Il respiro del ghiaccio

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Brian Freeman

Il Respiro del Ghiaccio Titolo originale The Burying Place 2011 Traduzione di Alfredo Coluto

Per Marcia «Ah, anche tu qui, Iago? Sei stato bravo, tutti ora addosseranno a te la colpa.» Otello

Prologo Kasey Kennedy guidava fendendo una cascata di foglie morte. A ogni folata di vento, proiettili di carta vorticavano fuori dalla nebbia e sbattevano contro il parabrezza della sua auto. Rat-ta-ta-ta. Kasey aveva un soprassalto a ogni colpo. Stringeva con forza il volante e aguzzava la vista per scrutare attraverso la nebbia, ma le luci dell'auto riuscivano a illuminare a malapena cinque metri di asfalto bagnato. Accese gli abbaglianti, ma fu anche peggio. Era come puntare una torcia elettrica contro uno specchio: la luce le tornava dritta negli occhi. Il mondo era come un lenzuolo di garza avvolto intorno alla sua auto. Niente illuminazione stradale. Niente cartelli. Niente linee di mezzeria. Niente a guidarla. Era cieca e smarrita. «Ma dove diavolo sono?» si chiese a voce alta. Di sicuro non era dove avrebbe dovuto essere. Nel tratto in cui attraversava i terreni coltivati a nord di Duluth, Minnesota, la Highway 43 procedeva a zig-zag e in un punto Kasey doveva aver sbagliato strada. Poi, nel tentativo di rimediare all'errore, aveva svoltato molte altre volte, con l'unico risultato di perdere del tutto il senso dell'orientamento. Non poteva essere molto lontana da casa, ma in mezzo a quella nebbia un chilometro sembrava una distanza smisurata. Un'occhiata allo specchietto retrovisore le rimandò la propria espressione preoccupata. I capelli ricci e di colore rosso acceso le scendevano sulla fronte, bagnati di pioggia e sudore. I suoi grandi occhi blu erano velati di lacrime. Gli zigomi lentigginosi erano arrossati, come quelli di una ragazzina che ha commesso una marachella. Cercò di sorridere, ma non riuscì a fingere nemmeno con se stessa. Aveva fatto uno sbaglio terribile. Si era allontanata dalla faccia della Terra e ora non sapeva più come tornare indietro. Aveva lasciato a casa il cellulare e non possedeva un navigatore GPS. L'unica cosa che la faceva sentire meglio era la pistola sul sedile del passeggero. In quel periodo, le donne che vivevano nelle zone rurali del Nord dormivano, mangiavano e facevano la doccia con una pistola a portata di mano. Kasey la portava con sé ogni giorno, per lavoro, tuttavia non aveva mai dovuto sfoderarla. Lavorava per la polizia di Duluth, ma non era il tipo di agente che si occupava di spacciatori o di rapine a mano armata. Jonathan Stride e Maggie Bei, i capi del Detective Bureau che gestiva i reati gravi, probabilmente non sapevano neanche chi fosse. Il suo settore erano i

bambini che rompevano le finestre, le teste calde nei bar di Lakeside; controllava le segnalazioni delle macchine avvistate in mezzo ai boschi e di solito ci trovava dentro degli adolescenti che pomiciavano. Era quello il suo pane quotidiano. In teoria un poliziotto non dovrebbe mai aver paura, ma in quel momento Kasey era terrorizzata. Erano giorni che non dormiva bene. Tirava avanti grazie alla caffeina e all'adrenalina. I suoi nervi, già a pezzi, minacciavano di cedere nel corso di quel viaggio che durava ormai da due ore. Incapace di controllare l'ansia, si sentiva stordita dalla confusione e dal panico. Guardò nuovamente nello specchietto. «E ora che faccio?» La pioggerella all'esterno divenne più intensa. Alcune foglie cadute si incollarono al vetro, simili a mani le cui dita tese sembravano volersi fare strada all'interno del veicolo. La nebbia cominciò a giocarle brutti scherzi. Le pareva di vedere cervi attraversare con un balzo la strada, sagome di bambini immobili di fronte a lei. Le allucinazioni erano così reali che, quando vide una macchina ferma davanti a sé, sterzò con forza per togliersi dalla sua traiettoria e premette sull'acceleratore per dare velocità alla sua vecchia Cutlass. Fu un altro errore. Un errore che avrebbe cambiato tutto. La strada asfaltata svanì sotto le ruote e si tramutò in uno sterrato. Rami d'albero si allungavano da ogni lato a graffiarle le portiere. I solchi irregolari su cui l'auto procedeva facevano vibrare tutto il telaio. Non era più sulla superstrada, ma su un sentiero che si addentrava nella foresta. Kasey si fermò. La pioggia picchiettava sul parabrezza. Si coprì la metà inferiore del volto con una mano, il respiro affannato e rumoroso. Chiuse gli occhi e pregò che la nebbia si sollevasse, ma quando li riaprì era ancora avvolta nella caligine. Sapeva di non poter restare lì. Doveva capire dov'era finita e ritrovare la strada di casa. Spense il motore, i fari e aprì la portiera. L'aria di novembre, fredda e profumata di pino, entrò nel veicolo. Kasey scese e gli stivali affondarono nel fango. I sempreverdi ondeggiavano sopra di lei come ubriachi. Superò gli alberi e si addentrò nel buio. Quando i suoi occhi si furono abituati all'oscurità, vide che si trovava al limitare di un campo di mais non arato da anni. Steli corti e nodosi spuntavano dal terreno. Sembrava un desolato panorama lunare. Molti dicevano di amare l'autunno del Minnesota, ma Kasey lo detestava. Per lei era il preludio al lungo periodo di morte dell'inverno. Gli alberi si stavano già scrollando di dosso le foglie e somigliavano sempre più a

scheletri congelati. Kasey era felice di sapere che non avrebbe visto la fine del suo quarto inverno nel Minnesota. Non vedeva l'ora di fuggire con la sua famiglia nel deserto del Nevada, al caldo, di doversi riparare gli occhi contro il sole splendente. Ma quel momento era ancora lontano. Nel presente, la situazione era ben diversa. Kasey capì cos'era successo. Colta dal panico, era uscita dalla superstrada ed era finita su uno sterrato che conduceva verso una delle tante fattorie di Duluth. Riusciva a distinguerne il tetto a punta e le finestre scure. Annusando l'aria, sentì un odore di legna bruciata. Accanto alla casa scorse la base di una torre d'acciaio e tra i refoli di nebbia vide anche le pale di un mulino a vento stagliarsi contro il cielo e girare con lenta eleganza. Tornò rapidamente sui propri passi. Non poteva rischiare di allontanarsi troppo dall'auto. Risalì a bordo del veicolo e imprecò quando le chiavi le scivolarono tra le dita. Si piegò in avanti per recuperarle sul pavimento della Cutlass e batté la testa sul volante. Poi sentì un tonfo. Qualcuno batteva sul vetro. Kasey si tirò su e gridò. A meno di venti centimetri da lei c'era un volto di donna, simile a uno spaventapasseri dipinto a colori sgargianti. Kasey vide occhi verdi carichi di follia, capelli corvini resi appiccicosi dall'acqua e due mani premute in un gesto di supplica contro il vetro. Il collo sottile della donna era circondato da quello che sembrava un collarino rosso, ma che in realtà era una profonda abrasione dalla quale gocciolavano perle di sangue. «Aiuto. Oh, Dio, aiutami!!» Kasey si immobilizzò. La donna picchiò i pugni contro il vetro. Indossava una camicia da notte di flanella. Una manica era strappata e ampie lacerazioni sul petto lasciavano scoperto il seno. «Fammi entrare, per favore!» La donna non attese il permesso. Spalancò la portiera posteriore e salì a bordo. Kasey avvertì l'odore della paura, accompagnato da quello pungente e nauseabondo di feci e urina. La donna le affondò le unghie in una spalla e la scosse come una bambola. «Metti in moto! Subito! Non capisci? Lui sta venendo a prenderci!» Kasey afferrò la pistola dal sedile del passeggero e si girò verso l'inaspettata passeggera. «Cosa sta succedendo? Chi sei?» La donna si appoggiò allo schienale del sedile e si coprì il volto con le mani. «Oh mio Dio, sei con lui? Fai parte anche tu di tutto questo? Ti prego, ti prego, per l'amor di Dio. Anche io sono una madre. Non uccidermi, lasciami andare.» Quando aprì con un calcio la portiera per fuggire, Kasey si allungò

oltre il sedile e l'afferrò per un braccio. «Sono una poliziotta!» gridò. «Ferma!» La donna esitò. Quell'informazione penetrò lentamente nella sua coscienza, come se non osasse credervi. Si accorse dell'uniforme di Kasey. Vide il distintivo. «Sei della polizia?» «Sì. Ora vuoi dirmi cosa ti è successo?» «Oh, grazie a Dio!» gridò la donna, sollevata. «Dobbiamo andare via di qui. Non c'è tempo. Ci ammazzerà tutte e due. Sbrigati!» Kasey allungò una mano verso il cruscotto, poi ricordò che le chiavi erano ancora sul pavimento dell'auto. Si piegò e tastò alla cieca sul tappetino. Quando strinse le dita intorno alle chiavi, udì un grido di panico alle sue spalle. «E' troppo tardi! Oh, mio Dio, è qui!» Kasey sollevò di scatto la testa. Con un gesto rapido accese i fari e, quando i due raggi di luce illuminarono la notte, vide la sagoma nera di un uomo a circa tre metri di fronte all'auto. Era privo di volto, come un mostro acefalo, poi Kasey capì che aveva un passamontagna calato in testa. «Uccidilo!» Kasey sollevò la pistola, ma l'uomo si gettò in ginocchio e rotolò su un fianco. Lei afferrò le chiavi e accese il motore, che partì con un rombo. Ingranò la retromarcia e premette l'acceleratore a tavoletta. L'auto scattò all'indietro, sbandando. Prima che Kasey potesse riprenderne il controllo, finì nell'erba alta e andò a sbattere contro il tronco di un albero. Sui finestrini si riversò una pioggia di aghi di pino e piccoli ramoscelli. L'impatto le fece cadere la pistola di mano, che scomparve tra il sedile del passeggero e la portiera di destra. «Merda, mi è caduta la pistola!» «Oh mio Dio!» gridò la donna. Kasey si allungò sul sedile per recuperare l'arma, ma non fu abbastanza veloce. Quando alzò gli occhi, l'uomo era già davanti al finestrino. I suoi occhi neri scintillarono nell'oscurità, e per mezzo secondo i due si fissarono attraverso il vetro. Kasey credette di vederlo sorridere. Lui allungò la mano verso la maniglia della portiera. La donna sul sedile posteriore fu presa dal panico. Gridò e cercò di fuggire, la reazione di un animale ferito. Spalancò la portiera e schizzò fuori nella notte, correndo a piedi nudi oltre la fattoria, verso la fitta boscaglia immersa nella nebbia. L'uomo abbandonò la sua posizione e prese a inseguirla. In un istante, anche lui scomparve alla vista. Kasey rimase sola. Voleva soltanto allontanarsi da lì alla svelta. Scappare e mettersi al sicuro. Fingere che non fosse accaduto nulla. Voleva tornare sulla superstrada, cancellare gli ultimi cinque minuti dalla sua mente e percorrere quelle strade deserte fino a trovare la via di casa. Ma non poteva abbandonare quella donna e il suo inseguitore nei boschi. Era suo dovere seguirli. Kasey recuperò la pistola incastrata tra la portiera e il sedile e uscì dall'auto,

chiudendo a chiave entrambe le portiere. Una volta all'esterno si fermò, indecisa. Si premette la mano destra sulla fronte e inspirò ed espirò più volte, prendendo respiri lunghi e rumorosi, per cercare di placare il terrore. Era zuppa di sudore. Rimase in ascolto. Da un punto poco distante provenne un grido, e cercò di individuare la direzione del suono. La sua mente le disse di nuovo: Scappa. Kasey non aveva altra scelta se non ignorare ciò che le suggeriva il suo istinto. Si mise a correre, con il cuore in gola e lo stomaco contratto. Su entrambi i lati, i pini incombevano come soldati. Kasey si fece strada tra i rami, cercando di scorgere qualcosa, ma la nebbia la rendeva pressoché cieca. Si ritrovò in una radura di erba bagnata e riprese a correre con maggior lena, fino a quando il tratto erboso terminò di fronte a una linea di betulle. Si fermò e si mise in ascolto, cercando di distinguere altri suoni oltre a quello del suo respiro. Da un punto più avanti nel bosco giunse fino a lei un rumore di rami spezzati e di passi pesanti. Kasey li seguì. Procedette in mezzo a rovi affilati che le strapparono le maniche. In quel punto gli alberi erano fitti come passeggeri in una stazione all'ora di punta. Teneva la pistola puntata verso il cielo. I piedi inciampavano spesso nelle radici o nelle irregolarità del terreno. I capelli rossi e bagnati erano appiccicati alla faccia. Quasi inconsciamente si rese conto che stava piangendo, ma si sforzò di mettere da parte le proprie emozioni. Non aveva fatto tutta quella strada per arrendersi proprio ora. Si fece forza e sentì un'energia fredda e impetuosa crescere dentro di lei. Mentre correva udì un rombo sotto di sé. Capì di cosa si trattava solo quando il terreno sotto i suoi piedi era già diventato d'aria. Lo slancio l'aveva spinta oltre il bordo di un ripido pendio, lungo il quale capitombolò sbattendo sul terreno fangoso e contro gli alberi. Tutto ciò che aveva in tasca fuoriuscì durante la caduta. Perse anche il distintivo e lo stivale destro. Cadde per cinque, dieci, quindici metri e finalmente atterrò sul terreno fradicio ai piedi della collina. Cercò di pensare in modo lucido. Sembrava non avere niente di rotto. Si alzò lentamente e, con sollievo, si rese conto che impugnava ancora la pistola. Era vicina a una cascata. Finalmente capì dove si trovava: al confine del Lester River, nel punto dove scorreva a sud verso il Lago Superior. Visitava spesso quell'area nei suoi giri di pattuglia, e sapeva che un ponte della superstrada attraversava il fiume a una cinquantina di metri da lì. Sarebbe bastata una curva a riportarla sulla Highway 43. In quella notte di orrori, si era persa ad appena dieci minuti da casa. Un altro grido, proveniente dalla sponda opposta, si levò sopra il rumore del fiume. Kasey inciampò sull'erba paludosa lungo la riva e si bagnò fino alle caviglie. Il fiume era largo non più di cinque metri da sponda a sponda, ma

Kasey non aveva considerato che la vicinanza delle rapide rendeva la corrente più impetuosa. Rabbrividendo, entrò in acqua ma perse subito l'equilibrio. La corrente la trascinò con sé, fino a quando riuscì a far presa con i piedi sulle rocce scivolose del fondo. Raggiunse a fatica la riva opposta, e affondò le dita nel terreno argilloso. Con un gemito silenzioso, uscì dal fiume e si ritrovò sull'erba morbida. Stringeva ancora in mano la pistola. Era bagnata fradicia e stava congelando. Tutto il suo corpo era scosso da brividi. Si chinò per passare sotto i rami di un enorme abete canadese e procedette tra rami caduti che si spezzavano sotto i suoi piedi. Poco più avanti individuò una costruzione in blocchi di cemento, un caseificio abbandonato davanti al quale passava tutte le settimane durante la ronda. Da un punto dietro l'edificio giunse un grido soffocato. Con entrambe le mani, Kasey puntò la pistola davanti a sé e si diresse verso il lato posteriore del caseificio. La muratura era piena di crepe e la vernice scrostata. Le finestre erano rotte e coperte da una rete metallica. Passò accanto a un serbatoio di propano arrugginito. Lentamente, girò l'angolo e si ritrovò nell'ampio prato dietro la costruzione. Erano lì. Tutti e due. Bagnati fino alle ossa. L'uomo stringeva un filo metallico intorno al collo della donna, affondandolo nella striscia insanguinata che le aveva procurato in precedenza. Lei cercava di lottare, agitando braccia e gambe, ma era troppo debole. Quando l'uomo vide Kasey, strattonò il corpo della donna davanti a sé, per usarlo come scudo. Si riusciva a intravedere solo uno dei suoi occhi scuri, che scintillava nell'oscurità. Kasey puntò la pistola. Le tremavano le braccia, infreddolite e stanche. «Lasciala andare.» Erano uno di fronte all'altra, separati da circa cinque metri di nebbia e tenebre. Kasey sapeva che difficilmente sarebbe riuscita a centrare il bersaglio. Si concentrò su ciò che riusciva a vedere del corpo dell'uomo. Metà della testa. La sagoma di una spalla. La gamba destra. Era più alto della donna che teneva in ostaggio, e teneva le ginocchia piegate, come a volersi accovacciare dietro di lei. «Lasciala andare subito» ripetè Kasey. «Poi scappa, se vuoi.» «Butta la pistola e la lascerò andare.» «Fa' come dico o sparo.» «Rischiando di uccidere anche lei? Non ci credo.» Kasey si avvicinò di un passo. L'uomo indietreggiò, tirando con sé la donna, i cui piedi sfioravano il terreno. «Te l'ho già detto. Vattene.» Il cappio strozzò la donna, lasciandola senz'aria. I suoi occhi sporgevano dalle orbite. Era quasi morta.

Kasey prese la mira. Piantò i piedi nel terreno umido. Espirò lentamente e sentì un'ondata di calma sulla pelle fredda. Rilassò il dito sul grilletto. Dietro la maschera, l'uomo la provocò: «Non lo farai». Kasey sparò.

Parte Prima ATTACCO DI PANICO 1 Jonathan Stride guardò il coltello cadere a terra. Era un effetto naturale, la caduta del coltello. Lo aveva appoggiato male sul bancone ed era scivolato, con la lama rivolta verso il basso. Ma nell'ultimo mese, nulla era stato semplice per Stride. I suoi occhi seguirono la traiettoria del coltello, e anche lui precipitò. Non si trovava più nella casetta di legno in cui si era trasferito per riprendersi dalle ferite. Era sopra Superior Bay, e sfrecciava attraverso i quaranta metri d'aria che lo separavano dallo specchio d'acqua sottostante. Sentì la velocità scorrere nel suo corpo diventato un missile. Soffrì il senso di impotenza e la paura di quei tre lunghi secondi. Sentì il lancinante dolore dell'impatto, le ossa che si spezzavano, l'acqua che arrestava il flusso dell'ossigeno, le luci intorno a lui che si spegnevano e diventavano gelo e oscurità. Tutto ciò che aveva cercato di dimenticare gli tornò di colpo alla mente. Stride spalancò gli occhi. Era nella piccola cucina della baita, con i palmi delle mani poggiati sul bancone di granito. Si portò una mano al collo per controllare le pulsazioni: il cuore gli batteva a mille. Si chiese quanto tempo fosse durata "l'assenza", questa volta. Il coltello era in posizione verticale, con la punta conficcata nel pavimento di legno, ma non vibrava come un diapason. Stride capì di essere rimasto immobile, rapito dal flashback, per un minuto o forse più. Sentì le ginocchia cedere e si sorresse allo schienale di una sedia. Si sedette e poggiò il mento sui pugni chiusi. Gradualmente, il ricordo svanì. Riprese a respirare a un ritmo normale. Studiò l'interno della baita e soffermò lo sguardo sui mobili, per ricordare a se stesso di essere lontano dal ponte. Il divano di tweed marrone. La testa di cervo appesa al muro, con le corna ramificate e gli occhi fissi. Le foto anni Venti di tristi lavoratori nelle miniere di ferro. La porta di quercia della stanza da letto, dove dormiva Serena, ignara che, per lui, questa era la decima notte insonne di fila. Stride si passò una mano attraverso la zazzera di capelli brizzolati. Si alzò, raccolse il coltello da terra e aprì il frigorifero per prendere una bottiglia d'acqua mezza piena. Si fece scivolare in mano alcune pastiglie di Advil e le inghiottì aiutandosi con un lungo sorso dalla bottiglia. Quando richiuse il frigo, vide il proprio riflesso sullo sportello del forno e non gli piacque. La pelle del volto dai lineamenti duri era pallida. Gli occhi scuri erano stanchi. Entrò in sala trascinando leggermente la gamba sinistra. Quando era

precipitato dal ponte si era fratturata e aveva dovuta tenerla ingessata per sei settimane. Ora aveva ripreso a camminare senza l'aiuto di un sostegno, ma il dolore quotidiano gli rammentava che non era ancora guarito. Faceva sedute di fisioterapia nella vicina città di Grand Rapids quattro volte alla settimana. Praticava esercizi di respirazione per restituire la massima capacità ai propri polmoni, che erano collassati all'impatto con l'acqua. Migliorava, ma lentamente. Ciò che non aveva mai ammesso con Serena era che, se da una parte le sue condizioni fisiche erano in ripresa, la sua salute mentale si stava deteriorando. Due mesi prima, mentre saliva a bordo della sua Ford Expedition, gli erano cadute le chiavi. All'improvviso, la vista e il rumore delle chiavi che toccavano terra avevano riportato al presente una tempesta di ricordi della sua caduta. L'attacco di panico era stato pesante, come un fuoco che consuma tutto l'ossigeno in una stanza. Si disse che si era trattato di un episodio isolato, ma alcuni giorni dopo era successo di nuovo. E poi ancora. Nell'ultimo mese prima di riprendere il lavoro come tenente della polizia di Duluth, Stride aveva deciso di allontanarsi dalla città. Lui e Serena si erano trasferiti in una baita per pescare, passeggiare e fare l'amore. Ma non avevano fatto quasi nessuna di queste cose. Lui era sprofondato sempre di più in se stesso, allontanandosi dal lavoro, dalla vita e persino da Serena. Tra una settimana avrebbe dovuto riprendere servizio al Detective Bureau e non era sicuro di essere abbastanza in forma da riuscirci. Stride vide lampeggiare la luce rossa sul BlackBerry. Era arrivata una nuova e@mail. Fece scivolare il telefono fuori dalla custodia e vide che il messaggio era della sua partner a Duluth, Maggie Bei. L'oggetto era: Numero Quattro. Stride si irrigidì, a disagio, perché sapeva cosa significava. Il testo era una breve comunicazione: «Porta qui il culo alla svelta, capo. È stato rinvenuto un corpo vicino al fiume Lester». Nell'ultimo mese, tre donne erano scomparse dalle loro case, nella zona delle fattorie a nord di Duluth. Nonostante accurate ricerche, non era stata rinvenuta alcuna traccia, ma gli indizi suggerivano che fossero state tutte aggredite. Ora il criminale aveva colpito una quarta volta e si era lasciato un cadavere alle spalle. Stride si sentiva frustrato dal fatto che il peso di una delle più gravi serie di crimini verificatesi in città negli ultimi anni ricadesse tutto sulle spalle di Maggie, mentre lui lottava contro le proprie ferite in un bosco a poco più di un'ora di distanza. Si fidava dell'istinto investigativo di Maggie, ma entrambi preferivano lavorare in squadra. Senza di lui, lei si sentiva alla deriva. E lo stesso accadeva a Stride. Forse avrebbe dovuto anticipare il rientro e presentarsi al lavoro l'indomani. O forse era meglio non tornare più.

Non rispose al messaggio. Non ne ebbe l'occasione. Prima di poter digitare anche un solo carattere, i fari di un'auto illuminarono la stanza. Guardò fuori dalla finestra e vide un'auto appartenente all'ufficio dello sceriffo della contea di Itasca fermarsi sul terreno bagnato vicino alla sua Expedition. I fari si spensero, una donna in uniforme scese dal veicolo e si diresse verso la porta di casa. La conosceva. Con l'uniforme, la si sarebbe potuta scambiare per una poliziotta di pattuglia, ma Denise Sheridan era il vice-sceriffo della contea di Itasca. Era la cosa più vicina a una controparte di Stride nella vasta e scarsamente popolata campagna a nordovest di Duluth. Aprì la porta. Era una notte fredda, e il vento spargeva foglie di quercia sul pavimento di legno duro. «Ciao, Stride» disse Denise, passandogli accanto ed entrando nella sala della baita senza che lui l'avesse invitata a farlo. «Ciao, Denise.» La donna odorava di fumo e sudore. Aveva i pantaloni bagnati all'altezza delle ginocchia e i suoi stivali lasciarono chiazze di fango sul pavimento. Mentre Stride chiudeva la porta, Denise diede una rapida occhiata intorno. «Cosa ci fai in questo posto sperduto?» chiese, mordicchiandosi un'unghia. «Ho impiegato venti minuti a trovarti in mezzo a queste stradine.» «Convalescenza» rispose. «Sì, ho saputo della tua caduta. È bello constatare che non ci hai lasciato le penne.» Denise non perdeva tempo in convenevoli. Da quando Stride la conosceva, si era sempre comportata come una poliziotta tutta d'un pezzo, spigolosa e disciplinata. Aveva compiuto da poco quarantanni, sottolineati da una ragnatela di rughe intorno agli occhi e alle labbra. Era alta, solo pochi centimetri meno di Stride, che senza scarpe superava il metro e ottanta. Non era robusta, ma i muscoli delle braccia e delle gambe tendevano il tessuto dell'uniforme. Aveva capelli castani lunghi fino a metà del collo, che portava pettinati con una riga in mezzo e tirati dietro le orecchie. Niente trucco. Sotto gli occhi aveva borse profonde. «Sono le tre del mattino» disse Stride. Denise fece spallucce, come se l'orario non necessitasse di una scusa o di una spiegazione. «Maggie mi ha detto che ti nascondevi qui.» «Ti ha mandato a prendermi per riportarmi a Duluth?» rispose lui. «Il nostro uomo ha colpito in un'altra fattoria, stanotte. Stavolta si è lasciato dietro un cadavere.» «Ho saputo. No, non si tratta di questo.» «Di cosa, allora?» «Di un altro caso. Mi serve il tuo aiuto.» «Sono in congedo, ricordi?» obiettò Stride. «Me lo ricordo. Ma ricordo anche che una volta lavoravamo insieme. Non te

lo chiederei se non fosse importante.» Era vero. Denise aveva iniziato la sua carriera nella polizia di Duluth quindici anni prima. Lei e Stride avevano lavorato insieme per quattro anni, poi Stride aveva ricevuto l'incarico di dirigere il Detective Bureau. In seguito lei aveva sposato il suo fidanzato di sempre ed era tornata a stare a Grand Rapids. Dopo Denise, Stride aveva scelto come partner Maggie Bei. «Non tenermi sulle spine. Di che si tratta?» chiese. «Vestiti e vieni con me. Non c'è tempo.» «Se vuoi il mio aiuto, puoi anche dirmi cosa accidenti sta succedendo» ribatté Stride. Denise incrociò le braccia in un gesto impaziente. Inclinò la testa da un lato e si accigliò. «È scomparso un bambino. Un neonato. Scomparso questa sera dalla sua stanza, stando alla deposizione del padre. Ho bisogno che ti incarichi dell'indagine.» Quando Stride entrò in camera da letto, vide che Serena era già mezza vestita. Si abbottonò una camicia di flanella bordeaux sopra il reggiseno e si spazzolò numerose volte i capelli neri. Poi si sedette sul bordo del letto e infilò le lunghe gambe in un paio di jeans. «Che succede?» chiese. «Denise Sheridan vuole che mi occupi di uno dei suoi casi. Un bambino scomparso.» «Perché non lo gestiscono quelli del posto?» «Non lo so. Non siamo ancora scesi nei dettagli.» Serena si alzò, chiuse la zip dei jeans e lasciò fuori la camicia. «Non riuscivi a dormire?» «No.» Si infilò gli stivali di pelle e degli orecchini di rubino. Anche se erano nel cuore della notte, in mezzo ai boschi del Minnesota settentrionale, Serena ci teneva all'abbigliamento. Aveva trascorso gran parte della sua vita a Las Vegas, e due anni a Duluth non avevano attenuato il suo interesse per la moda. Lui indossò un dolcevita grigio e lo infilò nei jeans. Si massaggiò il mento e decise di darsi una rasata veloce. Quando ebbe finito, prelevò dall'armadio una giacca sportiva di lana e la indossò. Serena gli si avvicinò e lo baciò su una guancia. Con i tacchi, era alta quanto lui. «Stai facendo un errore» mormorò. «Cosa?» «Parlo di te, del lavoro. Ti serve altro tempo.» «Non le ho detto che avrei accettato, ma solo che l'avrei ascoltata.» «Come no» ribatté Serena. La sua voce era fredda. In soggiorno, le due donne si strinsero la mano. Denise guardava Serena con sospetto. La maggior parte dei poliziotti della zona settentrionale conosceva Serena per via della sua relazione con Stride, ma questo non era sufficiente

per farle ottenere la fiducia della polizia locale. Per loro, lei restava una detective della grande città che calpestava il loro territorio di provincia. «Maggie mi ha detto che eri uno sbirro, a Las Vegas» esordì Denise. «Ho lavorato per dieci anni nella Metro Polke» rispose Serena con un sorriso distaccato. L'ostilità sul volto di Denise era palese. «Omicidi, soprattutto» aggiunse. Denise si infilò le mani in tasca, con la pistola che gonfiava la fondina appesa alla cintura. «Buon per te.» «Se io lavorerò al caso, voglio Serena al mio fianco» puntualizzò Stride. «Ai miei ragazzi non piacerà» ribatté secca Denise. «Non mi interessa. Serena ha lavorato a più casi di rapimento di noi due messi insieme. Farà parte della squadra.» Denise si accigliò ma non protestò. «E va bene, come ti pare. Ora sbrighiamoci, i minuti passano. C'è un chirurgo di nome Marcus Glenn che vive sul lago Pokegama. È un ricco medico, con una bella casa. Ha chiamato il 911 un paio d'ore fa per segnalare che la figlia di undici mesi era scomparsa. Due agenti si sono recati sulla scena, hanno ispezionato la casa, non hanno trovato nessuna traccia della bambina e mi hanno chiamato.» «I poliziotti hanno ispezionato il posto?» chiese Stride, scontento. «Sì, lo so che probabilmente hanno contaminato la scena. Non ci capitano molti casi del genere, e quei ragazzi sono due ventitreenni a cui è toccato il turno di notte.» «Hanno trovato niente?» Denise scosse la testa. «No. In casa non mancava nulla, neppure un oggetto era fuori posto, le finestre e le porte non presentavano segni di effrazione. Tutto era chiuso a chiave e intatto. Era come se la bimba si fosse volatilizzata » «Marcus Glenn vive solo?» chiese Stride. «No, è sposato» sbottò Denise in tono pungente. «Sua moglie era in città, ieri sera. Non hanno altri figli.» «Raccontami cosa è successo.» «Lui dice che la bambina dormiva nella sua stanza dalle sette. È andato a controllarla, poi si è coricato intorno alle dieci. Si è alzato verso l'una e la bimba non c'era più. Almeno, questo è ciò che sostiene.» «I poliziotti hanno cercato una richiesta di riscatto?» «Sì, ma non l'hanno trovata. Marcus ha controllato anche la sua e@mail, ma anche lì non c'era niente. Comunque, a Grand Rapids è conosciuto. Il fatto che sia pieno di soldi non è un mistero.» «Come si chiama la bambina?» intervenne Serena. Denise si ammorbidì e, per la prima volta, sorrise. «Callie.» «Avete raccolto tutte le informazioni fisiche? Una foto, il peso, il colore dei capelli, segni particolari?» «Sì. Ho già chiesto di diffondere la notizia a livello nazionale. Domani la Bca

invierà una squadra a ispezionare la scena del crimine.» «Hai una sua foto con te?» chiese Serena. Denise la tirò fuori dalla tasca della camicia dell'uniforme. «Ecco Callie.» Serena prese la foto e Stride la guardò da sopra la sua spalla. Callie Glenn era seduta su una trapunta e li guardava con grandi e felici occhi blu sotto una soffice chioma bionda. Due dentini bianchi facevano capolino dal suo sorriso. Indossava una maglietta bianca, i pantaloni di una tutina rosa e si stringeva un piede nudo in una manina piccola e paffuta. «Che bella bambina» commentò Serena. «Sa già camminare?» «Riesce a fare qualche passo se si aggrappa a qualcosa.» «Si arrampica?» «Non si è mai arrampicata fuori dalla culla ma, anche se ci fosse riuscita, la finestra e la porta della camera da letto erano chiuse. Non è sgattaiolata da nessuna parte.» «Senza offesa, Denise» disse Stride «ma cosa c'entriamo noi con questa faccenda?» «Vorrei che tu gestissi l'indagine.» «Sì, ma perché vuoi rinunciare al caso?» chiese Stride. Denise sbuffò. «Marcus ha sollevato un polverone. Voleva che chiamassi il procuratore generale, l'Fbi. Cazzo, forse si aspetta che chiami il governatore in persona. Vuole che giri il caso ai federali.» «È quello che vogliono sempre i genitori» disse Serena. «Sì, ma la maggior parte dei genitori non ha il peso che Marcus Glenn ha da queste parti. Se devo assegnare l'indagine ad altri, preferisco che sia qualcuno che conosco e di cui mi fido, cioè tu, Stride. Comunque, anche se non lo direi mai in faccia a quel rompipalle, la verità è che la mia squadra non ha le risorse né l'esperienza per gestire una cosa del genere. E la bambina deve avere la precedenza sul mio ego.» «Cosa non ci hai detto?» chiese Serena a Denise. «Che vuoi dire?» «Voglio dire che conosci Marcus Glenn, mi sembra ovvio. In questa faccenda c'è qualcosa di personale.» Denise riprese la foto di Callie Glenn da Serena e la strinse delicatamente tra le dita. «E va bene, c'è anche un conflitto di interessi. Non posso occuparmi di questo caso perché mi riguarda troppo da vicino.» «In cosa consiste il conflitto?» domandò Serena. «Callie è mia nipote. Marcus Glenn è sposato con mia sorella.»

2 Stride e Serena seguirono Denise sugli sterrati fino alla Highway 2, l'arteria principale che collegava la città di Duluth, sul lago, con la sua vicina nell'entroterra a nordovest, Grand Rapids. Le due città distavano in auto meno di novanta minuti, con il bel tempo. Alle tre del mattino, la superstrada era deserta, e la fitta nebbia che aveva coperto l'area per gran parte della notte si era dissipata a causa di un fronte secco spintosi a sud dal Canada. Guidando ad alta velocità, impiegarono dieci minuti per raggiungere il centro di Grand Rapids. Superarono la gigantesca struttura della Upm, che fungeva da motore economico della regione, masticando alberi e trasformandoli in prodotti cartacei. L'altra spina dorsale della città era il turismo. In uno stato punteggiato di laghi, Grand Rapids ospitava migliaia di turisti che venivano a pescare durante la stagione più mite o a sciare e andare in motoslitta durante i rigidi inverni. Novembre era un mese di transizione: i villeggianti estivi se ne erano già andati e alla stagione degli sport invernali mancava ancora qualche settimana. Stride sfrecciò veloce cavalcando l'onda verde dei semafori. Serena sedeva accanto a lui, e la tensione tra loro si poteva tagliare con un coltello. «Allora, Jonny, vuoi dirmi cosa sta succedendo?» chiese lei. «Riguardo a cosa?» «A te.» Stride tenne gli occhi sulla strada, ma le sue mani strinsero più forte il volante. «Niente.» «Niente? Non dormi, non facciamo sesso e sei sempre nervoso.» «Sono solo impaziente. Starmene con le mani in mano mi agita. Questo caso è proprio ciò che mi serve.» «E non c'è altro?» «No» insistette lui. «Sto bene.» Non gliel'aveva data a bere, ma lei lasciò perdere comunque. Stride si pentì di aver negato così, perché non era quello che avrebbe voluto dirle. Avrebbe voluto raccontarle degli attacchi di panico. Avrebbe voluto ammettere che aveva paura di non provare più nulla, né ambizioni né desideri. Invece si era nascosto dietro una bugia. Sto bene. Davanti a loro, Denise uscì dall'autostrada a sinistra e superò il ponte su Sugar Lake Road. Stride la seguì. Nel giro di pochi minuti, si trovarono completamente fuori dalla zona abitata. Proseguirono per un altro chilometro e mezzo poi svoltarono di nuovo a sinistra, sulla County Road 76, che delimitava il confine nordorientale del lago Pokegama. Stride superò strade sterrate che si immergevano nella foresta per condurre

a lussuose case sul bordo del lago. Era un'area desolata. «Non mi piace» disse. «Sarebbe molto facile arrivare fin qui senza essere visti.» Girarono a sinistra su Chisholm Trail e si diressero verso il lago. La strada procedeva per circa ottocento metri, poi deviava bruscamente davanti a una grande e inaccessibile recinzione bianca. Attraverso un buco nel recinto, Stride vide un viale circolare dove erano parcheggiati cinque veicoli della polizia con i lampeggianti accesi. Coni di luce bianca si muovevano come laser, mentre gli uomini in uniforme ispezionavano il bosco e i prati. «Oh, cazzo» mormorò Stride. Parcheggiò e raggiunsero Denise Sheridan all'ingresso del viale. Con un gesto del pollice, Stride indicò i poliziotti lì intorno. «Che accidenti stanno facendo?» abbaiò. «Stanno contaminando tutta la scena del crimine!» Denise incrociò le braccia sul petto, in un gesto seccato. «Stiamo cercando una bambina scomparsa. Ascolta, Stride, i tecnici della BCA saranno qui domattina, ma io ho scelto di far controllare subito la zona ai miei uomini. Certo, è improbabile che qualcuno l'abbia semplicemente abbandonata nei boschi, ma è un rischio che non voglio correre, intesi? So che al processo, quando ci sarà, il procuratore distrettuale mi farà il culo. Ma al momento mi interessa di più trovare Callie.» Serena intervenne: «Hai già interrogato i vicini lungo la strada?». «Li abbiamo svegliati tutti e stiamo setacciando il lungolago. Finora, nessuno ha visto veicoli passare dopo le dieci né ha avvistato barche in acqua. Era una notte perfetta per rapire qualcuno senza farsi vedere. Sempre che sia andata davvero così.» «Cosa vuoi dire?» chiese Stride. «Niente. Ora sei tu a dirigere lo show, non io. Dimmi solo in che modo i miei uomini possono esserti d'aiuto.» «Dobbiamo allestire un centro di comando nel tuo ufficio» disse Stride. «Dovremo coordinare le richieste dei media, rispondere alle telefonate di avvistamento, seguire eventuali piste, coordinarci con l'Fbi, la Ncmec, la Wetterling Foundation, eccetera. Richiederà molte risorse.» «Posso procurarmi altri agenti dalle contee confinanti. Otterremo tutto il supporto che ci occorre.» Stride studiò le case vicine, illuminate dalle torce. «Ti rendi conto che questo diventerà un banchetto per i media, vero?» «Ehi, ero qui quando vennero rubati i mocassini di rubino dal museo Judy Garland» ribatté Denise. «Quello sì che fu un bel macello.» «Dobbiamo parlare con Marcus Glenn» intervenne Serena. «Va bene, parlategli pure.» «Dovresti venire anche tu.» «Niente da fare» sbottò Denise. «Lui non accetterà la mia presenza e io

faccio volentieri a meno di esserci. Possiamo parlare dopo che avrete finito.» «Non ti piace Marcus, vero?» chiese Serena. Denise fece spallucce. «È mio cognato. Secondo te?» Marcus Glenn era un chirurgo e questo, nella mente di Stride, diceva già tutto. A neppure quarantanni, aveva un atteggiamento arrogante per via dei successi ottenuti, ma non era ancora invecchiato abbastanza da confrontarsi con le proprie imperfezioni. Camminava avanti e indietro per la veranda sfoggiando un cipiglio impaziente e irritato. Era molto alto, con gambe lunghe e tornite, capelli corvini tagliati corti e folte sopracciglia. Aveva un volto spigoloso, dai lineamenti duri e tirati, senza accenno di doppio mento. Indossava una polo bordeaux con il logo del Bellagio Hotel di Las Vegas, pantaloni grigi con la piega e scarpe nere eleganti. Aveva mani grandi, nelle quali faceva girare con eleganza due sferette di occhio di tigre sopra e sotto le nocche, come un prestigiatore. Dietro di lui, su una parete a vetri, la sua figura si stagliava contro il buio della notte e il prato posteriore che digradava fino al lago. Stride gli porse la mano e disse: «Piacere, dottor Glenn. Mi chiamo Jonathan Stride e lei è Serena Dial». Glenn rifiutò la stretta di mano, e fece scivolare la sua in una tasca insieme alle due sferette. «Sì, so chi è lei. Denise mi ha avvisato. Non dubito della vostra competenza, ma mi sentirei più tranquillo se questa indagine venisse condotta dall'Fbi» «Comprendo i suoi sentimenti» ribatté Stride. «Naturalmente, ci coordineremo con le forze federali se questo dovesse essere necessario.» Glenn lo interruppe. «Sì, sì, coordinazione, consulenze. Sono sicuro che vi scambierete un sacco di interessanti messaggi. Io sto parlando di esperienza. I miei pazienti non vengono da me perché sono competente, ma perché sono il migliore. E voglio il meglio.» «Ho capito perfettamente cosa intende, dottor Glenn» riprese Stride. «La verità è che i migliori per gestire questa situazione siamo noi, non i federali. Il caso richiede investigatori che conoscano a fondo il territorio e che abbiano contatti con le forze di polizia di tutto lo stato. L'Fbi manderebbe agenti speciali che non conoscono la zona, le persone, la polizia, i media, le risorse non profit. Insomma, tutto quello che ci serve per trovare Callie e riportarla a casa sana e salva. Queste prime ore sono molto importanti. Siamo qui, siamo bravi e vogliamo aiutarla.» Glenn passò la punta della sua scarpa su una delle piastrelle di marmo della veranda. «Sì, avete ragione. Mi scuso per il mio comportamento, signori detective. Vi sono grato di tutto l'aiuto. È stata una lunga notte.» «Capiamo benissimo» lo rassicurò Stride. Lui e Serena si sedettero uno accanto all'altra su un divano di pelle rivolto

verso l'interno della casa. Glenn si sedette a gambe incrociate su una poltrona accanto alla finestra e prese a tamburellare le dita sul ginocchio. Da un tavolino accanto al divano, Serena prese una foto incorniciata che ritraeva una donna attraente sulla trentina, con fluenti capelli biondi e una corporatura atletica. I suoi occhi blu guardavano un punto oltre la macchina fotografica, in un momento di riflessione. Stride studiò quei lineamenti e ravvisò una certa somiglianza con Denise Sheridan, anche se era evidente che Dio aveva fatto dei favoritismi tra le due sorelle. Denise aveva un volto che si dimenticava un istante dopo averlo visto. La bellezza della sorella minore invece restava in mente. «È sua moglie?» chiese Serena. Glenn annuì con aria assente. «Sì, lei è Valerie.» «È molto bella.» «Grazie.» Stride pensò che una risposta del genere fosse più adatta a un complimento per una scelta di vino o di mobilio. Si guardò intorno e si rese conto che Glenn collezionava begli oggetti. Cristalleria dell'Europa dell'Est. Vini francesi. Foto di Brandenburg. Una moglie da esposizione. Ecco i vantaggi della sua professione. «Dov'è sua moglie?» chiese Serena. «Sa che Callie è scomparsa?» «Sì, certo, l'ho avvertita immediatamente. Doveva trascorrere la notte nelle Cities a causa della nebbia, ma ho incaricato un autista di riportarla a casa. Sarà qui tra non molto.» «Vorrei da lei alcune informazioni personali, dottor Glenn» disse Stride. «Per esempio?» «Può fornirci qualche dettaglio sul suo lavoro?» «Sono un chirurgo ortopedico, specializzato nelle chirurgia e protesi delle ginocchia. Eseguo interventi chirurgici tre giorni alla settimana al St.Mary, a Duluth. Lunedì, mercoledì e venerdì. Naturalmente, oggi annullerò tutti gli impegni.» «Giovedì è rimasto a casa tutto il giorno?» «Sì.» Serena gli sorrise. «Ha una casa molto bella.» «Traduzione: vuole sapere se sono ricco? Sì. Tra il lavoro e gli investimenti, guadagno più di due milioni all'anno da quasi dieci anni. Ho vissuto a Grand Rapids per gran parte della mia vita, pertanto questo è un dato che qui conoscono quasi tutti. Vi prego, non sentitevi in dovere di ammorbidire le vostre domande. Se c'è qualcosa che volete chiedermi, fatelo pure liberamente.» «Perché non ci racconta cosa è successo stasera?» propose Stride. «Vorrei poter aggiungere qualcosa a quanto ho già dichiarato. Ho messo a letto Callie dopo cena, poi ho trascorso il resto della serata nel mio studio, a leggere riviste di medicina. Alle dieci sono andato a controllare che dormisse, dopodiché mi sono coricato. Quando mi sono alzato, all'una, sono

andato in camera sua ma lei era scomparsa.» «Ha dormito tra le dieci e l'una?» chiese Serena. «Mi sarò addormentato intorno alle dieci e trenta, per cui chi l'ha rapita deve averlo fatto dopo quell'ora. Non ho sentito nulla.» «Ha un sistema di allarme?» chiese Stride. «Certamente, ma non lo attivo quando sono a casa.» «Chi ha le chiavi di casa?» «Io e Valerie.» La stoica calma di Glenn parve incrinarsi per un momento. «Oh, e anche Migdalia.» «Migdalia?» «Migdalia Vega. E la nostra baby-sitter.» «Dove possiamo trovarla?» chiese Stride. «Vive dietro il vecchio cimitero di Sago. È una ragazza affidabile. Posso garantire per lei.» «Preferiamo comunque fare due chiacchiere con lei» disse Stride. «Gli agenti che hanno controllato la casa non hanno trovato segni di effrazione. Ha idea di come il rapitore possa essere entrato?» «No, mi dispiace.» «Qualcuno l'ha contattata per un riscatto?» chiese Serena. «No.» «A volte i genitori non vogliono ammettere di essere stati contattati dai rapitori» riprese Serena. «Magari una richiesta di riscatto nella quale si chiede di non coinvolgere la polizia oppure una telefonata con cui minacciano la vita dell'ostaggio in caso di intervento delle autorità. Anche in quelle situazioni, è molto più sicuro informarci.» «Comprendo benissimo, ma vi assicuro che non c'è stato alcun contatto.» «Con il suo permesso, vorremmo mettere sotto controllo il suo telefono, nel caso dovesse ricevere telefonate dai rapitori» disse Stride. Glenn esitò. «È proprio necessario?» «Tenendo presente la sua situazione economica, dobbiamo considerare il rapimento a scopo di riscatto come una possibilità concreta» spiegò Stride. «Forse persino una probabilità. In questi casi, di solito viene avanzata una richiesta. Poter rintracciare eventuali telefonate è fondamentale.» «Sì, capisco. Stavo pensando alla privacy dei miei pazienti. Si tratta di problemi confidenziali. Dovrò trovare un modo per gestire la faccenda, ma è un problema mio.» «Installeremo la cimice tra poco» disse Stride. «A proposito dei suoi pazienti, ha avuto problemi che avrebbero potuto spingere uno di loro o un membro della sua famiglia a serbarle rancore?» Glenn inarcò la bocca in un sorriso ironico. «Insomma, vuole sapere se ho mai ammazzato qualcuno sul tavolo operatorio? No.» «Gli incidenti e le incomprensioni capitano.»

«È vero, ma io sono molto bravo nella mia professione. Non mi hanno mai fatto causa, e nel mio mestiere questo è una specie di miracolo.» Stride annuì. «Lei o sua moglie avete mai ricevuto minacce?» «No.» «Ha mai avuto la sensazione che qualcuno la seguisse? O ha mai notato degli estranei che tenevano d'occhio la sua casa o il suo posto di lavoro?» «No, niente del genere. Comunque, sulla sponda del lago c'è un parcheggio per camper, dove vivono tipi poco raccomandabili. Possiedo una barca piuttosto grande, e sicuramente molti di loro hanno visto me, Valerie e Callie sul lago.» Stride annuì ma non aggiunse altro. Aveva già visto quella scena: vittime ricche che puntavano il dito contro i livelli inferiori della scala sociale. Grand Rapids, come Duluth e altre città del Minnesota settentrionale, pativa l'ampio divario che c'era tra le condizioni di vita dei ricchi e quelle dei poveri. C'erano ricchi professionisti e persone trasferitesi da Minneapolis che potevano permettersi case sul lago con prezzi a sette cifre. Dall'altra parte dello spettro c'era una comunità decisamente più numerosa di operai, cameriere, addetti ai lavori stradali e contadini che lottavano per arrivare a fine mese contro i prezzi sempre più alti di cibo, carburante e assistenza medica. «Quanto tempo ha Callie?» chiese Serena. «Dieci mesi e mezzo. È nata a capodanno, poco dopo la mezzanotte.» «Qui a Grand Rapids?» «No, al St.Mary di Duluth. Volevo che Valerie partorisse nel mio ospedale.» «Che tipo di bambina è Callie?» riprese Serena. «Come si comporta con gli estranei?» «Callie è sempre stata una bimba molto tranquilla e dolce. Farà la brava con chiunque le sorrida. In circostanze del genere, immagino sia una vera sfortuna.» «Callie è la vostra unica figlia, vero?» «Sì.» «Da quanto tempo siete sposati?» «Otto anni» rispose Glenn. «La nascita di un figlio può stravolgerti la vita. A voi ha causato qualche problema?» Glenn la fissò per un momento di glaciale silenzio. «No.» «Come l'ha presa sua moglie? Certe donne vanno in depressione dopo aver partorito.» «Non Valerle. Era felicissima. Aveva cercato per anni di rimanere incinta.» «Vorrei parlare con sua moglie non appena sarà tornata» disse Serena. «Certamente.» Glenn si alzò dalla poltrona e si infilò nuovamente le mani in tasca. «Per

favore, tenetemi aggiornato su tutto.» Serena annuì. «Io o il tenente Stride la contatteremo a intervalli di alcune ore per informarla dell'avanzamento delle indagini e lei può chiamarci al cellulare ogni volta che ha bisogno di noi.» «Grazie. Per quanto tempo avrò dei poliziotti in giro per casa?» «Temo che saranno necessarie ancora molte ore» disse Stride. «Abbiamo richiesto una squadra della Scientifica dal Bureau of Criminal Apprehension. Arriveranno qui non appena farà giorno. Ispezioneranno la casa da cima a fondo, fuori e dentro.» «Credevo fosse già stato fatto.» «Lo rifaranno. Si tratta di esperti nel gestire le scene dei crimini» spiegò Stride. «Cercheranno prove che rivelino la presenza di un estraneo in camera di Callie. O altre che possano suggerire come ha fatto questa persona a entrare e a uscire.» Stride non disse cos'altro avrebbero cercato. Nella culla. Sulle pareti. Nei lavandini. Sotto il tappeto. Sangue.

3 Stride trovò Denise Sheridan da sola sulla riva del lago Pokegama, al confine meridionale della tenuta di Glenn. La bianca residenza a due piani splendeva sul pendio alle loro spalle, grazie alle luci accese in ogni stanza. L'ampio cortile posteriore era punteggiato da betulle e coperto da un alto strato di foglie morte. Denise stava fumando una sigaretta. Quando vide Stride venirle incontro scendendo la collina, diede un ultimo tiro e lanciò il mozzicone nell'acqua. «Scusa» esordì. «Ma l'ultima cosa di cui ho bisogno in questo momento è una ramanzina. Sia sulle scene dei crimini che su questi bastoncini della morte.» In realtà anche Stride avrebbe voluto fumarsi una sigaretta, ma non disse nulla. Rimase in silenzio accanto a Denise, con le mani in tasca. Sul lago, si scorgeva la spiaggia di un'isoletta fiancheggiata da cedri. L'acqua, smossa dal vento freddo, era increspata e schiumosa. Notò che il molo per le barche dei Glenn era già stato tirato all'asciutto, in vista della cattiva stagione. Chiunque fosse arrivato dal lago sarebbe dovuto scendere dalla barca direttamente nell'acqua poco profonda. «Allora, come stai, Denise?» chiese Stride. Lei fece spallucce e rispose: «Io? La vita va avanti». «Volevo mandarti un biglietto di congratulazioni l'anno scorso, quando hai avuto il bambino. Con questo siamo a quattro, giusto?» «Sì, li sforno come una coniglia» scherzò Denise. «Quanti anni hanno?» «Dieci, sette, cinque e diciotto mesi. Credevo di aver finito, dopo il numero tre, ma Tom la pensava diversamente. Praticamente non facciamo più sesso, eppure è riuscito a fare centro l'unica volta in cui mi sono ubriacata.» Tirò fuori il pacchetto di sigarette dal taschino della camicia e se ne accese un'altra. I nclinò la testa verso l'alto e soffiò fuori il fumo. «Intendiamoci, non riuscirei a fare a meno di nessuno di loro, ma ci sono certe giornate...» «Gestire due lavori e quattro figli?» commentò Stride. «Non riesco proprio a immaginare come ci si possa riuscire.» «Nemmeno io.» Denise lanciò una veloce occhiata alla casa di Glenn. «A volte tutto questo mi fa incazzare. Vado a pesca sul Pokeg e vedo tutte queste ville sulla riva. Avvocati, medici, amministratori delegati e ricche mogli che svernano a Scottsdale. E io che devo preoccuparmi di quanto consuma il mio fuoristrada.» «Mi dispiace» commentò Stride.

