'altra domanda: «Willy sta bene?». Lei annuì. «Qui?» Sollevò lo sguardo troppo in fretta. Gli lanciò un bacio con la bocca e indicò l'infermiera in arrivo. Graham la trattenne per il pollice. «Dove?» insistette, sottolineando due volte la parola. «Oregon» gli rispose. Crawford si fece vedere un'ultima volta. Graham aveva la domanda già pronta: «I denti?». «Di sua nonna» rispose Crawford. «Quelli che abbiamo trovato in casa erano di sua nonna. La polizia di St. Louis ha trovato un certo Ned Vogt: la madre di Dolarhyde era sua matrigna. Vogt da bambino aveva visto la signora Dolarhyde e non aveva mai potuto dimenticare i denti. «Ecco cosa volevo dirti al telefono quando ti è arrivato addosso Dolarhyde. Mi avevano appena telefonato dallo Smithsonian. Erano finalmente riusciti a farsi dare la dentiera dalle autorità del Missouri, volevano esaminarla per pura soddisfazione, e avevano notato che la parte superiore era di vulcanite e non di resina acrilica come si usa oggi. Sono trentacinque anni che non si fanno più dentiere di vulcanite. «Dolarhyde ne aveva una di resina, uguale a quella della nonna ma su misura per lui. E ce l'aveva in bocca. Quelli dello Smithsonian hanno analizzato l'altra e hanno detto che era di fabbricazione cinese. Quella vecchia invece era svizzera. «Gli abbiamo trovato addosso una chiave di una cassetta di sicurezza di Miami e dentro ci abbiamo trovato un registro enorme. Una specie di diario... una cosa da far spavento. Me lo procurerò quando lo vorrai vedere. «Senti, amico, devo tornare a Washington. Se appena posso vengo giù per il weekend. Mi prometti che starai bene?» Graham tracciò un punto interrogativo, lo cancellò e scrisse: «Certo». Quando Crawford se ne fu andato arrivò l'infermiera. Gli fece un'endovenosa di calmante e le lancette divennero confuse, non riusciva a seguire il movimento di quella dei minuti. Si chiese se il calmante riusciva ad agire anche sui sentimenti. Per un po'
sarebbe riuscito a trattenere Molly, con la sua faccia. Per lo meno finché non gliel'avrebbero rimessa a posto. Sarebbe stato meschino. Perché trattenerla? Stava per addormentarsi, sperò di non sognare. Si lasciò andare alla deriva tra sogni e ricordi: non era poi tanto brutto. Non sognò né che Molly lo lasciava né di Dolarhyde. Era un lungo sogno, che si riallacciava a vecchi ricordi di Shiloh, interrotto da una lampada puntata sul viso e dall'ansito del misuratore della pressione... Era primavera, quando Graham era andato a vedere Shiloh. Poco tempo prima aveva ucciso Garrett Jacob Hobbs. In una tiepida giornata d'aprile aveva attraversato la strada asfaltata in direzione dello Stagno di Sangue; l'erba appena spuntata, ancora color verde tenero, ricopriva il pendio che scendeva fino alla riva. L'acqua limpida aveva ricoperto il prato e, sotto la superficie si vedeva l'erba scendere giù, giù, come se arrivasse fino in fondo. Graham sapeva che cos'era successo lì nell'aprile del 1862. Sedette sull'erba e l'umidità gli bagnò i calzoni. Passò l'automobile di un turista e un attimo dopo Graham sulla strada vide qualcosa muoversi. L'auto passando aveva schiacciato la spina dorsale a un orbettino che descriveva interminabilmente degli otto sull'asfalto, mostrando a volte il dorso scuro, a volte il ventre pallido. La presenza paurosa di Shiloh lo circondava di gelo, malgrado sudasse sotto il sole primaverile. Si alzò, con i calzoni bagnati. La testa gli girava. Il serpente continuava a girare su se stesso. Graham rimase un attimo immobile sopra il rettile, afferrò un'estremità della coda e, con un lungo movimento fluido, lo uccise frustandolo violentemente sull'asfalto. Il cervello del serpente finì nello stagno. Un pesce affiorò per inghiottirlo. Shiloh gli era sembrato un posto maledetto, di una bellezza sinistra, come quella delle bandiere. Ora, invece, oscillando fra i ricordi e il sonno indotto dall'anestetico, si rese conto che Shiloh non era sinistro: era indifferente. La bellezza di Shiloh poteva assistere a qualunque fatto. Quella bellezza indimenticabile si limitava a sottolineare l'indifferenza della natura, della Macchina Verde. La grazia del luogo imitava la nostra vita. Si svegliò e guardò l'orologio implacabile, ma non riuscì a fermare i pensieri: Nella Macchina Verde la compassione non esiste; siamo noi che la pro-
duciamo, la fabbrichiamo con quelle parti del cervello che hanno ricoperto il primitivo nocciolo interno, uguale a quello dei rettili. Non esistono delitti. Siamo noi a definirli tali; riguardano solo noi. Sapeva anche troppo bene di avere in sé tutti gli elementi che portano al delitto; forse anche la compassione. Però comprendeva bene — sgradevolmente bene — il desiderio di uccidere. Si chiese se nel gran corpo dell'umanità, nella mente degli uomini civilizzati, gli impulsi crudeli che controlliamo dentro di noi e l'oscura consapevolezza istintiva della loro esistenza funzionino come i virus uccisi che servono al corpo per elaborare le proprie difese. Si chiese se quei vecchi impulsi orrendi sono i virus che producono il vaccino. Sì, si era sbagliato a proposito di Shiloh. Shiloh non è maledetta... sono gli uomini a esserlo. Shiloh è indifferente. E ho condotto il mio cuore a conoscere la sapienza, e anche a conoscere la pazzia e la stoltezza; e ho riconosciuto che questo ancora è un tormento dello spirito. ECCLESIASTE FINE