«Già. L'invidia è una brutta bestia.» Anziché fumarla, Denise gettò via la seconda sigaretta. «Immagino non sia il momento migliore per dirtelo, Stride, ma hai un aspetto orribile.» «Grazie.» «So che non mi riguarda, ma ti ho appena passato un grosso caso. Ho fatto male a coinvolgerti?» «Sto bene» disse. Era la stessa bugia che aveva raccontato a Serena. «Hai avuto udienza da re Marcus?» chiese Serena. «Scommetto che non ti ha voluto stringere la mano.» «Esatto. Come mai?» «Roba da chirurghi. Non vuole rischiare di danneggiarsi le mani. Credo abbia anche la fobia dei germi.» «Dimmi tutto ciò che sai di lui» chiese Stride. «Di Marcus? Ci sono ragazzi che al liceo sono dei gran fighi, giocano come quarterback nella squadra di football e vent'anni dopo li ritrovi ingrassati di trenta chili a fare i benzinai. Ecco, Marcus è ancora un figo.» «Lo conosci da molto tempo?» «Certo, è cresciuto qui. Ai tempi del liceo era un paio d'anni indietro rispetto a me e Tom. Ora è ricco, ma non è sempre stato così. I suoi genitori possedevano una fattoria vicino a Sago. Conoscevo suo padre: un vero figlio di puttana. Niente di quello che faceva Marcus andava mai bene. Piuttosto ironico. Marcus era alto e atletico, e per due volte ha portato la squadra di hockey di Grand Rapids alla vittoria nel campionato dello stato. Insomma, da queste parti una cosa del genere ti fa diventare una star. Ma non a casa sua.» «Mi sorprende che sia rimasto da queste parti» commentò Stride. «Sì, be', Marcus è proprio un ragazzo del Minnesota. Ha frequentato l'Università di stato e ha lavorato per parecchi anni alla Mayo Clinic, prima di tornare a casa. Credo che gli piaccia essere il pesce più grosso dello stagno piccolo. Il grande chirurgo. Tutte le ragazze gli correvano dietro.» Stride si chiese quanto dell'opinione di Denise dipendesse solo da Marcus e quanto dal fatto che sua sorella lo aveva sposato e viveva con lui nella sua villa sul lago. «Valerie è uno schianto» disse. «Ho visto una foto.» Denise diede un calcio a un pezzo di terriccio. «Oh, sì. Valerie si è beccata tutti i geni migliori.» «Non intendevo questo.» «Non importa. Non mi stai dicendo nulla che non mi sia già sentita dire per tutta la vita. Non mi abituerò mai al sentirmi ripetere quanto è bella la mia sorellina. E, sì, non importa che tu lo dica: sono invidiosa. Chi non lo sarebbe?» «Com'è finita insieme a Marcus Glenn?» Denise emise una breve risata. «Valerie ha sempre voluto solo Marcus Glenn. Si era presa una cotta per lui

a dieci anni, quando lui era un adolescente e giocava nella squadra di hockey. Per tutto il liceo e il college ha avuto un sacco di ragazzi che le sbavavano dietro, ma ormai aveva deciso che Marcus era l'unico che le interessava. Quando lui è tornato a Grand Rapids, lei lavorava come hostess al country club, ed è stato allora che lui l'ha notata. Valerie ci ha messo un altro paio d'anni per conquistarlo, ma mia sorella è un tipo molto determinato.» «Detta così sembra che lo abbia fatto per interesse.» «Ehi, quando sei bella i soldi ti spettano di diritto. Così è la vita. Non penso che Valerie abbia corteggiato Marcus solo perché era pieno di soldi. Quella era solo un'aspettativa. Valerie avrebbe finito comunque per avere la sua villa sul lago, con un uomo o con l'altro. A me invece tocca un tugurio sul fiume, il mutuo da pagare e tutto il pacchetto chiamato "vita reale".» Stride lasciò che il silenzio riempisse lo spazio tra loro. Poi, a voce bassa, disse: «Denise, la loro bambina è scomparsa. Forse dovresti darle un attimo di tregua». «Lo so, hai ragione. Cerco di non farmi rodere dall'invidia, ma non è facile, capisci? Mi hai chiesto tu la verità. Mi piacerebbe poterti dire che sono una persona migliore, ma Valerie è sempre stata la bambina d'oro e io ho passato tutta la vita a invidiarla. Cazzo, io devo starmene in quel buco di casa con quattro figli e ora tutto quello che sento dire è "Povera Valerie". Questo mi rende una persona meschina? Okay, sono meschina.» «Cosa c'è sotto, Denise?» insistette Stride. «Non credo si tratti di una semplice rivalità tra sorelle.» «Mi dispiace» disse lei, asciugandosi gli occhi. «Sono spaventata per Callie. E, sì, sono anche incazzata. Avevo avvisato Valerie che una cosa del genere sarebbe potuta capitare, ma lei non ha voluto ascoltarmi.» «Qualcosa di che genere?» «Le avevo detto di non lasciare Callie da sola con Marcus» disse Denise. «Ah.» Stride non rimase sorpreso. Il linguaggio del corpo di Denise era stato eloquente fin da quando era arrivata alla baita. Aveva semplicemente aspettato che lei lo affermasse a voce alta: non si è trattato di un rapimento. «Non posso dimostrarlo» proseguì lei. «E so che una sensazione non vale un cazzo senza delle prove a suffragarla, ma questo è ciò che mi suggerisce la pancia.» «Per me le sensazioni contano parecchio, invece. Raccontami tutto» la incoraggiò Stride. Denise si accovacciò, bagnò una mano nel lago e sfregò le dita tra loro. Si alzò e si asciugò la mano su una manica. «È arrogante, e so che questo non costituisce un crimine. Ma non si tratta soltanto di questo.» «Allora di cosa?» «Lo conosco bene. Valerie e Marcus sono sposati da otto anni. Lei ha capito

piuttosto alla svelta che vincere il premio non è eccitante quanto dargli la caccia.» «Ovvero?» «Ovvero Marcus è proprio come appare. Un idiota glaciale. Non ama niente e nessuno tranne se stesso.» «Non è un bravo marito» concluse Stride. «Continua a non essere un crimine.» «Può darsi, ma Marcus non ha mai voluto figli. Su questo è stato molto chiaro con Valerie prima del matrimonio. Niente bambini. Voleva fare soldi, lavorare, viaggiare, godersi tutti i vantaggi della sua situazione senza nulla che lo vincolasse.» «Perché Valerie ha accettato di sposarlo se questo non era ciò che desiderava?» «Oh, ti prego. Valerie voleva Marcus Glenn e non riusciva a pensare ad altro. Si era convinta di non volere figli. Aveva pensato che avere al suo fianco Marcus le sarebbe bastato. Poi però ha aperto gli occhi alla svelta.» «Cosa è cambiato?» Il volto di Denise si incupì. «Circa cinque anni fa, Valerie inghiottì mezza boccetta di aspirine. Per poco non l'abbiamo persa.» «Per quale motivo l'ha fatto?» «Se vuoi il mio parere, credo che non riuscisse più a reggere la solitudine. È stato allora che ha detto a Marcus di volere un bambino.» «E lui come l'ha presa?» «Con la moglie in ospedale che minacciava di suicidarsi se non le avesse dato un figlio? Ha accettato, ovviamente.» «Forse Marcus aveva cambiato idea, riguardo ai bambini» propose Stride. «No, non era cambiato niente. Valerie non è rimasta incinta per quasi tre anni. Io avevo paura che facesse un'altra pazzia. Marcus, invece, se ne fregava. Quando finalmente Valerie gli ha detto di essere incinta, è riuscito a malapena a contenere la sua irritazione. Quando è nata Callie, non la toccava quasi mai. Era come un'ospite indesiderata, venuta a rovinare la sua vita perfetta.» «Avrebbe potuto divorziare.» «Sì, ma quanto gli sarebbe costato?» Stride scosse la testa. «Non mi stai dando nulla di concreto, Denise. Tutto fumo e niente arrosto.» «Lo so. Voglio soltanto suggerirti di indagare in modo freddo e distaccato su Marcus Glenn. Sono una poliziotta e una madre, e ti assicuro che c'era qualcosa che non andava nella sua relazione con la figlia. Ogni volta che li vedevo insieme avevo i brividi perché tra di loro non c'era niente. Non c'era affetto, interesse, entusiasmo. Valerie ha fatto finta di non accorgersene, e adesso eccoci qui.» «Pensi davvero che Glenn potrebbe far del male alla figlia?» chiese Stride. «È questo che stai dicendo?»

«Penso che sia capace di qualunque cosa. Penso che tutta questa faccenda non torni. Qualcuno entra in casa senza lasciare alcuna traccia, prende la bambina e poi scompare? Dai. Non ha senso.» «I bambini vengono rapiti in continuazione» disse Stride. «Certo, lo so. Ma di solito succede per strada, non in ville sul lungolago nel cuore della notte. Ascolta, non posso dimostrare nulla e comunque non è più il mio caso. Ti sto solo confidando quello che sento, capisci?» «Capisco.» «C'è un'altra cosa» aggiunse Denise. «Marcus ha detto che stasera era solo, giusto? Che in casa c'erano solo lui e Callie?» «Esatto.» «Be', se fosse vero, sarebbe la prima volta. Valerie si occupava della bambina. La baby-sitter si occupava della bambina. Ma Marcus no. Mai. Non trovi strano che Marcus resti solo con la bambina un'unica notte, e proprio quella notte lei scompare?»

4 Maggie Bei parcheggiò la sua Avalanche gialla ai confini della scena del crimine, vicino al fiume Lester. Guardò il vecchio caseificio illuminato dai riflettori allestiti dalla sua squadra e i tecnici che frugavano in cerca di indizi tra l'erba circostante e nei boschi sull'altro lato delle rapide. Gli uomini dell'ufficio del medico legale avevano un compito più macabro. Due di loro, con camici bianchi, si stavano occupando del corpo in mezzo al campo. La quarta vittima. Maggie si fece forza prima di raggiungerli. Aveva lavorato anni per innalzare una barriera dietro la quale proteggersi dalle raccapriccianti situazioni del suo lavoro, ma le aggressioni degli ultimi mesi, una dopo l'altra, avevano messo a dura prova la sua obiettività. Era conscia del fatto che anche lei avrebbe potuto essere una qualunque di quelle donne. Era fin troppo facile immaginarsi stesa a terra, priva di vita e umiliata. Un tamburellare di unghie sul finestrino del passeggero interruppe i suoi pensieri. Maggie vide il viso tondo e angelico di Max Guppo, che salutava con un cenno della mano e apriva la portiera. Sollevò una mano per fermarlo. «Altolà! Cos'hai mangiato per cena?» Guppo ci pensò su un attimo. «Chili con carne.» «Merda, ma cosa ti salta in mente? Non ti azzardare a salire su quest'auto.» «Sto prendendo il Beano» protestò Guppo. «Come dice la pubblicità: Beano prima, niente aria dopo!» «Il Beano non conosce il tuo intestino» ribatté Maggie. «Resta dove sei, esco io.» Maggie saltò giù dal fuoristrada e imprecò quando i suoi stivali dal tacco quadrato colpirono il terriccio bagnato schizzandole fango sui jeans. Richiuse la portiera sbattendola, si piegò poggiando le mani sulle ginocchia e starnutì. Prese un fazzoletto dalla tasca e si soffiò il naso rumorosamente. «Hai preso un raffreddore?» chiese Guppo, girando intorno alla Avalanche. «Sì, proprio quel che mi ci voleva. Praticamente mi faccio di vitamina C.» Guppo indicò il piccolo piercing di diamante sul naso di Maggie. «Non ti fa male quando starnutisci?» «Una volta l'ho sparato dall'altra parte della stanza.» «Allora perché non lo togli?» «Perché mi piace come mi sta.» Quando Guppo le fu abbastanza vicino Maggie annusò l'aria. «E secondo te non mi sarei accorta di questo tanfo?» «Scusa.» «Chili con carne» gli fece eco Maggie. «Incredibile.» I due attraversarono il fiume passando sul ponte della Strand Avenue.

Erano una strana coppia. Max Guppo aveva superato da poco la cinquantina e aveva condotto indagini per il Detective Bureau fin da quando Maggie aveva memoria. Era solo dieci centimetri più alto di Maggie, che con i tacchi arrivava a malapena al metro e cinquanta, e attraversava la vita con cosce simili a cannoni e un ciambellone intorno alla vita. Negli ultimi dieci anni aveva indossato sempre gli stessi tre abiti: marrone, marrone e blu. Maggie, per contrasto, era una minuscola cinese che sceglieva i vestiti sugli scaffali per adolescenti. Più si avvicinava ai quarantanni, più si vestiva come se ne avesse venticinque. Nei pressi dello sterrato che portava al caseificio, Maggie puntò l'indice e il pollice a guisa di pistola contro Kasey Kennedy, seduta sul sedile posteriore di un'auto di pattuglia a venti metri da loro. «Come sta la ragazza?» chiese a Guppo. «È piuttosto scossa.» Maggie annuì. Kasey aveva la portiera della volante aperta e una coperta avvolta intorno alle spalle. Indossava una larga felpa blu e un paio di jeans strappati. Fissava il vuoto con sguardo nervoso e sconvolto. «Wow, guarda quei capelli rossi» commentò Maggie. «Dici che sono naturali?» «E che ne so?» ribatté Guppo, sistemandosi le ciocche del riporto. «Impossibile che lo siano» aggiunse Maggie. «Kasey ha già rilasciato una dichiarazione?» «Sì. È convinta che la licenzierai.» «Penso io a calmarla. Hai già ricostruito la dinamica dei fatti?» Guppo annuì. Accompagnò Maggie sulla sponda del fiume. L'acqua scorreva impetuosa sulle rocce negli stretti passaggi poi rallentava nel punto in cui il letto del fiume si allargava sotto il ponte della superstrada. Maggie pestò il terreno con uno stivale. Era morbido. «I tre hanno attraversato qui il fiume» spiegò Guppo, indicando un punto dove la corrente era più forte. La sponda opposta, che saliva ripida verso la fattoria della donna morta, distava circa sei metri. «La vittima, il colpevole e la nostra Kasey.» «Sono scesi da quella collina?» chiese Maggie. «Sì. Kasey ha fatto una bella caduta.» Infilò una mano in tasca. «Ecco il suo distintivo. L'abbiamo trovato tra le erbacce dell'altra sponda.» «Poi cosa è successo?» Guppo condusse Maggie su per un dolce rilievo, sotto alberi sempreverdi, fino al piccolo campo erboso dietro il muro posteriore del caseificio. A circa sei metri da loro, la squadra del medico legale stava chiudendo la zip di un sacco di plastica da obitorio, che conteneva il cadavere della donna. «Aspettate un attimo, ragazzi» chiamò Maggie. Si rivolse a Guppo e chiese: «Kasey li ha affrontati qui?».

«Esatto. Il colpevole cercava di strangolare la vittima. Kasey ha sparato. Una mossa davvero coraggiosa, se vuoi il mio parere. C'era molta nebbia, e di sicuro non aveva una buona visuale del killer.» «L'ha mancato?» chiese Maggie. «Sì, ma l'uomo ha recepito il messaggio, ha lasciato andare la vittima ed è scappato. Kasey dice di aver sparato ancora una volta e di averlo mancato di nuovo. Lui è corso verso la superstrada ed è scomparso. Stiamo ancora cercando di individuare il punto in cui aveva parcheggiato la macchina. Non si sa mai, forse si è lasciato qualcosa alle spalle. Kasey ha cercato di rianimare la vittima, ma era ormai troppo tardi. Se fosse intervenuta due minuti prima, ora sarebbe un'eroina.» Maggie si infilò le mani in tasca e camminò fino alla donna morta sull'erba bagnata. «Come si chiama?» «Susan Krauss.» «Sposata?» «Divorziata. Ha un figlio adolescente che vive in Florida con il padre.» «Cosa faceva nella vita?» «Era personal trainer alla Y.» «Avete trovato nulla che la colleghi alle altre vittime?» «Per il momento no.» Maggie si scostò la frangia nera dagli occhi e fissò il corpo di Susan Krauss. Aveva un brutto aspetto, come tutte le vittime di omicidio. Violata dagli esami degli uomini in camice bianco, e privata della dignità dagli uomini che si aggiravano sull'erba intorno a lei come se nemmeno esistesse. Sembrava che il colore fosse stato lavato via dalla sua pelle. Aveva i capelli bagnati e scompigliati. I vestiti strappati lasciavano scoperte gran parte delle parti intime. Il collo era squarciato dal filo che l'aveva ammazzata e quasi decapitata. «Va bene» disse Maggie a bassa voce, rivolgendo un cenno ai tecnici della Scientifica. «Potete portarla via.» Susan Krauss. La numero quattro. La prima era stata Elisa Reed, verso metà ottobre. Single, mai stata sposata, ventitré anni, insegnante. Viveva con i genitori in una fattoria cinque chilometri più a nord. Era scomparsa un martedì sera, mentre i suoi genitori erano in vacanza a San Francisco. Quella sera l'avevano chiamata ma lei non aveva risposto. Il giovedì non erano ancora riusciti a mettersi in contatto con lei e avevano deciso di chiamare la polizia. Nella stanza da letto di Elisa avevano trovato solo delle macchie di sangue sulle lenzuola e una sveglia in frantumi sul pavimento. Di lei nessuna traccia. Due settimane dopo, la sera di Halloween, era stata Trisha Grange a diventare la vittima numero due. Trentacinque anni, sposata da sette, madre di due figli. Suo marito Troy aveva portato la figlia maggiore a una festa di Halloween, lasciando Trisha a casa con il più piccolo.

Quando era rientrato alle ventidue il bambino dormiva, ma Trisha era scomparsa. Stavolta la polizia non aveva trovato sangue, ma solo una scarpa di Trisha nel campo dietro la fattoria e alcuni dei suoi capelli biondi impigliati nella porta a zanzariera. Viveva dieci chilometri a nordest di Susan Krauss. La terza vittima era scomparsa appena sei giorni prima. In un'altra fattoria, a poco più di un chilometro e mezzo di distanza. Barbara Berquist era una vedova di poco più di cinquantanni che un bel giorno non si era presentata al lavoro, nella biblioteca di Duluth. Quel fatto era stato sufficiente per alimentare sospetti, a causa delle due scomparse precedenti, e Maggie e la sua squadra avevano ispezionato la sua fattoria senza aspettare le quarantotto ore imposte dalla procedura, nel caso Barbara fosse ricomparsa da qualche altra parte, viva e vegeta. Avevano trovato di nuovo del sangue. E parecchio. Ma nessun cadavere. «Cosa avete trovato in casa?» chiese Maggie. «Pensiamo che il soggetto sia entrato attraverso una finestrella del seminterrato con la serratura rotta. Dalla ricostruzione, ipotizziamo che Susan Krauss fosse sveglia e si trovasse in bagno quando il nostro uomo è entrato. Ci sono tracce di sangue e segni di lotta vicino alla porta. Credo che Susan sia riuscita a scappare e sia corsa all'esterno.» «Ok, continuate a lavorare. Dentro e fuori la casa. Stavolta il suo piano non è andato come voleva, forse, mentre la inseguiva, qualcosa è andato storto.» Poi aggiunse: «Meglio che vada a parlare con pel di carota». «Aspetta» la trattenne Guppo. Da sopra la spalla di Maggie, guardò verso la parete di pietra bianca del caseificio. Ansimando, si accovacciò per studiare il terreno nel punto dove Susan Krauss giaceva nel sacco da obitorio, poi spostò lo sguardo verso una sezione elevata del muro del caseificio. «Qualcuno ha uno scaletto?» chiese. Un uomo della Scientifica prese uno scaletto dal bagagliaio della propria auto e Guppo lo aprì accanto alla parete. Salì i due gradini e Maggie sussultò quando le giunture metalliche gemettero sotto il peso di Guppo. «Fammi un po' di luce quassù, per favore.» Maggie illuminò una sezione di vernice bianca e scrostata davanti alla faccia del collega. Guppo tirò fuori una lente d'ingrandimento dai pantaloni e la usò per controllare la parete. Quando scese, era paonazzo in volto e sorrideva. «Uno schizzo» dichiarò. «Della vittima?» chiese Maggie. «A giudicare dalla posizione e dall'angolazione direi proprio di no. Mi sa che Kasey, dopotutto, è riuscita a staccare un pezzetto del nostro assassino.» Kasey Kennedy era giovane, il che ricordò a Maggie che per lei quel tempo

era ormai passato. Kasey aveva ventisei anni ed era in forza alla polizia, da tre. Maggie ricordava di averla vista al municipio, ma solo perché era difficile non accorgersi di quei capelli rossi come un'insegna al neon. Non aveva un viso bellissimo, ma la pelle fresca piena di lentiggini e il corpo snello e tonico la rendevano attraente. Aveva un che di fanciullesco e al tempo stesso di navigato. I suoi occhi blu erano smarriti. Dondolava il ginocchio sinistro in modo nervoso e aveva unghie dipinte di rosa. Sembrava una bambina ingenua che aveva bisogno di essere presa per mano, eppure quella bambina aveva appena inseguito un omicida, da sola in mezzo alla nebbia. Non la si poteva certo accusare di vigliaccheria. «Tieni» disse, porgendo a Kasey il distintivo che la squadra di Guppo aveva trovato vicino al fiume. «Oh, l'avete trovato. Grazie.» «Come ti senti, Kasey?» le chiese Maggie. La giovane poliziotta inclinò la testa e infilò i pollici nelle tasche dei jeans. «Mi spiace, sergente. Ho rovinato tutto.» «Chiamami Maggie e diamoci del tu. E non hai rovinato un bel niente.» Maggie la informò della traccia di sangue rinvenuta da Guppo sulla parete del caseificio. «Nella migliore delle ipotesi, troveremo una corrispondenza nei database dei dna e potremo identificarlo. Altrimenti, potremo sempre collegarlo alla scena del crimine non appena l'avremo catturato. E questo grazie a te.» «Solo che la vera migliore ipotesi era quella in cui io lo ammazzavo, no?» ribatté Kasey. «Me lo sono lasciato scappare.» Parlava in tono cadenzato, con una voce da teenager. Era strano sentirla parlare di uccidere qualcuno. Ci si sarebbe aspettato di sentirla spettegolare di ragazzi e condividere consigli sulle tecniche di trucco. «Non biasimarti» la rassicurò Maggie. «Ci vuole fegato per fare quello che hai fatto. Avresti potuto esserci tu al posto della vittima. Questo lo sai, vero? Hai corso un bel rischio.» «Lo so.» «Perché non hai chiamato rinforzi?» Kasey alzò gli occhi al cielo. «Non avevo il cellulare.» «Questa sì che è stata una sciocchezza.» «Già. L'avevo messo in carica in bagno e mi sono dimenticata di prenderlo prima di uscire. Per chiamare il 911 sono dovuta tornare a casa, e poi di nuovo qui.» «Abiti qui vicino?» Kasey annuì. «A pochi chilometri di distanza, ma stasera avrei potuto abitare anche sulla luna. Non avevo idea di dove fossi.» Maggie si appoggiò alla portiera aperta dell'auto di pattuglia. «Come sei finita in mezzo a questo casino?» «Mi ero persa» ammise Kasey. «Dopo il lavoro sono andata a Hibbing per

incontrarmi con un'amica e ho fatto tardi. Ho trovato la nebbia e devo aver sbagliato a svoltare.» «Cosa puoi dirmi dell'assassino? Sei l'unica ad averlo visto.» «Vorrei poter aggiungere qualcosa. Non l'ho mai visto in faccia. Era alto.» «Quanto alto?» «Sicuramente più di un metro e ottanta. Non di corporatura enorme, ma atletico. Occhi marrone scuro, tendente al nero.» «Caucasico?» «Sì.» «Cosa puoi dirmi della maschera?» chiese Maggie. «Un'unica apertura per entrambi gli occhi o una su ciascuno?» «Un'apertura soltanto. Nessun buco per la bocca.» «Quindi sei riuscita a vedere anche il dorso del naso?» «Direi di sì.» «Hai notato qualche segno particolare? Nei, lentiggini, cicatrici, cose del genere? Hai visto se sulla fronte gli scendevano dei capelli?» «Mi dispiace, è successo tutto troppo in fretta. Non ho notato nulla.» «Se lo rivedessi senza maschera lo riconosceresti?» Kasey scosse la testa. «Non penso.» «Che altro?» chiese Maggie. «Non ho visto altro.» «Che tipo era?» «Non capisco.» «Come si comportava? Dimostrava paura? Dobbiamo entrare nella testa di quel tipo.» Kasey arricciò le labbra pallide. Trasse un profondo respiro, gonfiando il petto. «Non aveva paura» decise. «No?» «No, era aggressivo, spavaldo. Quando l'ho guardato attraverso il finestrino dell'auto, ho avuto la sensazione che mi stesse sorridendo. Poi più tardi, davanti al caseificio, ha riso. Non pensava che avrei sparato. Era sicuro di sé.» «Ti ha parlato?» chiese Maggie. «Sì.» «Cosa ha detto?» «Che se avessi gettato l'arma lui avrebbe lasciato andare la donna. E mi scherniva. Diceva che non avrei mai sparato per paura di colpire lei.» «Descrivimi la sua voce» chiese Maggie. «Arrogante, presuntuosa.» «Aveva un qualche accento? C'era qualcosa di particolare nel suo modo di parlare?» «No, nulla del genere.» «Riconosceresti la sua voce se la sentissi di nuovo?»

«Può darsi» ammise Kasey. «Sì, probabilmente sì.» «Eccellente» disse Maggie, stringendole la spalla. Vide che la ragazza faticava a tenere gli occhi aperti. «Ascolta, perché ora non vai a casa a dormire un po'?» Maggie accennò ad avviarsi, ma Kasey l'afferrò per un braccio. «Sergente? C'è un'altra cosa. Voglio entrare nel caso.» «Cosa vuoi dire?» «Voglio aiutare con le indagini.» «Grazie dell'offerta, ma non è di tua competenza» ribatté Maggie. «Lo so, ma questo tizio ha ammazzato quella donna proprio davanti ai miei occhi.» Maggie si accovacciò davanti a lei. Kasey la fissò con occhi blu carichi di determinazione. I capelli rossi e bagnati formavano sulla sua testa una zazzera arruffata. Era proprio giovane. Troppo giovane. Maggie aveva lavorato per anni con poliziotte come Kasey, piene di entusiasmo ma che, per inesperienza, commettevano errori grossolani. Con le loro buone qualità, bisognava accettare anche quelle meno buone. «Sei sposata, Kasey?» «Sì.» «Che tipo è tuo marito?» Kasey sorrise. «Oh, Bruce è il tipico orso. Sembra un boscaiolo biondo.» «Che lavoro fa?» «Al momento è disoccupato. Ci siamo trasferiti qui perché Bruce aveva ottenuto un lavoro a Two Harbors, ma è stato licenziato. Ora, per lo più, cerca prove di una cospirazione. È il suo hobby.» «Tipo gli alieni che hanno abbattuto lo space shuttle?» «Più che altro cerca chi ha sparato a JFK. Bruce è tipo il cugino di un cugino di un cugino di un cugino. L'ha presa come un fatto personale.» «Avete bambini?» Kasey annuì e sollevò un dito. «Jack.» «Jack Kennedy?» «Sì, è stata un'idea di Bruce.» «Be', buon per te. Hai una famiglia. Non permettere che quello che è successo stasera interferisca con la tua vita.» «Cosa vuoi dire?» «Voglio dire che devi lasciar perdere. Sei incappata in qualcosa di orribile e hai fatto del tuo meglio per impedirlo. Ora torna alla tua vita, e lascia che siamo noi a occuparci del resto.» «Voglio davvero aiutare» insistette Kasey. «Sono disposta a fare di tutto, anche a scartabellare negli archivi. Ma voglio essere inclusa nelle indagini.» Maggie si alzò e si pulì il naso con il dorso della mano. Sentì un colpo di tosse grattarle la gola. «Ascolta, domani devo incontrarmi con Troy Grange. E il marito della seconda vittima, e un mio amico. Devo parlargli di quanto è accaduto qui. Perché non vieni con me?»

«Davvero? Assolutamente sì. Grazie.» «Non sarà facile, Kasey. Prima di stasera, non sapevamo quali fossero le intenzioni di questo figlio di puttana, ma ora abbiamo un cadavere. Qualunque cosa gli diremo, Troy Grange capirà che con ogni probabilità sua moglie è morta. Non esiste nulla di più difficile.» «Capisco. E te ne sono grata.» Maggie le diede una pacca leggera sul ginocchio. «Ora vai a casa a dormire.» «D'accordo.» «Un'ultima domanda.» «Certamente.» «Come ottieni quel colore di capelli? Cosa usi?» chiese Maggie. «Sono naturali.» «Incredibile» disse Maggie.

5 Venerdì pomeriggio, Serena Dial percorse a piedi il Chisholm Trail, che dalla superstrada conduceva alla tenuta dei Glenn. La strada era insolitamente buia. La luce non riusciva a penetrare facilmente nei dintorni boscosi delle case sul lago, e il cielo autunnale sembrava un velo di carbone. Nell'aria fredda Serena percepiva odore di neve e udiva il grido delle oche sopra di lei, che volavano verso Sud. La strada deserta parlava della stagione ormai in declino. Le zucche scavate con dentro le candele andavano rammollendosi e ammuffendo sui corrimano delle verande. Gli alberi erano quasi completamente spogli. Immaginò la stessa strada a mezzanotte del giorno precedente. Nebbia. Buio. Stride aveva ragione: qualcuno sarebbe potuto arrivare e poi andarsene senza lasciare traccia. Sempre che qualcuno fosse veramente arrivato fin lì. Non avevano ancora trovato indizi che confermassero o smentissero in modo definitivo la presenza di un intruso in casa dei Glenn. La squadra della Scientifica del BCA di St.Paul era arrivata alle cinque del mattino e aveva lavorato sulla scena per sette ore, senza ottenere granché. Ci sarebbero volute settimane per passare al setaccio le impronte digitali prelevate dalle porte e dalle finestre. Da un tappeto al piano di sopra avevano raccolto e riposto in sacchetti di plastica campioni di terreno bagnato, ma potevano benissimo provenire dagli stivali dei poliziotti che avevano risposto alla chiamata al 911. Il giardino anteriore e quello posteriore erano entrambi un groviglio di impronte lasciate dai primi poliziotti arrivati sulla scena. La scomparsa di Callie era stata annunciata nel notiziario del mattino, insieme a quella di un nuovo omicidio nella zona delle fattorie a nord di Duluth. Serena e Stride avevano rilasciato una dichiarazione in diretta a un gruppo di giornalisti. Ormai, la maggior parte degli abitanti del Minnesota aveva visto una foto della bambina scomparsa, con i riccioli d'oro e sorridente. Stride aveva trascorso gran parte della mattinata a mobilitare il sistema di allerta statale, e Serena aveva supervisionato gli interrogatori di coloro che abitavano nelle strade circostanti la proprietà di Marcus Glenn e lungo gli ottanta chilometri di costa del lago Pokegama. Da tutto quel lavoro non avevano ottenuto praticamente nulla. Nessun testimone. Nessun avvistamento attendibile. Nessuna segnalazione di veicoli su cui poter concentrare le ricerche. Callie Glenn era in camera sua, e un momento dopo non c'era più. Il mago aveva fatto oscillare la bacchetta magica dietro il drappo nero e l'aveva fatta

sparire. Col passare delle ore, aumentava il rischio di non ritrovarla mai più. Serena sapeva cosa pensava Denise Sheridan. Marcus Glenn aveva ammazzato la figlia, per sbaglio o deliberatamente, e poi aveva fatto sparire il corpo per proteggersi. Non c'erano prove della sua colpevolezza, ma non c'erano nemmeno prove del contrario, e in questi casi mancanze del genere erano quasi una condanna. Quando un bambino scompariva, i sospetti si concentravano innanzitutto contro i genitori. Serena sapeva che l'ipotesi della colpevolezza di Glenn si era diffusa in città come un virus. Lo si capiva dalle domande dei giornalisti, che chiedevano di Marcus Glenn, del suo passato e della sua personalità, della sua eventuale capacità di commettere un omicidio. Il freddo e distaccato chirurgo era il bersaglio perfetto. Serena non escludeva la possibilità che Glenn fosse colpevole, ma dubitava degli istinti di Denise nei suoi confronti. Innanzitutto era convinta che quello di Denise fosse un giudizio prevenuto a causa del suo rapporto con la sorella e il cognato. Forse era una brava poliziotta, ma disprezzava Marcus Glenn al punto da ritenerlo capace di qualunque crimine. Per Serena, invece, l'atteggiamento distaccato di Marcus Glenn evidenziava piuttosto la sua estraneità ai fatti. Negli anni trascorsi a Las Vegas aveva avuto a che fare con genitori responsabili di crimini efferati, e si erano sempre comportati da ottimi attori, apparendo in televisione per supplicare la restituzione del proprio piccolo o scoppiando in lacrime tra le braccia del consorte. Glenn non esagerava nell'esternare il proprio dolore. Anzi, li aveva invitati a giudicarlo mostrandosi per ciò che era davvero. Eppure. Eppure. Nemmeno la teoria dell'estraneo aveva senso. Quel caso faceva acqua da tutte le parti. Serena percorse il viale pieno di curve che conduceva alla porta anteriore della casa di Glenn. Numerosi uomini della polizia di Grand Rapids erano in servizio per preservare la scena e tenere alla larga giornalisti e curiosi. Le rivolsero un educato cenno di saluto, ma Serena non mancò di cogliere il loro disagio. Li capiva. Da quella mattina, lei era una detective regolarmente iscritta nel libro paga, ma restava comunque un'estranea. Conoscevano tutti Stride a causa dei suoi anni di servizio nel Minnesota settentrionale, e la polizia del posto non aveva problemi ad accettare la sua autorità. Ma con Serena era diverso. Non importava se per dieci anni, sulle strade di Las Vegas, lei aveva combattuto livelli di crimine e di violenza che loro non avrebbero mai visto in tutta la loro vita. Era diversa, e questo la rendeva sospetta. A Duluth era più semplice. Duluth era una città più grande, e nel suo glaciale distacco c'era qualcosa che rendeva le persone del posto più ospitali nei confronti degli estranei che avevano il coraggio di stabilirsi lì. Grand Rapids, invece, era una piccola cittadina. Se ci abitavi, eri un qualcosa di ben definito e noto a tutti, che fossi un santo o un peccatore. Se invece non ci

abitavi, dovevi dimostrare chi eri. Serena studiò la casa. Era bassa e ampia, in stile country, con tre frontoni sopra le stanze del secondo piano e rivestimenti in legno bianco, verniciati di fresco. Sulla sinistra, Serena individuò un garage a tre posti e, sopra il garage, le finestre di una piccola dépendance. Le finestre della sala da pranzo al primo piano erano rivolte verso il giardino, ma la casa era strutturata in modo da godere della vista del lago, sul retro. Marcus Glenn, dalla stanza da letto matrimoniale, non avrebbe potuto accorgersi di eventuali movimenti nella parte anteriore della casa nel corso della notte. Se il rapimento era stato opera di un estraneo, Serena era convinta che fosse giunto dalla strada, in macchina. Arrivare in barca era troppo rischioso, con troppe variabili: calare una barca in acqua di notte, navigare a luci spente, riuscire a tenere in silenzio una bambina in una zona dove qualunque suono si sarebbe diffuso facilmente sulla superficie del lago e sbarcare su un approdo privo di molo. C'erano troppe possibilità che in un piano del genere qualcosa andasse storto. No, il metodo più sicuro era parcheggiare nel vialetto, sotto il riparo degli alberi e da lì raggiungere la casa. Ma come entrare senza una chiave? Le serrature di tutte le porte non presentavano segni di scasso. Le solide finestre erano tutte chiuse. Serena entrò dalla porta principale e si fermò sotto l'elegante lampadario di cristallo nell'atrio di lucido legno di quercia. Rispetto al freddo dell'esterno, la casa risultava piacevolmente calda. La scalinata che conduceva al piano di sopra era coperta di una moquette color avorio. Salì le scale e guardò lungo il corridoio sul quale si affacciava una serie di porte bianche, tutte chiuse. Ce n'erano otto, che davano tutte su stanze diverse. Quattro camere da letto, due bagni, un vano armadio e una lavanderia. Guardando le porte, era impossibile capire quale stanza si trovasse dietro di esse. Come avrebbe fatto un eventuale intruso a individuare quella della bambina? E come faceva a sapere se Callie Glenn dormiva o meno con i suoi genitori? Era un grosso rischio. Serena girò a sinistra e imboccò il corridoio. La cameretta di Callie era la terza a destra. Aprì la porta, aspettandosi che la stanza fosse vuota, invece vi trovò Valerie Glenn. Sulla parete di fronte alla porta, una finestra ad arco guardava sul lago, e Valerie era seduta sull'ampio davanzale lucido, con le ginocchia raccolte al petto. Era piegata in avanti, con la testa nascosta tra le braccia e i capelli biondi che le scendevano sulle gambe. Per un lungo minuto non si rese conto di non essere più sola. Serena vide la culla vuota al centro della stanza. La carta da parati presentava immagini di principesse e rane uscite dalle favole. Sulla moquette erano sparsi dei giocattoli. «Signora Glenn?» chiamò piano Serena. Valerie non reagì, e Serena ripetè il suo nome. Stavolta, la madre di Callie

sollevò la testa di scatto, sorpresa. «Oh, Serena. Le chiedo scusa.» «Non volevo disturbarla.» «Ci sono novità?» Serena scosse la testa, e il debole barlume di speranza negli occhi di Valerie si spense. La donna inclinò la testa all'indietro e l'appoggiò al telaio della finestra, poi si girò a guardare l'acqua grigia del lago, in fondo al prato. Teneva il volto di profilo. Nonostante l'espressione addolorata, con i capelli biondi scompigliati sulle guance rigate dalle lacrime, Valerie Glenn risultava decisamente attraente. Nonostante il grigiore di novembre, la sua pelle sembrava abbronzata. Tutto, in lei, era perfettamente proporzionato. Le sue gambe erano toniche ma non muscolose, la sua corporatura magra ma non smilza. Indossava pantaloni marrone chiaro e una felpa nera a maniche lunghe. Era un abbigliamento che sembrava voler dire: mi sforzo di non apparire bella, ma non posso farci niente. Serena si sedette di fronte a lei sul davanzale della finestra. Valerie si scostò i capelli dal viso e le offrì un debole sorriso. «Cosa può dirmi?» chiese. «Posso dirle che stiamo cercando Callie in tutto lo stato» la rassicurò Serena. «La sua foto è dappertutto. La polizia, l'Fbi, i media, i negozianti, ci aiuteranno tutti. Cominciano già ad arrivare le prime segnalazioni.» «Secondo lei cosa vogliono?» chiese Valerie. «Soldi? Se paghiamo, ce la riporteranno?» «Non ho ancora abbastanza informazioni per poterle rispondere, ma le prometto che la nostra priorità assoluta sarà, in ogni momento, l'incolumità di Callie.» «Al notiziario ho sentito dire che a volte ricchi stranieri pagano perché qualcuno rapisca dei bambini per loro. Dio, spero non sia questo il caso. Difficile pensare di poter restare vittima di un crimine del genere, in un posto come Grand Rapids.» «Fare brutte ipotesi non servirà a niente, se non a farla impazzire.» Valerie annuì. «Lo so. Devo lasciarvi fare il vostro lavoro. Onestamente, Serena, sono felice che una donna si occupi del caso. Sa, vedere tutti questi uomini che girano per casa... per loro è solo un altro crimine qualunque.» «Tutti vogliamo ritrovare Callie» disse Serena. «Sì, ma lei sa cosa sto passando. Un uomo non può capirlo fino in fondo. Lei ha dei figli?» «No.» Per un momento, Valerie parve delusa. «Oh, mi dispiace. La prego di perdonarmi, so che non dovrei fare domande del genere. E che mi aiuta a conoscerla meglio.» «Non si preoccupi.» «Per moltissimo tempo, ho creduto di non volere figli. Poi mia madre è morta, e i miei trent'anni mi sono improvvisamente piombati addosso con

tutto il loro peso. Di colpo, avere figli era l'unica cosa a cui riuscivo a pensare.» Fissò la culla vuota e si asciugò una lacrima. «Ci ho messo tre anni per restare incinta. Avevo smesso di sperare.» Serena scelse le parole con attenzione: «Cosa ne pensava Marcus?». «Aveva parecchi dubbi. L'ho dovuto convincere.» Si rabbuiò in volto e distolse lo sguardo. «So quel che dice la gente. Riguardo a Marcus.» «Non dovrebbe stare a sentire quel che dicono al telegiornale.» «È ridicolo. Crudele. Marcus non farebbe mai e poi mai del male a Callie.» Strinse forte i pugni. «Le vuole molto bene.» «Ne sono certa.» «La gente lo sa quanto male ci sta facendo?» chiese. «Posso solo dirle di non prestare orecchio ai pettegolezzi. Si concentri sul fatto di riavere Callie.» «Immagino che la prossima cosa che diranno è che anch'io sono coinvolta» disse Valerie. «Nessuno lo pensa. Lei era fuori città.» «Però ha controllato, vero, Serena? Ha chiamato l'hotel. Si è voluta assicurare che avessi detto la verità.» «Sì, l'ho fatto» ammise Serena. Poi aggiunse: «Perché si trovava lì?». «Partecipavo a una riunione di un'organizzazione non profit a Minneapolis. È finita tardi. Avrei voluto tornare a casa, ma Marcus mi ha detto che c'era molta nebbia. Così ho preso una stanza in albergo.» «L'ha incoraggiata a non tornare a casa?» «Sì, ha detto che non gli piaceva sapermi per strada.» Valerie lesse l'espressione sul viso di Serena e disse: «Vede, lei lo trova un comportamento sospetto, quando in realtà non è così. Nessuno si fida più di nessuno. Probabilmente tutti detestiamo l'orrore che proviamo nello scoprire che le persone non sono quello che appaiono». «Devo farle alcune domande personali» disse Serena. Valerie si ritrasse, come se si aspettasse un pugno. «Prego, faccia pure.» «Se il responsabile è un estraneo, allora sapeva molte cose su di lei, su Marcus, su Callie e sulle vostre vite. Il crimine è stato pianificato con molta cura. Chiunque sia stato, è riuscito a introdursi in casa, trovare Callie, come se sapesse già dove la piccola dormiva, prenderla e andarsene in fretta senza fare alcun rumore.» «Lei vuole sapere com'è possibile che questa persona sapesse tutte queste cose.» «Esatto.» «Non pensa che sia stato un estraneo, vero?» «Non lo so. È possibile che qualcuno vi abbia tenuto d'occhio e raccolto informazioni sulla vostra vita. Ma in una piccola cittadina non è facile farlo

senza essere notati. È anche possibile che qualcuno che vi conosce abbia dato informazioni alla persona sbagliata senza rendersene conto.» «Be', se qualcuno avesse tenuto d'occhio la nostra casa lo saprei. Ciò che si dice sulle cittadine è vero: qui non succede niente senza che tutti lo sappiano. Credo anche che se un estraneo avesse fatto domande su di noi ne saremmo stati informati.» «E non è accaduto nulla del genere?» «No.» «Perdoni la franchezza, Valerie, ma devo saperlo. Come va il suo matrimonio? Avete problemi?» Valerie fissò il soffitto. «Devo proprio rispondere?» «Sì. Mi dispiace.» Valerie si rigirò l'anello di diamanti che portava al dito. Studiò Serena con lo sguardo di una donna che ammira un'altra donna. «Lei è bella, Serena. Sa cosa significa.» «Cosa intende dire?» «Si dà per scontato che una donna bella debba essere per forza priva di sostanza. La gente mi guarda e pensa che sia solo una bambola, una moglie da esposizione. Lo ammetta, questa è stata anche la sua prima impressione. Marcus non mi ha sposata, mi ha assunta per fargli da contorno.» «Non è ciò che penso io» rispose Serena. «Be', il resto della città sì. Quando mi sono sposata avevo venticinque anni. Non sono una scema. So di essere bella e so anche che un uomo come Marcus non si sarebbe accontentato della prima che passava. Vuole sapere se ci sono giorni in cui mi sento più come un quadro appeso a una parete che un essere umano in carne e ossa? Sì, certo. Ma la verità è molto più complessa di ciò che pensa la gente. Io lo amo e lui ama me.» Serena pensò che Valerie stesse cercando di convincere innanzitutto se stessa. «Siete sposati da otto anni, giusto?» «Giusto.» «Ci sono state relazioni extraconiugali?» «Non vedo come questo c'entri con Callie» obiettò Valerie. «Probabilmente nulla, ma non posso sapere cosa sia rilevante e cosa non lo sia finché non avrò un quadro completo.» «Lei fa proprio un brutto lavoro, Serena. Forse ora capisco perché Denise non ha voluto occuparsi del caso.» Aggiunse: «Mi sento piuttosto inutile paragonata a mia sorella. Quattro bambini e un lavoro come il suo. Lei sì che è forte. Io, al confronto, sono una donna di cristallo. Certo, lei ha Tom che l'aiuta, e lui è un vero tesoro». «Non ha risposto alla mia domanda.» «No, vero? E va bene. Sì, Marcus ha avuto altre donne. Scappatelle. Gli uomini vedono queste cose in modo diverso. Nel tuo ruolo di moglie, devi decidere se tali questioni sono importanti o no, e io ho deciso che non lo

erano. Almeno, fino all'arrivo di Callie.» «Ci sono state relazioni più serie oltre alle semplici scappatelle? Donne con cui abbia trascorso più di una notte?» Il labbro inferiore di Valerie tremò. «Sì. L'anno scorso.» «Di chi si trattava?» «Non lo so. Una donna dell'ospedale. Ho preferito non sapere chi fosse.» «Come lo ha scoperto?» Valerie sospirò. «Secondo lei ci vuole davvero tanto? Quante volte bisogna sentire lo stesso profumo sui suoi vestiti e nel letto? Quante volte la persona che ha telefonato deve riappendere appena risponde la moglie invece del marito?» «Mi dispiace.» «Alla nascita di Callie, gli ho detto di smetterla. Non volevo dettagli. Volevo solo che chiudesse la storia.» «E lui ha smesso di frequentarla?» «Sì.» «Ne è sicura?» «No, ma se continua a tradirmi, ora lo fa con molta più discrezione. E, onestamente, non penso che Marcus si prenderebbe il disturbo di nasconderlo.» «Pensa che questa donna sia mai entrata in casa vostra?» chiese Serena. «Sono piuttosto sicura che l'abbia fatto, sì.» «È possibile che abbia una chiave?» Valerie fece spallucce, come se il peso che si sentiva addosso fosse diventato insostenibile. «Non ne ho idea. Per quanto ne so, solo io, Marcus e Migdalia abbiamo le chiavi.» «Migdalia è la vostra baby-sitter?» «Sì.» «Mi parli di lei.» Valerie fece roteare gli occhi. «Diciamo solo che, se fosse stato per me, avrei scelto qualcun altro. Non voglio sembrare snob, perché non lo sono, ma Migdalia è rozza e volgare. Si veste male. Oh, è molto affettuosa con Callie, intendiamoci, ma non somiglia affatto a Mary Poppins.» «Perché l'avete assunta?» «Micki vive a Sago, dov'è cresciuto Marcus. Sua madre sta male, suo padre non c'è più. Marcus voleva aiutarla.» «Non c'è altro?» «Vuole sapere se Marcus ci va a letto? Lui dice di no. Mi creda, gliel'ho chiesto.» Serena percepì la rassegnazione nella voce di Valerie e cercò di immaginare un matrimonio lungo otto anni, fatto di solitudine e sospetti. Nulla riusciva più a sorprenderla. Vite che dall'esterno apparivano perfette erano in realtà fragili come vetro. Si alzò dal davanzale della finestra. «La aggiornerò non appena avremo altre informazioni.» Valerie le prese le mani. Le dita erano sottili e calde. Serena

la sentì protendersi verso di lei, come verso un'ancora di salvezza. «Dovete trovarla. Ho bisogno che la mia piccolina torni a casa da me. Se lei non ha figli, forse non riesce a capire quanto mi sento disperata.» Serena strinse forte la mano di Valerie per rassicurarla. Anche Valerie, come Stride, era caduta da un ponte, senza che sotto ci fosse qualcosa o qualcuno ad attutire la caduta. Aveva visto troppi genitori come lei aggrapparsi a un barlume di speranza, e avrebbe voluto farle una promessa: Ti riporterò Callie. Ma non poteva. Poteva formulare quella promessa solo nella sua testa. «La capisco, invece» disse.

6 Stride trovò il cimitero di Sago lungo una strada sterrata a poca distanza dalla Highway 2, a circa trentacinque chilometri a sud-est di Grand Rapids. Non c'era un centro abitato, ma solo qualche ammaccata cassetta delle lettere all'imbocco di uno sterrato che portava a una vecchia fattoria nascosta tra gli alberi. Parcheggiò sul bordo della strada e scese dal fuoristrada. Su un pendio in dolce salita vide un centinaio di lapidi, alcune in mezzo all'erba, altre all'ombra di grossi pini, i cui tronchi gemevano sferzati dal vento. Accanto all'insegna del cimitero si trovava un'asta bianca per la bandiera, e i supporti metallici della corda della bandiera tintinnavano ritmicamente contro il palo. Stride non vide anima viva in nessuna direzione. Nemmeno a lui sembrava di essere vivo, in quel momento. Mai si era sentito tanto staccato da se stesso. Gli sarebbe piaciuto avere a cuore qualcosa, ma non gli importava di nulla. Ogni attacco di panico lo allontanava sempre più dal mondo circostante. Era come se si trovasse sul bordo di un canyon in mezzo al deserto, con la sua vita dall'altra parte del burrone, a un chilometro di distanza. Con le mani infilate in tasca, Stride passeggiò in mezzo alle tombe. Lesse i nomi sulle lapidi e sulle targhe di marmo incastonate nel terreno: Tolan, Niemi, Sorenson, Davis. A metà della collina trovò i grigi monumenti gemelli di Edward e Lavinia Glenn, i genitori di Marcus Glenn, morti a due anni di distanza l'uno dall'altro, circa un decennio prima. Stride faticò a immaginare Marcus Glenn, così attento alle raffinatezze della vita, crescere in quelle terre rurali tra gente di basso ceto. «Lei è il poliziotto, vero?» Stride alzò gli occhi e vide una ragazza sulla ventina in piedi vicino al confine del cimitero, dove l'erba terminava contro gli alberi. In mano stringeva un rastrello, e ai suoi piedi c'era un mucchio di foglie secche. «Lei è Migdalia Vega?» chiese Stride. «Mi chiami Micki» disse, rastrellando il terreno e raccogliendo altre foglie nel mucchio. «Avete trovato Callie?» «No.» «Spero che la troviate presto. È una bambina bellissima.» Stride si avvicinò a lei. Micki Vega sembrava una ragazza che non si era ancora liberata dell'adipe adolescenziale. I suoi fianchi generosi erano compressi in pantaloni di velluto beige a coste. Aveva un volto rotondo, con un piccolo neo sopra il labbro superiore e la pelle olivastra. Teneva i capelli neri raccolti in una coda di cavallo. Indossava una felpa rossa, che non riusciva a

nascondere la pancia prominente sopra la cintura. «Lavora come custode del cimitero?» Micki fece spallucce. «Taglio l'erba, rastrello le foglie, getto via i fiori appassiti. Cose del genere.» «Vive da queste parti?» Lei indicò dietro la sua spalla destra, verso un gruppo di roulotte e vecchi pick-up nascosti dagli alberi. «Abito là, insieme a mia madre.» «Lavora anche per i Glenn, dico bene?» «Sì, mi chiamano quando hanno bisogno che faccia da baby-sitter a Callie per qualche ora. Sono persone molto indaffarate. Io faccio un sacco di lavori, perché mia madre ha una malattia ai polmoni e non si può muovere da casa.» «Mi dispiace.» «Sì, be', così è la vita. Mio padre se l'è svignata un paio di anni fa e mia madre si è beccata questa malattia a causa del fumo. Qualcuno deve pur portare a casa la pagnotta.» «Come ha conosciuto Marcus Glenn?» chiese Stride. Micki indicò un punto lungo la collina. «Ha visto anche lei le lapidi. Il dottor Glenn viene a visitare la sua famiglia tutti i mesi. L'ho incontrato qui un paio di anni fa, e lui sapeva che facevo anche la baby-sitter. Avevo molto bisogno di soldi, così quando è nata Callie, mi ha chiesto se potevo dar loro una mano. È stato molto gentile da parte sua. Se fosse stato per sua moglie, non avrei mai messo piede in casa loro.» «Davvero?» «Oh, ci può scommettere. Ho sentito quel che diceva. Non mi voleva intorno alla sua bambina.» «Perché no?» «Perché sono ispanica e vivo in un camper. Pensa che una donna come lei possa fidarsi di una come me? Poi però ha visto quanto ero brava con Callie e da allora non abbiamo mai avuto problemi. Certo, continua a guardarmi dall'alto in basso, ma sa che Callie si è affezionata a me. Alla signora Glenn basta questo. Quella bambina è tutta la sua vita.» «E che mi dice del dottor Glenn? Anche lui la pensa come la moglie?» Micki strinse gli occhi in un'espressione sospettosa. «So cosa vuole sentirsi dire. Vuole che io dica che il dottor Glenn ha fatto qualcosa a Callie. Be', sono tutte stronzate. Quelli della tv non hanno capito niente. Il dottor Glenn aiuta la gente di queste parti più di quanto immagina. Se lo conoscesse come lo conosco io, saprebbe che non farebbe mai del male a nessuno, figuriamoci alla sua bimba.» Stride si rese conto che Migdalia Vega era la prima persona, tra quelle con cui aveva parlato, che aveva preso le parti di Marcus Glenn. «Lui le piace, vero?» «Certo che mi piace. Quanto è successo a sua figlia è terribile, ma lui non

c'entra niente.» «Ha idea di cosa sia successo a Callie?» Micki scosse la testa. «Qualcuno l'ha presa. Probabilmente qualcuno che vuole alleggerire le tasche del dottor Glenn. Quando si hanno i soldi, tutti vogliono una fetta della torta.» «Ma non ha idea di chi potrebbe essere stato?» «Se lo sapessi, secondo lei non glielo direi? Potrebbe essere stato chiunque.» «Abbiamo cercato di capire come il responsabile sia riuscito a entrare in casa» riprese Stride. E aggiunse: «Lei ha una chiave, vero?». «Certamente.» Incrociò le braccia sul petto, stizzita. «Ehi, pensa che io c'entri qualcosa? È questo che le ha detto la signora Glenn? Io non farei mai del male a Callie. Mai.» «Non ho detto questo. Mi chiedevo solo se qualcuno potesse aver rubato la sua chiave.» «Assolutamente no.» Micki infilò una mano nella stretta tasca dei jeans e ne estrasse un grosso mazzo di chiavi. «Sono le chiavi delle case in cui lavoro come baby-sitter. Le porto sempre con me. Non me ne separo mai, tranne quando vado a dormire la sera.» «Devo considerare tutte le possibilità, Micki. Non sto dicendo che lei avrebbe fatto intenzionalmente qualcosa di male, ma è facile commettere un errore. Forse ha raccontato a qualcuno quanto è bella la casa dei Glenn o di quanti soldi guadagna Marcus Glenn. Forse una sua amica l'ha poi detto al suo fidanzato. Sono cose che succedono.» «Le ho già detto di no» insistette Micki. «Pensa che abbia tempo di frequentare i bar, a bere margarita e a raccontare storielle? Secondo lei dove troverei il tempo di andare in giro a scoparmi i ragazzi, quando lavoro ogni giorno della settimana? Ho già imparato la lezione, sa? Sono ben contenti di infilartelo tra le gambe, ma non vogliono essere lì il mattino dopo mentre ti lavi i denti. Quindi mi faccio in quattro solo per me e mia madre, fine della storia.» «Va bene, ho capito» disse Stride. «Ma se le dovesse venire in mente di aver parlato con qualcuno, magari in modo del tutto innocente, mi chiami. È molto importante. Da questo potrebbe dipendere l'incolumità di Callie.» «Lo so, ma non so dirle cosa sia successo. Non ho sentito niente, okay?» Micki guardò a terra. Si era resa conto di ciò che aveva detto. E anche Stride. La verità pendeva tra loro come bucato steso ad asciugare. «Quand'è stata l'ultima volta che ha fatto da baby-sitter a Callie?» chiese lui. «Lo scorso fine settimana, credo.» «Crede?» «Sì, sabato, direi. Il dottor Glenn e sua moglie erano andati a Duluth per un evento di beneficenza.»

«Quella è stata l'ultima volta?» ripetè Stride, con voce dura. «Direi di sì.» Micki riprese a raccogliere le foglie secche sull'erba. Alcune le si attaccarono alle scarpe da ginnastica. «Il dottor Glenn le chiede di badare a Callie quando sua moglie non c'è?» «A volte.» «La signora Glenn era a Minneapolis ieri, giusto?» chiese. «Sì, l'ho saputo.» «E ieri l'ha chiamata per lavorare?» Micki scosse la testa. «No.» «Quindi non era a casa dei Glenn?» «No.» «Dov'era ieri sera?» «Qui» rispose. «Sono rimasta a casa.» «Da sola?» «Con mia madre. Può chiederglielo.» Stride attese un momento. Micki continuava a non guardarlo. «Che macchina ha, Micki?» le chiese. «Un pick-up Ford bianco.» «Uno dei vicini ha visto il suo fuoristrada a casa dei Glenn, ieri» mentì. «Devono essersi confusi. Io non ero lì.» Non ho sentito niente, okay?» «Io credo di sì, invece» ribatté Stride. «Ieri sera lei era in quella casa quando Callie è scomparsa. Penso che le convenga dirmi cosa accidenti è successo.»

7 «E va bene» ammise Micki. «C'ero. Ma non so cosa è successo.» «Marcus Glenn ci ha mentito» sbottò Stride. «Ha detto che era in casa da solo.» «Non è come pensa. Callie non c'entra, e non è stata un'idea del dottor Glenn. L'ho supplicato di non coinvolgermi. L'ultima cosa che volevo era ritrovarmi con la polizia che mi stava addosso.» «Perché?» Il volto rotondo di Micki avvampò di rabbia. «Perché? Sono clandestina, cazzo. E anche mia madre. Se fossi rimasta sul posto, i poliziotti mi avrebbero fatto delle domande, i giornalisti mi avrebbero fotografata. Pensa che nessuno avrebbe puntato il dito contro la mia condizione di clandestina? Secondo lei cosa avrebbero scritto i giornali? In un batter d'occhio io e mia madre ci saremmo ritrovate su un aereo per il Messico.» «A me non interessa che sia una immigrata illegale» disse Stride. «Sì, solo fino a quando non avrà più bisogno di me» ribatté Micki, e gettò a terra il rastrello. «Perché Marcus Glenn ha mentito per coprirla?» «Perché è un brav'uomo! Non è come lo dipingono sui giornali. Mi ha aiutata fin da quando lo conosco.» «Ci va a letto?» chiese Stride. «Era in camera sua, la notte scorsa?» Furibonda, Micki, attraversò la pila di foglie, sparpagliandole sul prato. Faceva rapidi respiri che le gonfiavano il petto. Puntò un dito contro Stride. «È questo che pensa, vero? Che il signor Glenn mi aiuta solo perché mi faccio fottere? Be', fottiti tu, sbirro. Per me puoi anche andare all'inferno.» «Micki, possiamo avere questa conversazione qui o nella stazione di polizia di Grand Rapids» la ammonì Stride. «Capito? Ora risponda alla mia domanda.» «La risposta è no! Pensa che un uomo come Marcus Glenn perda il suo tempo dietro a una ragazza come me? Se me lo chiedesse, non esiterei a fargli passare una delle notti più belle della sua vita, perché gli devo molto. Ma lui non lo farebbe mai.» «Non le credo. Lei era nel suo letto, vero? Sta cercando di proteggerlo.» «Non ero insieme a lui! Ero nell'appartamento sopra il garage a guardare la televisione. Mi sono addormentata. Fine della storia. L'ho visto solo quando è entrato nella mia stanza per dirmi di Callie.» Micki spalancò gli occhi e si mosse verso Stride. «Brutto stronzo, è questo che voleva sapere, vero? Voleva sapere se il dottor

Glenn era da solo. Ma io le ribadisco che lui non ha fatto nulla!» «Cominciamo dall'inizio. Mi racconti tutto.» «No. Mai fidarsi di uno sbirro. Io non le dico altro.» «Micki, sta peggiorando la sua situazione» disse Stride. «Quando è andata a casa dei Glenn?» Micki fece spallucce. «Ieri pomeriggio.» «L'ha chiamata il dottor Glenn?» «Sì. Mi ha detto che sua moglie si era recata nelle Città Gemelle e mi ha chiesto se potevo tenere d'occhio Callie. Gli ho risposto di sì.» «Questo a che ora è successo?» «Intorno alle due. Sono rimasta con Callie tutto il pomeriggio, l'ho fatta cenare e l'ho messa a letto intorno alle sette. Il dottor Glenn aveva del lavoro da sbrigare, così mi ha chiesto se potevo trattenermi anche per la serata e dare un'occhiata a Callie prima di andarmene.» «Dove ha trascorso la serata?» «Nella taverna hanno un tavolo da biliardo. Sono stata lì a giocare e ad ascoltare musica.» «Ha visto o sentito niente, nel frattempo? Qualcuno è venuto o se ne è andato dalla casa? Qualcuno ha telefonato?» «No, per quanto ne so eravamo soli, io e il dottor Glenn. Il telefono ha squillato un paio di volte, ma penso che lui abbia risposto dal suo studio.» «Poi cosa è successo?» «Intorno alle dieci, il dottor Glenn è sceso per informarmi che sua moglie era bloccata in città a causa della nebbia. Mi ha chiesto se potevo dormire nell'appartamento sopra il garage, nel caso Callie avesse avuto bisogno di qualcosa. Ogni tanto capita che lo faccia, e la richiesta non mi ha sorpresa. Non ero particolarmente entusiasta all'idea di rimettermi in strada, così sono rimasta.» «Come le è sembrato il dottor Glenn?» Micki scosse la testa. «Come al solito. Andava tutto bene. Callie dormiva.» «A che ora è andata nella dépendance?» «Non ricordo con precisione. Direi verso le dieci e un quarto.» «L'appartamento guarda sul davanti della casa, giusto?» chiese Stride. «Sì, ci sono un paio di finestre che danno sulla strada. Non ho visto niente. Niente fari né altro. E non ho nemmeno sentito nulla.» «È mai uscita dalla sua stanza?» «No. L'appartamento ha un bagno indipendente. Dopo essermi fatta una doccia, mi sono messa a letto a guardare la tv. Mi sono addormentata con il televisore acceso.» «Che ora era?» «Ho iniziato a guardare I Simpson alle dieci e trenta e non ho visto la fine dell'episodio. Mi sono svegliata all'una, quando il dottor Glenn ha bussato

alla porta della camera.» «Cosa voleva?» «Voleva controllare se Callie era con me, ma non era così.» «Esattamente, cosa le ha detto?» domandò Stride. «Mi ha detto che Callie era scomparsa e che avrebbe chiamato la polizia. A quel punto ho iniziato ad aver paura.» «Come stava il dottor Glenn?» «Non saprei. Di certo era sconvolto. Non urlava e non piangeva, intendiamoci, ma lui è fatto così. È il tipo che mantiene sempre la calma. Ma non significa che non fosse spaventato. Cercava di capire cosa potesse essere successo, mentre io ero in preda al panico. È stato allora che mi ha detto di andarmene. Gli ho detto che io non sapevo nulla, perciò non avrei potuto essere d'aiuto.» «Ha visto o sentito qualcosa, qualunque cosa, tra le dieci e trenta e l'una del mattino?» «Niente» insistette Micki. «Dormivo della grossa.» Stride scosse la testa, frustrato. In quell'arco di due ore e mezza o qualcuno era entrato in casa e aveva rapito Callie, o Marcus Glenn aveva fatto sparire la figlia. Ma, nonostante la presenza in casa di un altro testimone all'ora del crimine, si trovavano di nuovo al punto di partenza. Senza risposte. Si congedò da Micki e scese lungo la collinetta del cimitero. Si fermò nei pressi delle tombe dei genitori di Marcus Glenn e immaginò il chirurgo che veniva in visita al cimitero, un pellegrinaggio nella terra delle sue origini. Lì attorno, altre lapidi riportavano il nome Glenn. Intere generazioni della famiglia erano sepolte in quel luogo: cugini, zie, zii, nonni. Si chiese se anche Marcus si sarebbe fatto seppellire lì o se avrebbe scelto una zona più prestigiosa. Stride pensava di conoscere la risposta. Non si torna mai indietro, nemmeno per ricongiungersi ai morti. Marcus Glenn viveva già in un mondo diverso, sulle sponde del lago Pokegama. Una bella moglie. Una bella casa. Una bella figlia. La famiglia perfetta. Quasi. «Dove sei, Callie?» chiese Stride a voce alta. Rimase in attesa, come se si aspettasse una risposta, ma sentì solo il tintinnio della corda sul palo della bandiera.

8 Si pose di nuovo la stessa domanda: avevano fatto la cosa giusta? Ora che tutto era finito, sperava che i dubbi lo avrebbero abbandonato. Fissò il letto della bambina e si disse che l'unico modo per rimediare a un torto è prendere in mano le redini. Avevano fatto ciò che doveva essere fatto. Era l'unica soluzione possibile. Erano dalla parte degli angeli. Voleva solo dimenticare. Cancellare i ricordi. Perdonare lo sbaglio. Sembrava una richiesta da poco, dopo gli orrori dell'ultimo anno. Invece no. Non riusciva a liberarsene. Ogni volta che cercava di dormire, scoppiava a piangere nel buio. Quando finalmente chiudeva gli occhi, si ritrovava di nuovo nel bosco. Aveva scelto il luogo della sepoltura tra le braccia accoglienti dei sempreverdi. Il vento freddo gli rombava nelle orecchie. Procedette tra i cespugli, bassi e fitti, con i piedi che facevano scricchiolare i rami caduti e le pigne secche, fino a raggiungere una radura nella foresta, un luogo adatto dove scavare. Dal punto in cui si trovava, guardò oltre l'intrico di tronchi, verso la strada sterrata e i contorni delle lapidi sulla collina. Gli alberi tremavano e sussurravano, come se avessero paura di lui. Si fermò per assicurarsi di essere solo. La notte senza stelle avvolgeva il cimitero come una coperta sopra la testa di un bambino. Il groviglio di rami impediva di vedere il cielo e le nuvole. In quel luogo abitavano solo gli animali e le anime dei morti. Non credeva che nemmeno Dio fosse li con lui, quella sera. Dio aveva trascorso l'ultimo anno in viaggio da qualche altra parte. Gli animali restavano nascosti al buio, ma lui avvertiva i loro occhi su di sé. Con la torcia illuminò i loro escrementi neri, sul letto di foglie. Temeva che i predatori potessero sentire l'odore della carne marcescente sepolta nel terreno e cercare di raggiungerla. Il pensiero lo inorridiva. Ecco perché doveva scavare in profondità. La vanga affondò nel morbido letto di aghi di pino e penetrò nel terreno. Trasse un profondo respiro, poi spinse in basso l'attrezzo e sollevò una badilata di terra nera come caffè. Ripetè più volte l'operazione, producendo un rumore metallico ogni volta che cozzava contro le rocce smosse. Lavorava veloce, poiché voleva concludere alla svelta quel lavoro raccapricciante. La bocca aperta nel terreno diventava sempre più larga e profonda. Sassolini e terriccio rotolavano giù dalla piramide di zolle scavate e ricadevano nel buco, che ormai era pronto ad accogliere il fagotto avvolto nel lino ai suoi piedi. A inghiottirlo e a consumarlo. Continuò a scavare la tomba. Quando ebbe finito, lasciò cadere la vanga e si

sedette, appoggiando la schiena allo spesso tronco di un albero. Il sudore gli si congelava sulla pelle. Gli gocciolava il naso, in parte per l'aria della notte e in parte per il dolore che provava. Era arrivato al punto di non ritorno, e si chiese se ce l'avrebbe davvero fatta. Deporre il corpicino nella terra, ricoprirlo e andarsene. Almeno l'aveva portato in quel posto, dove avrebbe potuto comunicare con gli spiriti della famiglia. Senza dubbio le anime dei morti avrebbero accolto quella creaturina tra di loro. Forse, finalmente, Dio sarebbe tornato a fare quello che per tanto tempo non aveva fatto. Sorvegliare. Proteggere. Non poteva attendere oltre. Anche a quell'ora tarda, qualcuno sarebbe potuto passare da una strada isolata e chiedersi cosa ci facesse un'auto parcheggiata al bordo della carreggiata. Avrebbe potuto prendere il numero di targa. Chiamare la polizia. Un adolescente, in una delle fattorie vicine, avrebbe potuto scorgere la luce della sua torcia e decidere di andare a dare un'occhiata. Se fosse riuscito a concludere il lavoro e ad andarsene senza farsi notare, nessuno, poi, avrebbe avuto motivo di indagare in quella zona. Raccolse la piccola salma avvolta in un telo pulito. Praticamente era senza peso. Si inginocchiò, si tenne in equilibrio appoggiando i gomiti sul bordo bagnato della buca e si piegò verso il basso per depositare delicatamente il fagotto sul fondo della tomba. Poi si rialzò e si pulì il volto. Raccolse la pala, raccolse una badilata di terra e la buttò nella fossa. Quando la terra sporca toccò il telo bianco, fece una smorfia. Spalò più velocemente e coprì tutto il corpo fino a lasciare allo scoperto solo un quadrato di tessuto bianco, non più grande di un francobollo. Con la badilata successiva, sparì anche quello. Riprese a respirare più regolarmente. Livellò il terreno poi si mise a raccogliere manciate di gialli aghi di pino e a spargerli sulla zona che aveva smosso. Quando puntò la torcia verso il terreno, sembrava che di lì non fosse passato nessuno. Nulla indicava la presenza di una tomba. Era come se quella creatura non fosse mai esistita. Avrebbe dovuto andarsene e basta, ma sentì il bisogno di lasciare un segno. Per ricordare. Infilò una mano in tasca, trovò un giocattolo di carta accartocciato e decise di lasciarlo lì. Con la solennità di un padre che deposita dei fiori sulla tomba del figlio, lo posò tra i ramoscelli e il terriccio. Ecco fatto. Raccolse la pala e, attraverso i boschi, tornò alla macchina. Vide la nebbia raccogliersi tra le valli e restare sospesa sulla strada come una nuvola. A fari spenti, scomparve al suo interno.

9 Stride tornò dal cimitero nel tardo pomeriggio di venerdì e parcheggiò davanti al tribunale della contea di Itasca, dove si trovava il dipartimento dello sceriffo. L'edificio a tre piani occupava un intero isolato e includeva gran parte degli uffici della contea. Lui e Serena potevano considerarsi fortunati a disporre di un ufficio all'ultimo piano, grande come una cabina armadio, da usare come saletta riunioni durante le indagini. Stride raggiunse l'ingresso passando accanto al monumento di granito dedicato ai veterani e sotto la bandiera degli Stati Uniti, mossa dal vento, ma prima di entrare sentì brontolare lo stomaco. Non aveva mangiato nulla dalla sera precedente, a parte una ciambella al cioccolato, e iniziava a essere anche in carenza di caffeina. Dall'altra parte della Quarta Strada individuò un Burger King e decise di consumare un pranzo unto e fuori orario. Nel parcheggio, passò accanto a una Ford Taurus arrugginita. Al volante sedeva una donna magrissima, intenta a divorare un doppio Whopper accompagnato da una bibita gassata. Quando i loro sguardi si incrociarono, lei sputò un pezzo del panino nel sacchetto di carta e si affrettò ad abbassare il finestrino per chiamarlo. «Ehi!» Stride si arrestò. La donna scese dall'auto, portando con sé l'odore di fritto, e tese una mano. Lui la strinse e si pulì gli schizzi di ketchup che gli erano finiti sulle dita. «Lei è il tenente Stride, vero? Io sono Blair Rowe, del "Grand Rapids Herald".» Stride sbuffò. «Niente interviste, Blair. Se avessi qualche novità, gliela direi. Ho dieci minuti per mangiare, poi devo tornare dentro.» «Dieci minuti sono perfetti. Niente di ufficiale, solo qualche retroscena. Mi faccia questo favore.» L'ultima cosa che Stride desiderava era pranzare con una giornalista, ma si trattava di uno di quei casi in cui la visibilità mediatica era da preferirsi. Callie doveva occupare le prime pagine finché qualcuno non fosse riuscito a trovare una pista solida. «Dieci minuti» concesse. «Grandioso, fantastico. Vada pure a prendere da mangiare, io la aspetto a un tavolo all'interno del locale. Le sono davvero grata, tenente.» Stride scelse un panino al pollo, niente patatine, e una Diet Coke. Quando gli diedero il vassoio con la sua ordinazione, vide che Blair Rowe si era seduta a un tavolo accanto alla finestra e agitava entrambe le braccia per attirare la sua attenzione. Aveva già consumato gran parte del suo hamburger e si infilava in bocca tre patatine alla volta. «Come riesce a essere così magra?» le chiese. «Adrenalina» rispose lei.

Blair non smetteva mai di muoversi. Anche mentre ingollava il cibo, tamburellava le dita sul tavolo, accavallava e scioglieva le gambe e cambiava continuamente posizione sulla sedia. Guardandola, Stride fu assalito da una leggera nausea causata da tutto quel movimento. «Lei sta seguendo il caso di Callie per la CNN, giusto?» le chiese. «Sì! Questa è una storia davvero, davvero, davvero grossa! Stasera comparirò al Nancy Grace. Vogliono qualcuno che conosca la zona. Per una volta nella mia vita, il fatto di vivere nel mezzo del nulla è servito a qualcosa.» «Congratulazioni.» Lei finse di non cogliere il sarcasmo nella sua voce. «Grazie! Questa è una svolta, per me. Cioè, so che è una vicenda terribile, ma non sa cosa si prova a lavorare su una notizia di interesse nazionale. Mia madre registra tutti i notiziari. Di solito, la vita a Gran Rapids fuori stagione procede in una calma esasperante. A novembre, persino un clown che vomita alla festa di compleanno di un bambino fa notizia.» I folti capelli neri le scivolarono sul dorso del naso e lei li scostò con l'indice. «Lavora al giornale da molto tempo?» chiese Stride. «Due anni» rispose lei, sorseggiando la bibita con la cannuccia. «Mi piacerebbe andare nelle Città Gemelle, ma i quotidiani stanno tagliando a destra e a manca. È un brutto momento per fare i giornalisti. Chi lo sa, forse potrei fare il grande salto e passare alla televisione. Non ho mai pensato di avere un talento per la diretta, ma mi piace vedere le lucine che diventano rosse!» Stride non rispose. La personalità di Blair era come una raffica di mitra, e dubitava che fosse adatta ai toni posati della televisione. Pensava anche che i suoi capelli neri non avessero l'aspetto curato e perfettamente scolpito di una giornalista televisiva. Erano secchi e, dallo spessore degli occhiali, era facile immaginare che fosse praticamente cieca. Le lenti le ingrandivano gli occhi scuri facendoli apparire giganteschi. Aveva lineamenti spigolosi, il naso che sembrava una pista da sci e il mento a punta. Notò anche un paio di foruncoli che la donna cercava di nascondere con il fondotinta, e i denti che avrebbero avuto bisogno di una raddrizzata. No, Blair non era affatto pronta per la sua apparizione televisiva. La donna finì il panino e si leccò la punta delle dita. Con aria furtiva, si guardò intorno e si piegò in avanti. «Lei sa qual è la domanda che tutti si pongono. È stato Marcus Glenn?» «No comment» rispose Stride. «Oh, andiamo, tenente. Possiamo aiutarci a vicenda. Io conosco Grand Rapids come le mie tasche. Mio padre ha lavorato alla UPM per tutta la vita e mia madre insegna inglese alla scuola media. Questa è la mia città.» «E allora?» «E allora da queste parti non esistono molti segreti. Insomma, perché mai avremmo bisogno di cartelli segnaletici? Tutti sanno dove vanno gli altri. Secondo lei non ho mai sentito le voci che da anni circolano sul conto di

Marcus Glenn?» «Quali voci?» chiese Stride. Blair sorrise. Si sistemò gli occhiali sul naso. «Prima lei.» «Senta, Blair, questo non è un gioco. Stiamo cercando di ritrovare una bambina scomparsa.» «Lo so, ma entrambi dobbiamo fare il nostro lavoro. Il mio è ficcare il naso negli affari degli altri.» Stride diede due morsi al panino e decise che non aveva più fame. Allontanò il vassoio e disse: «Devo andare». «Va bene, va bene» lo fermò Blair, prendendolo per un braccio. «Le mostrerò le mie carte e lei mi mostrerà le sue. Corre voce che il matrimonio di Marcus e Valerie Glenn stia vacillando. Molto. Lo sapeva che lei va da uno strizzacervelli?» «E lei come fa a saperlo?» «Gliel'ho detto, la città è piccola. La riservatezza paziente-medico non vale molto quando la gente tiene gli occhi aperti. Tutti vedono chi entra in quali portoni, sa?» Stride rimase in silenzio. «Ha già avuto un esaurimento nervoso. Il perché lo sanno tutti. Marcus ha una collezione di amanti. Passa interi week-end a Las Vegas, e può immaginare cosa combina. In quella casa ci abita una famiglia messa molto male.» Stride fece spallucce. «Quale famiglia non lo è?» «Touché. Abbiamo tutti dei segreti, è vero. Ma io ho un fiuto particolare per le situazioni rognose. È stato all'ospedale di Duluth, dove lavora Marcus?» «Ci andrà domani la mia collega.» «Io ci sono andata stamattina» dichiarò Blair con un sorriso complice. «Praticamente nessuno vuole parlare di lui. Hanno tutti paura.» «Perché?» Blair inclinò il sacchetto di patatine per farsi cadere in bocca le ultime briciole e il sale. «Adoro le patatine. Come si fa a non amarle?» «Di cosa hanno paura all'ospedale?» ripetè Stride. «Se non piaci a Marcus Glenn, sei licenziato» rispose Blair. «Nessuno vuole rilasciare dichiarazioni ufficiali su di lui. Ha presente quando qualcuno fa qualcosa di sbagliato e i suoi amici e vicini dicono, no, impossibile, non può essere? Ecco, all'ospedale nessuno sembrava ansioso di dirmi che Marcus fosse innocente. Invece, hanno detto tutti di essere rimasti molto sorpresi quando lui e Valerie hanno avuto la bambina.» «Questo non significa nulla.» «Ho capito, tenente. Non vuole sbottonarsi. Risponda almeno a questa domanda: può escludere la possibilità che Marcus Glenn abbia ucciso sua figlia?» «Dal mio punto di vista, Callie è viva e io la troverò» rispose Stride. «La cosa migliore che voi giornalisti potete fare è continuare a pubblicare la

sua foto, nella speranza che qualcuno riconosca la bambina.» Blair mordicchiò l'estremità della cannuccia. Sbatté un ginocchio sotto il tavolo, con una forza tale da rovesciare in parte la bibita di Stride. «Oh, lo farò. Ma se ci sono degli scheletri nell'armadio dei Glenn, io li troverò.» «Non si azzardi a tenerci nascoste delle prove» sbottò Stride. «Nasconderle? Sta scherzando? Le vedrà alla CNN!» Stride allungò un braccio sotto il tavolo, strinse il ginocchio di Blair in una morsa d'acciaio e le tenne ferma la gamba. «Blair, lei è nuova di questo gioco. I notiziari televisivi non danno un buon esempio perché trasformano ogni crimine in un giallo. Ma qui abbiamo a che fare con la vita di persone reali.» «Non sono stupida» replicò lei. «Infatti non lo penso.» «Ma sono impaziente, e non mi piace aspettare che la polizia mi getti le briciole.» Stride si alzò in piedi. «Lei ha figli, Blair?» «Sì, un maschio. Quando sono al lavoro lo lascio a mia madre. Perché?» «Provi, per un minuto, a mettersi nei panni di Valerie Glenn.» «Ehi, guardi che capisco benissimo. Spero davvero che lei trovi Callie. È solo che non sono molto convinta che ci riuscirà.» Stride fece per andarsene. «Tenente?» lo chiamò Blair. «Cosa c'è?» «So della baby-sitter.» «Brava.» «Vuole sentire la mia teoria?» Lui la fissò, accigliato. «Sentiamo.» Blair si guardò di nuovo intorno, poi si alzò in punta di piedi e, all'orecchio di Stride, sussurrò: «Penso che Marcus Glenn e Micki Vega abbiano commesso questo crimine insieme».

10 Il sabato mattina, Serena partì da Duluth in direzione di Grand Rapids. Cristalli di ghiaccio sferzavano il parabrezza dell'auto. Il cielo era una lastra grigia, solcata da nuvole simili a scie di fumo. Passò accanto a campi paludosi dove alberi scheletrici spuntavano dall'acqua stagnante. I boschi a nord avevano perso la tinta rosso mattone e arancione acceso di settembre, sostituita ora da sfumature marroni o bruno rossastre. Ogni pochi chilometri passava sopra a fiumi neri e attraverso paesini composti da una manciata di case, con al massimo un negozio di liquori in un vecchio edificio in mattoni o uno squallido motel con poche stanze che tirava avanti con i soldi dei turisti. Per la maggior parte del tempo, lungo la strada non incrociò anima viva. Mentre guidava, pensava a Stride. Quella mattina lo aveva osservato mentre dormiva. Ovunque fosse, era a un milione di chilometri da lei. Nelle ultime settimane l'aveva sfuggita, si era estraniato, ritirato, e ora erano di nuovo due estranei. Si erano separati con la stessa facilità con cui si erano avvicinati. Era arrabbiata soprattutto perché aveva permesso che succedesse senza fare nulla. Aveva lasciato che si allontanasse da lei, anziché affrontare insieme il dolore che lui provava. Se era questo che Stride voleva, se era così che doveva andare, allora Serena avrebbe protetto innanzitutto se stessa, e finto di sapere che, in ogni caso, doveva finire in quel modo. Forse era proprio così. Forse si erano ingannati a vicenda. C'erano sempre state delle crepe, piccole divergenze, all'apparenza di poco conto, che il peso del tempo e della tensione aveva trasformato in voragini. Serena era consapevole che se la faccenda aveva preso quella piega non era colpa di nessuno. Tutto fila liscio e poi, all'improvviso, non è più così, entrambi lo sanno ma nessuno dei due vuole ammetterlo. Squillò il cellulare. Era lui. L'uomo che amava. «Stamattina non mi hai svegliato» disse. Serena si stropicciò gli occhi e represse il senso di ansia che provava nell'udire la sua voce. «Scusa, ma ultimamente non hai dormito molto, e ho pensato che un po' di riposo ti avrebbe fatto bene.» «Hai ragione, grazie.» Poi aggiunse: «Hai una voce strana. Va tutto bene?». «Certo» lo rassicurò lei. Mentire era più facile. Fingere era più sicuro. Va tutto bene, Jonny, ma sappiamo entrambi che non è vero. Lei colse la sua esitazione, come se volesse insistere per farsi dire la verità, ma sapeva che non lo avrebbe fatto. «Come procedono le indagini?» Era la domanda di un collega a una collega. Serena udì un rumore nella propria testa: era una nuova fessura, una

venatura, una crepa che si apriva e si allargava. «Abbiamo controllato le liste dei clienti dei motel intorno a Grand Rapids» rispose, in tono piatto. «Stiamo ancora facendo delle ricerche, ma non c'è niente di particolarmente sospetto. La polizia stradale ha affisso la foto di Callie nelle stazioni di polizia. Abbiamo qualche pista, ma niente di significativo.» «Che mi dici delle riprese delle telecamere?» «Abbiamo trovato un paio di telecamere di bancomat che danno verso la 169 e la Highway 2. Tra la nebbia e la qualità del video, non c'è molto da vedere. Ho inviato tutto alla BCA, magari loro riescono a incrementare la qualità in modo digitale. «Secondo me dovremmo dragare il lago Pokegama» disse Stride. Serena accostò la Mustang al bordo della superstrada. Spense il motore e ascoltò il silenzio. «Sarà un brutto colpo per Valerie Glenn.» «Spero di non trovare nulla, ma se aspettiamo troppo, il ghiaccio ci impedirà ogni ricerca.» «Aspettiamo ancora qualche giorno.» «Sì, d'accordo, ma ho una brutta sensazione al riguardo.» Poi aggiunse: «Se fosse stato un rapimento a scopo di riscatto, i rapitori si sarebbero già fatti vivi». «Lo so.» «Le mie piste continuano a condurmi a Marcus Glenn» disse Stride. «Non voglio che i giornalisti ne siano informati, ma forse dovremmo chiedergli di sottoporsi alla macchina della verità. Ha già mentito riguardo a Micki Vega. Chissà cos'altro sta nascondendo.» «Si nasconderà dietro un avvocato e non dirà una sola parola.» «Sarebbe un chiaro segnale.» «Non lo so» disse Serena. «Glenn non piace neanche a me, ma non lo vedo come un violento o un depravato.» «Cerca di scoprire quanto più possibile all'ospedale» concluse Stride. «Puoi contarci.» Quando non ebbero più niente da dirsi, tra loro si insinuò un lungo e imbarazzato silenzio. Serena fissava un fienile abbandonato, dall'altra parte della strada: un buco sul tetto, dove erano crollate le travi, lo esponeva alle intemperie. Dall'interno volarono fuori alcuni merli. L'erba era lunga e ondeggiava intorno alle pareti piene di crepe. «Ehi, Jonny?» «Sì?» «Non andiamo tanto bene, vero?» Serena non riusciva a credere di averlo detto a voce alta. Bastava così poco per smettere di fingere. Ora si camminava su un terreno minato. Stride attese a lungo, poi disse: «È colpa mia». «No, non è solo tua.»

Due ore dopo, Serena percorreva Superior Street, nel centro di Duluth, insieme a un'infermiera dell'ospedale St.Mary, di nome Ellen Warner. A Lake Avenue, le due donne attraversarono la strada e individuarono una panchina riparata dal vento. Faceva troppo freddo per stare in strada, ma Ellen aveva insistito per parlare dove nessuno le avrebbe potute sentire. Al St.Mary nessuno sembrava ansioso di parlare di Marcus Glenn. Ellen aprì un sacchetto da asporto e ne estrasse l'hot-dog acquistato al Coney Island, il ristorante all'inizio della strada. Lo scartò e lo addentò. Una goccia di senape le rimase sulle labbra. «Grazie per aver accettato di incontrarmi» disse Serena. «Be', lei tenga la cosa sotto silenzio, intesi?» rispose Ellen, pulendosi la bocca. «Il dottor Glenn è molto suscettibile. Se un'infermiera finisce sul suo libro nero, si ritrova senza lavoro.» Ellen indossava un camice viola con sopra una giacca di jeans e scarpe da ginnastica bianche fluorescenti. Aveva superato da poco la cinquantina, aveva capelli corti color argento e una corporatura tozza e pesante. «Da quanto tempo lavora con lui?» chiese Serena. «Saranno ormai dieci anni. Devo ammetterlo, è bravo. Anzi, diciamo pure eccezionale. Il suo ego non entrerebbe in uno stadio da calcio, ma in sala operatoria è un mago. È anche premuroso con i pazienti. Non lo si direbbe, perchè con tutti gli altri è un rompicoglioni colossale. Ma con i pazienti diventa un'altra persona, e loro lo adorano. Non ho mai capito come le persone riescano a dividere la loro vita in compartimenti stagni a quel modo, ma con il dottor Glenn bisogna tralasciare il carattere e ammirarne il talento.» «Conosce sua moglie, Valerie?» «Buongiorno e buonasera quando passa in ospedale, niente di più.» Ellen finì il suo hot-dog, accartocciò l'involucro e lo ripose nel sacchetto. Dal taschino del camice prese un pacchetto di sigarette. Ne accese una e notò la sorpresa sul volto di Serena. «So che è una cosa stupida, ma non riesco a evitarlo.» «Che rapporto c'è tra il dottor Glenn e sua moglie?» chiese Serena. «Teso.» «Come mai? Litigano spesso?» «No, niente litigi, almeno non all'ospedale. Sono distanti. Lei cerca di entrare nella sua testa, ma lui, lì dentro, non vuole nessuno.» «Conosce la loro figlia, Callie?» «Certo, ogni tanto la signora Glenn la porta con sé. È molto carina.» «Come padre, il dottor Glenn come le sembra?» Ellen sbuffò una nuvoletta di fumo e osservò Serena con sguardo gelido. «Vuole sapere se potrebbe farle del male? No, non lo credo possibile. Marcus Glenn è innanzitutto un dottore. Non farebbe mai del male a un altro essere

umano.» «Non è quello che le ho chiesto.» «Be', è ciò che si dice in giro. Vuole sapere se lo definirei un padre amorevole e presente? No. Non si siederebbe mai sul pavimento per giocare con la figlia, né farebbe le vocine stupide con un ghigno da scemo sulla faccia. Non è fatto così. Ma da qui a essere un mostro il passo è lungo. Anche se, probabilmente, tra i dipendenti dell'ospedale c'è chi non la pensa come me.» «C'è qualcuno che lo detesta al punto da volergli fare del male? A lui o alla sua famiglia?» Ellen si accigliò. «E' una domanda difficile. Non piace a un sacco di gente perché è un perfezionista. Non tollera gli errori. Ma è difficile immaginare che qualcuno arriverebbe al punto di rapire sua figlia.» «Mi ha detto che alcune infermiere sono state licenziate a causa sua.» «Sì, questo è vero.» «E non gli hanno serbato rancore?» Ellen fece spallucce. «Quasi tutte sono state riassegnate altrove. Un paio voleva comunque cambiare mestiere. Sa, è un lavoro che ti consuma.» «E sul piano personale?» chiese Serena. «Ho sentito dire che Glenn ha avuto relazioni con donne del personale ospedaliero.» Ellen inclinò la testa e spense la sigaretta sul cemento della panchina. «Sì, Marcus ha un debole per quelle giovani e carine. A sua difesa, va detto che le infermiere si trovano davanti un chirurgo, alto, bello e ricco e gli fanno il filo. Ma lui non lascerebbe mai Valerie per nessuna di loro.» «Forse qualcuna si era illusa del contrario.» «Mah, quando si ha una storia con un uomo sposato, bisogna essere consapevoli dei rischi che si corrono. Se si soffre, bisogna biasimare solo se stessi.» «Ho sentito dire che una relazione è stata più seria delle altre» riprese Serena. Ellen guardò l'orologio. «Sarà meglio che torni al lavoro. Ho già detto fin troppo.» «Andiamo, Ellen. Di chi si tratta? E una che conosce?» «Certo, tutti conoscono Regan.» «Regan?» «Regan Conrad. È un'infermiera. Non li ho mai visti insieme, ma ho sentito parecchie voci su di loro. Per un po' è stata una cosa intensa e passionale, anche se a guardare lei non lo si direbbe.» «Perché?» «Be', Regan non è certo al livello di Valerie. È quasi anoressica, ha un sacco di tatuaggi, meno tette di un maschio e un piercing sul labbro. Posso solo immaginare che a letto sia una bomba.» «Si frequentano ancora?»

«No, ho sentito dire che Marcus si è ravveduto e l'ha scaricata all'inizio dell'anno. Mi sa che ha capito che è pazza.» «Pazza?» chiese Serena. «Instabile» puntualizzò Ellen. «E' una brava infermiera, ma quando le prendono i cinque minuti è meglio starle alla larga. E gioca anche sporco. Qualche anno fa ha avuto una lite con un giovane tecnico di laboratorio. Poco tempo dopo, hanno trovato centinaia di immagini porno sul computer di quel ragazzo, e hanno dovuto licenziarlo. E sa chi si scopava Regan in quel periodo? Un tizio del centro informatico.» «Sembra una persona incline a serbare rancore.» «Oh, sì, ma se pensa che c'entri qualcosa con la scomparsa di Callie, si sbaglia. Non è stata lei.» «Come fa a saperlo?» «Giovedì ha fatto il turno di notte. C'ero anch'io. Ricordo di averla vista in mensa, perché si è messa a litigare con il cuoco riguardo a un capello che sosteneva di aver trovato nella minestra.» A Serena non importava se Regan avesse o meno un alibi. «Dove posso trovarla?» chiese. «Lavora al reparto ortopedia insieme a lei e a Marcus Glenn?» Ellen scosse la testa. «Regan è nel reparto maternità. Lavora con le madri e con i neonati.»

11 Maggie Bei aprì la lettera, l'ultima di una lunga serie, spedita dall'avvocato dell'agenzia per le adozioni di Minneapolis. La lesse attentamente poi la strappò. I pezzetti di carta fluttuarono sul pavimento intorno a lei. Si scostò i capelli neri dagli occhi e picchiò il palmo aperto sul tavolo del tinello. «Fanculo» sbottò. Entrò in cucina, spalancò gli sportelli dell'armadietto degli alcolici e tirò fuori una bottiglia mezza vuota di cachaca brasiliana. Poi prese un limone da un cesto vicino al frigorifero, lo tagliò a metà, ne spremette il succo in un bicchiere basso, aggiunse zucchero e ghiaccio e riempì il resto del bicchiere con il rum. Per rispetto nei confronti del suo raffreddore, aggiunse anche un paio di tavolette di vitamina C e le guardò frizzare. Rigirò il tutto, lo trangugiò in due sorsate e ne preparò un altro. «Così va meglio» disse. Maggie si portò il drink nel soggiorno. Viveva all'ultimo piano di una serie di alloggi costruiti sopra lo Sheraton Hotel a Duluth, con vista sul lago Superior. In giro per l'appartamento c'erano scatoloni ancora chiusi. Si era trasferita un mese prima e, da allora, gran parte del suo tempo era stato assorbito dalle indagini sugli omicidi nelle fattorie del nord. Nella casa nuova, aveva avuto a malapena il tempo per andarci a dormire. Maggie sorseggiò la caipirina e fissò il lago. Sapeva bene che non avrebbe dovuto bere, ma non le importava. Era sabato pomeriggio, e tra poche ore sarebbe dovuta passare a prendere Kasey Kennedy. Poi sarebbero andate a trovare Troy Grange, la cui moglie Trisha era scomparsa la sera di Halloween più di due settimane prima. Poteva addolcirgli la pillola quanto voleva, ma dopo la scoperta della quarta vittima, Troy non avrebbe più potuto negare a se stesso la verità. Ormai era un vedovo, padre di due giovani ragazze. Il citofono vicino alla porta d'ingresso ronzò. Maggie posò il bicchiere, andò alla porta e premette il pulsante di risposta. «Sì?» «C'è una persona che chiede di lei» la avvisò la guardia. «Si chiama Serena Dial.» «Le dica che prima di farla salire deve spogliarla e perquisirla.» Maggie udì un'imprecazione. «Sta salendo» disse la guardia, ridendo. «Grazie.» Maggie riprese in mano il drink e attese. Due minuti dopo, sentì bussare alla porta. «Ciao, straniera» esordì Serena. «Ciao, bella.» Serena si guardò intorno e annuì in segno d'approvazione. «Che carino. Mi piace molto.»

«Un giorno finirò il trasloco» promise Maggie, accennando agli scatoloni. Rigirò il ghiaccio nel drink, poi riprese: «Gradisci qualcosa? Se mi punti la pistola alla testa posso preparare anche bevande non alcoliche». «No, grazie.» Maggie si lasciò cadere in una enorme poltrona e dondolò un piede. «Accomodati, facciamo due chiacchiere. Vedo che la dieta sta funzionando: ti trovo davvero bene.» «Gli ultimi tre chili sono i più difficili da perdere» disse Serena. Si sedette sul divano di fronte a Maggie e si piegò in avanti, i gomiti appoggiati sulle ginocchia. «Anche tu mi sembri in forma.» «Davvero? Secondo te come starei con i capelli rossi?» «Rossi? Tu?» «C'è questa poliziotta, Kasey Kennedy, che li ha di un rosso pazzesco. Mi ha fatto venire voglia di provarli. E poi, il nero mi ha stufata.» Dopo un momento aggiunse: «Vedo che sei tornata al lavoro». Serena annuì. «Sì, e in veste ufficiale.» «Ottimo. Sei in città per via di Callie Glenn?» «Sì, sono andata a fare qualche domanda al St.Mary» le raccontò Serena. «Stasera devo incontrare un'infermiera che vive nella parte settentrionale di Duluth. Ha avuto una storia con Marcus Glenn.» «I media non danno tregua al povero dottore, eh?» chiese Maggie. «Secondo te c'entra qualcosa?» «Diciamo che non lo abbiamo ancora cancellato dalla lista dei sospettati.» «Come se la passa Stride? È ancora dell'idea di riprendere servizio, la settimana prossima?» «Direi di sì.» Maggie inarcò un sopracciglio. «Diresti?» «Ha qualcosa che non va, ma non ne vuole parlare» disse Serena. «Mi dispiace.» Serena impiegò del tempo prima di rispondere. «Sì, è un classico tra noi. Due persone testarde con tanto di bagaglio al seguito.» «Lui ti ama molto» commentò Maggie. «Lo so, ma se si chiude a riccio io cosa ci sto a fare? Sono stanca di sentirmi sola anche quando siamo insieme.» Maggie non ribatté. Era un argomento di conversazione che preferiva non affrontare con Serena. Sapevano entrambe come stavano le cose. Maggie ci aveva provato una sola e unica volta con Stride, nei mesi successivi alla morte di sua moglie, ma, per lui, lei era ancora la ragazzina che aveva scelto come partner sul lavoro. Non poteva essere un'amante. Poi in città era arrivata Serena, che aveva solo qualche anno più di Maggie, e Stride si era preso una cotta da record. Maggie stimava Serena, sia come amica che come poliziotta, ma i sentimenti per Stride erano un terreno su cui camminare in punta di piedi, per evitare

che la competizione si insinuasse tra loro. Maggie non riusciva a liberarsi dell'invidia che provava occasionalmente nei confronti di Serena, perché Stride aveva preferito lei. «Secondo te cosa dovrei fare?» chiese Serena. «Mi piacerebbe poterti rispondere.» «Nemmeno io sono senza peccato, me ne rendo conto. Dovrei insistere, stargli col fiato sul collo, invece sono troppo occupata ad avvolgermi nel mio filo spinato.» Si alzò di scatto. «Ho bisogno di un drink.» «No, invece.» «Non ho detto che lo voglio, solo che ne avrei bisogno. Che rabbia.» Scosse la testa e cambiò argomento. «E tu? Come te la passi?» «Sto pensando di tingermi i capelli di rosso. Ti suggerisce qualcosa?» «Ho sentito che siete riusciti a procurarvi un campione di dna del bastardo che ha rapito quelle donne.» «Sì, ma non ci sono ancora i risultati. In ogni modo, dobbiamo prenderlo presto. Ho l'impressione che non abbia ancora finito.» «E le agenzie di adozioni?» chiese Serena. «Come procedono le pratiche?» Maggie fece schioccare la lingua in segno di frustrazione. «Ho sempre pensato che nei cari, vecchi USA i soldi potessero comprare tutto. Un bambino però no, a quanto pare.» «Ci vuole tempo.» «Sì, tempo. Io per prima non avrei tempo per tenere dietro a un bambino, quindi a volte mi chiedo perché mi do tanto da fare.» Maggie sollevò il bicchiere come a voler brindare. «Questa situazione è molto alla Thelma e Louise, non trovi?» «Assolutamente sì.» Maggie finì il drink e si alzò dalla poltrona. Fuori, il cielo si andava tingendo del grigio del crepuscolo. Anche Serena si alzò, le andò accanto e insieme guardarono le luci accendersi nel porto, in basso. Una nave che trasportava minerali ferrosi attraversava il canale, passando sotto il ponte mobile in acciaio. Oltre il ponte c'era la striscia di terra chiamata la Punta, dove abitavano Serena e Stride. «In che punto della zona nord abita, di preciso, quest'infermiera che devi incontrare?» chiese Serena. «In città o nella zona delle fattorie?» «Su, nelle fattorie. Lismore Road, vicino alla McQuade» rispose Serena. «No, non c'è bisogno che tu me lo dica.» Maggie annuì, ma glielo disse ugualmente. «Non è un posto molto sicuro, di questi tempi.»

12 «Mi stai dicendo che Trisha è morta» disse Troy Grange. Maggie sussultò. Troy non era uno che perdeva tempo a girare intorno alle cose. «Non lo sappiamo ancora con sicurezza» rispose. «Non penso che, a priori, si debba dare per scontato il peggio. Una donna è morta. Questa l'unica cosa certa.» «Bugiarda» sbottò Troy. Non voleva essere ostile, solo sincero. Maggie pensava che avesse ragione, ma non poteva dirglielo. Non avrebbe potuto dirlo al marito di nessuna delle vittime, e tantomeno a un amico. Troy Grange era il responsabile sanitario e della sicurezza del porto di Duluth. Avevano lavorato insieme per cinque anni: immigrazione clandestina, rischi di malattie infettive e tutti i crimini commessi nella zona del porto, dagli incendi dolosi agli stupri. In tutto quel tempo, Troy non si era mai nascosto dietro gli avvocati o i limiti di budget. Se qualcosa andava storto, la responsabilità era sua. Era uno con le palle. Troy si passò le mani sulla testa calva. Aveva quarantanni, non era alto ma aveva il corpo di un forzuto da circo. Il viso era grosso: naso bitorzoluto, mento ampio e guance paffute, come uno scoiattolo con la bocca piena di ghiande. Indossava una maglietta rossa aderente e comodi pantaloni di una tuta nera. «Sai cosa non riesco a togliermi dalla testa?» riprese. «Lavoravo sulle navi per il trasporto dei minerali metalliferi, ma Trisha mi ha fatto smettere. Diceva che era troppo pericoloso, e non voleva restare da sola con le bambine. Ora invece sono io ad aver perso lei, e dentro la nostra stessa casa.» «Mi dispiace, signor Grange» mormorò Kasey Kennedy. La poliziotta era seduta all'estremità opposta del divano rispetto a Maggie, con le ginocchia strette una accanto all'altra. Sembrava a disagio e spostava in continuazione lo sguardo da Maggie a Troy. Maggie era pentita di averla portata con sé, ma voleva farle capire che non c'era niente di emozionante nel lavoro investigativo. Troppo spesso, erano solo situazioni cariche di sofferenza. «Lei lo ha visto, vero?» chiese Troy a Kasey. «Ha visto quel bastardo?» «Sì, ma non in faccia.» Troy si alzò dalla sedia e incrociò le braccia sul torace a barile. Le assi di legno scricchiolarono sotto i suoi passi mentre camminava su e giù davanti al camino. «Mi dica cosa pensa» riprese lui. «Lei ha visto cosa ha fatto a quella donna. È solo un assassino del cazzo? Pensa che mia moglie possa essere ancora

viva?» «Non so cosa risponderle, signor Grange» balbettò Kasey. «Naturalmente, spero che sia viva.» Maggie avrebbe voluto dire: Se Trisha è viva, preferirebbe essere morta. «Come stanno le bambine, Troy?» chiese Maggie. Lui tornò a sedersi e si pulì il naso sull'avambraccio, nudo e robusto. «Venerdì le ho portate a trovare i genitori di Trisha, a Chicago, e ho lasciato Emma da loro. Lunedì dovrò tornare al lavoro, e mi sarà impossibile occuparmi di una bambina piccola. E poi, anche ai miei suoceri farà bene avere qualcosa per distrarsi.» «E Debbie?» «Debbie ancora non ha capito cosa sta succedendo.» Si rigirò la fede d'argento intorno al dito e aggiunse: «Non sarei dovuto andare a quella maledetta festa di Halloween. Non dopo che a ottobre era scomparsa l'altra donna». «Non potevi saperlo» disse Maggie. «Non sapevamo di avere a che fare con un criminale seriale.» «Sì, ma io mi occupo di sicurezza. Ho intuito che potevano esserci dei rischi. Cazzo, ho potenziato il nostro sistema di allarme tre giorni dopo aver sentito della scomparsa della prima donna. Lo abbiamo fatto in parecchi.» «Non è colpa tua.» Troy scrollò le spalle. «Invece sì.» «Ci saranno pattuglie e posti di blocco nella zona nord tutte le notti» disse Maggie. «Se ci riprova, lo beccheremo.» «È una zona piuttosto vasta» commentò Troy, scuotendo la testa. «Non voglio sembrare scettico, ma ho l'impressione che su centinaia di chilometri la vostra copertura sarà alquanto insufficiente.» «Ora disponiamo di più uomini. Volontari. Si stanno dando tutti da fare, Troy.» «Lo so, e ve ne sono grato.» Guardò Kasey. «Anche lei parteciperà alle ricerche?» «Ehm, io... sì, certo» mormorò Kasey. «Sia prudente.» Kasey annuì e si guardò le mani. «Papà?» Tutti e tre sollevarono lo sguardo. Debbie Grange, sei anni, era in piedi sulla soglia della sala da pranzo. Indossava un pigiama a pois e teneva un Winnie the Pooh di pezza sotto un braccio. Tony Grange si alzò di scatto. «Cosa c'è, tesoro?» «Voglio che la mamma mi rimbocchi le coperte» mormorò Debbie. Maggie avvertì una tremenda stretta al cuore. Vide Kasey distogliere lo sguardo e mordersi un labbro. Troy cinse la bambina con le sue grosse braccia. «Lo farò io, amore.» «Voglio che la mamma mi rimbocchi le coperte» ripetè la bambina.

«Oh, lo so, ma la mamma non c'è. Ti ricordi? È dovuta andare via.» Grosse lacrime rigarono il volto della bambina. «Dov'è?» «Te l'ho spiegato, tesoro. È dovuta partire per un viaggio. Penserò io a rimboccarti le coperte, va bene? Poi starò lì con te.» «No. Voglio la mamma.» Troy strinse a sé la bambina, che scoppiò a piangere contro la sua spalla. Le cantò una ninnananna sottovoce per cercare di calmarla, e Maggie si rese conto che le costava moltissimo mantenere gli occhi su quella scena. Fece un cenno a Kasey e si alzarono entrambe. Maggie incrociò lo sguardo di Troy e indicò verso la porta d'ingresso. Lui annuì. «Grazie di tutto» sussurrò. «Anche a lei, Kasey. Per favore, tenetemi aggiornato.» Se ne andarono senza aggiungere altro. All'esterno, sulla veranda, Kasey si appoggiò di peso al corrimano: sembrava che stesse per sentirsi male. «Dio» disse. «Sì, è questa la parte peggiore del lavoro» commentò Maggie. «Sei riuscita a farci il callo?» «No, e spero di non riuscirci mai.» Salirono sulla Avalanche gialla di Maggie. Lei di solito, anche la sera, guidava veloce. Non appena furono sulla superstrada, spinse il mezzo a cento chilometri orari. Kasey si aggrappò alla maniglia della portiera. I fanali illuminavano il buio tratto di strada che passava tra le fattorie isolate. «Sei ancora intenzionata a lavorare all'indagine?» chiese Maggie. Kasey poggiò una guancia contro il vetro freddo e fissò i campi scorrere veloci fuori dal finestrino. «Non lo so. Non so più nemmeno se voglio continuare a fare la poliziotta.» Maggie la guardò di sbieco. «Hai passato un brutto quarto d'ora. Alcune persone non riescono a superare mai esperienze del genere. Anche i poliziotti con le palle.» Mentre lo diceva, pensò a Stride. Lui rientrava tra i poliziotti con le palle, ma si teneva dentro tutto il dolore e lo stress, senza mai sfogarsi. Maggie ricordò quanto si era sentito solo nei mesi successivi alla morte della moglie, quando la ferita faceva più male. Aveva cercato di superare il muro che lui aveva eretto per poterlo aiutare, ma era stata respinta, proprio come stava succedendo ora a Serena. Forse Stride era incapace di chiedere aiuto, pensò Maggie. «Continuo a pensare agli occhi di quella donna» disse Kasey. «Quel che è successo è successo. Non puoi fare nulla per cambiarlo.» «Sì, ma mi sento terribilmente in colpa.» «Devi imparare a metterci una pietra sopra.» «È proprio questo il problema. Voglio cancellare quel fatto, dimenticarmene completamente.» Si girò e fissò Maggie. «Secondo te farei male a

licenziarmi? Penseresti che sono una codarda che se la dà a gambe?» «Non sta a me decidere, Kasey» rispose Maggie. «Non so cosa fare. Non riesco a togliermi dalla testa quell'uomo, sai? Ho la sensazione che mi perseguiti. Che sia sempre là fuori e che mi stia aspettando.» Sotto il cielo notturno lui era quasi invisibile, una sagoma silenziosa tra i campi delle fattorie del nord. Teneva le mani infilate nelle tasche della giacca di pile. Il suo alito si condensava in una nuvoletta bianca davanti al viso. I passi sollevavano schizzi dalle piccole pozzanghere ricoperte di ghiaccio sottile, formatesi nei solchi scavati dai trattori che avevano arato il terreno per la primavera. Il rumore provocato dai suoi stivali era simile a quello di un vetro che si frantuma. Aghi di ghiaccio facevano scintillare l'erba bruna. Le sue narici colsero l'odore di bestiame che proveniva da una stalla dall'altra parte della superstrada. I campi terminavano in una macchia alberata. Scivolò tra l'intrico di rami e lasciò orme bagnate mentre attraversava la superstrada e si dirigeva verso la casa. Era una modesta casa di campagna a due piani che mostrava segni di trascuratezza. Il rivestimento in legno aveva bisogno di una mano di vernice e sul passaggio che conduceva alla porta anteriore, due quadrati di cemento si erano deformati e crepati. Foglie morte appassivano nei vasi di argilla collocati su entrambi i lati del garage, che era separato dall'edificio principale. Studiò la casa con attenzione, ma sapeva che lei non c'era. Tutte le finestre erano buie. Si spostò sul retro, dove tre mezze lune d'acciaio spuntavano dal terreno a intervalli regolari lungo le fondamenta. Erano aperte e proteggevano le finestre che portavano al seminterrato. Entrò in una delle bocche di lupo e con la punta dello stivale frantumò il vetro in mille pezzi che caddero sul pavimento in basso. Scalciò numerose altre volte per togliere i frammenti rimasti, poi si appiattì e infilò le gambe e il torso nello stretto passaggio. Si lasciò scivolare e atterrò sul pavimento di cemento. Da una tasca estrasse una piccola Maglite e illuminò l'ambiente circostante. L'aria era fredda e puzzava di chiuso. Si abbassò per evitare i tubi sul soffitto e, calpestando i frammenti di vetro, si diresse alle scale che salivano al piano terra. I vecchi gradini emisero un cigolio simile allo squittio di topi. Salì lentamente. Giunto alla porta, attese e rimase in ascolto, poi la aprì e si ritrovò in una cucina buia. Nel lavandino erano impilati dei piatti sporchi. Sul bancone c'era una mezza cuccuma di caffè, ormai freddo. Il piano di lavoro non era stato pulito, e vide resti di carote e di banana sparpagliati

davanti a una sedia alta e traballante. Annusò l'aria e percepì odore di pesce fritto. Dal tinello passò in soggiorno. Vecchi mobili, probabilmente acquistati a una vendita di quartiere, erano sparsi su un quadrato di moquette beige. Di fronte al televisore c'era un divano di tweed marrone con un tavolino davanti, stracolmo di riviste e libri in edizione economica pieni di orecchie. Sul televisore, scorse tre foto incorniciate e le illuminò con il raggio della torcia. Una ritraeva una coppia di anziani su una strada in mezzo al deserto, le altre due un uomo e una donna. L'uomo era corpulento, con i capelli biondi e folti baffi. La donna aveva capelli di un rosso acceso. Ciao, Kasey. Ricordava con chiarezza il loro incontro nel campo dietro il caseificio. Il suo corpo sembrava quello di un gatto bagnato. Occhi grandi e disperati. Braccia tremanti e mani strette intorno all'arma puntata su di lui, così grossa da farle sembrare molto più piccole. Non pensava che avrebbe sparato. La ferita alla spalla gli faceva ancora male, nel punto dove il proiettile lo aveva graffiato. «Sei una ragazza cattiva» disse ad alta voce. E le ragazze cattive devono essere punite. Controllò il piano terra poi salì al piano di sopra. La prima stanza nel corridoio era un ufficio con scrivania, computer e schedari. Il monitor, sul quale scorreva una sequenza video in riproduzione continua, emetteva una debole luce. Era uno screensaver del filmato di Zapruder che mostrava l'assassinio di Kennedy. Mentre l'uomo guardava, Kennedy veniva ucciso infinite volte da un proiettile alla testa. Roba da pazzi. Poi sorrise della propria battuta. Ci vuole un pazzo per riconoscerne un altro. Frugò tra gli schedari e i cassetti della scrivania, dai quali tirò fuori estratti conto vecchi di mesi e bollette del cellulare. La gente non buttava via mai niente. Sfogliò una copia del giornale di Duluth del gennaio precedente e un numero di febbraio di «Sport Illustrated», L'edizione era dedicata ai costumi da bagno. Continuò a frugare e tirò fuori le cartelle della dichiarazione dei redditi, che sfogliò a una a una. Quasi sul fondo del cassetto trovò una foto di Kasey in accappatoio che abbracciava il figlio appena nato, con la pelle ancora rossa e grinzosa. Sembri stanca, tesoro. Ma i suoi occhi erano sempre gli stessi. Azzurri. Fieri. Si infilò la foto in tasca. La stanza successiva era il bagno. Kasey usava una saponetta alla lavanda. L'uomo individuò alcuni capelli rossi nella vasca da bagno, li raccolse e se li rigirò intorno a un dito. La immaginò uscire dalla vasca di porcellana,

asciugarsi e ammirarsi nello specchio. La piccola stanza da bagno umida e carica del suo profumo. Quando aprì l'armadietto dei medicinali, trovò delle boccette di vitamine a base di olio di pesce e di erba di San Giovanni e delle ricette per Xanax e Zolpidem intestate a lei. Non riesci a dormire, Kasey? Povera piccola. Richiuse l'armadietto e fissò il proprio volto nello specchio. Portava i capelli neri tagliati cortissimi. Un orecchino d'oro pendeva dal lobo dell'orecchio sinistro. La guancia destra era rovinata a causa dell'acne giovanile. Mentre si osservava, vide i suoi occhi scuri prendere vita, come quelli di una bambola attivata da un interruttore. Sorrise, prese un rossetto e con quello scarabocchiò un messaggio sul vetro. Due sole parole per descrivere Kasey. Voglio che tu sappia che sono stato qui. Voglio che tu sappia che non è finita. La stanza da letto era in fondo al corridoio. Il letto matrimoniale non era stato rifatto. Gli sportelli dell'armadio erano socchiusi. Li aprì e rovistò all'interno, toccando le sue camicette e passando le dita sulle maniche di raso. Appesa a una gruccia trovò una sottoveste di raso, la sfilò dall'appendiabiti e la tenne a distanza di braccio. Quando Kasey la indossava, doveva arrivarle appena sopra il ginocchio. Le coppe del reggiseno erano di una misura ridotta. Stese la sottoveste sul letto, fantasticando che dentro ci fosse Kasey. Abbassò lo sguardo e avvertì la solita rabbia ribollire come lava. Per lui, il desiderio prendeva sempre la forma della rabbia. Ma stavolta era diverso, perché Kasey era diversa. Non era come le altre. Pensò di aspettarla nell'ombra e prenderla subito, ma si costrinse a essere paziente. Voleva che lei sapesse. Doveva sentirlo arrivare. Doveva capire che non avrebbe potuto fare nulla per tenerlo lontano. Si voltò verso la porta e in quel momento udì tre bip elettronici smorzati. Infilò una mano nel taschino della camicia ed estrasse il piccolo ricevitore elettronico. La luce rossa sul davanti della scatola nera lampeggiava. Imprecò in silenzio. Alla scuola c'era qualcuno. Qualcuno aveva attivato i sensori che lui aveva collocato lungo il perimetro delle rovine. Non poteva permettere che qualcuno scoprisse il luogo della sepoltura. Non ora. Non ancora. Non prima che avesse finito con Kasey. Corse nel corridoio. Secondo i suoi calcoli, ci volevano un paio di minuti per attraversare il campo buio e raggiungere il suo furgone, poi altri dieci per sfrecciare lungo le strade deserte fino a Buckthorn. Chi c'è? Chi è entrata? Che fosse la polizia?

Non aveva tempo per pensare. Corse verso le scale, ma si fermò di colpo. Dei fari illuminarono le stanze al piano terra. Una chiave girò nella toppa della porta d'ingresso. Stava entrando qualcuno. Era in trappola.

13 Kasey entrò e si chiuse la porta alle spalle. La casa era buia e insolitamente fredda. Da una finestra, vide le luci posteriori del fuoristrada di Maggie sparire in direzione della statale. Si tolse gli stivali e, con i piedi coperti solo dai calzettoni sportivi neri, attraversò il soggiorno disseminato di giocattoli. In cucina, si versò una tazza di caffè freddo, ma subito dopo averlo assaggiato lo versò nel lavandino. «Bruce?» chiamò. Nessuna risposta. Era sola. Da una tasca posteriore dei pantaloni prese il cellulare, compose il suo numero e la chiamata venne subito deviata sulla segreteria telefonica. «Sono io» disse con voce nervosa, quasi infantile. «Pensavo di trovarti a casa, a quest'ora. Va tutto bene? Chiamami appena puoi.» Riagganciò. Si tolse la camicia dell'uniforme dai pantaloni e la sbottonò, lasciandola aperta. Dalla porta del seminterrato salì uno spiffero che la fece rabbrividire. In quella casa entravano spifferi freddi da tutte le porte e finestre. Non poteva lamentarsi, però, perché l'affitto era veramente stracciato. Prima di lei ci abitava un'anziana vedova, morta cinque anni prima, e la famiglia della donna aveva deciso di affittare la proprietà per coprire le spese. Non avevano investito molti soldi in quella casa, e così non ne chiedevano molti. Da quando si erano trasferiti a Duluth, lei e Bruce avevano sempre abitato lì. Sentì le palpebre farsi pesanti. Avrebbe voluto aspettare Bruce sveglia, ma riusciva a pensare solo a una bella dormita. Era tutto l'anno che non riusciva a riposare bene, e anche solo un paio d'ore di sonno erano una benedizione. Vide i piatti sporchi nel lavandino e fece una smorfia, poi decise che avrebbero potuto aspettare fino al mattino. Si trascinò al piano di sopra. Calpestò un punto bagnato della moquette e imprecò quando sentì l'acqua impregnare il tessuto del calzino. Allungò una mano e se lo tolse, restando con un piede scalzo. Mentre percorreva il corridoio che portava in camera, strizzò il calzino bagnato come una pallina antistress. Lo lanciò nel cesto della biancheria sporca, poi si tolse la camicia e la maglietta, e rimase solo con un reggiseno sportivo e i pantaloni dell'uniforme. Fece per sfilarsi il cinturone della pistola, ma si fermò di colpo quando vide la sua sottoveste sexy stesa sul letto. «Bruce?» chiamò di nuovo. Attese, in ascolto. Non udì alcun suono, ma nonostante il silenzio avvertì che c'era qualcosa che non andava. Passò un dito sul bordo di pizzo della sottoveste e si accigliò. Con una rapida occhiata, vide che le ante dell'armadio erano spalancate, e ricordava di averle lasciate chiuse. Le si rizzarono i peli sulla nuca.

Sporse la testa nel corridoio e osservò le porte delle stanze. Lo studio. Il bagno. La camera dei bambini. Qualcosa di brillante attirò la sua attenzione. Attraverso la porta socchiusa del bagno, scorse un cilindretto argentato sulla moquette accanto alla tazza. Era il suo rossetto Walgreens. Anche quello non era al suo posto. Lo aveva lasciato sul lavandino. Un brivido di paura le attraversò tutto il corpo. Strinse la mano intorno al calcio della pistola e la estrasse dalla fondina. Con passo lento avanzò verso il bagno e spalancò la porta con la punta di un piede. Non c'era nessuno, ma quando accese la luce vide subito il messaggio rosso sangue scritto sullo specchio: RAGAZZA CATTIVA Kasey barcollò all'indietro, e il piede scalzo finì su un altro punto bagnato. Finalmente capì. Lui era stato lassù e con le scarpe aveva bagnato il pavimento. «Dove sei?» gridò, come un animale che gonfia il pelo per sembrare più grande. «So che sei qui! Stavolta non sbaglierò. Stavolta ti farò saltare quella tua testa di cazzo!» Con un movimento ad arco passò di nuovo il piede sul tappeto che finì su di un altro punto bagnato. E un altro. Le impronte andavano verso la camera del bambino. Kasey puntò la pistola in direzione della porta. Udì un rumore come di un mazzo di carte che viene mescolato. Era il vento che faceva sbattere le veneziane l'una contro l'altra quando la finestra era aperta. Si appiattì a terra per sbirciare da sotto la porta. Uno spiffero di aria fredda le soffiò in viso. Con gli occhi all'altezza del tappeto guardò dentro la stanza ma non vide nessuno. Senza aspettare, piegò un ginocchio e con un calcio colpì la porta, spalancandola e mandandola a sbattere contro la parete. Kasey entrò e la bloccò con una spalla mentre tornava indietro per il contraccolpo. Controllò la stanza. La culla. La carta da parati raffigurante scene di pirati. Il walkie talkie per controllare il bambino sul cassettone bianco. La porta dell'armadio. Chiusa. Guardò la finestra aperta. Le tende danzavano e fluttuavano l'una contro l'altra, smosse dall'aria della notte. Andò verso il davanzale, tenendo d'occhio a ogni passo la maniglia dell'armadio. Giunta alla finestra, scostò le tende e strinse gli occhi nel tentativo di intravedere qualcosa attraverso l'oscurità. Calcolò la distanza che la separava da terra. Era un bel salto, e il terreno era duro. Stava pensando che fosse un'altezza eccessiva per saltare, quando si rese conto che era ormai troppo tardi. Con la coda dell'occhio scorse un movimento. La porta dell'armadio si aprì. All'interno c'era lui, alto, mascherato, vestito di nero, proprio come due notti prima. Si girò per puntargli contro la pistola,

ma le fu addosso prima che lei potesse sollevare il braccio. La spinse contro il telaio della finestra. Con la mano le serrò il polso e le premette le nocche contro il vetro, che si frantumò e le tagliò la pelle. Di riflesso lei aprì il pugno e la pistola le cadde di mano, rimbalzò sul davanzale e finì di sotto. L'uomo la colpì al mento con l'avambraccio. La testa di Kasey scattò all'indietro e sbatté contro la parete. L'impatto le fece tremare i denti. Quando recuperò la lucidità, si ritrovò a mezz'aria. Lui l'aveva sollevata di peso e l'aveva scagliata contro la parete opposta. Atterrò in piedi ma cadde in avanti nell'armadio. Finì sul pavimento di legno, picchiando lo zigomo. Stordita e sanguinante, si girò sulla schiena. Si aspettava che l'uomo le piombasse addosso, invece si limitò a guardarla, immobile. I suoi occhi scintillavano dietro la maschera. Quello sguardo la fece star male. Si sentì messa a nudo, come se lui potesse vedere sotto i suoi vestiti, conoscere tutti i suoi segreti e fantasie e scoprire tutto ciò che le stava a cuore. Sapeva esattamente chi era lei, e questo pensiero la terrorizzò. Poi quel momento finì e lui corse via. Barcollando, Kasey si rimise in piedi. Udì il rumore dei passi dell'uomo sulle scale, sempre più distanti. La porta anteriore fu aperta e lei sentì la tensione attenuarsi. Se n'era andato. Tutto tornò a essere silenzioso, a eccezione del frusciare delle tende. Kasey capì che non gli sarebbe potuta sfuggire. Lui non glielo avrebbe permesso. Fu quello il suo ultimo pensiero prima di svenire.

14 Serena era intenta a cercare la casa di Regan Conrad su Lismore Road, quando un furgone nero le arrivò alle spalle a folle velocità. Un fanale era rotto, ma l'altro proiettava una luce accecante nello specchietto retrovisore della sua auto, come quella di un riflettore. Il furgone sbandò nella corsia accanto alla Mustang e lo spostamento d'aria la spinse verso il bordo della strada. Poi il veicolo proseguì verso est, nella terra di nessuno dove si trovavano piccole comunità di contadini come Stewart e Buckthorn, e Serena fu di nuovo sola sulla strada a due corsie. Giunta a McQuade Road rallentò a passo d'uomo e controllò i numeri sulle cassette delle lettere. Dopo circa un chilometro, individuò l'indirizzo di Regan Conrad e imboccò il lungo vialetto che portava all'abitazione dell'infermiera. Tutte quelle case erano state costruite lontane dalla strada, dalla quale erano separate da centinaia di metri di campi e alberi che delimitavano le proprietà confinanti. Quando arrivò, Serena si trovò, con sorpresa, davanti a un'abitazione di lusso che sembrava quella di un medico o di un avvocato. Non certo di un'infermiera. Al centro di un ampio prato marrone c'era una piscina, ora chiusa per la stagione. Accanto alla casa era stata costruita una terrazza in legno a più livelli, alla quale si accedeva da una doppia portafinestra. Il soggiorno era ben illuminato da un' ampia finestra, ma dentro non c'era nessuno. Serena parcheggiò dietro la casa, dove terminava il vialetto, e scese dalla macchina. Mentre si dirigeva alla porta d'ingresso, vide due auto parcheggiate davanti al garage. Un Hummer di colore nero. L'altra una Ford Escort degli anni Ottanta. Suonò il campanello e attese quasi un minuto prima che Regan Conrad aprisse la porta di pochi centimetri e la studiasse con diffidenza. Dall'interno arrivava la malinconica voce di un cantante soul che interpretava un pezzo blues. «Posso aiutarla?» «Signorina Conrad? Mi chiamo Serena Dial. Sono un'investigatrice e lavoro per l'ufficio dello sceriffo della contea di Itasca riguardo alla scomparsa della figlia di Marcus Glenn.» La bocca di Regan si piegò in una smorfia corrucciata. Portava un rossetto così scuro da farle sembrare le labbra viola. «E io cosa c'entro?» «Vorrei farle qualche domanda.» «Perché? Pensa forse che mi sia intrufolata in casa loro, abbia rapito la bambina e ora la tenga nascosta qui?» «Non lo so» rispose Serena. «L'ha fatto?»

Regan non rispose, ma un accenno di sorriso si dipinse sul suo volto bianco come l'avorio. Con un rapido cenno della mano invitò Serena a entrare. La accompagnò in soggiorno, sulla destra, dove la finestra a nicchia dava sul cortile. «Torno subito» le disse Regan. Serena passò una mano su un divano rifinito con un tessuto felpato, simile al velluto. «Che bella casa» commentò. «Ha vinto alla lotteria?» Regan si fermò sulla soglia e incrociò le braccia sul petto. «Ho ottenuto la casa come premio di consolazione da un avvocato aziendale di Minneapolis.» Scomparve senza aggiungere altro. Serena esaminò il soggiorno. A Regan il vetro soffiato doveva piacere parecchio, a giudicare dalla quantità di vasi multicolori a forma di fiori. Sopra il camino era appeso un dipinto a olio, un astratto con spessi ghirigori di colore. Da un punto imprecisato della casa, la musica aumentò di volume. Serena capì che in sala c'erano degli altoparlanti nascosti. Riconobbe anche il cantante: era Duffy che cantava a squarciagola Mercy. Proprio quando aumentò il volume, a Serena parve di udire anche qualcos'altro, come una debole eco da un'altra stanza. Il rumore non si ripetè e si chiese se la musica era stata alzata di proposito per coprirlo. Aveva l'impressione di aver sentito piangere un neonato. Era sul punto di andare a vedere quando Regan ricomparve sulla soglia reggendo in mano un bicchiere di vino rosso. «Gradisce qualcosa da bere?» «No» rispose Serena. Poi aggiunse: «È un bambino, quello che ho appena sentito?». «Solo se l'ha portato lei» ribatté Regan. «Venga, possiamo parlare nella biblioteca.» Regan la precedette fuori dal soggiorno. Camminandole al fianco, Serena ebbe finalmente la possibilità di studiarla da vicino. Era meno alta di lei e aveva un viso scavato ma attraente. La sua pelle era bianca come un foglio di carta, resa ancora più pallida dal trucco scuro sulla bocca e sugli occhi. Aveva un piercing sul labbro inferiore, quattro orecchini all'orecchio sinistro e tre al destro. Indossava un top nero che scendeva diritto, a malapena gonfiato dai piccoli seni, e Serena notò anche un elaborato tatuaggio raffigurante un serpente che dall'avambraccio scendeva fino al polso ossuto. La testa del serpente spuntava dalla camicia di Regan, vicino al collo. Aveva i capelli neri tagliati corti e con colpi di luce blu. Serena valutò che fosse sulla trentina. «Sembro uscita da una banda di motociclisti?» chiese Regan, cogliendo lo sguardo di Serena. «O sembro solo una povera sfigata?» «Sembra una versione gothic di Kate Moss» ribatté Serena.

Regan sorrise. «Vive qui da sola?» chiese di nuovo la poliziotta. «Sì.» «Spero che prenda le dovute precauzioni.» «Dormo con un fucile a canne mozze accanto al letto» la tranquillizzò Regan. «E so anche usarlo.» Condusse Serena in un piccolo studio e con un telecomando selezionò di nuovo Mercy dall'iPod collegato allo stereo. Con le labbra formò le parole Yeah, Yeah, Yeah a ritmo di musica, fece qualche passo di danza sulla moquette, poi si sedette su una poltrona reclinabile in pelle. «Le piace Duffy?» chiese a voce alta, per farsi sentire sopra la musica. Serena annuì, ma fece una smorfia per indicare che il volume era eccessivo. Regan premette un pulsante e Duffy si zittì. Il silenzio improvviso fu quasi inquietante. «Va meglio?» «Grazie» disse Serena. Osservò i libri sugli scaffali e notò una serie di manuali sull'omeopatia e libri di cucina vegetariana e biologica. L'arredamento della biblioteca, come nel resto della casa, era lussuoso. «Ho lasciato la maggior parte delle stanze come le aveva arredate quel cazzone del mio avvocato» spiegò Regan. «Mi piace l'idea che lui e la sua grassa moglie abbiano trascorso anni a sistemare la casa come piaceva a lei e alla fine lui abbia dovuto consegnare a me le chiavi.» «Un premio di consolazione non da poco per una storia finita male» commentò Serena. «Be', quando giochi sporco con i soldi dei tuoi clienti, devi fare attenzione a chi lo racconti. Gli piaceva sussurrarmi i suoi segreti all'orecchio quando mi scopava.» Poi aggiunse: «Con un pezzo da museo come Valerie Glenn, gli uomini vogliono fare l'amore. Con quelle come me vogliono scopare». «Ho sentito dire che ha avuto una relazione anche con Marcus Glenn» disse Serena. «Non è certo un segreto.» «Ho anche sentito dire che lui l'ha scaricata.» «E se anche fosse?» «La cosa l'ha fatta incazzare?» chiese Serena. «Lei che ne dice? Ero furiosa. Ma non sono il tipo di ragazza che puoi presentare al country club il sabato sera.» «Il personale dell'ospedale la considera un po' lunatica.» «Lunatica? Questa sì che è bella. È la moglie di Marcus a essere lunatica. Depressione patologica. Psicofarmaci.» «Lei come fa a saperlo?» «Gliel'ho detto, agli uomini piace rivelarmi i loro segreti. E Marcus non fa

eccezione.» «Non sembra sorpresa di trovarsi la polizia alla porta» disse Serena. «Non sono stupida. Esattamente, cosa vuole sapere, signorina Dial?» «Voglio sapere se il dottor Glenn le ha dato le chiavi di casa sua.» Regan fece spallucce. «Ah, ho capito. Nessun segno di effrazione. Nessuna finestra rotta. Molto strano. Sicuramente è stata l'infermiera pazza e pure gelosa.» «Le chiavi» ripetè Serena. «Che importanza ha? Giovedì sera mi trovavo ben distante dalla casa dei Glenn. Ero al lavoro, e un sacco di gente potrà confermarlo.» «Me lo hanno già detto.» «Allora perché è venuta qui a scocciarmi?» «Lei incolpa Marcus per la fine della vostra relazione. Lei lavora con i neonati e, guarda caso, ne è scomparsa una.» «Io passo la vita con le madri e i neonati» sbottò Regan, puntando un dito contro Serena. «Sono un'infermiera ostetrica. Una consulente. Io aiuto le donne, signorina Dial.» «Ha figli?» «A centinaia. Ogni bambino che faccio nascere o di cui mi occupo lo sento un po' anche mio.» Serena si piegò in avanti. «Un'idea interessante.» «Ogni infermiera la pensa come me.» «Era di turno quando Valerie Glenn ha partorito?» chiese Serena. «Quella sera ero in ospedale, ma non ho assistito io al parto.» «Ma era presente?» «Sì. E allora?» «È successo prima o dopo che Marcus Glenn la scaricasse?» La bocca di Regan si deformò per la rabbia. «Prima.» «È stata dura per lei vedere Marcus e Valerie con la loro bambina?» incalzò Serena. «È stato allora che ha avuto la certezza che lui l'avrebbe lasciata?» «Lei non sa nulla, signora Dial. La bambina non faceva nessuna differenza per Marcus.» «Allora perché l'ha lasciata?» «Perché un divorzio sarebbe stato spiacevole. E costoso.» «Lei odia Valerie Glenn, vero?» «E la classica bionda ricca e stronza che detesto. E allora?» «Valerie ha convinto Marcus a scaricarla ai bordi dell'autostrada come si fa con un cane. Deve essere stato un duro colpo.» Regan indicò la porta. «Questa conversazione è finita.» «Non mi ha ancora detto se aveva le chiavi della casa dei Glenn» insistette Serena. Regan si alzò. «E va bene, le avevo. Ma ora non più.» «Dove sono?»

«In una discarica. Dopo che io e Marcus ci siamo lasciati ho pensato che non ne avrei più avuto bisogno. Ora per favore tolga il disturbo.» Regan le voltò le spalle e uscì dalla biblioteca, seguita a breve distanza da Serena. Giunta nell'atrio, spalancò la porta e quando Serena le passò davanti, Regan la afferrò per una spalla. «Anziché interrogare me, dovrebbe cercare le persone che quella notte erano dentro la casa, signorina Dial.» «Cosa vuole dire?» «Che non mi ha chiesto come ho conosciuto Marcus. Non è curiosa di saperlo?» Serena annuì. «Certamente.» «È venuto da me l'anno scorso per parlarmi di quella ragazza. Quell'adolescente che vive in un camper vicino a Sago. Migdalia Vega.» «Qual era il problema?» «Marcus voleva che io la aiutassi. In modo non ufficiale, senza che nessuno lo sapesse.» «Sapesse cosa?» «Che era incinta» rispose Regan. Poi spinse Serena fuori di casa e sbatté la porta. Serena sedeva nella sua Mustang sul vialetto di Regan Conrad. Premette il cellulare all'orecchio per riuscire a sentire la voce di Jonny sopra le interferenze. Il segnale era irregolare, così a nord della città. La voce giungeva distante. «Incinta?» chiese lui. «Così sostiene Regan.» «E cosa è successo al figlio di Micki?» «Non lo so, ma credo che dovremmo scoprirlo.» «Andrò io a parlarle» si offrì Stride, poi aggiunse: «Torni qui, stasera?». Serena esitò. «Pensavo di fermarmi a casa nostra.» «Oh.» «Sono due ore di viaggio al buio» si giustificò Serena. «E ci sono un sacco di cervi che attraversano le strade.» «Lo so. Hai ragione, è la scelta migliore.» «Se vuoi che torni, però, basta che tu me lo dica.» «No, no. Resta pure a casa. Ci vediamo domani.» Il silenzio che seguì le disse che Stride aveva riagganciato. Pensò di richiamarlo, ma non lo fece. Era più semplice restare da soli. Mise in moto la Mustang. La radio trasmetteva un lento di Trisha Yearwood. Era una canzone triste, che parlava di una perdita, e la voce di Trisha era talmente soave che ti faceva venir voglia di piangere. Spense la radio. Non voleva che quella canzone le risuonasse in testa per tutta la notte. Mentre faceva inversione e imboccava il lungo vialetto, vide Regan Conrad che la osservava dalla finestra del soggiorno, con le mani sui fianchi.

Si accorse anche che una delle due auto parcheggiate in precedenza davanti al garage non c'era più. L'Hummer era ancora al suo posto, ma la vecchia Escort era scomparsa. Quando era arrivata, in casa c'era qualcuno. E mentre Duffy cantava Mercy aveva, approfittato della musica ad alto volume per allontanarsi senza farsi notare.

15 Nick Garaldo studiò la silhouette della scuola in rovina dall'altra parte della radura di terriccio ed erba. Dalla tasca laterale dello zaino estrasse un piccolo registratore e se lo agganciò all'orecchio. Premette l'interruttore e parlò a bassa voce. «Mi trovo davanti alla scuola di Buckthorn. Mi preparo a fare irruzione.» Nick abbandonò il riparo degli alti arbusti che fiancheggiavano il torrente e attraversò il tratto punteggiato da vetri rotti come se percorresse un campo minato. Infilò una mano in tasca ed estrasse alcuni pistacchi rossi. Ne aprì i gusci uno alla volta, e si infilò in bocca i semi. Li masticava e intanto spargeva i gusci a terra. I pistacchi erano il suo punto debole (ne mangiava tre sacchetti alla settimana) e anche il suo biglietto da visita. A ogni irruzione nei ruderi urbani, si lasciava alle spalle una scia di gusci rossastri. L'armeria di Duluth. Le gallerie per il vapore sotto l'università del Minnesota. Il manicomio abbandonato a Cambridge. I silos di un mulino abbandonato nelle praterie occidentali. Era penetrato in tutti quei posti e aveva lasciato la sua traccia sotto forma di gusci di pistacchio. Era il suo modo di prendere in giro la polizia e i servizi di sorveglianza che cercavano di acciuffarlo. Quando, in estate, aveva individuato la vecchia scuola di Buckthorn, Nick aveva capito subito che penetrarvi non sarebbe stato un problema. Le rovine erano pronte ad accogliere chiunque fosse stato abbastanza coraggioso o stupido da avventurarvisi. Ma non adesso. Nick immaginava che qualcuno fosse stato ucciso o stuprato lì dentro, fatto che aveva finalmente convinto la municipalità a chiudere l'edificio e ad affiggere una quantità di cartelli con scritto vietato l'accesso. Lo sport del lancio di mattoni contro i vetri della scuola, praticato dai ragazzini, era da tempo cessato. Ora le finestre erano chiuse da tavole di robusto compensato. Catene e lucchetti bloccavano le porte. Non sarebbe stato facile entrare, ma per Nick anche quello era un aspetto della sfida. Accese la torcia. Il fascio di luce colpì gli occhi di un procione, che si allontanò lungo il campo. Nick calpestò resti di mattoni e detriti e raggiunse il livello inferiore, che veniva utilizzato come ripostiglio della scuola. La maggior parte del rivestimento interno del soffitto era crollato e marcito, e quel poco che restava era zuppo d'acqua e ammuffito. Le condutture per i cavi elettrici pendevano dal soffitto. «Possono metterci dei lucchetti, ma non riescono a tenere fuori del tutto i ragazzini» disse nel registratore. «Ci sono lattine di Budweiser, scatole di Big Mac e preservativi usati. Cazzo, chi è così folle da venire a fare sesso in un posto del genere?» Nick arricciò

il naso. «C'è anche una puzza terribile. Credo che venga da sopra.» Diede un'occhiata alla tromba delle scale che saliva al livello principale della scuola ma, come le finestre, anche quella era stata sigillata. Fece un giro completo dell'edificio, muovendosi tra pezzi di muratura crollata e tubature. Non fece caso alla scatola nera cementata alla tromba delle scale né alla luce rossa che lampeggiò quando lui attraversò il raggio elettronico. Tornò al campo dietro la scuola e risalì il pendio erboso nell'angolo nordoccidentale, in modo da trovarsi a livello del piano principale. Mangiò altri pistacchi e gettò via i gusci. Seguendo il muro, scavalcò un radiatore arrugginito, rovesciato su un fianco come un maiale pigro. Nel muro di mattoni c'era una fila di sedici finestre. Se avesse allungato una mano sarebbe riuscito a toccarle ma, come tutte le altre, erano sigillate. Girò l'angolo successivo e incappò in un nido di merli che lo spaventarono fuggendo con uno sbatacchiare di ali e stridii acuti. Dal punto in cui si trovava, le macchine che percorrevano Township Road avrebbero potuto vederlo, ma fino a quel momento non ne era passata nemmeno una. Puntò la torcia verso l'estremità superiore del muro, dove si aprivano cinque finestre. Su due di esse il compensato era marcito per la pioggia che filtrava dal tetto. Erano quadrate e abbastanza grandi da permettergli di entrare, ma si trovavano ad almeno sei metri da terra. Nick proseguì sul davanti della scuola, dove una grande cavità indicava una sezione dell'edificio che era bruciata. Salì un basso muro di cemento, si aggrappò al bordo del tetto e si tirò su fino a poter slanciare una gamba sulla superficie incatramata. Finì di arrampicarsi e si trovò sul tetto di una delle ali inferiori dell'edificio, confinante con il muro di mattoni dove c'erano le finestre con il compensato marcio. Le tavole vennero via con tale facilità che per poco non cadde all'indietro. Una buona metà dei vetri smerigliati delle finestre erano già stati rotti da tempo. Si piegò in avanti ed esaminò l'interno con la torcia. Il fascio di luce illuminò rinforzi di metallo e la parte posteriore di quello che era stato un tabellone da pallacanestro. Stava entrando nella palestra della scuola. «Ci siamo» disse. Prelevò una corda dallo zaino e la fissò a una tubatura d'acciaio sul muro esterno della palestra, poi lanciò il resto dalla finestra facendola cadere sul pavimento sottostante. Si aggrappò alla corda con le mani protette da guanti e si infilò nel passaggio, puntellandosi con le gambe al muro interno. Pochi centimetri alla volta scese lungo la corda, fino a quando i suoi piedi affondarono in una pozza d'acqua fredda sul pavimento e si lasciò andare. «Sono all'interno delle rovine» dichiarò. Con le finestre sprangate, l'interno della scuola risultava più buio della notte all'esterno. Avvertì un rumore di acqua e sentì le gocce cadergli sul viso. Da

un punto di quell'enorme spazio, udì provenire uno squittio familiare. Ratti. Non riusciva a vederli, ma sapeva che erano lì, a raspare nell'acqua stagnante. Poi sentì l'odore. Ora che si trovava all'interno era molto marcato, simile a quello di carne imputridita sotto il sole, talmente intenso e nauseante che fu costretto a tapparsi il naso con le dita. Aveva i conati di vomito, e anche se cercava di respirare solo con la bocca, il lezzo gli penetrava comunque nelle narici. «Qui dentro c'è qualcosa di morto» disse. Puntò il raggio della torcia davanti a sé. Il pavimento era cosparso di tubi dei condotti di ventilazione, reti e telai d'acciaio. C'erano numerosi buchi, nei punti dove i mattoni avevano ceduto, e le pareti interne sembravano enormi bocche sdentate. Con passo cauto si diresse a una porta sul lato opposto della palestra. Mentre si avvicinava, forme scure corsero dentro e fuori dalle pozze e andarono a nascondersi nelle tubature. La torcia illuminò piccoli occhi rossi. La porta immetteva su uno stretto corridoio, lungo il quale si intuivano le sagome di finestre sbarrate. Il pavimento era coperto di vetri rotti. Nick prese a tremare a causa del freddo e dell'umidità. Man mano che procedeva lungo il corridoio, la puzza aumentava. E anche il numero dei ratti. Nick si fermò. Era impossibile muoversi in silenzio tra tutti quei detriti, e per un attimo fu sicuro di aver sentito un rumore di passi dall'altra parte della scuola. Attese, in ascolto, ma il rumore non si ripetè. Si disse che era stata solo la sua immaginazione. Era solo. Nessuno avrebbe osato entrare lì dentro. Aspettò in silenzio per altri due minuti, poi riprese a muoversi. Raggiunse una porta che conduceva a una stanza più piccola, dove le macerie di una parete di blocchi di cemento si innalzavano verso il soffitto come un nido d'api. La torcia illuminò alcune travi di cemento. Il pavimento era cosparso di alghe verdastre. In quella stanza l'aria era pregna del fetore di carne marcescente. Si coprì la bocca e il naso con la mano, ma non riuscì a proteggersi dalla puzza. I ratti erano più coraggiosi, in quella stanza, e correvano avanti e indietro sotto i suoi occhi. Veloci. Eccitati. Affamati. A circa un metro di distanza, dove la luce gettava un arco sul pavimento, li vide. Tre paia di piedi nudi. Nick sollevò la torcia, poi la lasciò cadere e gridò. La torcia cadde a terra e si ruppe. Le tenebre avvolsero all'istante la stanza, ma non riuscirono a cancellare l'immagine dalla mente di Nick. Tre donne, nude, legate a vecchie sedie. La pelle, nei punti in cui ancora ne restava, era bianca ed esangue. La

maggior parte era stata mangiucchiata, esponendo muscoli, organi e ossa. I ratti correvano agili e veloci sui banchi e in grembo alle donne e sulle loro spalle e sui loro seni. «cazzo! cazzo! cazzo!» Nick indietreggiò e barcollò come un cieco, con le mani tese in avanti, andando infine a sbattere contro le colonne di cemento. Inciampò sulle macerie e cadde, tagliandosi mani e braccia su uno spunzone di metallo affilato. L'emorragia gli rese la pelle scivolosa. Si tirò su e procedette a tastoni lungo il muro, finché si ritrovò in un altro corridoio, un tunnel che attraversava quella casa degli orrori. «Aiuto!» Allungò una mano e le sue dita tese incapparono nei resti di vetri rotti, a forma di ali di pipistrello, su una delle finestre. Picchiò il palmo sanguinante sul compensato inchiodato al muro esterno, ma il legno si rifiutò di cedere, sotto i suoi colpi. Urlò, nella speranza che qualcuno all'esterno potesse sentirlo. «Aiuto! Per l'amor del cielo, aiutatemi!» Dietro di lui, una mano uscì dall'oscurità e gli afferrò una spalla. Nick gridò e si girò. Una torcia lo accecò. Un'ombra alta e massiccia come un orso si curvò su di lui e per un momento si illuse di essere in salvo. «Oh, grazie a Dio!» esclamò. Il suo sollievo fu di breve durata. Un pugno violento e duro come un mattone lo colpì al volto, mandandolo a sbattere la testa contro gli spuntoni di vetro. Tutto divenne nero. Nick sentì un sapore di pistacchio e si rese conto di avere la bocca piena di bile. Gli cedettero le ginocchia e, mentre cadeva, un avambraccio possente gli cinse il collo, strozzandolo e sollevandolo da terra. Il petto, a corto di aria, gli bruciava. Le gambe scalciavano e si agitavano convulsamente. Mentre lottava per liberarsi, il gelo e la puzza scomparvero lentamente e lo lasciarono in un vuoto di totale silenzio. Fluttuò via dal dolore e, alla fine, fluttuò così lontano da non sentire più nulla. Era in un posto completamente diverso,, e ascoltava l'acqua gocciolare a ritmo regolare, come il ticchettio di un orologio. Era in una caverna, ed era tutta per sé. Era in esplorazione.

Parte Seconda ANIME FRAGILI 16 La domenica mattina, il terzo giorno dalla scomparsa di Callie Glenn, la frustrazione iniziò a insinuarsi nella sala riunioni della polizia di Grand Rapids. Stride aveva già assistito a situazioni del genere. Le prime quarantotto ore erano una scarica di adrenalina di impegno e determinazione. I telefoni squillavano senza tregua. Il flusso di e@mail tra le varie agenzie di tutto lo stato era incessante. Il sistema era inondato di piste da seguire, ma nessuno si lamentava, poiché ogni informazione in quelle prime ore poteva essere una svolta per la soluzione del caso. Trovare una bambina piccola. Riportarla a casa. Domenica, però, la mancanza di passi avanti aveva iniziato a prosciugare l'ossigeno dall'indagine. Tutti sapevano che il tempo era un nemico e che il nemico stava vincendo. Due ore dopo un rapimento, si può tracciare un piccolo cerchio su una mappa e stimare l'area massima in cui è più probabile trovare la vittima. Si possono allestire dei posti di blocco. Si può passare al pettine fitto tutta la regione. Dieci ore dopo, il diametro del cerchio aumenta di centinaia di chilometri e la polizia non ha le risorse adeguate per controllare un'area così grande. Due giorni dopo, l'universo dei possibili nascondigli è virtualmente illimitato. Stride sperava che Callie Glenn fosse ancora viva in un qualche punto del Minnesota ma, realisticamente, in quel momento avrebbe potuto trovarsi ovunque. Esaminare centinaia di rapporti su presunte segnalazioni, era come cercare un ago in un pagliaio. Il piccolo ufficio al terzo piano del quartier generale della contea era zeppo di rapporti, documenti, bicchieri di caffè e incarti di cibo. Le dimensioni della ricerca li costringevano ad affidarsi a una semplice filosofia: seguire la procedura e incrociare le dita. Se volevano trovare Callie, qualcuno doveva ricordarsi la faccia della bambina. Qualcuno doveva vederla e chiamarli, e la polizia doveva completare l'operazione nel modo giusto. Stride conosceva la procedura, ma lui e la piccola squadra di uomini nel dipartimento dello sceriffo non potevano avere occhi e orecchie ovunque. Dopo un'ora, spinse da parte le carte, si alzò e cancellò tutto quello che c'era scritto sulla lavagna bianca appesa alla parete di fronte. Il suo istinto gli diceva di ricostruire quello che era accaduto giovedì notte. Capire perché e come Callie era scomparsa. Con un pennarello nero, tracciò una linea che

divideva verticalmente la lavagna. Poi scrisse esterno in cima a una metà e interno in cima all'altra. Erano le due possibilità. Qualcuno era entrato da fuori e aveva rapito Callie, oppure era stato qualcuno dentro la casa. Sotto esterno, scrisse: - Forestiero o del posto? - Voleva rapire proprio Callie o un neonato qualsiasi? - Riscatto o altre motivazioni? - Ha dovuto raggiungere la casa, entrare, uscire. - È viva o morta? - Dove si trova Callie adesso? Sotto interno, invece, scrisse: - È viva o morta? - Incidente o omicidio? - Marcus o Micki? (o entrambi?) - Dove si trova adesso Callie? Stride guardò ciò che aveva scritto. Negli ultimi due giorni, la sua squadra aveva ricostruito i movimenti di Marcus e Valerie Glenn e della loro bambina, nei cinque giorni precedenti alla scomparsa. Membri della polizia di Grand Rapids e dell'ufficio dello sceriffo della contea di Itasca avevano controllato tutti gli edifici, le case, i negozi e le strade di Grand Rapids e di Duluth visitate dai Glenn in quell'intervallo di tempo, nella speranza di trovare un testimone che ricordasse qualcosa o qualcuno di insolito. Nonostante i continui aggiornamenti, non c'erano ancora prove concrete che un intruso avesse tenuto d'occhio i Glenn o la loro casa. Questo non lo sorprendeva. Grand Rapids era una piccola città. Anche la stessa Duluth lo era se paragonata a un grande centro urbano come Minneapolis. Non riteneva plausibile che un estraneo potesse identificare un bersaglio e pianificare un rapimento in un contesto urbano del genere senza lasciare tracce. Forse, allora, non si era trattato di un estraneo. Forse era qualcuno che conosceva i Glenn, la bambina e la casa. Ma se ciò era vero, non riusciva a immaginare come uno del posto potesse sperare di nascondere a lungo una neonata senza essere scoperto. Quanto sarebbe durato? Una settimana? Un mese? Prima o poi, qualcuno avrebbe notato qualcosa di sospetto. Sempre che Callie fosse ancora viva, naturalmente. In caso contrario, nascondere un cadavere nei boschi del Nord era fin troppo facile. L'altra domanda era il perché. Perché un estraneo avrebbe dovuto correre dei rischi per rapire Callie Glenn? Non c'erano state richieste di riscatto e Grand Rapids non era certo un posto per la tratta delle bianche o per rapire bambini destinati all'espianto di organi. Del resto, non era una possibilità che Stride poteva

escludere a priori. Il male riusciva ad allungare le proprie dita fin negli angoli più remoti della terra. Rivolse la propria attenzione alla colonna interno, e nella sua mente prese corpo un'ipotesi più lineare e plausibile. Nell'intervallo di tempo tra le ventidue e trenta e l'una, Marcus Glenn o Migdalia Vega avevano fatto sparire Callie. Per Stride non fu difficile immaginare possibili moventi, e aveva le prove che entrambi avevano mentito, o almeno avevano tenuto nascosti aspetti importanti del loro rapporto. Stride avrebbe dovuto parlare di nuovo con loro, e scelse di iniziare con Micki. Era lei l'anello debole. Prese la giacca di pelle e scese al piano terra. Aveva parcheggiato in strada. Si diresse a sud-est lungo la Highway 2, dove non trovò traffico. Era domenica e a quell'ora erano tutti in chiesa. Mentre guidava, si sorprese a pensare all'argomento che si sforzava di tenere lontano dalla propria mente. Serena. La notte precedente aveva dormito da solo. In realtà, si era girato e rigirato nel letto vuoto. Aveva pensato a Serena, nella loro baita a Duluth. Anche Serena ormai era sul lato opposto del canyon, come tanti altri pezzi della sua miserevole vita. Riusciva a immaginare il suo volto, la sua voce e la morbidezza della sua pelle, ma la sua immagine era appiattita. Bidimensionale. Come ogni altra cosa del suo mondo. Si disse che la amava, ma era un sentimento che, come tutto il resto, non avvertiva più. Quando squillò il telefono, pensò che fosse lei e si chiese cosa avrebbe potuto dirle. Invece era Maggie. «Ehi, capo» esordì, allegra. «Mi manca la tua faccia.» Stride si rilassò e sorrise. «Idem, Mags. Che c'è di nuovo?» «Ho un piccolo aggiornamento sul caso delle fattorie. Ho offerto favori sessuali a un tecnico della Bca per mettere le analisi del nostro campione di sangue in cima alla lista.» «Ottimo.» «A proposito, è gay, quindi gli ho detto che il favore l'avresti fatto tu. Spero non ti dispiaccia.» «Per la squadra questo e altro» rispose lui. «Sapevo che avresti detto così. Comunque, ho avuto i risultati e non sono buoni. Nessuna corrispondenza. Il nostro uomo non è nel sistema.» «Merda.» «Le cose non sono mai facili come le si vorrebbe, vero?» «Come se la passa Troy Grange?» chiese Stride. «L'hai incontrato ieri, giusto?» «Male. La figlia più grande è devastata, e ha dovuto lasciare la più piccola dai suoceri. Gli ho detto di non rinunciare alla speranza, ma non è stupido.

Sa che Trisha non tornerà.» «Già.» «A proposito di uomini duri» riprese Maggie. «Come stai?» «Io? Bene.» La solita bugia. «Un uccellino mi ha sussurrato il contrario.» Stride si irrigidì. «Hai parlato con Serena?» «Sì.» «Non è niente di grave» disse. «Secondo me invece lo è, eccome. E anche secondo lei.» «Non ho voglia di parlarne, Mags.» «Me ne frego se non ne hai voglia» sbottò lei. «Pensi di potermi tagliare fuori così? Sono la tua migliore amica.» «Lo so, ma non è facile per me...» «Non mi interessa se è facile o difficile. Che cazzo ti passa per la testa?» Stride chiuse gli occhi e li riaprì. La superstrada deserta si perdeva all'orizzonte. «Non si tratta di Serena, ma di me. Sono in difficoltà.» «Raccontami i dettagli.» Stride non sapeva cosa dire. «Vorrei poterlo fare, Mags. È come se fossi morto. Non mi importa di nulla. Niente di niente.» «Non mi piace sentirti parlare così» commentò lei. «Neanche a me.» Maggie rimase in silenzio. Stride rallentò e, raggiunto l'incrocio che portava alla città rurale di Sago, uscì dalla superstrada. I pneumatici dell'auto sollevarono una nuvola di polvere che lo seguì lungo la strada desolata. «Quando torni a Duluth?» chiese Maggie. «Dopodomani ho un paio di riunioni al municipio.» «Voglio che ci vediamo.» «Grazie del pensiero, ma non c'è niente che tu possa fare. È un problema solo mio.» «Non fare l'eroe. Vediamoci sul presto. Ti preparo la colazione.» «Tu?» chiese Stride. «Puoi dirlo forte. Un paio di salsicce McMuffin e qualche brioche alla cannella.» Stride rise. «Va bene.» «Ci vediamo martedì mattina.» Poi Maggie aggiunse: «Ehi, posso dirti una cosa?». «Quello che vuoi.» «Mi dispiace di non essere stata lì con te.» «Di cosa stai parlando?» Stride sentì la voce dell'amica bloccata dall'emozione, una cosa insolita per lei. «Del ponte. Mi dispiace di non essere stata presente quando sei caduto. Non esserti stata vicina nel momento del bisogno è una cosa che non riesco a perdonarmi.» «Non avresti potuto fare nulla» la rassicurò Stride.

«Lo so, ma mi dispiace ugualmente.» Stride bussò alla porta d'alluminio del camper di Micki Vega. Le finestre erano schermate dalle tendine, ma il pick-up della ragazza era parcheggiato lì accanto e da dentro veniva odore di pancetta fritta. Non gli rispose nessuno, e bussò di nuovo. «Micki, sono il tenente Stride. Apra la porta!» Sentì il tintinnio del chiavistello, poi Micki aprì la porta e sbirciò all'esterno. Aveva i capelli neri e sciolti e gli occhi arrossati. Indossava i pantaloni di un pigiama di flanella, una canottiera rosa ed era scalza. «Ha svegliato mia madre» disse, irritata. «Non mi aveva risposto.» «Pensavo fosse quella dannata chica del giornale. Blair Rowe. È tutto il fine settimana che rompe le palle. E stato lei a parlarle di me?» «No.» «Be', in un modo o nell'altro l'ha scoperto comunque. Sono fottuta.» «Devo parlarle, Micki.» «Di cosa?» «Di Callie Glenn.» «Le ho già detto tutto quello che so. Mi lasci in pace, okay?» «Ho altre domande. Posso entrare?» «Niente da fare. Non voglio che infastidisca mia madre.» «Allora si metta addosso qualcosa. La aspetto qui fuori.» Micki lo guardò accigliata. «Come vuole.» La aspettò in mezzo alla strada sterrata da dove, attraverso i tronchi obliqui delle betulle, si vedeva la collina del cimitero di Sago, a una cinquantina di metri di distanza. Fiocchi di neve fluttuavano nell'aria e si depositavano sulla sua pelle, come gelidi nei. Era una mattinata limpida, quasi del tutto priva di vento. Gli alberi sembravano trattenere il fiato. Micki lo raggiunse due minuti dopo. Si era infilata un paio di stivali e un soprabito blu. I capelli spettinati scendevano sul colletto. Stava mangiando un panino con pancetta croccante. «Allora, cosa vuole?» chiese, con la bocca piena. «So del suo bambino» disse Stride. Micki sbiancò e smise di masticare. Alcune briciole le rimasero attaccate a un angolo della bocca, e le spazzò via con una manica. Poi le guance le avvamparono di rabbia. «Vaffanculo. Questa è una faccenda privata.» «Callie Glenn è scomparsa, e ora scopro che lei ha avuto una gravidanza di cui nessuno sa niente. Le coincidenze come questa mi rendono sospettoso.» «Chi gliel'ha detto?» chiese Micki.

«Non ha importanza.» «Certo, niente ha importanza quando sei una nullità come me, vero? Le persone normali possono invocare il diritto alla privacy, ma io no.» «Dov'è il suo bambino?» chiese Stride. «Non sono tenuta a dirle un bel niente.» «È nel camper?» Micki puntò un dito verso il cimitero. «È sottoterra. Contento, adesso?» «Mi dispiace. Mi racconti cosa è successo.» «Cosa c'è da dire? Sono rimasta incinta. La pillola costa troppo e il tipo con cui uscivo pensava che i preservativi fossero una cosa da froci. Ho imparato la lezione e da allora ci penso due volte prima di aprire le gambe.» «Chi era il padre?» «Nessuno di particolare. Un ragazzo di campagna.» «Io dico che era Marcus Glenn» disse Stride. «Il dottor Glenn? Ma è pazzo? Assolutamente no. Gliel'ho già detto che non ci vado a letto.» «Allora come mai si è trovato coinvolto nella faccenda?» Micki si infilò le mani nelle tasche della giacca. «Quando ho scoperto di essere incinta, non sapevo che fare. Non ho nessuna assicurazione sanitaria. Volevo abortire, ma mia madre diceva che era peccato. Allora ho chiesto aiuto al dottor Glenn.» «E lui cosa ha fatto?» «Sapeva che non avrebbe potuto ricoverarmi in ospedale, così ha fatto venire qui un'infermiera. Avrebbe dovuto farmi anche da levatrice, ma non ho mai portato a termine la gravidanza.» «A che mese era quando lo ha perso?» «Al terzo» rispose Micki. «È stato un aborto naturale. Io non ho fatto nulla.» «Quando è successo?» «L'estate scorsa, in agosto.» «Quindi Valerie Glenn era già incinta quando lei ha abortito?» «E io che ne so? Voglio dire, può essere, ma io non lo sapevo. Il dottor Glenn non parlava mai del fatto che sua moglie avrebbe avuto un bambino.» «Cosa ne ha fatto del suo?» domandò Stride. Gli occhi di Micki avvamparono. «L'ho sepolto.» «E l'infermiera? Come si chiamava?» «Regan. A vederla faceva un po' paura, ma era gentile. Anche dopo l'aborto è tornata per controllare come stavo. Mi sentivo strana, e lei mi ha rassicurata dicendomi che era una reazione normale.» «Sapeva che quell'infermiera aveva una relazione con il dottor Glenn?» chiese Stride. Micki sembrò sinceramente sorpresa. «Il dottor Glenn e l'infermiera Regan? No, non ne sapevo niente.»

«Li ha mai visti insieme?» «Certo, un paio di volte, quando lui la accompagnava qui da me. Ma non significa nulla.» «Regan Conrad l'ha contattata, di recente?» «No. Perché avrebbe dovuto farlo?» Stride non colse tracce di menzogna nella sua voce. «Mi dispiace, Micki. Dev'essere stata un'esperienza terribile.» Lei fece spallucce. «Sono stata male, sì, ma è Dio a decidere quando certe cose devono succedere, non io.» «Dove ha sepolto suo figlio?» «Dall'altra parte della strada» rispose lei, dopo una lunga pausa. «Sa, succede in parecchi cimiteri. Di notte io e mia madre udiamo dei rumori provenire da quella direzione, e al mattino trovo dei punti in cui il terreno è stato smosso.» «La gente seppellisce cose nel bosco?» chiese Stride. «Sì, certo. Ho tutta una collezione di oggetti che ho trovato lì. Foto di animali domestici. Cose di poco conto, come anelli senza valore e tappi di sughero delle bottiglie di vino. Penso che il fatto di seppellire questi oggetti vicino al cimitero faccia sentire meglio le persone. Forse pensano che lì Dio sia più vicino. Scommetto che se scavasse tra gli alberi troverebbe un mucchio di ossa.»

17 Domenica pomeriggio, Serena trovò Valerie Glenn a casa della sorella. Denise Sheridan e suo marito vivevano in centro a Grand Rapids, in un appezzamento alberato vicino al fiume. Era una casa piccola per una famiglia con quattro figli. Il rivestimento in legno era sporco e avrebbe avuto bisogno di una riverniciata, e dal tetto rosso mancavano parecchie tegole. Su un rimorchio arrugginito accanto alla casa era stata piazzata una vecchia barca da pesca, e il cortile era cosparso di vecchi giocattoli. Mezza dozzina di alti pini facevano sembrare la casa ancora più piccola e ne impedivano la vista dalla strada. Fu Denise ad aprire la porta. Aveva l'aria tirata e impaziente. Quando vide Serena, con un gesto del pollice indicò il corridoio alle sue spalle. «Valerie e Tom sono in soggiorno. Io do un'occhiata al piccolo.» Abbassò la voce e aggiunse: «Ci sono novità?». Serena scosse la testa. Denise si accigliò e salì al piano di sopra, da dove si udivano strilli di bambini. Serena entrò nel soggiorno, una sala quadrata zeppa di vecchi mobili. Un pianoforte verticale era premuto contro una parete, con numerosi spartiti impilati sullo sgabello. Un bambino che non doveva avere più di cinque anni, era seduto sul pavimento e canticchiava a bocca chiusa mentre, con un pennarello rosso, colorava la sagoma di una mucca su un album da disegno. Si avvertiva un odore di toast bruciati. Valerie Glenn era seduta sul divano di pelle e appariva chiaramente fuori posto. I suoi vestiti, il trucco, la pettinatura, erano perfetti. Per contrasto, il cuoio del divano su cui poggiava il suo braccio magro era liso, la superficie rovinata da fori e tagli. Con un sorriso triste e distante, guardava il bambino giocare sul pavimento ai suoi piedi. Accanto a Valerie sedeva un uomo che le teneva la mano. Era sulla quarantina, i capelli castani striati di grigio e una barba molto curata. Non era grasso, ma aveva le spalle tozze e l'accenno di pancia da birra tipico degli uomini di Grand Rapids che lavoravano all'aria aperta. Le tasche dei jeans erano lise e teneva le maniche della felpa arrotolate fin sopra il gomito. «Ah, salve, Serena» mormorò Valerie, alzando lo sguardo su di lei. «Conosce già Tom Sheridan?» «No.» Tom si alzò dal divano. Era un uomo imponente, ma dalla stretta di mano gentile. «Salve, sono il marito di Denise.» «E tu chi sei?» chiese Serena, accovacciandosi sul pavimento davanti al bambino. «Lui è Evan» rispose Tom.

«Evan, saluta la signora.» Il bambino non alzò gli occhi dall'album da disegno. «Ciao.» Serena rise e si raddrizzò. «Avete in casa un futuro artista.» «Vorrei solo che non si esercitasse sui muri della camera da letto» ribatté Tom. Tornò a sedersi e passò un braccio intorno alle spalle di Valerie. «Detesto fare il piantagrane» disse a Serena «ma cominciamo a sentirci un po' frustrati.» «Capisco. Lo stesso vale per noi.» «Com'è possibile che Callie sia svanita nel nulla?» chiese Tom. «Mi creda, stiamo facendo tutto il possibile per ritrovarla» cercò di rassicurarlo Serena. «Conosco la tiritera, signorina Dial. Sono sposato con una poliziotta, ricorda? Capisco che non vi basta schioccare le dita per darci le risposte che vorremmo sentire. Ma le mentirei se non le dicessi quanto siamo preoccupati e impazienti. Ogni giorno che passa, sentiamo Callie sempre più lontana.» Valerie lanciò un'occhiata al televisore in un angolo della stanza. Il volume era al minimo. «Non potete fare nulla riguardo ai media?» chiese. «So che c'è la libertà di parola e tutto il resto, ma ho la sensazione che stiano cercando di distruggere la nostra famiglia. Ha visto Blair Rowe, ieri sera? Ha raccontato un sacco di balle su Marcus. Chi si prenderà il disturbo di cercare Callie, se in giro si pensa che mio marito è un mostro?» Serena disse: «Il consiglio migliore che posso darle è di non guardare certe trasmissioni. Anche se si tratta di servizi-spazzatura, pieni di pettegolezzi, è necessario che la foto di Callie compaia tutte le sere nei notiziari. Più gente la vede, maggiori saranno le possibilità di ritrovarla». «Ha ragione, Valerie» disse Denise, entrando nel soggiorno alle spalle di Serena. Spostò una pila di libri per bambini da una poltrona reclinabile e, con un sospiro, li appoggiò su una sedia. Guardava la sorella e si mordicchiava un'unghia. «Conosco Blair Rowe. E una giovane ingenua convinta che questa sia la sua grande occasione. Ignorala.» Tom Sheridan guardò preoccupato sua moglie. «Come sta Maureen?» Denise fece spallucce. «Bene.» «La nostra figlia più piccola ha la sindrome di Down» spiegò Tom. «Non ci sente bene e quando si sveglia da un sonnellino si agita se non vede uno di noi nei paraggi.» «Non c'è bisogno di fare la storia della nostra vita» sbottò Denise. «Non è nulla di cui vergognarsi» ribatté Tom. Gli occhi di Denise lanciarono fulmini in direzione del marito. «Ho forse detto che mi vergogno?» Si piegò in avanti e chiuse l'album da disegno del figlio. «Evan, puoi portarlo in camera tua, per favore? Grazie.» Nel silenzio degli adulti, il bambino raccolse i suoi pastelli e salì al piano di sopra. Denise, con le braccia conserte, lo guardò allontanarsi.

«Dico sul serio, Tom, come ti salta in mente di parlare così davanti al bambino?» «Scusa.» Denise non disse nulla. «La patologia di Maureen è stata una grossa lotta per noi» riprese Tom, con un sorriso di scuse a Serena. «Come se quattro bambini non fossero già abbastanza impegnativi.» «Oh, per l'amor del cielo!» esclamò Denise. Si alzò di scatto dalla poltrona e superò le porte a molla della cucina, che sbatacchiarono con forza, poi rallentarono fino a fermarsi. Serena udì rumori di stoviglie e di pensili aperti e chiusi con troppa forza. «Mi dispiace molto» si scusò Tom. «È una giornataccia.» «Non si preoccupi.» Valerie si alzò e disse: «Immagino che volesse parlare con me». «Esatto.» La donna annuì e si piegò per abbracciare suo cognato. «Grazie di tutto, Tom. Davvero.» Tom le trattenne una mano. «Di qualsiasi cosa tu abbia bisogno chiama, intesi?» «Lo farò» lo tranquillizzò Valerie. Poi, rivolta a Serena: «Vogliamo fare due passi?». Uscirono e raggiunsero la fine dell'isolato, arrivando fino a metà del ponte sul fiume. Il freddo arrossava le guance e scompigliava i capelli. Valerie si appoggiò sulla balaustra e fissò l'acqua scura, poi intrecciò le dita. «Le devo delle scuse» esordì. «Per cosa?» «La prima volta che ci siamo viste, le ho detto che lei non poteva capire come mi sento perché non ha figli. È stata una cosa molto stupida da dire.» «Non si preoccupi.» «Be', dopo che se ne è andata mi sono sentita un'idiota. Le chiedo scusa. Sono l'ultima persona che dovrebbe rinfacciare a un'altra donna di non avere figli. Ho provato per tre anni a restare incinta ed è stato un inferno.» «Immagino.» «Mi piacerebbe poterle dire che in tutto questo Marcus mi è stato di conforto, ma temo non rientri tra le sue capacità. Buffo, non trova? Il lavoro di Marcus è guarire le persone, quello di Tom vendere assicurazioni e secondo lei chi è più bravo dei due ad ascoltare?» «Sembra che Denise e Tom abbiano qualche problema» commentò Serena. Valerie annuì. «Stanno insieme dai tempi del liceo, ma a un certo punto della loro storia Denise si è dimenticata che è necessario anche l'amore.» «E tra lei e Marcus come va?» chiese Serena. Un sorriso triste passò sul volto di Valerie. «Non siamo mai stati la coppia più bella del mondo. Credevo che la nascita della bambina ci avrebbe avvicinati. O forse volevo un figlio per ricevere l'amore che mio marito non è mai stato in grado di darmi. Non lo biasimo, lui è fatto così, punto e basta.

Ma i tre anni di tentativi non riusciti mi hanno messo a dura prova. Ogni volta mi sentivo sempre più disperata.» Guardò Serena di sbieco. «Non do l'impressione di essere una donna disperata, vero? Invece, se non fosse arrivata Callie non so cosa avrei fatto. Mi ha salvato.» «Ho una domanda sgradevole da farle» disse Serena. Valerie si girò e si appoggiò con la schiena alla balaustra. Fissò il cielo blu e indifferente. «Sembrano le sole domande che ha da fare.» «Lo so. Mi dispiace.» «Non si preoccupi. Spari.» «Conosce un'infermiera del St.Mary di nome Regan Conrad?» Valerie guardò l'acqua. «È lei? È quella con cui Marcus...» «Sì.» «No, mi dispiace. Non la conosco. Non credo che lavori in ortopedia. Conosco tutto lo staff dei collaboratori di Marcus.» «Lavora in maternità» spiegò Serena. Valerie girò la testa di scatto. «In maternità?» «Esatto.» Valerie si coprì il naso e la bocca con le mani, poi scosse la testa. «Lo sapevo. Sapevo che c'era anche lei.» «Cosa intende dire?» Valerie unì le mani sotto il mento, come se stesse pregando. «La sera di capodanno sono andata in ospedale. In corsia c'erano anche altre donne e uno dei neonati aveva dei problemi, quindi la maggior parte del personale era impegnato altrove. Mentre aspettavamo che il mio medico rientrasse da un party, mi fecero un'epidurale. Per gran parte del tempo ho sonnecchiato. Ricordo che era mezzanotte passata. C'era un sacco di rumore, gente che suonava le trombette e gridava auguri di buon anno. Mi sono svegliata ed ero sola, ma sapevo che lei era stata nella mia stanza. Ho sentito il suo profumo. Lo stesso che avevo sentito tante volte nel mio letto. Da allora, ho cercato di convincermi che fosse stata la mia immaginazione, ma ora so che è venuta a vedermi.» Valerie ebbe un brivido. «Marcus, quella sera, era con lei in ospedale?» domandò Serena. «Andava e veniva» rispose Valerie, sulla difensiva. «Gliel'ho detto, ho sonnecchiato per gran parte del tempo a causa dei sedativi.» «Certo, certo.» Valerie scosse la testa. «È venuta nella mia stanza. Proprio quella notte. Mio Dio, mi dica che lui non ha...» «Cosa?» «Nulla. Non è nulla. Perché mi chiede di Regan? Crede che sia lei la responsabile del rapimento di Callie?» «Onestamente, non lo so. Sto cercando di scoprire tutto quello che posso sul suo conto. Pare che il giovedì sera in cui Callie è stata rapita lei si trovasse in ospedale, ma questo non la esclude necessariamente. Inoltre, possedeva

una chiave di casa sua. E conosce anche... Be', conosce Migdalia.» «Conosce Micki. Oh, Gesù, lo sapevo. Non mi sono mai fidata di quella donna.» «Non significa che Micki sia coinvolta in quello che è successo a Callie» puntualizzò Serena «ma le teniamo d'occhio entrambe.» Fece una pausa, poi aggiunse: «Sapeva che Micki ha perso un bambino, l'anno scorso?». «Micki? No, non ne sapevo niente.» «Suo marito l'ha aiutata e Regan era l'infermiera.» Valerie si girò di scatto di centottanta gradi. Si piegò così in basso sulla balaustra che Serena temette che volesse gettarsi nel fiume. «Marcus l'ha fatta abortire?» «Sì.» «Il bambino era suo?» chiese Valerie, con voce amara. «Micki sostiene di no.» Valerie aprì la bocca e subito la richiuse. Strinse le braccia intorno al corpo infreddolito. «Mi scusi, ma cosa significa tutto questo?» «Ancora non lo sappiamo con certezza. Ma, devo dirglielo, temo che Marcus ci nasconda qualcosa. Non ha mai parlato della sua relazione con Regan e ha tenuto nascosta la presenza di Micki nella casa la sera in cui Callie è scomparsa.» «Lei pensa che lui sia coinvolto, vero?» chiese Valerie. «Lei pensa che abbia fatto del male a nostra figlia.» «Non sto dicendo questo» disse Serena. «Ma lo interrogheremo a fondo, e vogliamo che si sottoponga alla macchina della verità.» «Non riesco a crederci.» «Valerie, le persone nascondono le cose per un sacco di motivi. Non salti a conclusioni affrettate. Se attraverso la macchina della verità dimostreremo che Marcus non era coinvolto, potremo rivolgere i nostri sforzi altrove. Potremo indagare più a fondo su Regan e Micki.» Valerie si avviò sul ponte. «Devo andare.» «Per favore, aspetti.» «Mi scusi, ma non è una cosa che posso affrontare, in questo momento.» Serena la chiamò, ma lei continuò ad allontanarsi senza voltarsi indietro. Camminava a testa bassa, con le mani in tasca. Alla fine del ponte iniziò a correre, con i lunghi capelli biondi che fluttuavano scomposti dietro di lei. Corse fino a sparire dietro i pini che fiancheggiavano la strada, dove Serena la perse di vista.

18 Domenica a mezzanotte, Stride spense le luci della sala riunioni. In piedi nell'ufficio buio, guardò le strade di Grand Rapids, vuote e illuminate dal bagliore di luci al neon e semafori rossi. Il nevischio che vorticava nell'aria fin dalla mattina aveva lasciato una spolverata bianca sull'erba. Si infilò la giacca di pelle e chiuse a chiave la porta dell'ufficio. Mentre aspettava l'ascensore, si passò entrambe le mani tra i capelli ondulati, massaggiandosi la testa. Aveva una tremenda emicrania e non vedeva l'ora di concedersi qualche ora di sonno. Le porte dell'ascensore si aprirono e Stride andò a sbattere contro una donna bassa e smilza che si fiondò fuori dall'ascensore. «Oh!» cinguettò Blair Rowe. «Tenente Stride! Mi avevano detto che l'avrei trovata ancora qui.» Lui scosse la testa. «Non sono qui, Blair. Quello che vede è un ologramma. Lasci un messaggio e la ricontatterò domattina.» Lei ridacchiò. «Molto divertente. Lei è simpatico, sa? Ascolti, ho qualcosa per lei. Questo deve vederlo.» «Come ha fatto a salire, Blair?» chiese Stride. «Avevo dato ordine in portineria di sparare a vista.» «Un'altra battuta! Lei si dimentica che metà dei poliziotti che lavorano in questo palazzo sono stati miei compagni di scuola.» Sollevò una scatola rotonda piena di biscotti. «E poi, mia madre ha fatto i biscotti col burro di nocciole. Non si può dire di no a questi gioielli. Ne vuole uno?» «No.» «Insomma, tenente, un po' di allegria!» lo rimproverò Blair. «Sto facendo la mia parte. La tengo aggiornato. Domattina, questa roba sarà su Headline News, ma ho pensato che prima volesse darle un'occhiata lei. Faccio il gioco di squadra, capisce?» Dalla tasca dell'impermeabile blu marino estrasse un DVD e glielo sventolò davanti alla faccia. «Che roba è?» «Roba che scotta. Conosce il detto, "quel che succede a Las Vegas resta a Las Vegas"? Be', stavolta non è andata così. Uno dei nostri giornalisti ha rintracciato una spogliarellista che sostiene di essere stata a letto con Marcus Glenn durante uno dei suoi viaggi nella città del peccato. Ha riferito cose molto succose.» Stride non voleva svegliarsi e ritrovarsi con una brutta sorpresa in televisione, così disse: «Sì, ho capito. Venga con me e vediamo di che si tratta». Tornarono nell'ufficio a metà del corridoio, dove Stride accese le luci e appoggiò la giacca sullo schienale di una sedia. Blair barcollò sui tacchi e

guardò le pile di scartoffie sparse nella stanza. «Non si metta a curiosare in giro, intesi?» la ammonì Stride. «Sì, ricevuto. Mi ha visto in tv ieri sera?» «Sì. Le conviene essere più prudente, Blair. Praticamente ha accusato Marcus Glenn di aver assassinato la figlia. Se continua così finirà per essere denunciata.» Blair fece spallucce. «Oh, ma ho detto "presunto", "si dice" e tutte le altre parole giuste. Io non faccio altro che mettere in evidenza i fatti.» Aprì il coperchio del barattolo di biscotti e ne prese uno rotondo, con una goccia di cioccolato al centro. Se lo infilò tutto in bocca e, mentre masticava, chiese: «È sicuro di non volerne uno?». «Sicurissimo.» La donna si leccò le dita e lo studiò da dietro le spesse lenti degli occhiali. «A proposito, come sto? La rete ha pagato la mia acconciatura e la sessione di trucco. Sono uno schianto o no?» Stride si accorse che, in effetti, Blair aveva un aspetto più curato. I capelli, sporchi e secchi che aveva al primo incontro, ora erano tagliati e pettinati. La sua pelle, in quell'occasione coperta di foruncoli, appariva ora liscia e rosata. «Sì, sta meglio, Blair.» «Meglio? È questo il massimo che riesce a dire?» Stride indicò il DVD che la donna teneva in mano, poi l'impianto televisivo in un angolo. «Cosa c'è su quel disco?» Blair inserì il DVD nel lettore poggiato su un ripiano sotto il televisore. «È un'intervista rilasciata questo pomeriggio da una bellona di colore a un giornalista di Las Vegas. La donna lavora come spogliarellista in un locale da quelle parti. Si chiama Lavender qualcosa.» «Lavender? Come "lavanda"?» «Esatto.» Stride ridacchiò. «E questo giornalista come l'ha trovata?» «È stata lei ad andare da lui. Ha visto la storia di Callie al notiziario.» Il video iniziò e Lavander riempì lo schermo. Aveva capelli neri stirati e labbra di un rosa chiaro, con denti bianchi talmente perfetti da sembrare finti. Si picchiettava un'unghia smaltata sulla guancia, con fare impaziente, mentre l'operatore si prendeva il suo tempo per mettere a fuoco l'inquadratura e fare una panoramica delle sue lunghe gambe e dei seni ritoccati che le riempivano la maglietta. «Come ha conosciuto Marcus Glenn?» chiese il giornalista. «È uno dei clienti regolari dello strip club in cui lavoro. Viene a Las Vegas tre o quattro volte all'anno.» «Che tipo è?» Le labbra tumide di Lavender si curvarono in un sorriso. «È un dottore, amico. I dottori hanno un che di divino. Quando ti scopano, è come se ti dessero il seme del Salvatore, mi capisci?» Blair rise. «Adoro questa parte.»

«Quindi lei ha avuto una relazione sessuale con Marcus Glenn?» «Oh, sì.» «Sapeva che era sposato?» «Certo, è la cosa che mi piace di più. Così non ci sono legami. Non c'è il rischio che si presentino in ginocchio, porgendoti un anello. Qualche cena di lusso, qualche scopata bollente e poi se ne tornano a casa.» «E stata una relazione... retribuita?» Gli occhi di Lavender avvamparono di rabbia. «Io non accetto denaro.» «No, ma le cene a base d'aragosta e i gioielli sì» commentò Blair. «Marcus Glenn le ha parlato della sua vita privata?» «Non molto. Gli uomini vengono a Las Vegas per dimenticare i problemi che hanno tra le mura domestiche, sa? Ma ho visto una foto di sua moglie. Un vero schianto. Una volta gli ho chiesto se la moglie non riusciva a soddisfarlo, se era per questo che veniva da me.» «E lui cosa ha risposto?» «Che si usa la porcellana di lusso solo nelle occasioni speciali.» La risata di Lavender suonò profonda e gutturale. Stride fece una smorfia. Pensò che se quel video fosse stato trasmesso nel notiziario, sarebbe stata una coltellata al cuore di Valerie. Non provava alcuna simpatia per Marcus Glenn. Detestava i danni collaterali che inevitabilmente sembravano colpire le famiglie rimaste vittime di crimini. Ora Valerie Glenn avrebbe dovuto affrontare la falsità del suo matrimonio. «Ora arriva il bello» disse Blair. «Ascolti.» «Sa che la figlia di Marcus Glenn è scomparsa?» «Scomparsa. Già, è questo che racconta lui. Ma io non la bevo.» «In che senso?» «Ho visto Marcus in primavera. Era aprile, mi pare. Nel corso della cena si è lasciato sfuggire che lui e sua moglie avevano avuto una figlia, qualche mese prima. Cosa dovevo dirgli? Gli ho fatto le congratulazioni.» «E lui cosa ha detto?» «Che era stata un'idea solo di sua moglie. Che sarebbe stato molto più felice se la bambina non fosse mai nata.» «Se non fosse mai nata? Ha usato proprio queste parole?» «Sì, precisamente. Quella frase, per me, ha segnato la fine dei nostri incontri, ha volta successiva che è venuto in città, ho trovato una scusa per non incontrarlo. Va bene tradire la moglie, un uomo è sempre un uomo, ma uno che parla così della propria figlia non lo voglio nel mio letto.» Blair premette il pulsante di stop ed estrasse il disco dal lettore. «Ecco qui. Non le si è gelato il sangue nelle vene? Gliel'avevo detto che Glenn è un personaggio subdolo.» «Ha intenzione di mandarlo in onda?» chiese Stride. «Può scommetterci. Domani mattina. Ho cercato di intervistare anche uno

dei coniugi Glenn, ma non ne vogliono sapere.» «Vorrei una copia del disco» disse Stride. «Certo. Che ne dice di rilasciare una dichiarazione per il mio servizio? O, meglio ancora, un'intervista in diretta?» «Non ancora.» Blair fece una smorfia di frustrazione. «A quanto pare lo scambio di informazioni funziona a senso unico, tenente. Io le do roba che scotta e lei non mi dà un bel niente.» «Quando avrò qualcosa, sarà la prima a saperlo» la rassicurò Stride. «Certo, promesse, promesse. Comunque, cosa ne pensa? Questo video le fa cambiare idea riguardo a Marcus Glenn?» «Posso risponderle in modo ufficioso?» «Se proprio deve.» Stride infilò una mano nel barattolo e prese un biscotto, lo mangiò in due morsi e tenne la goccia di cioccolato per ultima. «Ha ragione, questi biscotti sono ottimi» commentò. Poi aggiunse: «In modo ufficioso, posso dirle che Marcus Glenn ci ha mentito fin dal primo giorno. Vorrei sapere perché. E vorrei sapere anche cosa ci nasconde».

19 Stride si spogliò nel silenzio della stanza da letto della baita. Il chiaro di luna illuminava la spalla di Serena fuori dalla coperta, ma Stride non capì se stesse dormendo. Quando fu nudo, scivolò sotto le lenzuola e rimase disteso con le mani intrecciate dietro la testa. Durante il viaggio di ritorno sulla Highway 2, aveva faticato a tenere gli occhi aperti, ma ora era completamente sveglio. Fissò le travi arrotondate sul soffitto. Fuori, la neve sibilava e lambiva la finestra. Il vento, che durante il giorno era rimasto quieto, ruggiva impetuoso. Accanto a lui, Serena si girò sulla schiena. La coperta si abbassò e le scoprì quasi del tutto il seno color panna. Ciuffi di capelli neri le caddero sul volto. Stride vide che aveva gli occhi aperti. Restarono distesi l'uno accanto all'altra per parecchi minuti, senza dire nulla. Lui avrebbe voluto dire qualcosa, ma anche pronunciare una sola parola gli appariva come un'impresa titanica. Avrebbe voluto parlarle degli attacchi di panico, della depressione, del senso di disperazione, della sua paura, ma gli risultava impossibile. Preferì tacere. Sotto la coperta, Serena avvicinò una mano alla sua e gli toccò le dita. Lui non si ritrasse, ma non fece nulla per intrecciare le dita con quelle di lei, come invece faceva di solito. Chiuse gli occhi e finse di dormire, ma dopo un po' si arrese e li aprì. Sulla guancia di Serena, gli sembrò di vedere un'umida scia d'argento. Lacrime. Avrebbe voluto rassicurarla, coccolarla, entrare nella sua testa e ricondurla a sé. Tutto quello che riuscì a fare, invece, fu restare immobile sul letto. Paralizzato. Serena si girò su un fianco. Lo fissò nel buio, e nemmeno lei disse nulla. Gli sollevò un braccio e si rannicchiò nell'incavo del collo di Stride. La sua pelle nuda aderì al corpo di Stride, morbida e liscia contro i suoi muscoli. Era consapevole del contatto dei suoi capezzoli, inturgiditi dall'aria fredda. Distese la gamba sinistra sopra quella di Stride e l'uomo avvertì il calore del suo pube contro di lui. Il viso di Serena era umido sulla sua spalla. Gli cinse il petto con un braccio e con il pollice prese a disegnargli piccoli cerchi intorno allo sterno. Il calore e il contatto di Serena non provocarono in lui alcuna reazione. Era come se le terminazioni nervose di Stride fossero morte. Il suo corpo e la sua mente erano due cose separate, sconnesse tra loro. Lei lo baciò su una guancia, resa ruvida dalla barba. Le sue labbra gli disegnarono una dolce linea di baci sul viso, fino a raggiungere il lobo dell'orecchio, che succhiò e mordicchiò con tenerezza. Poi la lingua assaggiò il collo. Serena premette il corpo con forza contro quello di Stride. Lui avvertì la sua urgenza, la sentì umida tra le gambe. Le unghie di Serena gli

grattarono lo stomaco. Lì appiattì la sua mano e mosse le dita come piccole onde. Gli sussurrò in un orecchio: «Ti voglio». Serena spostò la mano all'interno della coscia, alternando un massaggio deciso a una carezza appena percepibile. Poi Stride sentì la punta delle dita percorrergli il pene. Lo accarezzava. Lo toccava. Cercava di eccitarlo. Lui avrebbe voluto più di ogni altra cosa che il suo corpo reagisse ma, nonostante le attenzioni, rimase inerte. Lei non si arrese, anzi, rimise al lavoro le mani con rinnovata energia. Gli montò sopra a cavalcioni, con i seni prosperosi che ondeggiavano sopra il petto di Stride. Scese con i fianchi lungo il suo corpo, accarezzandolo con tutta se stessa. Gli prese il viso tra le mani e lo baciò con passione, esplorando la bocca con la lingua. Lui le carezzò la spina dorsale, in modo goffo. Le baciò entrambi i seni e percepì la reazione di Serena, ma c'era qualcosa di artificiale in entrambi. La disinvoltura con cui facevano l'amore era scomparsa e ormai erano come due estranei. Lui conosceva ogni centimetro della pelle di Serena, sapeva come le piaceva essere toccata e come lei arricciava le dita dei piedi quando si avvicinava all'orgasmo e poi lo raggiungeva. Non lo aveva dimenticato. Solo che non aveva più nulla da darle. «Serena» mormorò. Lei rifiutò di arrendersi, ma la sua passione ora appariva forzata. Arrossì per la frustrazione e l'umiliazione, come se in qualche modo fosse solo colpa sua. Poco dopo, si scostò e si girò dall'altra parte, verso la finestra. Le tremavano le spalle, scosse dai singhiozzi. Stride le posò una mano sulla schiena, e quando vide che lei non reagiva, la ritrasse. Fissò di nuovo il soffitto per un po', quindi si voltò verso il muro. Poggiò la testa su un braccio e avvertì il profumo di lei sulle dita. Chiuse gli occhi, ma non riuscì a prendere sonno. Lunedì mattina, Maggie arrivò al municipio in anticipo. Era ancora buio e le strade erano scivolose a causa di una spolverata di neve. Il vecchio edificio in pietra, dopo la pausa del fine settimana, ci metteva una vita a scaldarsi, e il Detective Bureau assomigliava di più a una cella frigorifera. Maggie si tolse il cappotto di pelle bordeaux lungo fino alla caviglia e infilò un maglione di lana che Stride aveva lasciato in ufficio. Il maglione sformato le arrivava fino a metà coscia e fu costretta ad arrotolare le maniche di una quindicina di centimetri. Nonostante fossero trascorsi tre mesi, ancora non riusciva a sentire quell'ufficio come suo. Sarebbe stato sempre l'ufficio di Stride. Aveva lasciato le sue foto sulla scrivania, come un pro-memoria del fatto che sarebbe tornato. In piedi sotto la fredda luce al neon, prese in mano le foto

incorniciate una alla volta. Erano come un tour nella vita del collega. Stride e Cindy di dieci anni più giovani, prima che il cancro se la portasse via. A Maggie Cindy piaceva parecchio. Erano i tempi in cui lei era ancora una ragazzina, un'immigrata cinese che lentamente cercava di liberarsi della propria educazione rigida e di lasciare spazio a un nuovo carattere. Cindy sapeva della cotta di Maggie per Stride, ma non aveva mai mostrato neppure un accenno di gelosia. Chissà come l'avrebbe presa se avesse saputo che, sei mesi dopo la sua morte, Maggie si era infilata nel letto di Stride, soltanto per essere respinta. Maggie sollevò la foto successiva, che ritraeva Stride e Serena a Las Vegas, e la riabbassò velocemente. Nell'ultima foto c'era lei: si trovava sulla spiaggia dietro il cottage di Stride, con gli occhiali da sole spinti sul suo naso a bottoncino, i capelli a caschetto smossi dal vento del lago e un sorriso sarcastico sul volto. Riteneva fosse una foto terribile, ma Stride non aveva permesso che la sostituisse. L'aveva scattata lui. Maggie si sedette e sollevò i piedi sulla scrivania. Rilesse il rapporto di Guppo, come al solito molto dettagliato, sulla scena del crimine vicino il fiume Lester, in cerca di dettagli che potevano esserle sfuggiti. Di un movente nelle azioni dell'uomo. Lo lesse due volte senza trovarvi niente di particolare, e dopo un po' le parole sulle pagine divennero sfuocate. «Toc toc» disse qualcuno, spaventandola. Maggie sollevò lo sguardo e vide sulla soglia la sagoma imponente di Troy Grange. «Oh, ciao, Troy» disse. «È un brutto momento?» «No, entra pure.» Alle spalle dell'uomo, il resto del Detective Bureau era ancora avvolto nell'oscurità. Troy, come Maggie, era mattiniero. Si sedette sulla sedia davanti alla scrivania e la luce sul soffitto si rifletté sulla sua testa calva come un raggio di sole. «Che succede?» gli chiese Maggie. «Be', innanzitutto volevo ringraziarti per essere venuta a trovarmi, sabato. Sia tu che Kasey. Ve ne sono davvero grato.» «Mi sarebbe piaciuto portarti notizie migliori. Mi dispiace.» «Lo so. Oggi devo tornare al lavoro, ma mi sento ancora terribilmente confuso.» «Prenditi ancora un po' di tempo» suggerì Maggie. «Il direttore del porto capirà. Se vuoi posso chiedere al mio capo di chiamarlo.» «Probabilmente mi farà bene riprendere il lavoro» disse Troy. «Come sta Debbie? Povera piccola, immagino sia distrutta.» «Per il momento è dura, ma dopo sarà peggio. Detesto l'idea che cresca senza una madre. Io sono un uomo. Cosa ne so di come si cresce una bambina?»

«Te la caverai benissimo, Troy» cercò di rassicurarlo Maggie, con un sorriso. «Ma so che non è quello che volevi.» «No, non ho mai firmato per un ruolo di genitore single.» «C'è qualcos'altro?» chiese Maggie. «Sì, ma non si tratta di Trisha. Anzi, forse non è nulla.» «Dimmi pure.» «Ieri sera, sul tardi, mi ha chiamato una delle segretarie del mio ufficio. Era piuttosto agitata.» «Cos'era successo?» «Frequenta un certo Nick Garaldo. Lo conosco, è un ragazzo sulla ventina, un tipo magro e nodoso. Lavora su uno dei rimorchiatori al porto. Da quel che so è a posto e affidabile.» «Continua.» «È scomparso» concluse Troy. «Ah. E da quanto?» «Il punto è proprio questo. Da un giorno soltanto. La ragazza che mi ha chiamato gli aveva parlato per l'ultima volta sabato mattina. La domenica dovevano vedersi da Amazing Grace per un caffè, ma lui non è mai arrivato. Non risponde né al fisso né al cellulare. Lei è andata al suo appartamento e nessuno le ha aperto. Inoltre, stamattina aveva un turno al porto alle cinque ma non si è presentato.» Maggie si accigliò. «È troppo presto per dichiararlo scomparso.» «Infatti. Le ho detto che l'avrei segnalato e fatto il possibile. La ragazza sostiene che un comportamento del genere non è da lui, e il suo capo è dello stesso parere. Non era mai mancato a un turno senza prima avvisare.» «Dove abita?» «In un appartamento nella zona di Central Hillside, in centro.» «A volte le persone fanno i bagagli e se ne vanno. Soprattutto da quella zona.» «Questo è vero. Probabilmente non c'è motivo di preoccuparsi, e domani si ripresenterà con i postumi di una brutta sbornia. O magari chiamerà da South Padre Island o qualcosa del genere. Ma la sua ragazza era piuttosto agitata.» «Immagino. Qual è l'indirizzo esatto?» Troy le disse che Nick abitava tra la Quarta Strada e la Lake. Era una delle zone più malfamate del centro, un vero covo di spacciatori. «Manderò qualcuno a controllare» disse Maggie. «Te ne sono grato.» «Nel frattempo, se tu dovessi avere bisogno di qualcosa, fammelo sapere.» «Contaci.» Troy si alzò dalla sedia e si strinsero la mano. Lei rimase ad ascoltare i suoi passi pesanti allontanarsi, poi udì la porta esterna del Detective Bureau

aprirsi e richiudersi. Era di nuovo sola. Sola con una donna trovata morta vicino al fiume Lester e altre tre donne scomparse e probabilmente morte. Sola con le foto sulla scrivania di Stride.

20 Al mattino, fecero finta che non fosse successo nulla. Si alzarono, si fecero la doccia, prepararono il caffè, si aggiornarono a vicenda sul caso e si comportarono come se l'elefante nella stanza fosse invisibile. Stride sapeva che era la cosa peggiore che potessero fare, ma loro due erano fatti così. Si erano ritirati nei rispettivi angoli del ring a leccarsi le ferite. Guidarono fino a Grand Rapids, più lentamente del solito a causa della neve. Il vialetto dei Glenn era bianco e immacolato e, dietro la casa, il lago appariva blu scuro sotto i raggi del sole. Venne ad aprire Valerie Glenn. Stride non dovette chiederle se aveva visto il notiziario del mattino e l'intervista di Lavender registrata a Las Vegas. I suoi occhi blu sprizzavano fiamme. Li accompagnò nel soggiorno caldo sul retro della casa e si accomodò su una sedia di vimini vicino alle finestre, da dove fissò il prato coperto di neve che digradava fino al lago. «Forse sarebbe meglio se non restasse qui» le disse Serena. «Con lei presente, Marcus potrebbe tenerci nascosti dei dettagli.» Valerie rise senza umorismo. «Pensate davvero che si preoccuperà di salvaguardare i miei sentimenti? Ormai è un po' tardi per questo.» Stride aveva trascorso con Valerie meno tempo di Serena, ma nonostante questo il cambiamento in lei gli apparve evidente. Era una donna a cui non occorreva il trucco per apparire bella, ma quella mattina non si era preoccupata di curare il proprio volto. Indossava una felpa larga del country club locale, vecchi jeans e calzini sportivi bianchi. Stride si chiese se quell'abbigliamento fosse un messaggio per il marito: oggi non sono la tua moglie da esposizione. Marcus Glenn apparve sulla soglia del soggiorno, raggiunse un divano dall'altra parte della stanza e si sedette senza incrociare lo sguardo di Valerie. Le sue lunghe gambe sporgevano dai cuscini come trampoli. «Buongiorno, signori detective» salutò. «Spero che non ci vorrà molto. Per essere qui, ho già dovuto annullare due interventi previsti per oggi.» «Ci sono alcuni punti che vorremmo rivedere insieme a lei» disse Stride. «Devo chiamare un avvocato?» «Non lo so. Ha fatto qualcosa per cui ritiene di averne bisogno?» Glenn lanciò un'occhiata a sua moglie. «Un avvocato divorzista, forse.» Poi aggiunse: «Sto scherzando, Valerie». Lei non reagì in alcun modo. «Dottor Glenn, stamattina la televisione ha trasmesso un'intervista con una

donna di Las Vegas che sostiene di aver avuto una relazione con lei» disse Stride. «Conosce questa donna?» «Sì.» «Ha avuto una relazione sessuale con lei?» chiese Serena. «Non vedo come questo c'entri con tutto il resto.» «Rispondi alla domanda!» sbottò Valerie dal lato opposto della sala. Per la prima volta, Glenn sussultò. «E va bene. Sì, l'ho avuta. Intensamente sessuale. È questo che volevi sentirti dire, Valerie? E visto che stiamo condividendo i segreti di famiglia, forse vorrai far sapere ai detective che non abbiamo più fatto sesso da quando è nata Callie. I cancelli della foresta magica sono rimasti chiusi, mentre tu ti preoccupavi di gestire i tuoi problemi. Be', scusa tanto se una vita di castità non fa per me.» «Sei un bastardo» mormorò Valerie. «Stando alle dichiarazioni di questa donna, lei avrebbe voluto che sua figlia non fosse mai nata» riprese Serena. «È vero? Ha detto questo?» Lui scosse la testa. «No.» «Allora la donna ha mentito?» «Si ricorda male. Probabilmente ho detto che la mia vita era più semplice prima che nascesse Callie. La maggior parte delle persone si sente così quando arriva un figlio.» «Il giornalista le ha chiesto se lei avesse usato proprio le parole "non fosse mai nata", e la donna sostiene che è esattamente ciò che lei ha detto.» «Come vi ho detto, si sbaglia.» «Non l'ha mai detto?» chiese Stride. «No.» «Ma è così che si sente?» «Cosa vuole dire?» «Ecco, che lo abbia detto o meno, crede che sarebbe stato più felice se Callie non fosse mai nata?» «No, questo è ridicolo.» «La sua credibilità non è ai massimi livelli, dottore» gli disse Stride. «Ci ha mentito riguardo a Migdalia Vega. Ci ha detto che era solo in casa la sera in cui è scomparsa Callie. Sappiamo che non è vero. Perché non ci ha parlato di Migdalia?» «Credo che sappiate anche voi il perché. Non volevo che Micki finisse nei guai. È una clandestina e aveva paura di essere rimpatriata. O, peggio, di essere etichettata come sospetta. Non aveva idea di cosa fosse successo, quindi non avrebbe potuto aiutarvi in alcun modo nelle indagini.» «La ragazza era con lei nella sua camera da letto, quella sera?» chiese Stride. «No, era nella stanza degli ospiti, sopra il garage, dall'altra parte del corridoio.»

«Dottor Glenn, lei ci ha detto di essersi addormentato intorno alle dieci e trenta» intervenne Serena. «Esatto.» «Quindi non può sapere dove sia stata Migdalia o cosa abbia fatto fino all'ora in cui lei si è accorto della scomparsa di Callie.» Marcus esitò. «Immagino di no, ma è una follia pensare che...» «Crede possa esserci un collegamento tra la scomparsa di Callie e l'aborto di Migdalia dell'anno scorso?» lo interruppe Stride. «Cosa? Certo che no.» «Era lei il padre del bambino?» Marcus si appoggiò allo schienale e incrociò le braccia sul petto. «Assolutamente no.» «È mai stato a letto con lei?» «No.» «E che ci dice di Regan Conrad?» riprese Serena. All'udire il nome di Regan, Marcus girò la testa di scatto. «Come, prego?» «Ha capito benissimo» ribatté Serena. «Sì, d'accordo. Ho avuto, e sottolineo l'uso del passato, una relazione con Regan Conrad.» Poi, rivolto a Valerie: «Ma l'ho chiusa. Te l'ho detto mesi fa». Valerie non rispose. «Quand'è che ha troncato la sua relazione con la signorina Conrad?» chiese Stride. «L'inverno scorso.» «Dopo la nascita di Callie?» «Sì.» «Come mai questa scelta?» «Mia moglie era al corrente della faccenda» rispose Glenn, lanciando un'altra occhiata a Valerie. «Dopo la nascita di Callie, ha voluto che finisse e io ho accettato.» «Mi è stato riferito che lei era preoccupato per il comportamento di Regan Conrad» disse Serena. «Che andava in giro a dire che lei era pazza. In che senso, pazza?» «Regan è imprevedibile. Ti manipola. Cerca di farti fare quello che vuole e ci riesce molto bene. È per questo motivo che la nostra storia è durata più del necessario.» «Come l'ha presa quando lei l'ha lasciata? chiese Stride. «Piuttosto male» rispose Glenn. «In che senso?» «Mi ha dato un pugno in faccia e ha cercato di rompermi le dita. Voleva che divorziassi da Valerie per sposare lei. Ovviamente, si era immaginato tutto

da sola. Una cosa del genere non poteva succedere.» «È mai stata in casa sua?» chiese Serena. Lui espirò e prese un'aria infelice. «Parecchie volte.» «Quindi conosce l'ubicazione di tutte le stanze.» «Immagino di sì.» «Le ha mai dato una chiave?» «Forse una volta gliene ho prestata una di scorta.» «Se l'è fatta restituire?» «Onestamente, non lo ricordo» rispose lui, esitante. «Non mi pare. Ma stiamo parlando di niente, signori detective. Regan era al lavoro la sera in cui è scomparsa Callie. Credetemi, ho già controllato.» «Davvero?» chiese Stride. «E come mai lo ha fatto?» «Gliel'ho già detto. Regan è imprevedibile. Violenta.» «Perché non ci ha parlato di lei, se pensava che potesse essere coinvolta nel rapimento di sua figlia?» «Devo anche spiegarvelo? Guardate cos'è successo alla mia vita negli ultimi quattro giorni. La stampa mi ha fatto a pezzi e voi mi avete sottoposto a imbarazzanti interrogatori davanti a mia moglie. Cercavo solo di evitare tutto questo.» «Regan Conrad ha mai minacciato in qualche modo lei, sua moglie o la bambina?» domandò Serena. «No, mai esplicitamente» «Invece in modo implicito sì?» «È astuta e vendicativa. Con lei, tutto è possibile. È anche stata arrestata, in alcune occasioni.» «Arrestata? E per cosa?» chiese Serena. «Non lo so. Le accuse sono state ritirate. Me ne ha parlato una volta di sfuggita.» «Regan conosceva bene Micki Vega?» chiese Stride. «Sì» rispose Glenn. «Regan sarà anche pazza, ma è un'eccellente infermiera. L'ho vista lavorare con le puerpere. Diventa la loro ancora di salvezza. Tra una madre e la levatrice si instaura un legame incredibilmente forte durante e dopo la nascita di un bambino, soprattutto quando ci sono complicazioni.» «Complicazioni?» «Travagli difficoltosi. Depressioni post-parto. Cose del genere. E, ovviamente, nel caso di Micki, anche l'aborto.» «Può essere che Regan abbia manipolato Micki per convincerla a rapire Callie?» Glenn ci pensò su, poi scosse la testa. «Non penso proprio. Non Micki. Mi è troppo fedele. E poi, rapire un neonato è un'azione mostruosa. Micki non si sarebbe mai fatta coinvolgere in nulla del genere.» Stride guardò Serena, che annuì.

«Dottor Glenn, vediamo di parlarci chiaro. Ha fatto del male alla sua bambina?» «No. Nel modo più assoluto.» «È in qualche modo coinvolto nella sua scomparsa? L'ha rapita lei o ha aiutato qualcun altro a farlo?» «No.» «È a conoscenza di ciò che potrebbe esserle successo?» Marcus balzò in piedi. «No. Non lo ripeterò mai abbastanza. Non c'entro in alcun modo nella scomparsa di Callie. Se ascoltate le stronzate messe in giro da Blair Rowe e dal resto dei media non farete altro che perdere il vostro tempo. So che dipingermi come una specie di demonio fa aumentare gli ascolti, ma resta il fatto che sono innocente. La cosa migliore che potete fare è smetterla di infastidirmi e fare il vostro lavoro. Scoprite cosa è successo a mia figlia.» Si voltò per uscire dal soggiorno, ma Serena lo fermò. «Possiamo toglierci ogni dubbio una volta per tutte, dottor Glenn. Vorremmo che lei si sottoponesse alla macchina della verità.» Marcus la guardò, diffidente. «La macchina della verità?» «Esatto.» «Esami del genere sono notoriamente imprecisi e inammissibili in tribunale, dico bene?» «Sono test che ci aiutano a escludere le persone dalla lista dei sospettati» spiegò Serena. «Se lei supererà la prova, potremo concentrare altrove le nostre indagini. Altrimenti, una nube di sospetto continuerà a incombere su di lei, anche e soprattutto a causa delle omissioni nelle sue dichiarazioni.» Valerie si piegò in avanti. «Credo che dovresti accettare, Marcus. Dovremmo farlo entrambi. Liberiamoci da ogni sospetto, così potranno dedicarsi al vero responsabile.» «Ah, quindi anche tu pensi che io sia coinvolto?» sbottò lui. Scosse la testa con decisione. «Spiacente. Non lo farò. Almeno non senza aver prima consultato un legale.» «Marcus» disse Valerie con un filo di voce. «Ho detto di no. E questo non significa che io c'entri qualcosa, ma gli innocenti finiscono continuamente nei guai per cavilli legali. Mi dispiace.» Marcus Glenn infilò le mani in tasca e uscì dalla stanza.

21 Valerie sapeva chi fosse Marcus Glenn molto prima di conoscerlo di persona. Ricordava il giorno della festa nella palestra del liceo, quando lei aveva appena dieci anni. Sua sorella Denise e Tom, che era già il suo ragazzo, l'avevano portata con loro ai festeggiamenti in onore della squadra di hockey del liceo di Grand Rapids, campione per il secondo anno consecutivo. Marcus Glenn era la star. Il giocatore più forte. L'adolescente alto, con i capelli neri e avaro di sorrisi. Valerie lo aveva visto con l'uniforme da hockey e aveva provato per lui la stessa attrazione che fino ad allora aveva riservato ai cantanti di MTV. I commenti che Denise faceva a Tom sul fatto che Marcus si credeva il re del mondo non le importavano. In quel momento, Valerie lo aveva fissato e aveva pensato: "Un giorno lo sposerò". Era solo una fantasia infantile, che rimase chiusa in un angolino fino a dodici anni dopo, quando lei lavorava come hostess al ristorante Sugar Lake Lodge. Marcus Glenn entrò insieme ad altri tre uomini e, quando lo vide, Valerie tornò ad avere di nuovo dieci anni. Indossava un elegante abito nero di sartoria, emanava un lieve sentore di acqua di colonia ed era il più alto del gruppo. Chiacchierava tranquillamente dell'ultima star della PGA che aveva appena vinto il Phoenix Open, un anno dopo che Marcus lo aveva operato al ginocchio. Marcus Glenn era tornato a casa, a Grand Rapids. Giovane, ricco, scapolo e con le mani d'oro di un chirurgo. Valerie ricordava ancora come i loro sguardi si erano incrociati. Come gli occhi di Marcus si erano soffermati sul suo viso. Sapeva di essere bella: nel corso degli anni un sacco di uomini l'avevano corteggiata. Ma scoprire che lui era interessato a lei le dava un brivido. Fra tutte le donne di Grand Rapids pronte a gettarsi tra le sue braccia e sui sedili della sua Lexus, Marcus Glenn aveva scelto lei. Le chiese di uscire quella sera stessa. Valerie era al corrente delle voci che circolavano su di lui: Marcus usciva ogni sera con una ragazza diversa, se la portava a letto e passava alla successiva. Non era ancora pronto a impegnarsi in una relazione seria. Così Valerie fu sorpresa quando lui non la invitò a una romantica cenetta a due, bensì le chiese di accompagnarlo a un cocktail party organizzato dal consiglio di amministrazione dell'ospedale. Le comprò un vestito da urlo. La tenne a braccetto per tutta la sera. Quando la riaccompagnò al suo appartamento si congedò con un bacio sulla guancia. Fecero l'amore solo sei settimane più tardi, e fu un amplesso breve e imbarazzato, singolarmente privo di passione. Ma a lei non importava. La cosa importante fu che lui, il giorno dopo, le chiese di sposarlo. Lei ci mise

meno di due secondi ad accettare. Col senno di poi, sapeva di essere stata ingenua. Non le era nemmeno passato per la mente che lui l'avesse semplicemente aggiunta alla sua collezione come si fa con le farfalle, che lei era esattamente il tipo di moglie che un chirurgo di successo doveva sfoggiare davanti al resto del mondo. Solo tre anni dopo scoprì che lui non aveva mai smesso di fare sesso con altre donne. A quel punto, si erano già trasferiti nella loro nuova casa sul lago, lei aveva un nuovo e splendido guardaroba, una macchina di lusso e faceva parte del consiglio di amministrazione di un sacco di organizzazioni non profit della zona, a cui Marcus rilasciava generose donazioni. Aveva venduto l'anima, ed era troppo tardi per ricomprarla. Valerie precipitò in una solitudine così nera da non farle intravedere alcuna via d'uscita. Trascorreva le giornate come un automa. Si era confidata con Tom e Denise, ma sua sorella, all'epoca incinta del terzo figlio, non aveva il tempo né la voglia di confortare una che dalla vita aveva ricevuto tutto: denaro, bellezza, un marito di successo e una casa di lusso. Quello fu l'inizio della separazione tra le due sorelle, il punto in cui le loro strade presero direzioni diverse. Valerie non aveva immaginato quanto si sarebbe sentita sola senza un compagno con cui parlare e senza nessuno a cui rivolgersi fuori dalla sterile casa in cui abitava. Dopo cinque anni di matrimonio, una sera di gennaio, Marcus rincasò tardi dall'ospedale di Duluth. Era diventato meno attento nel nascondere le prove delle proprie relazioni extraconiugali, o forse, semplicemente, non gli importava più. Quando si infilò a letto odorava di sesso. Dopo che si fu addormentato, Valerie rimase sveglia per quasi tre ore, a piangere in silenzio con il volto premuto sul cuscino. Poi si alzò, vuotò il contenuto di una boccetta di aspirine mezza piena nel palmo della mano e le trangugiò. Si risvegliò in ospedale. C'era anche Marcus. Capì che, a suo modo, lui la amava e che l'idea di perderla lo terrorizzava. Ma sapeva che, se fosse voluta rimanere con lui, avrebbe avuto bisogno di qualcosa in grado di prendere il posto di un marito distante. Quando si erano fidanzati lui era stato chiarissimo nel dire che non voleva figli, ma di fatto lei lo ricattò dicendogli la verità. Se non le avesse dato un figlio, avrebbe tentato nuovamente di suicidarsi, finché non ci fosse riuscita. Marcus accettò. Lei buttò via tutti i preservativi e ripresero a fare sesso, come al solito, la domenica mattina, e senza alcuna precauzione. Valerie non immaginava che da quel punto di svolta avrebbe dovuto aspettare altri tre anni. Fecero entrambi dei test sulla fertilità. Il primo anno era stato eccitante, il secondo frustrante e il terzo l'aveva gettata in una depressione ancora più buia di quanto non fosse stata nei primi anni di matrimonio. Sapeva perfettamente che era solo lei a volere un figlio. Marcus adempiva ai suoi doveri sessuali ma non si prendeva nemmeno la briga di

fingersi deluso quando, mese dopo mese, il ciclo le tornava sempre. E con il ciclo tornava la solitudine. E il vuoto. Valerie desiderava da suo marito un'intimità in grado di scacciare la sua disperazione, ma era qualcosa che lui non avrebbe mai potuto darle. Marcus non era quel tipo di persona e non lo sarebbe mai stato. Sempre più spesso, Valerie riprese a pensare al suicidio. Giurò persino a se stessa che la prossima volta che avesse avuto le mestruazioni sarebbe stata l'ultima. Avrebbe smesso di provare a restare incinta. Si sarebbe arresa. E, come un miracolo, le mestruazioni non arrivarono. Anzi, nove mesi dopo, arrivò Callie. La sua bellissima bambina. La sua salvezza. Valerie sedeva sul pavimento della stanza di Callie, le ginocchia raccolte al petto. Fissava la culla vuota senza curarsi delle lacrime che le rigavano il volto. Alle sue spalle, attraverso la finestra aperta, l'aria fredda e fiocchi di neve le soffiavano sul collo. «Valerie.» Un'ombra si allungò sul tappeto e lei alzò gli occhi. Era Marcus. «Sparisci» gli disse. Lui esitò, ma rimase. «Provi almeno dispiacere, Marcus?» gli chiese, la voce resa roca dal dolore. «Almeno ti senti triste da quando non c'è più?» «Ma certo.» Il suo tono era quello di un uomo che aveva detto quello che il mondo si aspettava che dicesse. Valerie sapeva che lui non voleva bene a Callie quanto lei, ma non pensava che il suo cuore di padre sarebbe stato tanto arido quanto il suo cuore di marito. «Dimmi che non sei stato tu» sussurrò. «Oh, per l'amor del cielo, Valerie.» «Dimmelo.» «Non riesco a credere di doverti convincere. Non sono stato io. È assurdo.» «Ah, sì?» Marcus si avvicinò di un passo. «Forse non sono un buon marito, ma questo non fa di me un mostro, Valerie. Mi conosci, con tutti i miei pregi e i miei difetti. Certe cose le faccio bene, altre le faccio male. Ma da qui a fare del male a Callie? Non mi sognerei mai di portartela via. So che lei è tutta la tua vita.» «Avresti potuto essere tu tutta la mia vita, Marcus. Ma evidentemente non ti scopo bene come le tue puttane di Las Vegas.» Marcus sospirò rumorosamente. «Ne abbiamo già parlato.» «Già.» «Sai che per me è solo sesso. Non c'entra niente con quello che provo per te.» «Oh, piantala, Marcus» sbottò Valerie. «E vattene.» «Ti ho detto chi sono» insistette lui, aggrappandosi allo stipite della porta. «Voglio cose che non mi sognerei mai di chiederti di fare. Se potessi resistere a queste tentazioni lo farei, ma non ci riesco. E tu lo sai. Non posso

essere solo un bravo chirurgo e ignorare le altre mie necessità. Non funziona così. Ma quella ragazza di Las Vegas non significa nulla per me.» «E l'infermiera? Quella Regan Conrad?» Marcus scosse la testa. «Non so cosa mi avesse preso con Regan. È la verità. Ma si trattava sempre e soltanto di sesso. E quando tu mi hai ingiunto di mollarla, l'ho fatto.» «Lei era presente» disse Valerie. «Cosa?» «La notte in cui è nata Callie. C'era anche lei, vero? Era all'ospedale.» «Credo di sì» rispose Marcus, a disagio. «Credi? Dimmi la verità. Quella sera ci sei andato a letto, vero? Dimmelo! Io ero in un letto d'ospedale a partorire tua figlia e tu ti scopavi la tua infermiera del cazzo. È così? Non provare a raccontarmi cazzate..» Marcus si massaggiò gli occhi stanchi con una mano. Con l'altra, strinse il bordo della culla di Callie. «E va bene. È come dici tu.» Valerie si alzò in piedi. Andò verso la porta e Marcus le afferrò con forza un braccio per fermarla. Lei se lo scrollò bruscamente di dosso e rischiò di cadere. Inciampò nel corridoio che portava alle scale e sentì suo marito chiamarla. «Valerie!» Corse, perché non voleva sentire altro. Scese rapidamente gli scalini e spalancò la porta d'ingresso. «Valerie!» gridò di nuovo Marcus. Si fermò e si voltò a guardarlo. Il volto di suo marito era piegato in una smorfia di rabbia e amarezza. «Non fingere di essere una specie di angelo ferito» le gridò dalla balaustra, con la voce carica di sarcasmo. «Non sei proprio innocente, o sbaglio?» Valerie si richiuse con forza la porta alle spalle e uscì sulla neve. Alla fine del vialetto di casa vide pattuglie della polizia e furgoni dei media e si fermò di colpo quando alcune teste si voltarono verso di lei. Girò sui tacchi, andò verso il retro della casa, poi verso il lago, lasciando tracce profonde nella fanghiglia. Arrivò fino alla battigia, dove una sottile lastra di ghiaccio semitrasparente si spingeva per circa un metro a coprire l'acqua blu. Crollò in ginocchio e si nascose il volto tra le mani. I jeans si inzupparono subito e il freddo non tardò a farsi strada nei suoi vestiti. Sperava che dietro di lei non ci fosse nessuno, che nessuno avesse cercato di seguirla. Fissò il lago e pensò di immergersi in quell'acqua fredda e lasciare che il gelo la intorpidisse. Non sei esattamente innocente. Era vero. Si chiese se Marcus avesse tirato a indovinare o se, in qualche modo, fosse al corrente di quello che lei aveva fatto. Ma aveva smesso da

tempo di interrogarsi su cosa significasse davvero essere innocenti o colpevoli. Dio puniva ogni peccato o perdonava quelli che commettevi quando ti sentivi solo e disperato? Il telefono le vibrò in tasca. Valerie lo tirò fuori ed era in procinto di scagliarlo in mezzo al lago, quando si accorse che a chiamarla non era Marcus, pronto a fare a pezzi quel poco che restava della sua autostima. La persona all'altro capo della linea aveva nascosto il proprio numero. «Pronto» rispose, stanca. «Parlo con Valerie Glenn?» Una voce di donna che non conosceva. «Sì.» «So cosa è successo a sua figlia» disse la donna.

22 Maggie era seduta e fissava la propria immagine riflessa nello specchio. Con il grembiule nero annodato intorno al collo e drappeggiato intorno al corpo, sembrava un pedone di una gigantesca partita a scacchi. Dietro di lei, Sara Wolfe prese le ciocche di Maggie tra le dita. «Sei sicura?» le chiese Sara. «Sicurissima. Fallo.» «Non voglio che domattina ti svegli e ti venga in mente di dare la colpa a me.» «So quel che faccio» la rassicurò Maggie. «Ai tuoi ordini, ragazza.» Sara preparò la tinta servendosi di un piccolo mortaio e di un pestello. «Ehi, dov'è finito Stride? Sono settimane che non lo vedo. O si è trovato un'altra parrucchiera o si sta facendo crescere la chioma.» «Sta da un mese in un cottage a Grand Rapids. Devo vederlo domattina.» «Ah, ora capisco» ribatté Sara, facendole l'occhiolino nello specchio. «Cosa?» «No, niente.» «Questo non c'entra niente con lui» replicò Maggie. «Sì, certo. Be', digli di passare a salutare. Tirerò fuori il machete e vedrò di farmi strada in quella foresta che lui chiama capelli.» Appoggiò la ciotola bianca e cominciò a spazzolare i riflessi nei suoi capelli biondo sabbia. «Sai, a volte quando mio marito fa un assolo di chitarra sul palco, resto ancora senza fiato come una groupie adolescente.» Maggie la guardò con sospetto. «Bene, e allora?» «Allora è bello quando conosci qualcuno da un sacco di tempo ma lui riesce ancora a procurarti un brivido speciale.» «Ti ho detto che non si tratta di questo.» Sara annuì. «Ho capito, amica. Messaggio ricevuto forte e chiaro.» «Sei proprio una stronza.» «Mai insultare qualcuno che ti sta alle spalle armato di forbici.» Sara mostrò il dito medio a Maggie e riprese in mano il mortaio e il pestello. «Hai ragione, scusa.» L'espressione di Sara si fece seria. «Come va la caccia al maniaco delle fattorie? Devo confessarti che tutte le mie amiche sono piuttosto spaventate. E lo sono anch'io.» «Ci sono auto di pattuglia sulle strade a nord-est della città per tutta la notte.» «Se abitassi in una di quelle fattorie, non riuscirei a dormire» commentò Sara. «Me ne starei alzata con le luci accese, un bel fucile in grembo e un paio di pastori tedeschi ai piedi.»

«Non male, come piano» disse Maggie. Sara inclinò la ciotola e le mostrò il colore della tinta. «Che ne dici? E' questa che volevi?» «Più rossa.» «Se la faccio più rossa, somiglierai al clown di McDonald's.» «La userò per fermare il traffico» disse Maggie. «Il cliente ha sempre ragione.» Alle ventuno di lunedì, Kasey si accorse che un fanale, simile a un occhio vigile, seguiva la sua auto di pattuglia. Apparve nei pressi dell'aeroporto e la tallonò sulle strade fuori città, curva dopo curva. Kasey pensò che non fosse nulla di cui preoccuparsi fino alla quarta svolta, quando si diresse a nord verso il lago Island, e il fanale si mantenne sulla sua scia. Quando rallentò per vedere se il veicolo si sarebbe avvicinato, l'altro si adeguò alla sua andatura. Qualcuno la stava seguendo. Kasey si fermò, con il motore al minimo. Su entrambi i lati della superstrada si stendevano enormi tratti d'acqua scura. L'auto di pattuglia fu scossa da una folata di vento che passò sul lago e portò con sé turbinii di neve. A circa ottocento metri dietro di lei, anche l'auto con un solo fanale si fermò. Giocavano come il gatto col topo alle due estremità del ponte. Kasey non voleva comportarsi da paranoica. Forse non era niente. Capitava spesso che adolescenti in cerca di emozioni si mettessero a tallonare le auto della polizia. Kasey accese il lampeggiante e, quasi subito, il fanale si spense. La persona dietro di lei fece un'inversione a U e Kasey vide i fanalini di coda allontanarsi a tutta velocità. Al buio, non riuscì a distinguere alcun dettaglio dell'auto che l'aveva seguita. Attese un altro minuto, e quando vide che il fanale non tornava, proseguì lungo la superstrada che abbracciava la sponda settentrionale del lago. Alla radio, ascoltò le chiacchiere degli altri poliziotti che pattugliavano le strade tortuose della zona delle fattorie. Era una notte fredda e desolata, e la campagna era quasi tutta per loro. Il cellulare squillò. Lo estrasse dal taschino della camicia e vide che si trattava di suo marito. «Va tutto bene?» le chiese Bruce. «Sì, tutto a posto.» Lui non mancò di avvertire la nota di nervosismo nella sua voce. «Sei sicura? Mi sembri spaventata.» «Non è niente» replicò Kasey, lanciando un'altra occhiata nello specchietto. «Credevo che qualcuno mi stesse seguendo. Ho pensato che potesse essere lui.» «Gesù. Non mi piace saperti là fuori da sola.» «Andrà tutto bene. Come va a casa? Hai preso le precauzioni di cui abbiamo

parlato?» «Ho controllato la cantina e tutte le finestre» rispose Bruce. «Ho messo anche un walkie talkie per bambini nel seminterrato, così potrò sentire se qualcuno cerca di entrare.» «Bene. Io dovrei rientrare poco dopo mezzanotte.» «Ti aspetto alzato» disse Bruce, poi aggiunse: «Non possiamo andare avanti così in eterno, questo lo sai, vero?». «Lo so. Ce ne andremo, proprio come abbiamo deciso di fare.» «Allora facciamolo. Adesso. Prepariamo le valigie e andiamo in Nevada. Possiamo partire stasera stessa.» Kasey attese un momento prima di rispondere. «Non ancora.» «Cosa stiamo aspettando?» «Se ce ne andiamo con questo tizio ancora in libertà, non riuscirei più a dormire» spiegò Kasey. «Mi rimarrebbe nella testa. Ovunque andremo» «Credi che potrebbe seguirci?» «Ma che ne so!» sbottò Kasey. Trasse un profondo respiro e abbassò la voce, cercando di controllare il panico. «Non ho la minima idea di quale sarà la sua prossima mossa. È ossessionato da me, questo lo capisci?» «Un motivo in più per andarcene» insistette Bruce. «Ne parliamo quando torno, okay? Ora non è il momento per questa discussione.» «Lo so. Sii prudente.» Kasey concluse la telefonata. Le tremavano le mani. Si mordicchiò il labbro superiore e scrutò attraverso il parabrezza. Lungo le strade che costeggiavano il lago Island, ogni cinquecento metri circa si trovavano fattorie o residenze per le vacanze nascoste tra gli alberi della foresta. Pattugliò per un'ora le stradine sterrate che costeggiavano lo specchio d'acqua. Per due volte dovette frenare bruscamente a causa di un cervo immobile in mezzo alla strada, che la fissava. Sembrava che solo gli animali fossero ancora svegli da quelle parti. Maggie voleva una presenza massiccia della polizia sulle strade per spaventare l'assassino. Voleva che vedendo le strade piene di sbirri, il killer si rendesse conto che un'altra aggressione sarebbe stata un rischio eccessivo. Ma, se fosse stato paziente, alla fine avrebbe vinto lui. I chilometri di quelle strade di campagna erano troppi perché si riuscisse a pattugliarli tutti. Kasey comunicò via radio la propria posizione. Dalla centrale le indicarono di dirigersi a sud poi a est verso la Highway 44. Un altro viaggio nella terra di nessuno. Ripercorse la strada e superò di nuovo il tratto che costeggiava il lago, nel punto dove il vento soffiava più violentemente. Dopo aver superato il ponte, notò un furgone nero parcheggiato sul bordo della strada, con le luci e il motore spenti. Non ricordava di averlo notato prima, ma era anche vero che

in quel momento era distratta. Gli passò accanto e lanciò un'occhiata al finestrino del guidatore, ma non scorse nessuno all'interno. Sul vetro non erano visibili tracce di condensa. Accostò al ciglio della strada, venti metri più avanti del furgone. Controllò che alle sue spalle non ci fosse del movimento, poi aprì la portiera e scese dall'auto. Sganciò una torcia dalla cintura e la puntò in direzione della targa, la cui superficie era però resa illeggibile dal fango. Diresse il raggio di luce verso il parabrezza e si accorse che i vetri del furgone erano fumé e impedivano di vedere cosa ci fosse all'interno. La cosa non le piacque. In quel momento, nella sua auto, la radio prese vita con un crepitio. «Tutte le unità nei paraggi rispondano a una chiamata d'emergenza, è in corso un'aggressione.» La centrale comunicò l'indirizzo: un punto sulla Highway 12, nel cuore della zona delle fattorie del nord. Viaggiando a velocità sostenuta, Kasey avrebbe impiegato quindici minuti ad arrivarci. Doveva essere lui. Esitò, gli occhi sempre fissi sul furgone nero. Era sempre stato lì? Che fosse stato abbandonato? Non aveva tempo di preoccuparsene. Tornò sull'auto di pattuglia, richiuse con forza la portiera e sfrecciò verso sud, lungo la superstrada fiancheggiata da pini simili a tenebrose colonne. Meno di un chilometro e mezzo più avanti lanciò un'occhiata nello specchietto, la sua attenzione attratta da un improvviso fascio di luce. «Merda!» esclamò. Il fanale era tornato. E la seguiva. Kasey aveva mezzo secondo per decidere se unirsi alle altre pattuglie, in risposta alla chiamata d'emergenza, o scoprire chi ci fosse nel furgone dietro di lei. Scelse la seconda opzione. All'incrocio successivo, fece una brusca inversione a U, spinse l'acceleratore a tavoletta e l'auto balzò in avanti con un rombo. Il furgone si fermò con uno stridore di freni poi eseguì una manovra maldestra in mezzo alla superstrada. Il suo motore non avrebbe potuto tenere testa a quello dell'auto di pattuglia di Kasey. «Ti ho fregato» sussurrò la poliziotta, togliendo una mano dal volante per sganciare il pulsante a pressione della fondina. Si avvicinò rapidamente, ma quando fu a poche centinaia di metri le luci del furgone scomparvero. Kasey accese gli abbaglianti, ma il tratto di asfalto nero davanti a lei era deserto. Il veicolo era scomparso. Solo troppo tardi si accorse di uno sterrato che, dalla superstrada, si dirigeva a est in direzione del lago. Kasey inchiodò e girò bruscamente il volante, ma le gomme posteriori slittarono sulla neve ammassata contro il bordo della strada e l'auto si bloccò. Premette l'acceleratore, ma la fanghiglia le impediva di avanzare. Frustrata, spinse

l'acceleratore con delicatezza e la macchina, avanzando a scatti, raggiunse il bordo della strada, dove gli pneumatici riuscirono a fare presa sull'asfalto e a riprendere velocità. La strada sterrata era poco più di un'apertura nella foresta alla sua sinistra. Una dozzina di cassette per le lettere erano posizionate lungo la statale. Quando svoltò, capì subito di essersi infilata in una strada privata senza sbocchi che terminava sul lago. Nessuna via d'uscita. Il furgone era intrappolato tra lei e l'acqua. Rallentò a passo d'uomo, studiando l'intrico di viottoli che si diramavano dalla stradina principale verso le case sul lago, che al momento erano solo riquadri bui celati tra gli alberi. Rami di abeti coperti di neve penzolavano sopra la strada, così bassi da sfiorare il tettuccio della macchina. La ghiaia scricchiolava sotto le gomme. Kasey guidò per quasi un chilometro e mezzo, finché la strada terminò in una rampa da barche di cemento che scendeva in lieve pendio e scompariva nell'acqua scura. Il furgone era finito nel lago. Stava fluttuando oltre il molo verso il centro, come un giocattolo senza equilibrio. La portiera dalla parte del guidatore era aperta. Kasey lo osservò sprofondare mentre l'acqua si riversava al suo interno. Ondeggiò e si girò su un lato, sollevando schizzi d'acqua. Gli pneumatici spuntarono in superficie. Il furgone compì un lento cerchio, roteando pigramente prima che il pesante motore lo trascinasse di muso verso il fondo. Tra sibili e increspature il veicolo scomparve sott'acqua. Kasey estrasse la pistola dalla fondina. Strinse gli occhi a fessura e osservò attentamente l'area circostante, poi aprì la portiera, scivolò fuori e prese posizione dietro la macchina. Spostò lo sguardo da un albero all'altro, attenta a cogliere ogni movimento. Rimase in ascolto. Fruscii di foglie secche smosse dal vento. La neve scivolava dai sempreverdi e le cadeva in faccia. Un gracchiare di corvi poco lontano la fece sussultare. Dov'era finito? Kasey si girò di scatto e sollevò la pistola quando sentì qualcosa di pesante muoversi tra la vegetazione, alle sue spalle. Vide un viale invaso dai rampicanti. Sulla spiaggia si stagliava la sagoma di una casa imponente. Seguì il rumore procedendo con passi misurati e silenziosi. Ogni pochi secondi si guardava nervosamente alle spalle. Era spaventata e non vedeva nulla. Il vialetto proseguiva per un'altra quarantina di metri, poi Kasey si ritrovò nella radura erbosa davanti alla casa. Gli scalini che salivano fino alla porta d'ingresso erano coperti di neve e su quella coperta bianca non c'erano tracce d'impronte. Dall'altra estremità della strada, nel punto in cui aveva parcheggiato l'auto di pattuglia, giunse fino a lei il suono di un motore. Attraverso l'intrico degli

alberi, vide la luce dei fanali e sentì le gomme grattare sullo sterrato. Corse lungo il viale, ma inciampò in una radice che spuntava da terra e cadde in avanti. La pistola le sfuggì di mano andando a perdersi tra la vegetazione, e Kasey impiegò quasi un minuto per ritrovarla a tastoni. Quando finalmente l'ebbe recuperata, riprese a correre, seguendo il viottolo fino al punto dove aveva parcheggiato l'auto. Si fermò e rimase in ascolto, ma il rumore del motore era ormai distante. Sentì uno stridio di freni mentre il veicolo si immetteva sulla strada principale e si dirigeva a nord. Le era sfuggito. Kasey imprecò. Raggiunse l'auto di pattuglia per chiedere aiuto. Si piegò all'interno e vide un rettangolo di carta bianca e lucida sul sedile. Lo raccolse e lo girò. «Mio Dio» sussurrò. Stava guardando se stessa. Era una foto che Bruce aveva scattato a lei e a Jack un anno prima. Il fiato le mancò come se le fosse stato risucchiato via. Eccolo un'altra volta. Lo stesso messaggio che le aveva lasciato sullo specchio. Due parole scribacchiate sulla foto, in stampatello, con un pennarello rosso: RAGAZZA CATTIVA.

23 Era mezzanotte quando Valerie Glenn uscì dalla Highway 2 ed entrò nel parcheggio deserto della chiesa. Parcheggiò la Mercedes bianca, scese e infilò le mani nelle tasche della giacca scamosciata. Di fronte a lei c'era la chiesa, circondata da alti pini i cui rami si protendevano come le braccia tese di un sacerdote. Attraversò il prato calpestando con gli stivali il sottile strato di neve. Davanti alla chiesa si sedette sui gradini di cemento e avvertì il gelo della pietra farsi strada attraverso la stoffa dei jeans. So cosa è successo a sua figlia. La donna al telefono le aveva ingiunto di venire sola e di non riferire della telefonata né alla polizia né a suo marito. Nonostante le raccomandazioni di Serena, Valerie aveva eseguito alla lettera le istruzioni. E ora si trovava lì, da sola, lontana svariati chilometri dalla città. In attesa. Sulla neve, un intreccio di orme di cervo. Sopra di lei, la luce lunare filtrava attraverso uno spesso velo di nuvole scure. Rimase seduta sugli scalini per una ventina di minuti, mentre la morsa del freddo le intorpidiva il volto. Non arrivò nessuno. Cominciò a pensare che la telefonata fosse stata uno scherzo e che nessuno sarebbe venuto a portarle notizie di Callie. Si disse che avrebbe atteso altri dieci minuti poi sarebbe tornata a casa, anche se, in verità, non aveva nessuna intenzione di farlo. Sarebbe rimasta lì anche tutta notte, se solo ci fosse stata la minima possibilità di riportare a casa sua figlia. Sulla statale vide le luci gemelle di due fanali, provenienti da sud-est. Un Hummer nero superò la curva. Il pesante veicolo rallentò bruscamente e svoltò nel parcheggio della chiesa, fermandosi di fronte alla Mercedes di Valerie. Lei sentì il cuore battere più veloce e, all'improvviso, un impeto di rabbia le fece serrare i pugni. Non sapeva chi ci fosse sull'Hummer ma, di chiunque si trattasse, avrebbe voluto ucciderlo. Se erano i rapitori di sua figlia, voleva fargliela pagare. La portiera si aprì e dal veicolo scese una donna. Indossava un cappotto invernale con il cappuccio di pelo sollevato sopra la testa che le copriva gran parte del viso. Era magra, con le gambe sottili. Valerie la osservò avvicinarsi. La donna si fermò in mezzo alla neve, a circa tre metri di distanza, e abbassò il cappuccio. Aveva la pelle bianca e un trucco scuro, quasi viola. Valerie sbottò: «Dov'è la mia bambina?». Si alzò di scatto dai gradini e si scagliò contro la donna che, colta di sorpresa da quell'attacco improvviso, non riuscì a scansarsi in tempo. Valerie la colpì al petto, facendola cadere di schiena nella neve. Poi le montò sopra a cavalcioni e prese a colpirle il torso con i pugni, gridandole in faccia:

«Dimmelo! Dimmi dov'è!». La donna la spinse con forza e la disarcionò ma lei senza esitare le ripiombò addosso e riprese a colpirla, finché le lacrime e il freddo ebbero la meglio, privandola di ogni forza. La sua antagonista le afferrò le mani, riuscendo ad allontanarla da sé e a rotolare via. Entrambe avevano il fiato grosso. Valerie era stesa sulla schiena come un angelo di neve e osservava i rami dei pini ondeggiare sopra di lei. «Chi cazzo sei?» chiese Valerie. «Cosa ne hai fatto di Callie?» La donna si rimise in piedi barcollando e si sorresse al corrimano degli scalini della chiesa. «Non l'ho presa io.» «Chi sei?» ripetè Valerie. «Sono Regan Conrad.» Valerie ci mise un momento per ricordare quel nome. Si rialzò e fece per avventarsi di nuovo contro di lei, ma Regan sollevò le mani per fermarla. «Aspetta! Stammi a sentire.» «Cosa significa? Che intenzioni hai?» «Non penso che saresti venuta se ti avessi detto chi ero.» «Hai ragione.» Regan fece spallucce. «So che mi detesti. Mi sta bene, visto che per un bel pezzo mi sono scopata tuo marito. Potrei dirti che mi dispiace, ma non sarei sincera e tu non mi crederesti. Quindi non perdiamo tempo.» «Cosa vuoi?» chiese Valerie. «Parlare.» «Di cosa?» «Di tuo marito» rispose Regan. «Non ho niente da dirti.» «Allora stammi a sentire.» Regan si sedette sugli scalini, si toccò cautamente il petto e piegò il collo. «Per essere una puttanella ricca picchi forte. Ti immaginavo più come la principessina che non vuole sporcarsi le mani.» «Immaginavi male.» «Non hai chiamato gli sbirri come ti ho detto. Brava.» «Se vuoi posso chiamarli adesso.» Regan non sembrò preoccupata. «Fallo pure. Racconterò a loro quello che avrei raccontato a te. Ti ho detto di non chiamare la polizia perché pensavo avresti voluto sentirlo con le tue orecchie. Poi potrai decidere cosa fare. Sei l'unica che può stabilire se convivere o meno con questa faccenda.» «Di cosa stai parlando?» domandò Valerie. «Mi hai detto che sapevi cosa è successo a Callie.» «Lo sappiamo entrambe, giusto?» «No, io non lo so. Dimmelo.» Regan scosse il capo. «Tu nascondi la testa sotto la sabbia perché non vuoi affrontare la realtà.

Ma tutti gli altri lo sanno. Lo sa quella giornalista, Blair Rowe, ma deve girarci intorno per fare contenti gli avvocati. Lo sanno i poliziotti, ma non possono dimostrarlo. E lo sai anche tu. In cuor tuo lo sai. Dico bene?» «No. Ti sbagli.» «Forse non riesci ad ammetterlo ad alta voce. Ti capisco. Lo farò io per te. Sono un'infermiera, lavoro con le madri e, credimi, so quanto è terribile quello che stai passando. Ma Callie non c'è più. Ed è colpa di Marcus. Forse è stato un incidente e lui ha dovuto coprirlo, ma io non la penso così e nemmeno tu. Sappiamo entrambe che razza di uomo è, gelido come il ghiaccio.» Valerie voltò le spalle a Regan. «Me ne vado.» Regan aspettò che arrivasse quasi fino alla Mercedes prima di chiamarla. «Scappa pure se vuoi, ma non ti interessa sapere il perché?» Valerie si fermò. Sapeva che era meglio salire in macchina e andarsene. Quella donna la stava manipolando, eppure non poteva resisterle. Doveva sentire cos'altro aveva da dire. Quella brutta stronza aveva affondato le sue unghie rosse e affilate nei dubbi e nelle paure di Valerie. Aveva espresso ad alta voce le parole che la vocina nella sua testa aveva continuato a ripeterle sin dalla scomparsa di Callie. La stessa parola, in continuazione. Marcus. Si girò di scatto. «Perché?» Regan scese dagli scalini e venne verso di lei. Valerie la fissò. Quella donna era di pochi anni più giovane di lei. Senza curve, i capelli scarmigliati, un volto sfigurato da un trucco viola e da orribili piercing. Valerie cercò di immaginare cosa ci aveva trovato suo marito, da quale raptus era stato posseduto per portarsi una così nel loro letto. Fu come se Regan le avesse letto nel pensiero: «Non importa quanto sei bella. Non si tratta di questo, e tu lo sai». «Quello che so è che tu eri nella mia stanza in ospedale durante il mio travaglio. E che ti sei scopata mio marito mentre nasceva la mia bambina.» «E questo non ti dice nulla?» chiese Regan. «Mi dice che razza di persona sei.» «Ti dice anche che razza di persona è Marcus. Non gliene è mai fregato nulla di Callie. Non l'ha mai voluta.» «Ti sbagli.» «Pensi che quella puttana di Las Vegas sia l'unica con cui si è confidato? A me ha detto la stessa cosa. Che sarebbe stato felice se tu avessi perso la bambina. Se lei non fosse mai nata. Ecco l'uomo che hai sposato, Valerie.» Valerie si sfilò un guanto e le diede un ceffone. Il colpo provocò una chiazza rossastra color fragola sul pallido volto dell'infermiera, che barcollò all'indietro ma non reagì.

«Ambasciator non porta pena» disse Regan, calma. «Se pensi di poter insinuare in me dei dubbi, ti sbagli.» Invece non si sbagliava. E lo sapevano entrambe. Valerie sapeva che la sua faccia la tradiva. Era come se un'alluvione avesse allagato il suo mondo fino alle fondamenta e Regan la stesse guardando annaspare alla disperata ricerca di un salvagente. «Non devo essere io a dirti il perché, vero?» chiese Regan. «Sei pazza.» «Andiamo, Valerie. Non è ovvio? Non lo sai?» «Non so un cazzo» sbottò Valerie. «Non voglio sentire più accuse del genere. Marcus vuole bene a Callie.» Regan rise. I suoi denti erano bianchi quanto la sua pelle. «Mio Dio, non lo sai davvero. È ridicolo.» «Vai al diavolo!» Valerie si allontanò furibonda, ma Regan fece due rapidi passi e la fermò mettendole una mano sulla spalla. «Aspetta.» Regan aprì la zip della giacca e da una tasca interna estrasse una busta sigillata. Valerie riconobbe il logo dell'ospedale St.Mary. Regan le tese la busta, ma Valerie non accennò a prenderla. Allora Regan si avvicinò e le infilò un'estremità della busta nella cintura dei jeans. «Non riesco a credere che non lo sapevi» le sussurrò in un orecchio. Scivolò accanto a Valerie, che restò immobile ad ascoltare il rumore dei suoi passi. La udì aprire e chiudere la portiera dell'Hummer. Non si mosse. Rimase lì come una scultura di ghiaccio mentre Regan si allontanava e la lasciava sola davanti alla chiesa.

24 Nella grigia luce dell'alba, Maggie osservò Guppo e la sua squadra al lavoro sul furgone nero che avevano ripescato dalle acque poco profonde del lago Island. Si massaggiò gli occhi: era stata una notte lunga e insonne. Dietro di lei, Kasey Kennedy era stesa sul confortevole sedile posteriore della Avalanche. Con gli occhi chiusi, la giovane poliziotta aveva un volto angelico, e per l'ennesima volta aveva dato dimostrazione di coraggio e di sconsideratezza. Non c'era niente da fare. A Maggie Kasey piaceva. L'atteggiamento testardo di quella ragazza le ricordava il suo, durante i primi anni di servizio. Lei e Kasey condividevano la stessa determinazione, che non ti permetteva di mollare fino a raggiungere l'obiettivo. Ma che rischiava anche di farti ammazzare. Sulla sponda del lago, Guppo le rivolse un cenno. Maggie scese dal fuoristrada senza disturbare Kasey e raggiunse il grasso detective che si trovava sulla rampa da barche. La piccola radura era affollata da veicoli della polizia e da uomini della Scientifica. Quella mattina, ovunque Maggie andasse, c'era almeno una dozzina di teste che si voltavano. Lo sguardo di Guppo era fisso a circa cinque centimetri sopra gli occhi di Maggie. «Piantala» lo ammonì Maggie. «Non posso farci nulla» ribatté lui. «Sono così... così...» «Rossi.» «Esatto. Rossi.» «Te l'avevo detto che ci stavo pensando su.» «Sì, ma non avrei mai pensato che l'avresti fatto davvero» replicò il detective, ridendo. «E mai così... così...» «Rossi.» «Già. Sono proprio rossi.» «Hai finito?» «Per ora sì.» «Allora, cosa avete scoperto?» «È il furgone del nostro uomo» rispose Guppo. Maggie notò che non stava parlando con lei, ma con i suoi capelli. «Nonostante l'acqua, all'interno ci sono parecchie macchie di sangue. Non è un bello spettacolo.» «Merda» esclamò Maggie. «Verificate se corrisponde a quello delle donne scomparse, e controllate che non ce ne sia anche di altre persone. Non sappiamo da quanto tempo commetteva i suoi crimini.» Guppo annuì.

«La targa del Minnesota non corrisponde al furgone. È di una berlina Volvo. Abbiamo chiamato il proprietario, un avvocato di St.Paul specializzato in lesioni personali, e lui ci ha detto che l'auto è parcheggiata nel garage della sua residenza estiva a sud di Duluth. Guida la Volvo solo quando si trova da queste parti, e non viene in città dai primi di settembre. Non aveva il minimo sospetto che le targhe fossero state rubate.» «Controlliamo la sua casa. Forse troveremo delle impronte.» «Ci stiamo procurando il mandato.» «E il furgone da dove proviene?» «Dal numero di telaio abbiamo scoperto che è stato rubato a Colorado Springs sei mesi fa» spiegò Guppo. Maggie inarcò le sopracciglia. «In Colorado? Interessante.» «Contatteremo le autorità del posto oggi stesso e vedremo cosa riusciremo a scoprire.» «Verificate se nella loro zona ci sono dei casi di omicidio irrisolti il cui modus operandi corrisponde al nostro soggetto» ordinò Maggie. «E fornite loro i nostri risultati del dna, in modo che li confrontino con i loro database.» «Contaci.» «Che mi dici dell'auto che ha rubato la notte scorsa per fuggire?» «È una Cadillac. Il proprietario non l'aveva chiusa a chiave. La gente, da queste parti, si fida troppo del prossimo.» «Qualche avvistamento?» chiese Maggie. «No, per ora no.» Maggie annuì. «Ci stiamo avvicinando a questo stronzo.» «Parrebbe di sì.» «Nel furgone avete trovato delle impronte?» «Stiamo ancora controllando. Il fatto che il veicolo sia andato a farsi una nuotata non ci aiuta.» «Hai saputo che la chiamata d'emergenza era fasulla, vero?» domandò Maggie. «Ci ha attirati di proposito su una falsa pista.» «Sì. E sai cosa significa?» «Che voleva la ragazza. Evidentemente Kasey glielo fa venire duro.» «La cosa potrebbe tornarci utile» commentò Guppo. «Hai messo degli uomini a sorvegliare casa sua?» Maggie annuì. «Sì. A Kasey la cosa non piace, ma ho piazzato una volante dall'altra parte della statale.» «Non credo ci convenga metterlo sul chi vive» considerò Guppo. «Forse dovremmo approfittare della sua ossessione e usare Kasey come esca.» Maggie scosse la testa con determinazione. «Non se ne parla.» «Sto solo dicendo che...» «Ho detto di no. Non voglio che quella ragazza rischi la vita. È una poliziotta, una moglie e una madre. Voglio spaventare questo tizio e fare in

modo che non le si avvicini a meno di cento chilometri.» «Come vuoi tu» rispose Guppo, accigliato. «Torno al municipio» riprese Maggie. «Porto Kasey con me. Distribuite ai media una foto del furgone. Forse potrebbe rinfrescare la memoria di qualcuno.» «Noi ne abbiamo ancora per qualche ora» disse Guppo. «Va bene, quando hai finito stendi il rapporto. Stamattina devo incontrarmi con Stride alla Punta. Voglio anche cercare di scoprire qualcosa di più su questo Nick Garaldo.» «Il ragazzo scomparso nel fine settimana?» «Esatto. Non è ancora tornato. Sono passati già due giorni. Farò un salto nel suo appartamento e magari riuscirò a scoprire qualcosa.» Guppo indicò i capelli della collega. «Hai detto che devi vederti con Stride? L'hai avvisato del nuovo taglio?» Maggie fece spallucce. «Perché, secondo te se ne accorgerà?» Stride entrò a Duluth dalla strada settentrionale attraverso Hermantown e oltre Miller Hill. Dall'alto della ripida strada che scendeva nelle vie del centro, vide il porto e la gigantesca distesa del lago Superior. Onde bianche si infrangevano sulla spiaggia. Un grigio strato di nuvole faceva sembrare più vecchi gli edifici in mattone della città, come se il tempo si fosse fermato durante un gelido inverno di alcuni decenni prima. Imboccò il cavalcavia sopra la Interstate 35 e proseguì attraverso Canal Park fino al ponte mobile che conduceva alla striscia di terra nota come la Punta. Percorse la strada che conduceva alla sua baita e si accorse che faticava a respirare. Avvertiva un senso di soffocamento. Quando raggiunse il vialetto di ingresso, sulla Trentatreesima Strada, rallentò fino a fermarsi e inspirò profondamente a bocca aperta, permettendo ai polmoni di rilassarsi. Abbassò il finestrino e sentì il fragore delle onde sulla spiaggia, oltre la duna di sabbia. Era a casa. Parcheggiò nel vialetto ma non entrò subito. Superò la duna e camminò fino al lago, dove il vento soffiava impetuoso e annunciava tempesta. Un gabbiano era sospeso immobile sopra la spiaggia, tenuto in volo dalle forti correnti. La sabbia era punteggiata da rami spezzati che l'acqua aveva levigato. I ciuffi di segale e i pini ondeggiavano con un movimento quasi elegante. Scese fino al lungo tratto di spiaggia sabbiosa. Le onde si alzavano dal lago gettando ombre lunghe e silenziose, per poi infrangersi in un fragore di schiuma e fango. Negli intervalli tra un'onda e l'altra, si avvertiva il sibilo delle bolle e si vedevano migliaia di puntini argentei percorrere veloci la battigia, come tante stelle spaventate in cerca di un rifugio. Stride non poteva più rimandare quel momento. Risalì la duna ed entrò in

casa dall'ingresso posteriore. Era tutto come l'aveva lasciato, tranne per la polvere e per l'odore di muffa presente nell'aria che non era stata cambiata da settimane. Nella casa regnava una tranquillità funerea. L'unico rumore era quello dei suoi passi sulle assi irregolari del pavimento. Come un estraneo, passò da una stanza all'altra, riprendendo a poco a poco familiarità con le sue cose. Quando entrò nel bagno principale, le sue narici colsero la fragranza floreale del sapone che usava Serena e una traccia del suo profumo. Lei era stata lì, ma ora non c'era più. Proprio come lui. Osservò il suo riflesso nello specchio, ma il suo sguardo non fu ricambiato. Successe di nuovo. L'oppressione al petto. La sensazione che i suoi polmoni lottassero per incamerare ossigeno. Fu colto da un capogiro e si aggrappò al lavandino. Sentì una morsa serrargli il cranio. Quando si guardò di nuovo nello specchio, la sua pelle era pallidissima e madida di sudore. Le sue palpebre erano sipari scuri sugli occhi. Fece scorrere l'acqua e si bagnò il volto. Aveva bisogno di bere qualcosa. Lentamente, attraversò l'ampio spazio della baita fino alla cucina e nel frigorifero trovò una lattina di Coca-cola. La aprì e la appoggiò sul ripiano della cucina, poi dal pensile più in alto prese un grosso bicchiere. Compiva quei gesti senza pensarci. Aveva le mani sudate. Il bicchiere gli scivolò tra le dita. Cadde. E cadde anche lui. Porca puttana. Stava nuovamente cadendo, con l'acqua a molti metri sotto di lui. Il suo corpo precipitava come un proiettile sparato dal ponte, come un razzo diretto verso il porto. L'aria della notte divenne un sibilo assordante. Ci mise solo tre secondi. Tre secondi per capire che stava per morire, tre secondi per schiantarsi nelle acque della baia. Le sue terminazioni nervose urlarono di dolore. L'acqua dura e gelida divenne la sua tomba. La sua mente lo trascinò una volta di più nelle profonde fauci della baia. E come ogni volta che il suo corpo sfrecciava attraverso l'aria, lui desiderava morire sul colpo, una volta per tutte. Quasi riusciva a sentire le parole formarsi nel suo petto. Uccidimi. Rinvenne sul pavimento della cucina, circondato da cocci di vetro, alcuni graziosi come diamanti, altri grossi e letali come punte di frecce. Perdeva sangue da alcuni tagli su un braccio. La sua camicia era macchiata dal sangue che gli colava sul collo da un altro taglio sulla guancia. Allargò le mani e osservò le macchie, come se quel sangue appartenesse al corpo di un altro. I tagli non facevano male. La gamba che si era rotto nella caduta dal ponte non pulsava. Era completamente intontito. Sul pavimento, vide un coccio affilato come un rasoio.

Talmente affilato che avrebbe potuto incidergli la carne come il bisturi di un chirurgo. Lo raccolse e se lo passò tra le dita. Il vetro scintillò riflettendo la luce. Strinse il pugno e vide le vene del polso gonfiarsi come due tratti di corda. Se solo quei frammenti lo avessero tagliato proprio lì, facendo sgorgare il sangue come acqua da una fontana. Se solo non si fosse più svegliato. Non voleva più vivere così.

25 «Dove è andata la notte scorsa, Valerle?» chiese Serena. Erano sedute davanti al camino, nella hall del Sawmill Inn, a Grand Rapids. Valerie indossava un abito grigio dal taglio classico e aveva i capelli biondi raccolti in cima alla testa. Fissava il fuoco a disagio, evitando di incrociare lo sguardo di Serena. «Andata? In che senso?» «Non faccia la furba. Pensa che non teniamo d'occhio la sua casa? Lei ieri sera è uscita alle undici e trenta ed è rientrata poco dopo l'una del mattino.» Valerie accarezzò il liscio legno di quercia sul bracciolo del divano. «Ah, quello. Non riuscivo a dormire, così sono andata a fare un giro in macchina.» «Dove?» «In giro per la città. Ogni tanto lo faccio. Di notte capita che mi sieda in un parco di fronte al fiume. Mi piace stare da sola quando mi sento triste.» Serena poggiò una mano sulla spalla di Valerie. «Se continua a mentirmi sarà più difficile aiutarla.» «Non sto mentendo.» Serena l'aveva fermata mentre usciva da una riunione mattutina nella sala ristorante. Gli amici di Valerie si trovavano ancora lì e la stavano osservando. «Faccio parte di questo gruppo di preghiera da ormai cinque anni» aggiunse Valerie, cambiando argomento. «Lei è una persona religiosa, Serena?» «No.» «Io mi sforzo di esserlo.» Serena non replicò. «Una delle donne più anziane mi ha chiesto se avevo peccato» riprese Valerie. «Ritiene che questo sia un castigo.» «Sono tutte stronzate» commentò Serena. «Chi lo sa? Forse ha ragione. È anche vero che, per una vergine di sessantasei anni è facile essere pia. Per quelle come noi è più difficile.» Serena sorseggiò del caffè da un bicchiere di polistirolo. «Doveva incontrarsi con qualcuno?» «Prego?» «La notte scorsa.» «Gliel'ho già detto, sono andata a fare un giro in macchina.» Serena scosse la testa. «Ho capito che non vuole dirmelo, ma quando la madre di una bambina scomparsa comincia a mentirmi, io non posso evitare di chiedermi perché.» «Come mai è tanto sicura che io stia mentendo?» chiese Valerie. «Le trema il labbro inferiore, il suo sorriso è finto, continua a cambiare

argomento e non riesce a guardarmi in faccia. Le basta?» Valerie non disse nulla. «Aveva a che vedere con Callie?» la incalzò la detective. «Le hanno detto di non parlarne con la polizia? Capisco che sia spaventata, ma se il rapitore si è messo in contatto con lei, me lo deve dire. Ho bisogno di saperlo.» «Non si è trattato di questo.» «Allora di cosa?» «Solo qualcuno che si diverte a farmi impazzire.» «Chi?» «Regan Conrad.» Serena si chinò in avanti e abbassò la voce. «Cosa voleva?» «Sosteneva di sapere cosa fosse successo a Callie ma era una balla.» «È stata lei a dirle di non coinvolgere la polizia?» Valerie annuì. «Cosa le ha raccontato?» «Non importa. Non sapeva nulla.» «Me lo riferisca ugualmente, Valerie. Perché ha voluto incontrarla? Cosa le ha detto riguardo a Callie?» «Non voglio stare al suo gioco» ribatté Valerie. «Parlarne con lei significa dare a Regan ciò che vuole.» «Andrò a parlarle comunque, e lei lo sa. Che mentisse o no, se ha sostenuto di sapere cosa è successo a Callie, entra automaticamente nella lista dei sospettati.» «Voleva farmi credere che Marcus fosse coinvolto nella scomparsa di Callie. È il suo modo di vendicarsi di noi due. Tutto qui.» «Aveva informazioni utili?» domandò Serena. «No.» «Allora perché pensava che Marcus fosse coinvolto?» Valerie arrossì. «Lei... Lei ha detto che Marcus le ha confidato delle cose. Che non voleva che io avessi la bambina. Le stesse cose che ha detto a quella spogliarellista di Las Vegas. Ma io non le credo. Sono certa che abbia inventato tutto per tormentarmi.» «Che altro?» «È tutto.» Serena capì che Valerie proteggeva il resto della storia come una madre protegge il suo piccolo. «Lei mi nasconde qualcosa, Valerie» disse. Valerie si alzò in piedi e si lisciò la gonna. «Non c'è altro. Regan non sapeva nulla su Callie.» «Se lei mi nasconde delle informazioni, avrò più difficoltà a ritrovare sua figlia. E mi riferisco anche a ciò che ha paura di affrontare.» «Mi dispiace, ma non ho altro da dirle.» Valerie si allontanò. Serena la guardò uscire dall'hotel con il passo elegante di una donna che si trova a suo agio con i tacchi alti. Due donne del gruppo di preghiera la aspettavano accanto alla porta, ma Valerie le ignorò. Serena uscì e la vide salire a bordo

della sua Mercedes. I loro sguardi si incrociarono. Per un istante, Serena vide oltre lo scudo di Valerie e fu come se potesse sentirla chiedere aiuto, come se cercasse di scusarsi perché aveva un segreto troppo terribile per poter essere condiviso. Poi il momento passò e Valerie si immise su Pokegama Road. Serena si chiese per che cosa Valerie pensava di meritare il castigo. Quale peccato poteva valere la vita di una bambina? Valerie non tornò a casa. Non voleva vedere Marcus né passare attraverso il fuoco incrociato dei giornalisti. Guidò fino al fiume e parcheggiò di fronte alla casa di sua sorella. Denise non c'era, usciva sempre molto presto al mattino. La macchina di Tom era nel vialetto. I bambini erano già a scuola, tranne la più piccola, e Valerie sapeva che Tom l'avrebbe accompagnata all'asilo prima di recarsi al lavoro. Rimase seduta in macchina con il motore acceso, allungò una mano e aprì il vano portaoggetti. Dentro c'era la busta che le aveva dato Regan Conrad. La tirò fuori e la rigirò delicatamente tra le mani, tastando il gonfiore della carta sotto l'aletta sigillata. Non doveva fare altro che aprirla. Non devo essere io a dirti il perché, vero? Valerie scosse la testa. Non avrebbe permesso a Regan Conrad di avvelenare la sua mente, né tantomeno quella di Serena. Di qualunque cosa si trattasse, non voleva saperne niente. Fece scivolare di nuovo la busta nel vano portaoggetti e lo richiuse. «Valerie.» Alzò lo sguardo quando sentì picchiettare contro il finestrino e udì il suo nome pronunciato da una voce smorzata. Fuori dall'auto c'era Tom Sheridan con in braccio Maureen. Indossava un cappotto pesante sopra un completo marrone. «Ciao» disse lei, aprendogli la portiera. Tom salì a bordo, mise una mano davanti al bocchettone dell'aria per scaldarla e non disse nulla. Maureen era avvolta in una coperta di felpa con un cappuccio che le copriva la testa. Valerie allungò un dito, accarezzò la morbida guancia della bambina e fu ricompensata da una risatina. «Ciao, tesoro» disse. Valerie non riusciva a evitarlo. Vedere Maureen non faceva che rendere ancora più intenso il dolore per la perdita di Callie. Nonostante l'handicap di Maureen, c'era una somiglianza tra le due bambine. La figlia di Denise aveva gli stessi occhi di Callie e una traccia del suo sorriso. «Come stai, Val?» chiese Tom. «Bene» mormorò lei, senza staccare gli occhi da Maureen. «Vuoi entrare?» «Non posso. Avevo solo bisogno di allontanarmi dal circo per un paio di minuti.» Tom annuì e abbassò lo sguardo. Valerie tese una mano e lasciò

che Maureen le stringesse le dita. I loro respiri producevano nuvole di condensa sui finestrini dell'auto. «Posso fare qualcosa per aiutarti?» chiese Tom. «Mi piacerebbe poterti dire di sì, ma purtroppo non è così.» «Non riesco a pensare ad altro.» «Lo so, e te ne sono grata.» «Sei sicura di non voler entrare in casa?» «Sì. Non sarei nemmeno dovuta venire. Ti chiedo scusa.» «Non ti preoccupare.» Poi aggiunse: «Ti avrei chiamato stamattina, ma dirtelo di persona sarà più facile». Valerie si irrigidì. «Di cosa parli?» «Ieri sera è venuta nel mio ufficio quella giornalista, Blair Rowe.» «Cosa voleva?» Tom esitò. «C'è un problema.» «Di cosa si tratta?» «Qualcuno le ha fornito delle informazioni. L'ho supplicata di non divulgarle, ma le trasmetterà nel notiziario di stasera.» «Oh mio Dio.» Valerie chiuse gli occhi. «Cosa è saltato fuori stavolta? Altre novità su Marcus?» Tom scosse la testa. «No, Val, mi dispiace. Stavolta non si tratta di Marcus.»

26 Maggie prese i due sacchetti della colazione acquistati al fast-food e il vassoio porta-bicchieri con caffè e succo d'arancia. Con le mani piene e i tacchi alti salì i gradini della baita di Stride. Gli occhiali da sole, indossati più che altro per un fatto estetico visto che non era affatto una giornata di sole, le scivolarono sul naso e una ciocca di capelli rossi calò a coprirle gli occhi. Bussò alla porta con la punta di uno stivale. «Ehi, sono io» chiamò. Nessuno venne ad aprire. Maggie appoggiò il vassoio con le bevande e infilò una mano in tasca per prendere le chiavi. Quella di Stride era contraddistinta da un'etichetta viola. Aprì la porta a vetri, quindi la porta in legno di quercia. Riprese in mano il vassoio ed entrò spingendo la porta con una spalla. «Ci sei? Ho portato la colazione. McMuffins e burrito.» Rimase in ascolto, aspettandosi di sentire il rumore della doccia, ma la baita era immersa nel silenzio. «C'è nessuno?» Appoggiò il cibo sul tavolo della sala da pranzo. Scartò una cannuccia e la infilò nel coperchio di uno dei bicchieri con il succo d'arancia. Le si formarono due fossette sulle guance mentre succhiava la bevanda. Girò intorno alla penisola che divideva la cucina dalla sala da pranzo per prendere dei piatti. Fu allora che lo vide. «Oh mio Dio.» Maggie crollò in ginocchio, lasciando cadere il bicchiere. Il coperchio si staccò e il contenuto si rovesciò sul pavimento. Stride era seduto con la schiena appoggiata contro i mobiletti della cucina. Schegge di vetro appuntito lo circondavano come pop-corn. Il volto e le mani erano macchiati di sangue. Aveva gli occhi aperti, ma guardava attraverso di lei, come se fosse invisibile. «Ti senti bene?» Lui non rispose. Maggie gattonò fino a lui, schivando i frammenti di vetro. Gli afferrò le mani sporche di sangue e gliele pulì sulla propria camicetta. Poi gli prese la faccia tra le mani, gli sollevò il mento e, lentamente, gli occhi di Stride parvero metterla a fuoco. I loro visi erano a una decina di centimetri l'uno dall'altro. «Resta qui» disse lei, bloccandolo per le spalle quando cercò di muoversi. Prese uno straccio appeso alla maniglia del forno, lo inzuppò d'acqua sotto il rubinetto e gli ripulì la faccia dal sangue. Poi ripetè l'operazione sulle braccia. Quando ebbe finito, si rese conto che le ferite non erano gravi, solo tagli superficiali che avevano sanguinato parecchio. L'acqua fredda aiutò Stride a riprendersi. «Mi dispiace» mormorò. «Va tutto bene, tranquilla.» Maggie gli carezzò i capelli. Un taglio sulla guancia riprese a sanguinare e lei tamponò

l'emorragia con lo straccio umido. «Riesci ad alzarti?» chiese. Stride annuì. «Fai piano» aggiunse Maggie. Lo cinse con un braccio e lo aiutò a rimettersi in piedi. Lui barcollò e si aggrappò al bancone per mantenere l'equilibrio. Lo condusse in bagno, dove Stride si appoggiò con entrambe le mani al lavandino. Piegò il capo e i capelli scesero a coprirgli il volto. Lei tirò indietro la tendina della doccia e fece scorrere l'acqua. Prese un asciugamano, lo inzuppò d'acqua e con movimenti delicati finì di pulire le macchie di sangue. Rimise l'asciugamano sotto l'acqua, e un liquido rosa vorticò nel lavandino. Poi lo aiutò a togliersi la camicia sporca. Il petto di Stride era madido di sudore. «Fatti una doccia, okay? Vedrai che ti farà sentire meglio.» Lui si passò una mano tra i capelli e piccoli frammenti di vetro caddero sul pavimento. «Io intanto do una ripulita» si offrì Maggie. Lo lasciò in bagno e tornò in cucina. Prese scopa e paletta da uno stipo e raccolse i frammenti di vetro. Con una manciata di tovaglioli di carta asciugò il sangue e il succo d'arancia dal pavimento, poi buttò tutto nella spazzatura. Entrò in camera di Stride e prese un paio di boxer dal cassettone. Aprì la porta del bagno e vide la sagoma dell'uomo dietro la tenda della doccia. Era appoggiato con entrambe le mani al muro. Maggie prese i suoi vestiti sporchi e gli lasciò i boxer puliti sul portasciugamani, poi si chinò per raccogliere gli ultimi frammenti di vetro. Quando ebbe finito, si sedette sul pavimento del soggiorno, con la schiena appoggiata alla sedia di pelle rossa di Stride, abbracciandosi le ginocchia. Il cuore le martellava nel petto. Deglutì, si fissò i piedi e cercò di mantenere il controllo. «Mi dispiace davvero tanto.» Maggie alzò lo sguardo. Stride era sulla soglia del disimpegno che conduceva al bagno. Indossava solo i boxer. Sul corpo aveva ancora delle gocce d'acqua e i capelli scuri erano bagnati. Lei si massaggiò gli occhi e tornò ad abbassarli senza dire nulla. Lui camminò a piedi nudi sulla moquette e si sedette accanto a lei. Le loro spalle si toccavano e Maggie avvertì il calore della pelle di Stride. Lui la cinse con un braccio e la attirò a sé. «Grazie» disse. Maggie crollò. Scoppiò a piangere sulla sua spalla e si odiò per apparire così debole e vulnerabile. Lei non era così. Si asciugò il volto e si staccò dal collega. «Mi hai spaventata a morte.» «Lo so.» «Si può sapere cosa ti è successo?» «Mi è caduto un bicchiere» rispose lui.

«Hai avuto un infarto? Vuoi che chiami un'ambulanza?» «No, non è niente del genere.» «Allora che cos'è?» Lui esitò. «Faccio molta fatica a parlarne.» Lei si girò per guardarlo in faccia. I loro volti erano nuovamente a pochi centimetri di distanza. Fece per rimproverarlo, ma la voce le uscì strozzata. «Non mi interessa. Dimmelo ugualmente.» «Mags» mormorò Stride. «Dico sul serio. Non ti lascerò escludermi così.» Lui giunse le mani e appoggiò il mento sulla punta delle dita. Chiuse gli occhi. «Mi succede da qualche mese» sussurrò. «Che cosa?» «Attacchi di panico. Flash-back.» «Flash-back di cosa?» insistette Maggie. Poi capì. «Della caduta.» Lui annuì. «Mi cade qualcosa, qualunque cosa, ed è come se mi ritrovassi là. Non è un semplice ricordo. Sono davvero su quel ponte. E ogni volta è peggio. Mi sta facendo impazzire.» Maggie espirò rumorosamente. «Ne hai parlato con qualcuno?» Stride scosse la testa. «No.» «Ti serve aiuto» sbottò lei. «Ti sei messo in testa di essere Superman? Ah, no, aspetta, con chi sto parlando? Tu non vuoi fare affidamento su qualcuno. Devi mostrarti sempre forte.» Si fermò di colpo e si maledisse in silenzio. Gli appoggiò la fronte sulla guancia. «Scusami.» «No, hai ragione» ribatté Stride. «Sono solo flash-back o c'è anche dell'altro?» «C'è dell'altro» ammise Stride. «Mi sento morto dentro. Non mi importa più di niente e di nessuno. Mentre ero seduto in cucina, desideravo essere morto. Ho pensato davvero di...» Tacque all'improvviso. «Ora cominci a farmi paura» disse Maggie. «Non l'avrei fatto, ma ci ho pensato.» Maggie gli prese una mano tra le sue. I loro sguardi si incrociarono, e per la prima volta da quando si conoscevano fu come se le differenze che li separavano si fossero dissolte. Non il poliziotto anziano e la ragazzina, il capo e la collaboratrice. Niente più storie d'amore a senso unico che Maggie aveva cercato di reprimere. Giocavano allo stesso livello: un uomo e una donna. «Non sei pazzo, sai. È normale.» «Normale? Per favore.» «Se si trattasse di qualcun altro, lo capiresti immediatamente. È che non riesci a guardarti allo specchio.» «Di cosa stai parlando?» «Sindrome da stress post-traumatico. Santo cielo, vuoi svegliarti o no? Tre

mesi fa hai rischiato di morire. Pensavi di poter archiviare tutto come se non fosse successo nulla, una volta che il tuo corpo fosse guarito? Ti sei scavato un buco dove nasconderti per non dover guardare in faccia la realtà.» Stride fissò il soffitto. «Non ha senso, Mags. In vita mia ho passato momenti peggiori. Anche quando ho perso Cindy, sono riuscito a mantenere il controllo.» «Guarda che c'ero anche io» gli ricordò lei. «Semplicemente, non vuoi ricordare quanto è stato brutto.» Non aggiunse che, anche allora, aveva cercato di avvicinarsi a lui per aiutarlo a superare il dolore e che Stride, invece, l'aveva esclusa. «Credo che non provare nulla sia peggio» disse lui. «È come se mi trovassi altrove. Come se fossi scomparso.» Maggie gli accarezzò il collo con il dorso delle dita. «Non sei solo.» «Lo so. Grazie.» «Non è un peccato ammettere di aver bisogno d'aiuto.» «Può darsi, ma sono abituato ad affrontare i miei problemi da solo» ribatté lui. «Stavolta non li stai affrontando, mulo testardo!» I lineamenti di Stride si ammorbidirono e rise. «Mi sei mancata.» «Anche tu. Non provare a scappare di nuovo, intesi?» «Intesi.» Maggie sentì che era naturale continuare ad accarezzarlo, e lo fece. Negli occhi di Stride colse una specie di invito, così fece scorrere la punta delle dita lungo il suo mento poi sulle sue labbra. «Sai, non hai ancora detto niente» disse Maggie. «Su cosa?» «Su di me.» Lui sbatté le palpebre, senza capire. La fissò un istante e finalmente la vide. La vide davvero. Per Maggie fu come riuscire a entrare finalmente nella testa di Stride. Ne era rimasta fuori così a lungo che ora era disorientante sentirsi osservata in quel modo. «Oh mio Dio» esclamò lui, con un sorriso. «I tuoi capelli!» Allungò una mano e scostò le ciocche che le erano scese davanti agli occhi. L'intimità di quel gesto le tolse il respiro. Lei ricambiò il sorriso, a labbra chiuse. «Ti piacciono?» Stride non rispose. La sua espressione parlava per lui. Maggie non capì se era gratitudine o desiderio, ma non le importava. Le mani di lui scivolarono dietro il suo collo e la attirarono a sé. Maggie inclinò il mento verso l'alto. Ognuno sentiva il caldo respiro dell'altro sul proprio volto. Le loro labbra, come attratte da un'oscura forza di gravità, si avvicinarono e si unirono delicatamente. Quando Stride si staccò da lei, Maggie pensò: "Ecco, è finito".

Il momento in cui avevano danzato su una linea sottile e pericolosa era passato, e ora avevano ripreso il controllo di se stessi, com'era giusto che fosse. Invece non era passato. Terminato il primo bacio, e rotto il velo di ghiaccio che li aveva tenuti separati, ricominciarono. Il loro era un bisogno urgente e pieno di passione. Prima che Maggie potesse rendersene conto, la linea pericolosa era svanita dietro le loro spalle. Nella sua mente una vocina cantava: È uno sbaglio, uno sbaglio, uno sbaglio, ma lei chiuse la porta e la voce divenne sempre più debole e priva di importanza. Nessuno dei due si fermò a riflettere su ciò che stavano facendo. Lei lo aiutò a spogliarla, poi gli sfilò i boxer di seta e quando furono entrambi nudi la sdraiò sul tappeto, salì sopra di lei e le infilò le mani sotto le scapole. Lei si inarcò verso l'alto per andargli incontro e gli strinse il viso tra le mani. Un attimo dopo lei aveva allargato le gambe, le aveva strette attorno alla sua schiena e lui l'aveva penetrata con un'unica spinta decisa. E' uno sbaglio, ripetè la vocina. Lei la ignorò. Non le importava più. La fece tacere dicendo a Stride quanto lo desiderava. Lo strinse con forza, conficcandogli le unghie nella carne. Voleva essergli vicinissima, in modo che ogni centimetro della loro pelle fosse a contatto. Lui ricambiò con uguale passione, e fecero l'amore con totale abbandono. Chissà se anche Stride udiva una voce che gli sussurrava che stava commettendo un errore. Se era così, nemmeno lui pareva prestarle attenzione. Si strinsero e saltarono insieme dal ponte, e per un istante Maggie fu certa che potessero davvero volare. Ma anche se non potevano, non aveva importanza: l'acqua era talmente lontana che era come se non ci fosse.

27 Serena trovò Regan Conrad seduta da sola nella caffetteria dell'ospedale. Indossava un camice lilla, mangiava un'insalata verde e beveva acqua da una bottiglietta di plastica. Quando Serena si sedette di fronte a lei, Regan guardò gli altri tavoli per controllare che non ci fosse nessuno a portata d'orecchio. «Mi lasci indovinare: ha parlato con Valerie» esordì con un vago sorriso. Serena si sporse attraverso il tavolo. «Guardi che non è uno scherzo. Si consideri fortunata se non la arresto.» «Non sarebbe la prima volta» ribatté Regan, masticando l'insalata. «Ma immagino che lo sappia già.» In effetti Serena lo sapeva. Aveva controllato il passato della donna. «Quando lei aveva diciannove anni, è stata arrestata per effrazione a Two Harbors» disse. Regan fece spallucce. «Io me ne stavo solo seduta nell'auto del mio ragazzo. Non sapevo cosa stesse combinando.» «Ho letto i rapporti della polizia» riprese Serena. «Lui ha dichiarato che l'idea era sua, Regan. Ha detto che è stata lei a istigarlo. La casa apparteneva a un uomo con cui andava a letto.» Lei inforcò un pomodorino e se lo mise tra i denti. «Gli uomini sono capaci di raccontare qualunque cosa. Lo sa anche lei.» «A ventiquattro anni, ha inviato messaggi minatori a una ragazza a cui dava la colpa di averle portato via il fidanzato» proseguì Serena. «Me lo aveva portato via davvero, quella troia.» «La ragazza ha poi trovato il suo gatto decapitato dietro casa.» «Non sono stata io. Anche se amo poco i gatti.» «Qualcuno le ha anche messo una bomba artigianale sotto la macchina e la polizia è convinta che lei c'entrasse qualcosa.» «Avevo un alibi. Hanno dovuto lasciar cadere le accuse.» «Pensavano che avesse incaricato qualcun altro di fare il lavoro sporco.» «Devo essere una persona molto convincente» replicò Regan. «Aveva un alibi anche per il momento della scomparsa di Callie Glenn» disse Serena. «Ah, ho capito. Siccome non posso essere stata io, allora devo aver sicuramente chiesto a qualcun altro di rapirla per conto mio. Ci sono altri crimini che non posso aver commesso di cui vuole parlarmi?» «Lei ha detto a Valerie Glenn di sapere cosa è successo a Callie.» «Certo. E lo sa anche lei. È stato Marcus.» «Ha in mano qualche prova?» «Marcus è furbo. Dubito che si sia lasciato dietro prove o indizi.»

«Perché ha contattato Valerie?» chiese Serena. «Perché credevo che meritasse di conoscere la verità.» «La verità? Cosa le ha detto, di preciso?» Regan fece spallucce. «Solo che Marcus ha detto a me le stesse cose che aveva detto a quella ragazza di Las Vegas. Che avrebbe voluto che Callie non fosse mai nata.» «Tutto qui?» «Se ci fosse dell'altro, sicuramente Valerie glielo avrebbe detto.» «Non faccia la furba» la ammonì Serena. «Perché non voleva che chiamasse la polizia?» «Non credo che Valerie volesse che voi veniste a sapere che razza di persona è Marcus. Le mogli devono compiere scelte difficili sulle verità con cui devono convivere.» Serena puntò un dito contro Regan. La sua pazienza si era esaurita. «Non finga che il suo sia stato un gesto nobile. Non ha prove contro Marcus. Desidera solo sabotare il loro matrimonio.» «Io sono sincera» replicò Regan. «È lei quella che riempie la testa di Valerie di false speranze. Le madri disperate sono pronte a credere a qualunque cosa. Se in gioco c'è la vita dei figli, non esiteranno a credere a una bugia anche con la verità sotto gli occhi. Racconti pure a Valerie che Callie tornerà a casa, ma in cuor suo, Serena, lei è la prima a non crederlo. E lo stesso vale per il suo collega. E per Blair Rowe. L'unica differenza è che io ho avuto le palle di dirlo chiaro e tondo a Valerie.» «Stia lontana da lei» sbottò Serena. «Sta intralciando un'indagine della polizia.» «Un'indagine? A me sembra che siate arrivati a un punto morto.» «Io penso che lei nasconda qualcosa» disse Serena. «La prima volta che ci siamo incontrate, mi ha suggerito di tenere d'occhio Micki Vega. Sa qualcosa di lei e Marcus? Pensa che sia coinvolta nella scomparsa di Callie?» Regan scosse la testa. «Non ne ho idea, ma credo che Micki farebbe qualunque cosa le chiedesse Marcus. È chiaro che è innamorata di lui.» «Come mai Micki ha perso il bambino?» «Aborto naturale. Sono cose che succedono. Niente di insolito.» «Come l'ha presa?» domandò Serena. «Secondo lei? In modo isterico.» «Deve essere stata dura per lei perdere il bambino e, subito dopo, doversi prendere cura di Callie.» «Sicuramente» convenne Regan. «Cosa vuole dire, che Micki ha rapito Callie Glenn per rimpiazzare il figlio che non ha avuto?» «Crede sia possibile?» «Tutto è possibile. Gliel'ho già detto, le madri possono diventare creature disperate.» «E le persone disperate sono facili da manipolare.»

«Da me? Secondo lei ho convinto io Micki a rapire Callie?» «Lo ha fatto?» «Certo che no.» «In passato ha già dimostrato di saper manipolare le persone per spingerle a fare ciò che desidera» la incalzò Serena. «Sono mesi che non parlo con Micki. Se qualcuno l'ha manipolata, quello è Marcus. Chi può sapere quali idee le ha messo in testa? Micki è accecata dall'amore.» «Per quale motivo Marcus chiederebbe a Micki di fare del male a sua figlia? O di rapirla?» «Se riesce a capire questo» disse Regan, abbassando la voce fino a renderla un sussurro «capirà anche tutto il resto.» «Lo sto chiedendo a lei.» Regan si alzò in piedi. «Spiacente. Non voglio ostacolare la sua indagine.» Anche Serena si alzò e si mise davanti all'infermiera. «È coinvolta nella scomparsa di Callie?» «Sa bene che non è così. Quella sera ero in ospedale.» «Sa cosa le è successo?» «Lo sappiamo entrambe, ma lei si rifiuta di affrontare la realtà. Vuole rendere complicata una cosa semplice, Marcus è chiaramente coinvolto, e forse anche Micki.» «Chi c'era in casa sua la sera in cui sono passata da lei?» chiese Serena. «Come, scusi?» «Quando sono arrivata, nel suo vialetto c'era una vecchia Escort, e quando me ne sono andata non c'era più. Qualcuno è sgattaiolato via mentre noi parlavamo. Chi era?» «Sono una professionista. Le persone con cui parlo non sono fatti che la riguardano.» «Quindi si trattava di un paziente?» «Direi che la conversazione termina qui» tagliò corto Regan. «Se vuole discutere di argomenti relativi alla mia professione, può chiedere a un giudice di emettere un mandato. E buona fortuna.» «Non finisce qui. Ci rivedremo.» «Non ne dubito» disse Regan. «Lei è chiaramente ossessionata da me, signora Dial. Dovrebbe smetterla e concentrarsi su qualcosa di più utile. Per esempio catturare l'assassino che si aggira dalle mie parti.» «La polizia di Duluth lo prenderà.» «Davvero? E questo dovrebbe rincuorarmi?» «Stanno facendo tutto il possibile.» «Lo vada a raccontare alle quattro donne che sono morte» commentò Regan. «Personalmente, continuerò a dormire con accanto il mio fucile a canne mozze.»

28 Stride parcheggiò lungo il ripido pendio occidentale di Lake Avenue, nel quartiere di Duluth conosciuto come Central Hillside. Era la zona più malfamata della città, piena di vagabondi e di prostitute durante i mesi più caldi dell'anno. Quando giungeva l'inverno la maggior parte di questa popolazione nomade migrava a sud come gli uccelli, ma alcune anime premurose restavano comunque da quelle parti affinché i poliziotti e i servizi sociali non si trovassero senza nulla da fare. Mentre parcheggiava, vide un gruppo di ragazzi con pesanti cappotti occhieggiare sospettosi la sua auto dall'angolo della Quarta Strada. Maggie era seduta accanto a lui, con il mento appoggiato sui pugni e lo sguardo fisso fuori dal finestrino. Da quando era successo, non avevano parlato molto. «È lì che abita Nick Garaldo?» chiese Stride, indicando con un cenno del capo il condominio a quattro piani, con i vetri di gran parte delle finestre rotti. Maggie annuì. «Sì, esatto.» Stride sapeva che toccava a lui parlare per primo. Era stata colpa sua. Per oltre dieci anni si era mosso in punta di piedi intorno a Maggie, consapevole dei suoi sentimenti per lui e attento a non crearle false speranze. Ora li aveva messi entrambi in una situazione sgradevole. La guardò. I capelli rosso fuoco erano proprio nel suo stile estroverso. Maggie faceva tutto quello che le veniva in mente. Proprio come il piercing che aveva al naso. Lui era quello compassato e serioso, mentre lei era spigliata e all'avanguardia. Eppure si erano trovati bene insieme. Yin e Yang. Stride non riusciva a immaginare la propria vita senza che Maggie ne facesse parte. Era questo uno dei motivi che lo avevano spinto a tenere le distanze, anche quando lei aveva espresso chiaramente di essere pronta a superare la linea che li divideva. Ora quella distanza di sicurezza non esisteva più. Un errore. Bisognava dirlo. Era stato un errore. Lei aspettava che lui rompesse il silenzio e desse a entrambi l'occasione di fingere che non fosse mai successo. Ma lui non voleva farlo. Qualcosa era cambiato. Si sentiva di nuovo vivo. La diga di detriti che gli ostruiva la testa si era finalmente rotta, ma l'inondazione che aveva provocato era incontrollabile. Le emozioni gli rimbalzavano nell'anima, minacciando di fare danni notevoli. Come se la sua vita non fosse già abbastanza danneggiata. Serena. Avvertì una fitta dolorosa di senso di colpa. Serena. Era stata il centro della

sua vita negli ultimi tre anni e lui le aveva voltato le spalle e l'aveva tradita. Serena non era stupida. Era sempre stata consapevole dei sentimenti di Maggie verso di lui. Se c'era una cosa che Serena temeva nella loro relazione, era che lui, un giorno, finisse a letto con Maggie. E ora era successo. «Mags» cominciò. Lei girò la testa e lo guardò. Stride scrutò l'espressione di paziente attesa sul suo viso. Maggie pensava che lui se la sarebbe data a gambe. Aspettava solo che lo dicesse. Un errore. Stride non aprì bocca e fu di nuovo Maggie ad accorrere in suo aiuto. «Ascolta, dobbiamo proprio sollevare un polverone per questa storia?» chiese. «Tu ti senti in colpa da morire, anche se non dovresti. Io neanche un po'. Avevamo bisogno l'uno dell'altra ed è scattato qualcosa. Serena non deve venire a saperlo per forza. Le cose possono tornare a essere quelle di sempre.» «E noi?» chiese lui. Lei si voltò dall'altra parte, senza rispondere. Stride sapeva il perché. Anche se poteva crogiolarsi nell'illusione che lui e Serena avrebbero ripreso la loro vita insieme, il suo rapporto con Maggie era cambiato per sempre. Non poteva fingere che fosse diversamente. «Andiamo a controllare l'appartamento, okay?» disse lei, schivando la domanda. «Quel tizio là deve essere l'amministratore.» Scesero dal fuoristrada di Stride e si avvicinarono a un nero di bassa statura che camminava avanti e indietro fuori dal condominio. L'uomo li accolse con una salda stretta di mano e si presentò come Rufus Durand. Aveva capelli grigio acciaio e, a giudicare dall'aspetto, era vicino alla sessantina. Aprì il portone che dava sulla strada e li fece entrare. «L'appartamento del signor Garaldo è all'ultimo piano» disse, porgendo loro un passe-partout legato con un elastico a un vecchio cucchiaio di legno. «È il 405. E immagino preferiate andarci da soli.» Dal suo tono era chiaro che non aveva nessuna voglia di salire con loro. Se c'era un cadavere nell'appartamento, preferiva non vederlo. Probabilmente non era la prima volta che uno dei suoi condomini se ne andava dentro un sacco nero. «Le riporteremo la chiave appena avremo finito» disse Maggie. «Fate pure con comodo. Io resto qui a fare le parole crociate.» L'uomo spiegò il giornale che teneva sotto un braccio e si sedette su una sedia appoggiata al muro di fronte all'ascensore. Stride e Maggie salirono con l'ascensore, vecchio e lento. Maggie, le mani infilate in tasca, spostava nervosamente il peso da un piede all'altro.

«Quando è stato visto per l'ultima volta?» chiese Stride. «Sabato.» «E da allora più niente?» «No. Non si è presentato al lavoro e non ha fatto telefonate dal cellulare. Ho chiamato i suoi genitori, a Des Moines. Nemmeno loro hanno sue notizie.» Individuarono l'appartamento di Nick Garaldo e bussarono. Non ci fu risposta. Maggie infilò la chiave nella serratura, aprì la porta ed entrarono. L'appartamento era composto da una camera da letto, uno spazio aperto che fungeva da salotto e da sala da pranzo e un cucinotto. I pochi mobili avevano l'aria di essere stati comprati a una svendita di quartiere. Stride andò in camera da letto e sentì che Maggie apriva i cassetti della cucina. Il letto matrimoniale era disfatto. Sul comodino c'erano un abat-jour, una sveglia e un libro in edizione economica con le orecchie alle pagine. Era un romanzo giallo di David Housewright, ambientato in Minnesota. Stride infilò i guanti e aprì il cassetto del comodino. Garaldo non aveva molte cianfrusaglie. Nel cassetto trovò una scatola mezza vuota di preservativi, del dopobarba marca Old Spice, altri romanzi gialli, graffette e briciole di patatine. Richiuse il cassetto e si inginocchiò per controllare sotto il letto. C'erano varie paia di scarpe da ginnastica impolverate. Accanto a una di queste notò un dischetto nero grande quanto un francobollo. Lo prese tra le dita e, dopo aver constatato che si trattava di una scheda di memoria xd per macchine fotografiche digitali, lo infilò in un sacchetto di plastica trasparente. Controllò il bagno e non trovò nulla di insolito. Niente sostanze illegali nell'armadietto dei medicinali. Una ricetta per un antiallergico. Bottigliette di shampoo con i bordi incrostati di sapone rappreso. Terminata l'ispezione, tornò in soggiorno. «Trovato niente?» chiese a Maggie. Lei scosse la testa. «Gli piacciono i pistacchi rossi. In cucina ce n'è un barattolo pieno. A parte questo, nient'altro.» Lui le porse la scheda di memoria. «Gli piace anche scattare foto.» «Hai trovato anche la macchina fotografica?» Stavolta fu Stride a scuotere il capo. «No.» «Interessante» commentò Maggie. Su un tavolinetto vicino al televisore c'era un telefono, e i due poliziotti videro una luce rossa lampeggiante, a indicare che c'erano messaggi in segreteria. Maggie premette il pulsante per la riproduzione. I messaggi erano sette: tre dalla sua ragazza, due dal suo capo al porto e due dai suoi genitori, che lo informavano che la polizia lo stava cercando. Sembravano preoccupati.

«Non vedo un calendario né un'agenda elettronica» disse Stride. «Cosa hai trovato nella sua posta?» «Bollette. Fa un sacco di acquisti ai grandi magazzini Rei, quelli specializzati in roba da campeggio. Deve essere un appassionato di escursioni.» «Forse è andato a fare una gita e ha avuto un incidente» suggerì Stride. «Può darsi. Avviserò la forestale.» Stride studiò di nuovo la stanza. Su una delle mensole di laminato fissate al muro era appoggiato il televisore. Su un'altra mensola c'erano due casse per iPod, ma l'iPod non era nel suo alloggiamento. Sulla scrivania in legno di quercia spiccava un monitor per computer marca Dell. «Hai trovato scarponi da escursione nell'armadio o sotto il letto?» chiese Maggie. Stride scosse la testa. «Impossibile che un tipo del genere non ne possieda almeno un paio» commentò Maggie. «E la sua macchina?» «Possiede una Chevrolet Malibù. Ho chiesto alle pattuglie di cercarla, ma per ora ancora nulla.» «Controlliamo il computer» propose Stride. Una luce verde lampeggiava sul monitor. Stride tirò fuori il cassetto scorrevole su cui si trovava la tastiera e spostò il mouse. Non successe nulla. Aprì un pannello della scrivania e trovò un interruttore di sicurezza e uno spazio vuoto che avrebbe dovuto contenere il tower di un computer. Ma il computer non c'era. I cavi della tastiera, del monitor e della connessione Ethernet penzolavano scollegati. Accanto a lui, Maggie fischiò. «Qualcuno l'ha portato via. Comincio ad avere una brutta sensazione, capo.» Stride si accorse di come lei si sforzava di tornare alle vecchie abitudini, chiamandolo "capo", come suo solito. «Potrebbe essere una semplice effrazione» disse. «O forse si tratta davvero di qualcosa di diverso da un incidente durante un'escursione.» «Farò venire una squadra della Scientifica.» Il cellulare di Maggie squillò. Quando lo estrasse dalla tasca, lanciò a Stride un'occhiata imbarazzata. «E' Serena» disse. Stride avvertì una fitta allo stomaco. «Ciao» disse Maggie al telefono, con una disinvoltura che a Stride suonò innaturale. Maggie rimase in ascolto poi disse: «Sì, certo, d'accordo. Sì, è qui con me, glielo dico subito. Ci vediamo tra qualche ora». Chiuse la comunicazione e Stride inarcò le sopracciglia. «Serena è a Duluth» disse Maggie. «Ci ha chiesto di andare a mangiare insieme una pizza da Sammy, più tardi.» Stride chiuse gli occhi. «Merda.» «Chiamerò anche Kasey» suggerì Maggie.

«Così magari la situazione sarà un po' meno imbarazzante.» Lui annuì «Non dirò una sola parola» aggiunse.. Quando Stride non replicò, lei cercò di interpretare l'espressione sul suo volto. «Ti sto offrendo una via d'uscita, lo capisci, vero? Basta che tu dica che è stato un errore.» Sarebbe stata la cosa più semplice. Per entrambi. Da aggiungere alla lista dei rimorsi segreti della propria vita. «Non posso dirlo» ribatté Stride. «Non sono certo che sia stato un errore.»

29 Serena era seduta in un separé da Sammy's Pizza. Quando Stride e Maggie arrivarono, stava rileggendo delle e@mail riguardanti il caso di Callie. Maggie si infilò nel separé e si sedette di fronte a lei. Serena alzò lo sguardo e quando vide il colore dei suoi capelli, le sfuggì di mano il BlackBerry che andò a finire nel cestino di pane all'aglio. «Porca puttana.» Maggie le strizzò l'occhio. «Cosa c'è, noti qualcosa di diverso?» «Wow.» «In senso positivo o negativo?» «In modo sexy» commentò Serena. Serena sapeva che Maggie era una di quelle donne che tendevano a denigrare il proprio aspetto con commenti auto-ironici. Ma non quella sera. Le ciocche cremisi la facevano somigliare a una modella di New York. In qualunque altro giorno, Serena sarebbe stata contenta per lei. In quel momento, stranamente, si sentì infastidita da quella trasformazione. Era un periodo in cui non si sentiva affatto attraente, e il cambiamento di Maggie non fece che peggiorare quella sensazione. Stride si sedette accanto a Serena e la baciò su una guancia. Maggie spostava lo sguardo tra lui e lei, osservando i segni della tensione reciproca. «Ciao.» Una giovane poliziotta con i capelli rosso acceso come quelli di Maggie era in piedi accanto al tavolo, l'aria impacciata. «Serena, ti presento Kasey» disse Maggie. «Ciao, ho sentito parlare di te» disse Serena, rivolta alla nuova arrivata. «Hai dimostrato di avere le palle.» Il volto di Kasey si increspò in un sorriso imbarazzato e si sedette rigida, come se fosse sull'attenti, accanto a Maggie. «Tutto bene?» le chiese quest'ultima. «Sono spaventata a morte» ammise Kasey. «Vuoi che provveda affinché un agente resti in casa con voi, stasera? Forse vi sentireste meglio se non foste soli.» Kasey scosse la testa. «Andrà tutto bene. Bruce ha montato più serrature che in una prigione.» La cameriera appoggiò sul tavolo un vassoio di alluminio sul quale si trovava una fumante pizza del diametro di almeno quaranta centimetri. Polpette di carne e tocchetti di peperoni erano ordinatamente disposti come condimento. Senza dire nulla, ognuno di loro separò alcuni spicchi e li trascinò sul proprio piatto. «Ci sono novità su Callie?» chiese Maggie, soffiando su un trancio di pizza per raffreddarlo. «Credo che Regan Conrad sappia più di quanto vuole rivelare» rispose

Serena. «Scusa, chi?» intervenne Kasey. «Regan è un'infermiera che ha avuto una relazione con Marcus Glenn» spiegò Serena. «Aveva le chiavi della loro casa e conosce la disposizione delle stanze. Inoltre, ha avuto a che fare anche con Migdalia Vega, la quale si trovava dentro casa quando Callie è scomparsa. Sono un bel po' di coincidenze.» «Cosa pensi di fare?» domandò Stride. «Procurarmi un mandato di perquisizione.» «Temo che non ci siano presupposti sufficienti» obiettò lui. «Lei ha detto a Valerie Glenn di sapere cosa è successo a Callie» insistette Serena. «E poi, quando ero a casa sua, sabato, ho sentito un neonato piangere.» «Pensi davvero che Callie si trovi in casa di Regan?» chiese Maggie, dubbiosa. «Se dicessi di sì, forse un giudice acconsentirebbe a emettere un mandato.» Stride si accigliò. «Può darsi.» Serena si infilò in bocca un pezzo di pizza. Cercò di decifrare la strana dinamica in atto tra loro tre. Lei e Stride già da tempo si comportavano come due estranei, ma ora sembrava che anche Stride e Maggie si evitassero. Si disse che doveva essere una specie di virus, nato nella testa di Stride, che si era trasmesso a lei e ora stava infettando anche Maggie. Kasey, in mezzo a loro, sembrava a disagio. La giovane poliziotta spostava nel piatto il suo pezzo di pizza, che aveva a malapena assaggiato. Lanciava occhiate rapide e nervose, come un passero che saltella su un prato, consapevole che un gatto potrebbe balzargli addosso da un momento all'altro. Accanto a Serena, Stride controllò l'orologio. «È l'ora del notiziario.» Scivolò fuori dal separé. A circa cinque metri, su una mensola rialzata in un angolo del locale, c'era un televisore. Lo accese e cambiò canale fino a trovare il notiziario. Non dovettero aspettare molto prima che arrivasse la notizia più importante della settimana. Quando dallo studio passarono la linea in diretta a Blair Rowe, che si trovava davanti agli uffici della contea a Grand Rapids, Stride alzò il volume. Serena riusciva a sentirlo dal tavolo. «...un nuovo colpo di scena nella scomparsa di Callie Glenn» raccontava Blair con la voce resa acuta dall'eccitazione mentre spingeva gli occhiali scuri sul naso. «Come sapete, da quando la piccola è scomparsa abbiamo appreso sconvolgenti dettagli su suo padre, Marcus Glenn. Tuttavia, stasera le

voci non riguardano il dottor Glenn, bensì la madre di Callie, Valerie Glenn. Finora è stata una figura bella e tragica di questa storia e l'abbiamo vista supplicare di riavere sua figlia e asserire con convinzione che suo marito è innocente. La polizia non ha ancora avanzato alcun sospetto nei confronti di Valerie. Forse ciò è dovuto, almeno in parte, al fatto che sua sorella lavora da tempo al dipartimento dello sceriffo. Nel prossimo collegamento, però, vi diremo di più sul passato di Valerie Glenn e sulla sua storia di infermità mentale. Condividerò con voi anche nuove e sbalorditive informazioni, le quali potrebbero rivelarsi il movente che la polizia non è ancora riuscita a trovare nel corso delle indagini su Marcus Glenn.» Ci fu uno stacco pubblicitario. «La storia di infermità mentale di Valerie?» esclamò Serena. «Dove vuole andare a parare, quella stronza di giornalista?» Stride tornò a sedersi. «Valerie ti ha accennato di questo suo presunto segreto?» Serena scosse la testa. «Non una sola parola.» Poi, però, ripensò alle parole di Regan: “Se riesce a capire questo, capirà anche tutto il resto”. Il telefono di Stride squillò. Lo tirò fuori e controllò il display. «Le buone notizie viaggiano alla svelta» commentò. «E' Denise. Sarà meglio che risponda.» Si diresse verso la porta, lasciando sole le tre donne. Con un occhio, Serena continuava a guardare il televisore. Ora che Stride si era allontanato, Maggie diventò irrequieta. Era come se il virus della tensione si fosse diffuso anche tra loro due. «È meglio che vada» annunciò Kasey, approfittando della pausa nella conversazione. «Non voglio che Bruce si preoccupi.» «Sei sicura di non volere un agente in casa, stasera?» chiese Maggie. «Posso mandarti qualcuno nel giro di un'ora.» «No, grazie.» «D'accordo, ci vediamo domani.» Kasey esitò e abbassò lo sguardo. «Io, ehm, per domani non so.» «Se ti serve, prenditi pure un giorno libero» la rassicurò Maggie. «Cioè, ecco, è proprio questo il punto. Ho intenzione di licenziarmi.» «Intendi lasciare la polizia?» Kasey annuì. «Dopo quello che è successo ieri sera, io e Bruce pensiamo sia la cosa migliore da farsi. Sai, allontanarci da qui, ricominciare da capo. Trasferirci in un posto dove questo tizio non possa trovarmi.» «Non voglio perderti, Kasey,» ribatté Maggie «ma non ti biasimo se deciderai di mollare.»

«Se fossi sola sarebbe diverso, ma devo pensare anche alla mia famiglia.» «Certo.» «Comunque, domani ti chiamo.» «Ci conto.» Kasey si alzò in piedi. Serena osservò i suoi ricci rossi mentre la donna lasciava il ristorante con passi veloci e decisi. Uscì dalla porta, girò a destra su First Street e scomparve alla vista. «Cosa faresti, nei suoi panni?» chiese Serena. «Probabilmente anch'io scapperei a gambe levate.» Maggie continuava a evitare il suo sguardo. «Si può sapere che ti prende?» le chiese Serena. «C'è qualcosa che non va?» «No, le solite cose» rispose Maggie. «Jonny ti ha detto qualcosa di particolare, oggi?» «Riguardo a cosa?» «A ciò che lo tormenta.» «No, è chiuso a riccio» rispose Maggie. Serena studiò il viso dell'altra donna e con sgomento si accorse che non le credeva. «Non ti ha detto proprio niente?» insistette. «No. Mi dispiace.» Serena si piegò in avanti sul tavolo. «Il tuo aiuto mi sarebbe molto utile. Devo assolutamente sapere cosa gli gira per la testa.» «Io non dovrei mettermi di mezzo» disse Maggie. «Credo che tu lo abbia già fatto.» «Cosa vuoi da me, Serena?» «La verità.» «Tu non puoi reggere la verità» disse Maggie, imitando la voce di Jack Nicholson in Codice d'onore. «Non scherzare.» «Sono sicura che, quando sarà pronto, sarà lui a dirtelo.» «Dirmi cosa?» «Cos'è che lo turba.» «Da come parli, sembra che tu lo sappia già» disse Serena. «Oh, cazzo, proprio non riesci a tenermi fuori da questa storia, vero?» sbottò Maggie, alzando la voce. «E' il tuo compagno. Io sono il terzo incomodo fin da quando vi siete messi insieme. Parla con lui, non con me, ti spiace?» Serena si alzò in piedi. Si costrinse a ricacciare indietro le lacrime. «Perfetto.» «Scusa» disse Maggie. Serena non rispose. «Attacchi di panico» disse Maggie.

Serena abbassò gli occhi verso di lei. «Cosa?» «Da dopo la caduta dal ponte, Stride soffre di attacchi di panico. Di flashback.» «Te l'ha detto lui?» Maggie annuì. «Credo sia una sindrome da stress posttraumatico. Ha bisogno di aiuto.» Serena si chiese perché non l'aveva capito da sola. Ora che sentiva Maggie parlarne, la cosa aveva perfettamente senso. «Io non ti ho detto niente» disse Maggie. «Intesi?» Serena annuì. «Certo.» Serena pensò a Jonny che vedeva la sua vita andare in pezzi, e si sentì in colpa per non essere riuscita ad aiutarlo. Perché lui non le aveva detto nulla del suo dolore. Invece, aveva messo a nudo la propria anima con Maggie. Pensava che conoscere la verità l'avrebbe fatta sentire meglio, ma non era così. Maggie e Jack Nicholson avevano entrambi ragione. Non poteva reggere la verità. «Denise» rispose Stride una volta fuori dal ristorante. «Hai visto il notiziario?» chiese lei. «Sì.» «Blair Rowe del cazzo» commentò Denise. «A quanto pare adesso ha inquadrato Valerie nel mirino.» «Sì, quell'angelo di mia sorella.» «Tu sai qual è il suo grande segreto?» chiese Stride. Denise rispose con voce piatta. Le sue emozioni erano scivolate via. «Sì. Lo so.» «Allora dimmelo. C'entra con il caso?» «Non ne ho idea. Per quanto mi riguarda, non mi interessa più cosa succede a mia sorella.» «Cosa c'è, Denise? Cos'ha scoperto Blair su Valerie?» «Continua a guardare i notiziari e lo vedrai da te. Goditi lo spettacolo, proprio come tutti gli altri. Blair dirà a tutto il mondo che Valerie ha avuto una relazione extraconiugale.» Stride ebbe un brutto presentimento. «Una relazione? E con chi?» «Con Tom» rispose Denise. «A quanto pare Valerie non si accontentava di essere la sorella bella e ricca. Si è voluta prendere anche mio marito.»

30 Regan Conrad parcheggiò l'Hummer nel vialetto di casa, scese e richiuse la portiera con forza. Alle sue spalle, la luce del portico proiettava la sua ombra sui campi, facendola sembrare quella di un gigante. Mosse alcuni passi in direzione dei campi aperti, poi inclinò la testa e rimase in ascolto. Il rumore del vento tra gli alberi somigliava a quello di un fiume in piena. A chilometri di distanza, un treno sferragliava a sud dell'Iran Range. Il clacson di un camion mugghiò sull'autostrada. Non c'erano altri suoni. Nulla si mosse o ricambiò il suo sguardo. Anzi, il vento prese a soffiare più forte e i rami spessi e cadenti degli abeti si scossero in quella che sembrò una risata. Sotto il camice, sentì la pelle d'oca sulle braccia. Non era solo a causa del freddo della notte. Aveva anche la sensazione che dall'oscurità occhi invisibili la scrutassero. "Sei paranoica" cercò di rassicurarsi. Entrò in casa e accese le luci. Indugiò un momento nell'atrio, controllando con un'occhiata le porte chiuse su entrambi i piani. La maggior parte delle sere non lo faceva. Era sorprendente il modo in cui ci si lasciava trasportare dalla propria mente. Quando succedeva, ogni porta e ogni angolo buio sembravano celare una minaccia. Non erano solo i bambini ad aver paura dei mostri nell'armadio. Entrò in cucina e si versò un whisky. Stava per sedersi, quando notò la luce lampeggiante della segreteria telefonica. Due messaggi. Premette il pulsante per la riproduzione e ascoltò, trangugiando il liquore. Il primo messaggio era di Marcus Glenn. Povero Marcus. Era decisamente incazzato. «Regan, cosa stai cercando di farmi? Cos'hai raccontato a Valerie? La mia infermiera mi ha detto di averti sorpresa nel mio ufficio, questo fine settimana. Esigo di sapere che ci sei andata a fare. Dobbiamo parlare subito a quattr'occhi, brutta pazza. Voglio sapere che cazzo hai combinato.» Detto questo, Marcus aveva riagganciato. Regan arricciò le labbra in un sorriso. Chissà se Marcus sospettava ciò che aveva rubato dai suoi archivi. Era un vero stupido, cornificato da quella puttanella bionda. Come poteva tollerare la presenza di quella donna nel suo letto? Una donna che faceva l'amore con lui in una immobilità quasi totale, e che aveva avuto la faccia tosta di concedere il suo corpo a un altro uomo. "Lui poteva avermi" pensò Regan. Era convinta che fossero fatti l'uno per l'altra. Se Marcus aveva fatto la scelta sbagliata, era solo colpa sua. «Come ci si sente?» ringhiò contro la segreteria. «Cosa si prova ad avere tutti contro, compresa la tua bella mogliettina?»

Il secondo messaggio risaliva a un'ora prima, ma era vuoto. Silenzioso. Durava un minuto, ma non conteneva alcun suono. Mentre lo ascoltava, Regan fece una smorfia preoccupata. Più quel silenzio si protraeva, più la sua inquietudine aumentava. Si alzò e controllò l'elenco delle chiamate sul display del telefono. L'ultima proveniva da un numero privato. Regan si chinò sulla segreteria e riascoltò il messaggio. Stavolta, udì un respiro. Chiunque fosse, aveva lasciato trascorrere i secondi a disposizione senza dire nulla, ma aveva respirato abbastanza vicino al ricevitore per permettere a Regan di sentirlo. Cancellò entrambi i messaggi. Forse era di nuovo Marcus che si divertiva a giocare con lei. Ma non sarebbe riuscito a inquietarla, non gli avrebbe dato questa soddisfazione. Si versò un altro whisky, lo ingollò in un sorso e salì di sopra. Considerò se fosse il caso di lasciare le luci accese al piano terra, ma le sembrò una precauzione eccessiva. La casa era vuota. Le porte e le finestre erano robuste e chiuse a chiave. In camera da letto, si tolse il camice e lo gettò nel condotto per la biancheria sporca che scendeva fin nel seminterrato. Si lavò i denti, fece una doccia e scivolò sotto le lenzuola con il corpo ancora caldo e umido. Allungò la mano destra. Accanto al letto, poggiato contro la parete, c'era un fucile a canne mozze con due colpi in canna. Bastava prenderlo, puntare e sparare. Ne accarezzò l'impugnatura e si sentì meglio. Spense la lampada sul comodino e la stanza piombò nell'oscurità. L'unica luce era il bagliore verdastro dell'orologio. Chiuse gli occhi. Pochi secondi dopo, stava già sognando. Regan si svegliò di soprassalto, senza avere idea di quanto tempo avesse dormito. Spalancò gli occhi e guardò verso l'orologio, ma il quadrante era scuro, e dal silenzio totale che regnava in casa dedusse che era saltata la corrente. Con la caldaia spenta, la stanza era già diventata fredda. Le braccia e le spalle nude, sopra la coperta, erano gelate. Il sogno sbiadì rapidamente e la sua mente tornò a concentrarsi sul mondo reale. Fissò il soffitto. Regan ebbe un brivido. Qualcosa non andava. La sensazione che degli occhi nascosti nel buio la stessero osservando era tornata, ma stavolta quegli occhi erano in casa, con lei, proprio in quella stanza. Rimase sdraiata e immobile, cercando di non fare movimenti che potessero attirare l'attenzione. Valutò la possibilità di richiudere gli occhi e fingere che fosse tutto a posto. Tornare a dormire. A sognare. Era solo uno scherzo della sua immaginazione. Forse in quello stesso momento stava sognando. Ma sapeva che non era così. "Lui è qui" pensò.

Mosse la mano destra. Centimetro dopo centimetro, le sue dita strisciarono lungo il bordo della coperta, muovendosi invisibili nella stanza buia. Nessuno avrebbe potuto vederla. La sua mano oltrepassò il bordo del letto sfiorandolo e si tese alla ricerca della canna del fucile, pronta a imbracciarlo. Regan sapeva perfettamente dove lo aveva lasciato. Negli ultimi mesi aveva misurato innumerevoli volte la distanza al buio, allenandosi a prenderlo in vista di un momento del genere. L'arma era sparita. Non era più al solito posto. Il suo cuore ebbe un sussulto. Smise di fingere di essere ancora addormentata e si drizzò a sedere sul letto. La coperta scivolò in basso. Aveva il respiro ansante per la paura. Si allungò verso il basso e fece scorrere la mano sul pavimento, sperando che il fucile fosse scivolato a terra. Non era così. Udì un rumore. Nella stanza c'era qualcuno, proprio di fronte a lei. Era seduto in poltrona, la osservava. Regan si appoggiò alla testiera del letto e sforzò gli occhi nel tentativo di intravedere qualcosa, ma tutto era buio. Dall'altra parte della stanza giunse una voce. Amareggiata e profonda. «Perché non hai voluto tenere la bocca chiusa?» Improvvisamente Regan capì. Ora tutto aveva un senso. «Stai commettendo un errore» rispose, sforzandosi di apparire calma. «Non sei obbligato a farlo.» Erano parole dolci e persuasive, ma stavolta non funzionarono. La voce ruppe di nuovo il silenzio. «Mi hai mentito.» Regan vagliò le sue possibilità di fuga: quando si era coricata aveva lasciato la porta della stanza aperta ma ora, fissando la parete scura, capì che era stata chiusa. In meno di cinque secondi avrebbe potuto uscire dal letto, schizzare in corridoio e, una volta lì, avrebbe trovato il modo per mettersi in salvo. Attese il momento giusto per darsela a gambe. Non ne ebbe il tempo. Udì il rumore di qualcuno che si muoveva sulla poltrona. Che si alzava. Lo scatto metallico del cane del fucile. Gettò da parte la coperta e scattò verso la porta, ma non fu abbastanza veloce. Aveva fatto solo tre passi ed era giunta al centro della morbida moquette quando il fucile eruttò piombo e fiamme, illuminando la stanza. Gridò di dolore quando il proiettile lacerò la carne e le ossa del bacino e la fece roteare su se stessa come una trottola. Le sue gambe smisero di funzionare e Regan crollò a terra. Si trascinò verso la porta, ma i due metri che la separavano dal corridoio adesso erano una distanza infinita. Sentì un liquido caldo scorrerle sulla pelle. Fece una smorfia quando il dolore si irradiò dal punto di origine a tutta la parte centrale del suo corpo.

Si era morsa la lingua, e ora il sangue le riempiva la bocca. L'odore di polvere da sparo bruciata era sospeso come una nuvola nella stanza. Sentì qualcuno avvicinarsi. Ergersi sopra di lei. In preda agli spasmi, sentì il freddo metallo della canna contro la pelle della fronte. Quel peso rimase lì, premuto contro il suo cranio, mentre la persona che impugnava l'arma parve esitare. Regan si sorprese a ridere. Il sangue le gorgogliò tra le labbra. Riusciva solo a pensare a quella maledetta canzone di Duffy, come se il ritmo del pezzo fosse scandito dai battiti del suo cuore, che a ogni palpito versava altro sangue sul pavimento. Pensò di implorare pietà, ma sapeva che sarebbe stato inutile. Ormai era troppo tardi. Non pensava di ottenerla né l'avrebbe ottenuta. Un secondo lampo. Alla velocità della luce, quel bagliore raggiunse i suoi occhi un millisecondo prima che il proiettile le esplodesse nel cervello. Nessuna pietà.

Parte Terza UN GRIDO SILENZIOSO 31 Mercoledì mattina, Valerie aprì la porta principale della sua casa e trovò Denise in piedi sulla veranda. Valerie si ritrasse quando vide l'espressione di pietra sul volto della sorella, volta a celare il tradimento e l'umiliazione che certamente provava. Si sarebbe sentita meglio se Denise l'avesse assalita con urla e insulti ma sua sorella si limitò a entrare in casa, passandole accanto senza proferire parola. «Dov'è Marcus?» chiese, dopo che Valerie ebbe richiuso la porta. «A Duluth. Stamattina aveva in programma un intervento.» Denise mosse nervosamente la mascella, come se avesse qualcosa incastrato tra i denti. «Vuoi un caffè?» chiese Valerie. «Sì, va bene.» Senza dire altro, percorsero il corridoio candido. Valerie prese una tazza capiente, la riempì di caffè e la spinse sull'isola della cucina verso Denise. Poi sedette su uno degli alti sgabelli e attese, mentre sua sorella restava in piedi. Valerie vide che gli occhi di Denise confrontavano le superfici in granito e gli elettrodomestici in acciaio inossidabile con la minuscola cucina di casa sua. Succedeva ogni volta che sua sorella metteva piede nella loro abitazione. Era consapevole dell'amara invidia che Denise provava nei confronti dei suoi soldi, e le sue occhiate la facevano sentire in colpa. «Ascolta, Denise» esordì, ma la sorella alzò una mano per fermarla. «Non dire che ti dispiace. Non voglio sentirtelo dire.» «Allora cosa posso dire?» chiese Valerie. «Per ora non dire niente.» Denise guardò verso il grande giardino posteriore che scendeva verso il lago. Si sistemò i capelli dietro le orecchie e sorseggiò il caffè in silenzio. Non si era truccata. Valerie sapeva che Denise evitava di proposito di curare l'estetica, e per anni aveva pensato che dipendesse dal suo lavoro. Le poliziotte non sono ragazzine vanitose. Devono essere ossi duri. Ora, però, si chiese se in realtà lo facesse per non essere paragonata a lei. Per fingere che tra loro non ci fosse alcuna competizione. «Sei sempre stata un'egoista» annunciò Denise con voce secca e rabbiosa. «Per te è stato tutto facile. Non te ne è mai fregato niente delle difficoltà che ho dovuto superare. Io mi sono fatta un culo così per ottenere un decimo di quello che hai tu, mentre tu non hai mai fatto un cazzo per tutta la vita, o sbaglio?» Valerie non negò né protestò in alcun modo. Denise credeva fermamente in

ciò che diceva, e meritava un'occasione per esporre le proprie accuse. Denise si girò, dando le spalle alla finestra, e riprese: «Mi sono sempre chiesta se ti è mai importato qualcosa di me e della mia vita. Ora sono certa di conoscere la risposta. Quando vuoi qualcosa, tu te la prendi, e al diavolo tutto il resto. Hai almeno la minima idea di cosa significhi crescere quattro bambini, essere in servizio giorno e notte e chiederti ogni mese se riuscirai a guadagnare abbastanza per pagare la maledetta rata del mutuo?». «No. Non lo so. Hai ragione.» «Be', ogni tanto prova a metterti nei panni degli altri. Sarebbe un gesto apprezzabile. Secondo te non mi sono resa conto che io e Tom ci siamo allontanati? Sono anni che lo vedo succedere. Sai, a volte la vita è così dura da prosciugare fino all'ultima goccia d'amore che si ha dentro. È orribile, eppure non ci si può fare niente. Forse questo matrimonio è uno schifo, ma resta pur sempre il mio matrimonio. Non il tuo. O, almeno, lo era prima che Tom scegliesse di vivere in un sogno con te piuttosto che nella realtà con me.» «Per favore, non incolpare Tom» la interruppe Valerie. «È stata solo colpa mia.» «Secondo te ho bisogno che sia tu a difendere mio marito? Conosco bene Tom. Lui vuole essere sempre la spalla forte su cui potersi appoggiare. E poi arrivi tu, bella, sola e piagnucolante e da cosa nasce cosa. Dico bene? È questo che volevi spiegarmi? Be', non importa che tu lo faccia. Tom ha avuto modo di fare la sua scelta, e ha fatto quella sbagliata. Non importa se volevate che succedesse o meno.» «Non mi permetti di dirti che mi dispiace. Non mi permetti di darti delle spiegazioni. Non so più cosa vuoi sentirti dire.» «Oh, scusa, questa situazione ti mette in difficoltà, Valerie?» sbottò Denise. «Sono proprio senza cuore. Dovrei avrei più riguardo per i tuoi sentimenti.» Valerie non voleva piangere, temendo che sua sorella lo scambiasse per un comportamento ipocrita. Ma quando le lacrime sgorgarono comunque, non potè fare altro che asciugarsi gli occhi. «So che non mi crederai, Denise, ma ti ho sempre invidiata.» «Sì, certo, come no.» «È la verità» insistette Valerie. «Hai dei figli stupendi. Sei sposata con il ragazzo che hai amato fin dal liceo. Hai uno splendido lavoro.» «Non trattarmi con condiscendenza.» «Non lo sto facendo. Ammiro davvero la tua forza. Io non sono così. Per tutta la mia vita sono stata fragile come un cristallo e ho sempre avuto sotto gli occhi l'esempio di mia sorella: poliziotto, moglie e madre in grado di superare ogni avversità. Per una volta nella mia vita, vorrei avere il coraggio di tenere alta la testa e fare la cosa giusta. Di essere forte come te.» Denise scosse la testa. Negli occhi, un'espressione stanca e di

rimprovero. «Come hai potuto, Valerie? Come hai potuto andare a letto con mio marito?» «Non si trattava di sesso» rispose Valerie. «A me il sesso non interessa. Non mi è mai interessato. Volevo... volevo solo sentirmi vicina a qualcuno. Non c'è altra spiegazione, e non ci sono scusanti. Noi non avremmo mai voluto che la nostra relazione sfociasse in qualcosa di fisico. Forse a te non importerà, ma credimi, è stato così.» «Non mi importa.» Valerie annuì e riprese a parlare a voce bassa: «Non è durata molto. È successo solo un paio di volte. Sapevamo entrambi che era una cosa sbagliata. Però devi capire che Tom è stata la mia ancora di salvezza. Se non ci fosse stato lui, non so se oggi sarei ancora viva. In quel periodo avevo ricominciato a pensare al suicidio». Denise sbatté con forza la tazza. Parte del contenuto si rovesciò sul ripiano. «Sei una vera troia narcisista. Cosa vuoi che ti dica? Che sono felice perché mio marito ha salvato la vita di mia sorella scopandosela alla grande? Vuoi sapere cosa penso davvero, Val? Preferirei che tu avessi avuto le palle per fare la cosa giusta. Tom non è tuo marito. Se volevi essere salvata, avresti dovuto rivolgerti a qualcun altro. Oppure ingollare una boccetta di sonniferi e farla finita.» Valerie sbiancò e distolse lo sguardo. Non voleva che sua sorella vedesse gli effetti del colpo che le aveva appena assestato. Staccò alcuni fogli di carta dal rotolo e raccolse il caffè versato. Mentre lo faceva, Denise allungò le mani e le poggiò su quelle di Valerie. «Scusa» disse. «Non hai nulla di cui scusarti» ribatté Valerie. «Hai ragione. Soffrivo, e ho finito col fare del male a mia sorella. Sono un'egoista e una codarda.» «Adesso non cominciare con l'autocommiserazione.» «Che altro mi resta? L'unica cosa bella che sono riuscita a fare in vita mia è stata Callie, e non sono nemmeno riuscita a proteggerla.» Denise si ritrasse, frustrata. «Va sempre a finire così. A conti fatti, tutto ruota intorno a te. E io ci casco regolarmente. È andata così per tutta la nostra vita.» Valerie non sapeva cosa dire. Continuò a sfregare sul bancone e lo asciugò con cura, in modo che il caffè non lasciasse macchie. «Devo chiederti una cosa» riprese Denise. «Te lo chiedo come poliziotto e come moglie. Devo saperlo.» «Che cosa?» «È Tom il padre?» Valerie spalancò gli occhi, sconvolta. «Niente giochetti, Val» riprese Denise. «Devo saperlo. Callie è figlia di Tom?» «No.» «Ne sei sicura?»

«Non ho dubbi.» «Tom non è altrettanto sicuro» obiettò Denise. «Me lo ha detto ieri notte.» «Non è il padre di Callie.» «Come lo sai?» «Lo so e basta. In lei riconosco Marcus.» «Hai fatto la prova del dna?» «Certo che no. Non c'era alcuna ragione di farlo.» «Quindi lo supponi soltanto» commentò Denise. «Ho fatto la stessa domanda a Tom. Ha detto che avevate fatto sesso poco prima che tu restassi incinta.» Valerie scosse la testa. «L'ho fatto anche con Marcus. E stato lui l'ultimo.» «Questo non cambia niente.» «È mio marito il padre di mia figlia» insistette Valerie. «Lo credi davvero o stai solo cercando di convincere te stessa?» «È la verità.» «Ci avete provato per tre anni e tu non sei mai rimasta incinta. Poi hai iniziato ad andare a letto con Tom. Svegliati, Valerie. Credimi, so molto bene quanto siano fertili gli spermatozoi di Tom.» «Callie è la figlia di Marcus. Ne sono più che certa.» «E Marcus? Lui ne è al corrente?» Valerie strinse gli occhi a fessura. «Cosa vuoi dire?» «Marcus sapeva che tu avevi una relazione?» Valerie ricordò quando Marcus le aveva gridato dalla balaustra: Non sei esattamente innocente, vero? «No, non lo sapeva» mormorò. «Ne sei certa? Grand Rapids è una piccola città. È difficile mantenere dei segreti. Sicuramente qualcuno vi avrà visti insieme. Se è riuscita a scoprirlo Blair Rowe, perché non avrebbe potuto farlo anche Marcus?» «È impossibile che ne fosse a conoscenza» ripetè Valerie, decisa. Denise scosse la testa. «Sai cosa significherebbe se Marcus fosse a conoscenza della tua storia, vero? Potrebbe sospettare che Callie non fosse sua figlia. Non ti sei mai chiesta come mai fosse così freddo nei confronti della piccola? Cosa avrebbe potuto fare se avesse scoperto che la bambina che gli stava rovinando la vita non era nemmeno sua?» «Non voglio sentire queste insinuazioni.» Valerie si coprì le orecchie con le mani, ma Denise si allungò sopra l'isola e gliele tirò via. «Non puoi fare finta di niente. Questo dettaglio può costituire un ottimo movente. Lo sapeva o no?» Nella sua testa, Valerie sentì di nuovo Regan Conrad schernirla fuori dalla chiesa, quella notte. Non devo essere io a dirti il perché, vero?

Ripensò alla busta dell'ospedale, ancora chiusa e nascosta nell'armadio al piano di sopra. La busta che le aveva dato Regan. Non riesco a credere che non lo sapevi. «No» disse Valerie a sua sorella. «Marcus non era a conoscenza della mia relazione. Non ha mai avuto motivo di dubitare che Callie non fosse sua. Ed è sua. È sua figlia e lui le vuole bene.»

32 Maggie osservava sul monitor del computer le anteprime delle foto contenute nella scheda di memoria trovata da Stride nell'appartamento di Nick Garaldo. Si avvicinò allo schermo mordicchiandosi il labbro inferiore. Le foto erano sottoesposte e di scarsa qualità. Cliccò su una delle anteprime per allargare l'immagine a tutto schermo. La foto mostrava l'interno di una fabbrica, con il pavimento di cemento e tubature polverose che pendevano dal soffitto. Cliccò sull'immagine successiva e vide due gigantesche caldaie rugginose davanti a una parete senza finestre. Fece scorrere le foto restanti: erano tutte immagini dello stesso sotterraneo. Solo in una compariva una persona. Un uomo basso e snello, in jeans, stivali di gomma, una giacca militare di neoprene e una cuffia di lana nera. Quando confrontò la foto con quella della patente che aveva tra i suoi file, accertò che si trattava di Nick Garaldo. «Dove sei finito, Nick?» mormorò. Guppo infilò la testa nell'ufficio. Era proprio sotto uno dei bocchettoni del riscaldamento, e l'aria calda faceva svolazzare i capelli del riporto. «Ci sono interferenze sulla rete» disse. Maggie si girò sulla sedia. «Davvero?» «Sì, pensiamo siano provocate dai tuoi capelli.» Ridacchiò e Maggie ringhiò: «Non stuzzicare il can che dorme, Max. Non sono dell'umore giusto. Vieni a vedere». «Cos'hai trovato?» Guppo raggiunse la scrivania e strinse gli occhi per mettere a fuoco il monitor. Aveva il respiro pesante e la fronte imperlata di sudore. «Stride ha trovato questa scheda di memoria nell'appartamento di Nick Garaldo» spiegò Maggie. «Sembrano foto scattate in una specie di fabbrica.» «Se si tratta di una fabbrica, non è operativa. Guarda in che condizioni è» commentò, muovendo il mouse con una manona. «Da queste foto direi che è una fornace per bruciare il carbone. Sicuramente è in un seminterrato, da qualche parte.» «Ma perché queste foto?» Guppo si raddrizzò con un grugnito. «Forse Garaldo è uno di quegli svitati che amano introdursi negli edifici abbandonati.» Maggie andò a pescare nella propria memoria. «Un paio di mesi fa non ci è stata segnalata un'intrusione nella vecchia armeria?» Guppo annuì. «Sì, qualcuno aveva fatto scattare gli allarmi interni. Abbiamo mandato una pattuglia a controllare ma non hanno trovato nessuno.» «Ti spiace recuperarmi il rapporto?»

«Vado subito.» Quando Guppo fu uscito dall'ufficio a passi pesanti, Maggie avviò una riproduzione in sequenza delle fotografie e si appoggiò allo schienale della sedia, inclinandola pericolosamente all'indietro. Dopo le prime immagini si distrasse e prese a fissare il cielo chiazzato da nuvole grigiastre fuori dalla finestra. Ogni volta che pensava a ciò che avevano fatto lei e Stride, il senso di colpa le apriva una voragine nello stomaco. Un conto è aspettare dieci anni che una cosa succeda e un altro è vederla succedere proprio quando uno meno se lo aspetta. Non credeva che Stride non fosse convinto di quello che aveva detto. Era certa che, alla fine, avrebbe voluto che le cose tornassero a essere quelle di sempre. Un bel giorno, l'indomani, tra una settimana o forse un mese, si sarebbe svegliato e si sarebbe maledetto per aver permesso che la storia con Serena gli fosse scivolata tra le dita. Restava solo una domanda: quel giorno sarebbe stato solo nel suo letto o ci sarebbe stata Maggie accanto a lui? Se era così che doveva finire, preferiva non essere presente. Sapeva anche che la sua amicizia con Serena sarebbe finita, perché Stride le avrebbe confessato tutto. Serena forse sarebbe riuscita a perdonare Stride, cosa di cui Maggie dubitava, ma di sicuro non avrebbe perdonato lei. Era giusto. La loro relazione era sempre stata appesa a un filo. Al di là delle loro frecciate episodiche, Serena le aveva sempre mandato dei messaggi molto chiari: Giù le mani da Stride. Lui sta con me, non con te. E ogni volta che Maggie parlava del passato, inviava a Serena un messaggio di risposta: L'ho conosciuto prima io. Prima o poi, una delle due doveva uscire di scena. «Ti senti bene?» Maggie alzò gli occhi. Guppo era tornato. «Sì, tutto a posto» rispose. «Ti sei procurato il rapporto sull'armeria?» «Sì.» «Fammi vedere.» Guppo glielo porse e lei prese a sfogliare le pagine. L'uomo aspettava che lei dicesse qualcosa, ma Maggie si limitò a indicargli la porta con un cenno della mano, senza aggiungere altro. Lui uscì e si richiuse la porta alle spalle. Maggie sapeva che ci era rimasto male. Di solito non era scortese con Guppo e lui non si meritava un trattamento simile, ma in quel momento non le importava. Che andasse pure ad avvertire gli altri che la loro collega aveva le mestruazioni. Gli agenti che avevano risposto alla chiamata riguardante la vecchia armeria di Duluth avevano scattato foto degli interni dalla porta di accesso ai sotterranei e a Maggie saltò subito all'occhio che quelle foto corrispondevano a quelle trovate nella scheda di memoria di Nick Garaldo. Come ulteriore conferma, individuò anche una nota nel rapporto della polizia dove si segnalava il ritrovamento di gusci rossi di pistacchio sparsi per tutta l'armeria. Ricordava l'enorme barattolo pieno di pistacchi dello

stesso tipo nell'appartamento del ragazzo scomparso. Era stato lui a entrare nel vecchio edificio. Maggie non aveva la minima idea di cosa avesse spinto Garaldo a intrufolarsi nella vecchia armeria, dove non c'era nulla che valesse la pena di essere rubato, ma solo i resti di anni di abbandono. Tuttavia sapeva che gli esploratori urbani condividevano la filosofia dei sub o degli scalatori. Per il solo fatto di esistere, quei posti dovevano essere perlustrati. Era sensato supporre che, al momento della sua scomparsa, Garaldo fosse impegnato in un'altra di queste esplorazioni. Ma dove? Le rovine urbane erano instabili e pericolose, e se gli era capitato qualcosa dentro un edificio abbandonato, forse ci sarebbero voluti anni per ritrovarlo. Sempre che ci riuscissero. Maggie studiò le foto che scorrevano sul monitor, una dopo l'altra, e vide che una di esse ritraeva l'esterno di un'altra struttura, illuminata dal sole. Interruppe la riproduzione automatica e recuperò la corrispondente icona di anteprima. Cliccò sull'immagine per ingrandirla e si trovò davanti una vecchia scuola in mezzo a un campo erboso. I vetri delle finestre erano rotti in vari punti, e le sagome dei buchi ricordavano quelle di tanti pipistrelli. Le pareti erano friabili e corrose. In un punto dove il muro era crollato restava solo un grosso vuoto che dava sulle fondamenta. Maggie riconobbe il posto. Era la vecchia scuola di Buckthorn. Quelle rovine erano state per anni una spina nel fianco della polizia e della municipalità. I ragazzini vi entravano e si facevano male in continuazione, e solo poche settimane prima la città aveva raccolto i fondi necessari per farla sprangare e mettere in sicurezza. Da allora, se ricordava bene, non erano più arrivate chiamate relative a quel posto. Guardando la foto, capì subito che rovine del genere potevano costituire un richiamo irresistibile per uno come Nick Garaldo. Maggie prese l'agenda telefonica e recuperò il numero dell'amministratore della municipalità di Buckthorn. Fece la chiamata e, dopo un solo squillo, le rispose la voce di Matt Clayton. Una voce autorevole ed esuberante. «Matt, sono Maggie Bei della polizia di Duluth» si presentò. «Si ricorda di me?» «Salve, sergente. Certo che mi ricordo. Che piacere risentirla. Cosa succede?» «Si tratta ancora di quella maledetta scuola» spiegò Maggie. Clayton grugnì. «Oh, merda, cosa è capitato stavolta? Abbiamo sigillato quel posto peggio di Fort Knox.» «A dire il vero non sono certa che sia successo qualcosa. Forse non è niente. Al nostro ufficio non sono arrivate segnalazioni, ma mi chiedevo se non avesse sentito qualcosa dai contadini di quelle parti. Lamentele, seccature, cose che magari non arrivano alle nostre orecchie.» «Niente» rispose Clayton. «Pensavo che con quel posto avessimo chiuso.

Abbiamo dato l'incarico a terzi di sigillare l'edificio e abbiamo assunto una società locale di sicurezza affinché, di tanto in tanto, mandasse un loro vigilante a dare un'occhiata. Sa, un giro dell'edificio, una controllata ai lucchetti e cose del genere. Finora non ha mai segnalato nulla fuori dall'ordinario.» «Come si chiama?» «Ehm, aspetti un attimo che controllo. Ecco: Nieman. Jim Nieman. Vuole il suo numero?» Maggie prese una penna. «Sì. E, per favore, potrebbe chiamarlo e dargli i miei recapiti? Vorrei che si recasse sul posto a effettuare un'ispezione accurata e mi informasse di ciò che trova.» «Nessun problema. Ma che succede?» «È scomparso un ragazzo» disse Maggie. «Un ventenne di nome Nick Garaldo. Nessuno lo ha più visto da sabato scorso. Credo sia uno di quegli esploratori urbani che amano entrare negli edifici abbandonati solo per poter raccontare di averlo fatto.» «Ritiene si sia recato in quella scuola?» domandò Clayton. «Può darsi. Nel suo appartamento ho trovato una foto della scuola su una scheda di memoria per macchine fotografiche. È stata scattata prima che voi metteste in sicurezza il posto. Forse la teneva d'occhio in previsione di una delle sue escursioni.» «Merda, ma perché questi tizi non si dedicano al bungee jumping o cose del genere?» «A chi lo dice. Comunque, forse non è niente. Forse Garaldo è stato lì settimane fa e magari non ci è più tornato. Comunque credo valga la pena controllare.» «Chiamerò subito Nieman e gli chiederò di effettuare un controllo oggi stesso. Spero che il ragazzo non sia là dentro. In quella scuola, ci sono un sacco di punti pericolanti. Per non parlare dei ratti.» «Non sono una grande amante dei ratti» disse Maggie. «Siamo in due.» Maggie lanciò un'altra occhiata al rapporto della polizia riguardante l'effrazione all'armeria. «Ah, dica a Nieman di cercare anche un'altra cosa.» «E cioè?» «Gusci di pistacchi rossi.»

33 Stride e Serena trascorsero la mattinata immersi nel silenzio. Seduti uno di fronte all'altra, ciascuno alla propria scrivania nella sala riunioni di Grand Rapids, fingevano di esaminare scartoffie. Il profumo di Serena si diffondeva in quello spazio ridotto, dolce e familiare. Il riscaldamento nell'edificio era stato alzato e ora, nel piccolo ufficio, era così intenso da risultare fastidioso. Mentre Serena teneva la testa bassa, con i capelli neri che erano scesi a coprirle il volto, Stride si sorprese a fissarla. Era una delle donne più belle che avesse mai incontrato. Sofisticata, ferita, attraente. Tre anni prima gli era sembrata la compagna perfetta, come se due anime spezzate potessero formarne una intera. Serena alzò gli occhi e incrociò i suoi. Non era necessario che parlassero per comunicare. Lei si sentiva respinta e adirata. Come se la situazione non fosse già abbastanza grave, erano riusciti persino a peggiorarla, e Stride sentiva che stava sfuggendo al loro controllo. Anche lei ne era consapevole. Aspettava che lui le parlasse e, quando non lo fece, si alzò dalla sedia e andò a chiudere la porta dell'ufficio. Vi si appoggiò contro e incrociò le braccia. «Glielo hai detto» esordì Serena, con voce dura. Stride non capì. «Cosa intendi dire?» «A me no. Ma a lei l'hai detto.» «Maggie» concluse lui. «Sì. A Maggie. Mi ha raccontato cosa sta succedendo.» Serena si prese il mento tra le dita lunghe. «Voglio che tu capisca una cosa, Jonny. Soffro molto per te. Avevo capito che mi stavi allontanando, ma non riuscivo a capirne la ragione. Ora sì. Ora ho capito. E mi dispiace.» «Anche a me.» «Ma c'è qualcosa che mi tormenta» proseguì lei. «Soffrivi le pene dell'inferno e, anziché parlarmene, hai permesso che questo intralciasse la nostra relazione. E quando finalmente ti sei deciso a confidarti, non l'hai fatto con me. Hai idea di che cosa abbia significato sentirmelo dire da lei?» «Hai ragione. Dovevo essere io a dirtelo.» «Però non l'hai fatto. Non sei riuscito ad aprirti con me. Speravo avessimo superato quella fase, ma evidentemente non era così.» «Immagino di no.» «Però sei riuscito a parlarne con Maggie.» «A volte è più facile parlare con qualcuno che non sia direttamente coinvolto» ribatté Stride. «Sì, ma anche lei è coinvolta. Lo è sempre stata.»

Stride si passò una mano tra i capelli spettinati. Solitamente era bravo a mostrarsi imperturbabile, ma non in quel momento. Scosse la testa, frustrato. «Tra me e Maggie le cose sono sempre state complicate, e questo lo sai.» «Non c'è niente di complicato. Lei ti ama. Punto.» «È successo tre anni fa.» «Guarda che non è come una malattia dalla quale un bel giorno puoi guarire. Sei tu quello che non vuole accettare la realtà. E penso che sia perché anche tu provi qualcosa per lei.» «Siamo amici. Lo siamo da una vita. A volte è difficile stabilire dei confini ben precisi.» Serena tornò a sedersi di fronte a lui. «Ieri sera, a cena, ho provato una strana sensazione.» Lui non rispose. «Ci ho pensato tutta la notte, cercando di capire di cosa si trattasse» proseguì lei. «Serena» mormorò Stride. Lei lo seppe anche senza chiederlo, ma lo chiese comunque. «È successo qualcosa tra voi due, vero?» Lui non pensò neppure di negare. Incrociò il suo sguardo e annuì. Serena allungò un braccio sopra il tavolo in un gesto di rabbia e scaraventò a terra la pila di carte. «E così con me non avevi nulla da dare, ma con lei invece sì?» chiese amareggiata. «Mi dispiace molto.» Lei si alzò in piedi. «Direi che qui abbiamo finito.» «Parliamone» propose lui. «Adesso vuoi parlare? Direi che è un po' tardi, non trovi? Hai avuto intere settimane a disposizione per parlarmi ma non l'hai fatto. Poi è bastato un giorno insieme a Maggie e sei riuscito a finirci a letto e a raccontarle tutto quello che succedeva nella tua testa.» «Non è così semplice.» «Forse no, Jonny, o forse sì.» Serena prese il cappotto dall'attaccapanni. Mentre girava la maniglia della porta, si fermò e chiuse gli occhi. «Ascolta, so di non essere stata del tutto corretta con te. Anche io mi ero chiusa a riccio.» «Non sto cercando delle scuse» ribatté Stride. «È solo colpa mia. Né tua, né di Maggie.» Serena scosse la testa. «Non parliamo di Maggie. Lei sapeva perfettamente quel che faceva e non provare a negarlo.» . «Non è andata così.» «Non per te, forse. Lei ha visto la sua occasione e l'ha colta. Fine della storia.» Poi, a bassa voce, chiese: «Ti sei innamorato di lei?». «Non ne ho idea. So di essere innamorato di te.»

«Ma questo non è abbastanza per noi, vero? Puoi dirmi qui e ora che sei pronto a scegliere me? Che puoi ignorare tutti i sentimenti che provi per Maggie? È questo che ho bisogno di sentirmi dire. Se puoi farlo, forse possiamo riprovarci.» «Vorrei poter dire di sì» rispose Stride. «Ma non ci riesci.» «È troppo presto. Non voglio dirti quello che vuoi sentirti dire e poi finire col mentirti. Per settimane, fino a ieri, non ho provato nulla. Né per te, né per Maggie, né per me stesso. Niente di niente. Ora tutto ricomincia a scorrere e non ho ancora avuto l'occasione di orientarmi in questo flusso di sensazioni. Non puoi chiedermi di fare chiarezza nel giro di poche ore.» Serena annuì. «Hai ragione, non è giusto. Dobbiamo pensare entrambi a ciò che è giusto fare.» Andò da lui e lo baciò con le sue labbra morbidissime. Stride ricordava bene la dolcezza di quei baci. Poi Serena si girò, uscì dall'ufficio e si richiuse la porta alle spalle. Mercoledì pomeriggio Serena si recò a Duluth e scelse un bar con tavola calda a nord dell'aeroporto. Entrò nel parcheggio e fissò la porta d'ingresso. All'interno avrebbe trovato della vodka. Un bicchiere dopo l'altro. Ne pregustava il sapore e immaginava di lasciarsi delicatamente stordire. Non perdeva il controllo da quindici anni, e questo le sembrava un buon momento per farlo. Era come se dal suo ultimo drink non fosse trascorso nemmeno un giorno. Riusciva ancora a ricordarne la sensazione sulle labbra. Non aveva previsto quella svolta. Lentamente, si stava abituando all'idea di restare per sempre a Duluth. Al fianco di Jonny. Non era una decisione che aveva preso alla leggera, considerato il suo passato, ma aveva iniziato a crederci. Avrebbe dovuto prestare attenzione a tutti i segnali di pericolo e accettare la realtà che nulla dura per sempre. Amava Jonny e lui amava lei. Ma questo non era sufficiente perché tra di loro le cose funzionassero. Avevano alzato entrambi troppi muri e c'erano molti angoli da smussare. Non sapeva cosa avrebbe fatto adesso. Andarsene. Restare. Riprovarci. Arrendersi. Non era la prima volta nella sua vita che valutava la possibilità di ricominciare tutto da capo, né probabilmente sarebbe stata l'ultima. L'istinto le diceva di perdonare Jonny, ma non avrebbe potuto farlo da sola, era necessario che anche lui ci mettesse tutto il suo cuore. L'idea di scappare era una stilettata al cuore, ma non era disposta a mettersi in disparte a guardare Stride e Maggie che lavoravano insieme giorno dopo giorno. Quel triangolo era finito. Fissò la porta del bar. L'attrazione della vodka era così netta e intensa che già riusciva a pregustarne il sapore. Si figurava mentalmente il liquido nella bottiglia. Lo vedeva riversarsi nel bicchiere e scivolare intorno al ghiaccio. Un giro dopo l'altro e dopo l'altro ancora. Fino a ritrovarsi nella stessa

condizione in cui si era trovato Jonny, privata di ogni sensazione. Serena aprì la portiera dell'auto. Mentre lo faceva, squillò il telefono. Era Denise Sheridan. Serena rispose e fu come una temporanea ancora di salvezza, come se qualcuno l'avesse tirata indietro dal bordo del dirupo. «Che succede, Denise?» «Ho parlato con la squadra incaricata di pedinare Marcus» riferì l'altra. «Stamattina doveva andare a Duluth per eseguire un intervento.» «E allora?» «Allora è uscito dall'ospedale per tornare a Grand Rapids e l'hanno perso.» «Come?» «Sapeva di essere seguito. È passato di proposito con il rosso e li ha seminati. Forse non significa nulla, ma volevo aggiornarti.» «Dov'era quando l'hanno perso?» chiese Serena. «Su Rice Lake Road, vicino a Martin. Hanno pensato che stesse tornando a casa, ma abbiamo tenuto d'occhio la Highway 2 e di lui nessuna traccia.» «Che macchina ha?» «Una Lexus bordeaux.» Serena pensò a Marcus Glenn che sfrecciava a tutta velocità nella zona delle fattorie a nord. Lei si trovava nella stessa zona, e pensò di sapere cosa passava per la testa del chirurgo. «So dove sta andando» disse.

34 Kasey, Kasey, Kasey. Stai scappando, vero? Le lenti del binocolo misero a fuoco il volto della donna. Kasey esitò davanti alla porta della sua fattoria, come se sapesse di essere osservata. I suoi occhi si spostarono nervosamente verso i boschi dietro il garage, poi verso i campi aperti e lungo il vialetto sterrato che portava alla superstrada, dove sul ciglio era parcheggiata una pattuglia della polizia. Un agente annoiato controllava il traffico proveniente da entrambe le direzioni. Kasey reggeva tra le braccia due scatoloni. Li trasportò fino a un furgone a noleggio parcheggiato accanto al garage e scomparve sul retro del veicolo. Un minuto dopo, con le braccia libere, tornò verso la casa, pronta per un altro giro. Lui osservava quell'andirivieni dall'albero che aveva scelto come punto strategico e su cui si trovava da quasi un'ora. Il marito di Kasey era arrivato con il furgone intorno a mezzogiorno, e da allora i due non avevano mai interrotto la sfilata di pacchi che venivano caricati sul camion. Non puoi scappare, Kasey. Non è così che funziona. Non abbiamo ancora finito, noi due. Bruce Kennedy aprì la porta d'ingresso con uno stivale e scese faticosamente gli scalini. Lui lo osservò. Il marito di Kasey era un uomo imponente, con capelli biondi e una folta barba. Indossava un paio di jeans e una camicia di flanella fuori dai pantaloni. Aveva l'aria di un lavoratore, uno che faceva quello che gli veniva detto di fare. Senza dubbio Kasey lo comandava a bacchetta, ma si meritava di meglio. Guardare Bruce Kennedy attraverso il binocolo, guardare quell'uomo che non si rendeva conto del gioiello che la vita gli aveva messo accanto, lo faceva incazzare. Quando l'avrebbe persa, non si sarebbe neppure reso conto di cosa aveva avuto per le mani. Che uomo ottuso. Il telefono vibrò nella sua tasca. Era nascosto tra gli alberi, invisibile e lontano da orecchie indiscrete, ma si guardò intorno prudentemente prima di rispondere. «Sì?» «Nieman, sono Matt Clayton di Buckthorn.» «Cosa posso fare per lei?» «Ultimamente è stato alla scuola?» Nieman esitò. «Sì, eseguo di frequente un controllo per assicurarmi che sia tutto a posto.» «Pensa che qualcuno sia potuto entrare?» «Improbabile. E' chiusa come un forziere. Perché, c'è qualche problema?» «Non lo so. Ho ricevuto una chiamata da Maggie Bei, della polizia di Duluth. Sta cercando di rintracciare una persona scomparsa che, forse, aveva messo

gli occhi sulla scuola.» «Non ho notato niente di strano, da quelle parti» rispose. «Quando è stata l'ultima volta che è entrato in quell'edificio?» «Domenica.» «Be', pare che questo tizio sia scomparso sabato, quindi se lei ha fatto un controllo il giorno dopo non dovrebbe esserci nulla di cui preoccuparsi. Comunque, le sarei grato se oggi potesse tornarci a dare un'occhiata, ok?» «Certo.» «L'ultima cosa di cui abbiamo bisogno è un'altra bega con le assicurazioni a causa di quel posto.» «Comprendo benissimo.» «Quando ha finito, chiami il sergente Bei e le faccia rapporto.» Clayton gli comunicò il numero di telefono, poi aggiunse: «Ah, e cerchi anche dei gusci rossi di pistacchio. A quanto pare questo tizio li sparge ovunque vada». «Sì, nessun problema» rispose l'uomo. Poi aggiunse: «Perché i poliziotti pensano che sia andato alla scuola? E stato forse visto da qualcuno?». «No, niente del genere. Ha semplicemente scattato delle foto al posto. Come ho detto, probabilmente non è nulla.» «Andrò a controllare.» «Grazie, Nieman. Lei è un uomo affidabile.» Chiuse la comunicazione e ripose il telefono nella tasca. Quell'imprevisto lo infastidiva. Era strano che i poliziotti fossero riusciti a collegare Nick Garaldo alla scuola così in fretta. Aveva preso la macchina fotografica digitale dallo zaino del ragazzo, poi era andato nel suo appartamento e aveva portato via il computer e tutto quello che avrebbe potuto far pensare che Garaldo fosse un esploratore urbano. Ma, chiaramente, qualcosa doveva essergli sfuggito. Era un errore che di solito non commetteva. Sapeva che avrebbe potuto riferire a Clayton e agli sbirri che alla scuola non aveva trovato nulla di sospetto. Questo gli avrebbe concesso qualche giorno di vantaggio, ma l'orologio avrebbe continuato a ticchettare comunque. Era solo una questione di tempo, poi sarebbero entrati nella scuola e avrebbero trovato la sua collezione. Doveva scomparire molto prima di quel momento. Trasferirsi in un'altra città, stavolta più a sud, dove l'inverno era più mite."Cambiare pelle, come aveva già fatto molte volte. Ricominciare da capo. Quando sollevò nuovamente il binocolo, vide Kasey. Il vento le scompigliava i capelli rossi davanti alla faccia. Teneva la mascella serrata. Aveva un'aria fiera e disperata, come un animale ferito che combatte con ancora più ferocia quando capisce che sta per morire. Ammirò il suo coraggio. Ecco perché aveva qualcosa di speciale in programma per lei. Mentre ci pensava, capì che il tempismo era perfetto. Quella sera avrebbe

concluso la sua permanenza a Duluth. Le ricerche per ritrovare Nick Garaldo avrebbero persino potuto giocare a suo favore. Se non avesse agito, la mattina seguente Kasey sarebbe partita e lui non voleva correre il rischio di perderla. Avrebbe potuto seguirla attraverso il paese, se necessario, ma sarebbe stato molto meglio farla finita subito. Avevano un appuntamento alla scuola, come la promessa di un ballo alla festa di fine anno, mentre tutti gli altri li stavano a guardare. Sorrise all'ombra degli abeti. Avrebbe atteso che facesse buio, poi avrebbe posto fine a quel gioco.

35 Serena uscì dall'autostrada e imboccò il viale che conduceva all'abitazione di Regan Conrad. Vide l'Hummer nero dell'infermiera vicino al garage e, accanto a esso, una Lexus rosso scuro con una targa personalizzata che recitava kneedoc, ovvero «medico del ginocchio». Era l'auto di Marcus Glenn. Parcheggiò dietro i due veicoli, bloccandoli. Non voleva che si ripetesse quello che era successo durante la visita dell'altra volta, quando la vecchia Escort si era allontanata mentre lei era in casa. Scese dalla Mustang e mentre saliva gli scalini che portavano all'ingresso controllò la finestra del soggiorno. Non vide nessuno. Prima di suonare il campanello, si accorse che la porta era socchiusa. Avvicinò un orecchio alla stretta apertura e cercò di cogliere dei suoni. Non sentì nulla, così aprì la porta con una spalla ed entrò nell'atrio. La casa era buia e fredda. Attese e rimase di nuovo in ascolto. Il suo istinto di poliziotta le sussurrò che qualcosa non andava. La casa era troppo fredda. Troppo buia. Troppo silenziosa. Serena abbassò gli occhi e vide una macchia sul rovere chiaro vicino alla porta. Una macchia secca e rossastra. Si inginocchiò e colse un inconfondibile odore ferroso. Sangue. Infilò una mano nella giacca ed estrasse la pistola. Dal piano di sopra giungeva un rumore di passi. Si tolse le scarpe per non fare rumore con i tacchi sulle assi del pavimento, e si diresse verso le scale, controllando la balaustra sopra di lei. Le luci erano spente e le porte delle stanze al secondo piano erano chiuse. Saggiò con il piede il primo scalino, che non emise alcun suono. Lentamente, salì al secondo piano. Studiò le porte che davano sul corridoio. Una, all'altra estremità del piano, era mezza aperta. Udì un cassetto sbattuto e un fruscio di carta. Con la pistola puntata davanti a sé, avanzò verso la porta. Al di là, vide uno schedario metallico con il cassetto centrale aperto. Svariate cartelline erano sparse su tutto il pavimento. Udì qualcuno respirare in modo frenetico e agitato. Serena sollevò la pistola e sbirciò oltre lo stipite della porta. Marcus Glenn era girato di spalle, carponi in mezzo allo studio. Stava frugando in una pila di fogli alta una trentina di centimetri, controllandoli a uno a uno e poi gettandoli da parte. «Non si muova» ordinò Serena. Glenn si girò, sconvolto, con gli occhi sbarrati. Afferrò una delle cartelline e i fogli che conteneva si rovesciarono a terra.

«Alzi le mani.» Lui vide la pistola puntata al suo petto, allargò le dita e sollevò subito le mani sopra la testa. La cartellina cadde sul pavimento, accanto a lui. «Che cazzo sta succedendo?» chiese Serena. Glenn balbettò qualcosa. Il chirurgo, solitamente imperturbabile, era terrorizzato. La sua pelle era bianca come un cencio. «Cercavo una cosa.» «Cosa?» «Volevo... credevo che lei avesse...» iniziò, ma poi lasciò la frase a metà. «Non credo sia il caso di parlarne.» «Dov'è Regan?» «Non è qui.» «Come ha fatto a entrare?» chiese Serena. «La porta era aperta.» Serena mosse le cartelle con un piede e vide che Glenn stava controllando delle cartelle cliniche. Cartelle riguardanti dei neonati. «Vogliamo riprovarci, dottor Glenn? Cosa stava cercando, di preciso?» Lui esitò, e Serena pensò che stesse cercando di prendere tempo per escogitare una bugia convincente. «Ho iniziato a pensare che lei avesse ragione. Che Regan avesse incaricato qualcuno di rapire Callie o di... di farle del male. Ho pensato che forse tra le sue cose avrei potuto trovare qualche indizio. Qualcosa che mi indicasse chi era stato.» «E ha trovato qualcosa?» «No.» «Ha controllato anche nelle altre stanze?» chiese Serena. «No. Sapevo che teneva qui le cartelle cliniche.» Lei lo fissò. «C'è del sangue, vicino alla porta.» «Del sangue? Non me ne sono accorto.» Il tono che usò tradì la menzogna. Il panico sul suo volto non era dovuto solo al fatto di essere stato sorpreso durante un'effrazione. C'era anche dell'altro. «Dov'è Regan?» ripetè Serena. «Gliel'ho già detto, non lo so. Quando sono arrivato, la casa era vuota.» «Cos'ha fatto, esattamente?» Lui riprese a balbettare. «La porta era aperta e sono entrato. Ho chiamato Regan, ma non mi ha risposto. Quando ho capito che non era in casa sono venuto di sopra per controllare il suo archivio.» «Qualunque cosa lei mi stia nascondendo, sappia che la scoprirò, quindi tanto vale che me la dica subito.» «Non sto nascondendo niente.» Serena si accigliò. «Intrecci le dita sopra la testa.» «Cosa?» «Mi ha capito benissimo.» Glenn ubbidì. «Ora si metta in ginocchio. Strisci sulle ginocchia e venga verso di me.

Lentamente» ordinò lei. Serena indietreggiò di alcuni passi, nel corridoio. L'alto chirurgo avanzò sulle ginocchia, senza mai staccare gli occhi dalla pistola. «Potrebbe abbassare quell'affare?» le chiese. «Zitto.» Quando Glenn fu sulla soglia dello studio, lei gli ordinò: «Fermo lì. Ora si metta a quattro zampe». L'uomo appoggiò a terra anche le mani. «Questa è una follia, non ho fatto nulla» protestò. «Si stenda a faccia in giù e allarghi bene braccia, gambe e dita delle mani.» «Senta, le ho già detto che...» «Lo faccia.» Glenn sentì il gelo nella sua voce e ubbidì. Scivolò a terra e allargò gli arti fino a fare assumere al suo corpo steso sul tappeto la forma di una X. «Resti così» sbottò Serena. «Non si muova e non alzi la testa.» Raggiunse la prima porta chiusa alla sua destra. Girò la maniglia con due dita e con una spinta aprì la porta, rivelando una stanza da letto scarsamente arredata. Non mancava nulla. Continuando a tenere Glenn sotto tiro, indietreggiò fino alla porta accanto e trovò un elegante bagno arredato di rosa, con una doccia a due posti. «Dov'è la stanza da letto di Regan?» chiese a Glenn. «All'altra estremità del corridoio.» «Resti dov'è.» Superò l'imbocco delle scale e raggiunse la porta chiusa che introduceva nella camera da letto principale. Sul tappeto, vide un'altra macchia bagnata che partiva dall'interno della stanza, come si vedeva dalla fessura sotto la porta. Inspirò profondamente e l'odore che percepì non le piacque. Si girò verso Glenn e vide che aveva sollevato la testa e la stava guardando. «Cosa troverò qui dentro?» gli chiese. «Non ne ho idea.» Mentiva. «Se è stato qui dentro, troveremo le sue impronte» lo ammonì. Glenn contorse il volto in una smorfia di sgomento. «Non sono stato io» disse. «A fare cosa?» chiese Serena, anche se non le era difficile immaginare cosa avrebbe scoperto. «È inutile, lei non mi vuole ascoltare» disse lui. Serena prese i guanti da una tasca, ne infilò uno nella mano destra e girò delicatamente la maniglia, poi aprì la porta spingendola con un piede. La stanza era in penombra, con le tende chiuse. La luce proveniente dal lucernario nel corridoio si riversò attraverso la porta aperta come un torrente e andò a illuminare la parete. Smise per un istante di respirare. Fece due passi nella stanza, e tanto le bastò per vedere il letto matrimoniale

e le lenzuola turchesi in disordine. Il fucile era sul tappeto ed emanava un odore di polvere da sparo bruciata. E poi il sangue. A metà strada tra il letto e la porta c'era una grossa pozza di sangue da cui partivano rivoli simili a fiumiciattoli che uscivano da un lago e, dietro di essa, la parete era cosparsa di orribili schizzi di cervello, tessuti e ossa. Non c'era alcun corpo. Ma chiunque avesse generato quella pozza non poteva essere ancora in vita. «Porca puttana» mormorò Serena. Fissò la parete e vide che qualcuno aveva usato il sangue come vernice per scrivere un messaggio. Ogni lettera era alta almeno venti centimetri, vergata con calligrafia incerta, simile a quella un bambino. Strisce di sangue grondavano dalle parole e formavano linee parallele lungo la parete. Il messaggio recitava: CIAO, KASEY.

36 Maggie prese una sedia e la portò nel soggiorno di Regan Conrad, dove la collocò con lo schienale rivolto verso il divano e la finestra a bovindo. Vi si sedette a cavalcioni e appoggiò le braccia sopra lo schienale. I tacchi delle sue scarpe affondarono nella morbida moquette. Osservò le opere d'arte in vetro sparse per la stanza, poi si concentrò su Marcus Glenn, seduto sul divano con le mani in grembo. «Quando potrò tornare a casa?» chiese lui. Maggie fece spallucce. «Che fretta ha, dottore?» «Ho degli interventi programmati. Non posso entrare in ospedale e mettermi a tagliuzzare pazienti come niente fosse. Devo prepararmi.» «Già, quei proficui interventi al ginocchio, giusto? Ho visto la sua Lexus parcheggiata qui fuori, kneedoc, bel nome. Ma io me ne frego se qualche amministratore delegato ha bisogno di un aiutino per poter continuare a giocare a golf. È stato sorpreso sulla scena di un crimine, dottor Glenn, quindi se oggi lei riuscirà o meno a tornare a casa, dipenderà da come andrà la nostra conversazione.» Il chirurgo tornò ad appoggiarsi allo schienale del divano espirando rumorosamente. «Come ho già detto alla signorina Dial e come ora sto dicendo a lei, non c'entro nulla con quanto è successo qui.» «Quindi si è semplicemente trovato al posto sbagliato nel momento sbagliato. Ancora una volta. Sta diventando una specie di abitudine per lei, non trova? Si trovava in casa al momento della scomparsa di sua figlia, ma non c'entrava nulla. Ora si trova in una casa dove, a quanto pare, ha avuto luogo un omicidio, e lei non ne sa nulla.» «Proprio così.» Maggie aveva già avuto a che fare in passato con dei medici e sapeva che era difficile che si scomponessero, ma dagli occhi di Glenn trapelava un evidente nervosismo. Era stato sorpreso con le mani nella marmellata e se ne rendeva conto. Quando Maggie non aggiunse altro, Glenn disse: «Ascolti, anche se qualcuno ha ucciso Regan, è comunque successo ore prima che arrivassi io». «Davvero? E come fa a saperlo?» «Sono un medico. Di sangue ne vedo parecchio.» «Ma non è un medico legale, dico bene?» «Non sono neanche un mago, se è per questo. Non posso far sparire un corpo nel nulla. L'unico vantaggio dell'essere tenuto sotto costante sorveglianza è che la polizia sa sempre dove mi trovo. La signorina Dial sa perfettamente che ero qui da meno di un'ora prima che arrivasse lei.» «Già, parliamo di questo» disse Maggie. «Perché si trovava qui, di preciso?» Glenn fece spallucce. «Pensavo che Regan fosse in qualche modo coinvolta

nella scomparsa di Callie.» «E perché?» «Avevamo una relazione che è finita nel peggiore dei modi.» «E lei cosa aveva intenzione di fare, dottore? Chiederle se c'entrava con la scomparsa di sua figlia? Davvero pensa che lo avrebbe ammesso?» «Lei non conosce Regan. Se avesse fatto qualcosa, me lo avrebbe sicuramente vomitato in faccia.» «Ma non era a casa quando lei è arrivato, giusto?» chiese Maggie. «Proprio così.» «La porta era aperta o è dovuto entrare con la forza?» «Era aperta.» Maggie annuì. «Lei possiede una chiave?» «Non ne avevo bisogno. Le ho detto che la porta era aperta.» «Provi a rispondere alle domande che le faccio. Possiede una chiave della casa di Regan?» «Sì, ce l'ho» ammise Glenn. «Regan me ne diede una copia quando ci frequentavamo.» «L'ha qui con sé?» «Immagino sia ancora attaccata al mio mazzo di chiavi. Sono mesi che non ci penso più.» Maggie sorrise. «Non ne dubito. Quindi è venuto qui con una chiave di casa ma senza pensare di usarla. Allora perché è entrato?» «Quando ho visto la porta aperta mi sono preoccupato» rispose Glenn. «Ho chiamato a gran voce, ma non mi ha risposto nessuno, così ho iniziato a guardarmi in giro, e ho capito che era capitato qualcosa di orribile.» «Perché non ha chiamato la polizia?» «Stavo per farlo.» «Davvero? La signorina Dial sostiene che lei era troppo occupato a rovistare tra le cartelle cliniche di Regan.» «Pensavo che Regan avesse qualcosa che dimostrasse il suo coinvolgimento nel rapimento di Callie.» «Credeva di trovare qualcosa che alla polizia sarebbe sfuggito? O forse voleva assicurarsi che noi non trovassimo quello che lei stava cercando?» Glenn non rispose. «Quand'è stata l'ultima volta che ha parlato con Regan?» chiese Maggie. «Sono ormai passati dei mesi.» «Ultimamente l'ha chiamata?» «No.» «Ne è sicuro?» Glenn vide l'espressione sul volto di Maggie e fece marcia indietro. «In realtà, le ho lasciato un messaggio ieri sera, in cui le dicevo che volevo parlarle. Ma, di fatto, non ci siamo parlati.» Maggie annuì. «Le persone pensano di poter cancellare i messaggi della segreteria telefonica, ma sono tra le cose più facili da recuperare. Abbiamo sentito il messaggio che le ha lasciato. Parlava del fatto che Regan fosse stata nel suo ufficio

durante il week-end.» Glenn non sembrava entusiasta. «Sì, è stata la mia infermiera a informarmi della cosa.» «Perché Regan era entrata nel suo ufficio?» «Non lo so, ed è quello che volevo scoprire.» «Vuole azzardare un'ipotesi?» «Non ne ho idea» rispose Glenn. «Temeva che avesse rubato qualcosa?» Lui sbatté le palpebre, a disagio. «Gliel'ho detto, non lo so» ripetè. «Regan ha detto a sua moglie che pensava che il responsabile della scomparsa di Callie fosse proprio lei, dottor Glenn» disse Maggie. «Ma questo è assurdo.» «Mi chiedo se la sua versione dei fatti non sia stata modificata col senno di poi.» «Cosa intende dire?» Maggie si piegò in avanti. «Ecco cosa intendo dire: è sicuro che non stesse rovistando tra le cartelle di Regan per scoprire se lei aveva delle prove del suo coinvolgimento nella scomparsa di Callie? Prove che magari aveva preso proprio dal suo ufficio?» «Certo che no.» «È una bella coincidenza il fatto che lei sia arrivato a casa di Regan subito dopo che era stata ammazzata.» «Io non c'entro niente.» «Sapeva che era morta? È venuto qui per cancellare le prove del crimine prima che venisse scoperto?» Glenn scosse la testa. «Prima di arrivare qui, non avevo la più pallida idea che a Regan fosse successo qualcosa.» «Secondo lei chi l'ha uccisa?» chiese Maggie. Lui fece spallucce. «Vive nella zona delle fattorie del nord. Da queste parti, di recente, sono stati commessi crimini orribili.» «Quindi pensa che l'assassino delle altre donne e quello di Regan siano la stessa persona?» «Non ne ho idea, ma non crede anche lei che sia un'ipotesi plausibile? Le donne che lavorano all'ospedale sono tutte terrorizzate da quest'uomo, chiunque egli sia. Regan si vantava di dormire con un fucile a canne mozze accanto al letto.» Maggie inarcò le sopracciglia. «Lei sapeva del fucile?» «Lo sapeva un sacco di gente» rispose Glenn, sulla difensiva. «Regan non ne faceva mistero. Aveva paura di questo maniaco, proprio come tutti gli altri.» «Non tutti si fanno prendere dal panico, quando un serial killer arriva in città» disse Maggie. «E questo che diavolo vorrebbe dire?» Maggie si scostò i capelli rossi dagli occhi e si accigliò. «Ogni tanto, dottore, qualcuno può vederla come un'opportunità.»

Serena era seduta nella sua Mustang, sul vialetto di Regan, e fissava i campi coperti di neve fuori dal finestrino aperto. Nonostante fosse quasi l'ora del tramonto indossava occhiali da sole, e Maggie sospettò che avesse pianto. Quando aprì la portiera dal lato del passeggero e si sedette accanto a lei, Serena non disse una parola. Non si guardarono nemmeno in faccia. Maggie lasciò la portiera aperta e con la punta dello stivale prese a dare leggeri calcetti sul terriccio all'esterno. Guardò Serena di sbieco, e vide che il suo volto era rigido per la rabbia. Non la biasimava, e non sapeva cosa dire. Non c'era nulla che potesse porre rimedio a quella situazione. «Non è stato Glenn» annunciò Maggie dopo un lungo e imbarazzante momento di silenzio. «O, almeno, non è stato lui a premere il grilletto. Questo non significa che non sia coinvolto.» Serena seguitò a tacere. Maggie lanciò un'occhiata verso la strada principale e vide i furgoni dei media parcheggiati lungo il bordo. «La stampa è già stata informata. Blair Rowe è comparsa sulla CNN mezz'ora fa, e ha ipotizzato un collegamento tra questo omicidio e la scomparsa di Callie.» Serena scrollò le spalle. «Blair Rowe conosce un sacco di gente alla polizia di Grand Rapids. Qualcuno avrà parlato.» «E tu che dici? Pensi che i due casi siano collegati?» «Penso che Marcus abbia mentito sul motivo per cui si trovava qui» rispose Serena. «Mi piacerebbe sapere cosa stava cercando.» «Già.» «Guppo ha trovato qualcosa sulla scena del crimine?» chiese Serena. «È stato l'assassino delle fattorie?» «Il modus operandi sembra lo stesso» rispose Maggie. «Il tipo di abitazione, il corpo fatto sparire. Non sono sicura riguardo al fucile, però. Al nostro uomo, di solito, piace usare le mani.» «Forse Regan l'ha colto di sorpresa, ed è stato costretto a usare il fucile.» «Può darsi, ma non sembra sia andata così. Guppo pensa che avesse il fucile con sé. Non ci sono segni di lotta, e non è così che agisce il nostro uomo.» «Tranne per il messaggio sul muro» puntualizzò Serena. Maggie annuì. «Sì. Il messaggio sembra autentico. Questo tizio sta giocando con Kasey. Ma non credo che abbia preso di mira Regan per pura coincidenza. In tutta questa faccenda c'è un collegamento con Callie.» «Hai informato Kasey del messaggio?» «Non ancora. È poco lontana da qui e le ho chiesto di raggiungerci.» Serena disse: «Ho parlato con Stride, e mi ha detto che andrà a fare due chiacchiere con Micki Vega. È l'unico collegamento che abbiamo tra Marcus e Regan». «Sì, anch'io gli ho parlato.» Serena scosse la testa e rise amareggiata. «Ma certo che l'hai fatto. Che stupida a non averci pensato.»

«Ascolta, Serena» iniziò Maggie. Serena alzò una mano e la interruppe. «Non credo sia il momento di parlarne, sei d'accordo? Siamo professioniste, nient'altro.» Maggie recepì il messaggio, forte e chiaro. Siamo professioniste. Non amiche. Non più. «So che non conta un cazzo, ma mi dispiace» disse. Serena si tolse gli occhiali da sole con uno scatto. Aveva gli occhi arrossati che mandavano fiamme. «Vuoi parlarne adesso? Va bene. Non raccontarmi stronzate sul fatto che ti dispiace. Non è successo per caso. Tu sapevi che io e Jonny avevamo dei problemi, perché io ero stata così stupida da venirtelo a raccontare. Hai sabotato la nostra relazione per ottenere quello che hai sempre voluto. Be', complimenti. Non avrei mai pensato che fossi così spietata. Sono stata un'ingenua a credere che tu fossi un'amica. Ora pago il prezzo di questa fiducia malriposta.» Le sue parole colpirono Maggie in faccia come un vento gelido. Dopo quella tirata, Serena aveva il fiatone. «Puoi crederci o no, ma non è andata così» disse Maggie, a bassa voce. «Ho trovato Stride subito dopo che aveva avuto un attacco. Serena, aveva bisogno di qualcuno. È successo e basta.» Serena roteò gli occhi. «È successo e basta? È quanto di meglio riesci a escogitare? Certo, non avevi previsto niente. Oh, a proposito, gran bei capelli, Maggie.» Maggie era conscia che la sua era una ben debole scusa. «Volevo provare qualcosa di diverso.» «Be', ci sei riuscita. Ora scendi da questa cazzo di macchina.» Maggie ubbidì e si richiuse la portiera alle spalle. Si piegò verso il finestrino. «Non volevo intromettermi tra voi due, né voglio farlo ora. E stato un episodio isolato. Un incidente. Stride ti ama, e io non voglio rovinare niente.» Serena si rimise gli occhiali da sole. «Troppo tardi.» Maggie aprì la bocca per aggiungere qualcos'altro, ma si rese conto che non aveva niente da dire. Fece un passo indietro e si allontanò rapida verso la casa di Regan. Ciocche di capelli rossi le dondolavano davanti agli occhi e all'improvviso si sorprese a detestare se stessa, quei maledetti capelli color fragola e quello che aveva fatto a Stride. Serena aveva ragione. Aveva un bel dire che non avrebbe voluto intromettersi nella loro relazione, che non avrebbe voluto che succedesse nulla, ma erano tutte balle, e lei lo sapeva. Consapevolmente o meno, aveva sempre saputo cosa stava facendo. Era entrata in casa di Stride con gli occhi ben aperti.

37 Era già notte quando Stride arrivò ai piedi della collina su cui si trovava il cimitero di Sago. Scese dal fuoristrada e sentì il bisogno di accendersi una sigaretta. L'aria fredda e dolce gli faceva venire voglia di fumare. Si appoggiò al fuoristrada e scrutò gli alti pini che circondavano il perimetro del cimitero, come a guardia dei morti. Mossi dal vento, sembravano scrollare le spalle nere in gesti di indifferenza. Stride salì la collina ammantata da un sottile strato di neve, muovendosi tra le scure sagome delle lapidi in marmo. L'asta in metallo della bandiera sbatteva in modo incessante, come un bambino che esige attenzione. In cima alla collina, seguì il bordo irregolare del bosco, cercando il sentiero che conduceva alla roulotte di Micki Vega. Quando lo ebbe trovato, si immerse nel buio tra gli alberi. Si muoveva senza fare rumore, quasi che la sua fosse un'intrusione in un luogo sacro. Si ricordò di cosa gli aveva detto Micki: lì la gente veniva a seppellire cose che non voleva fossero ritrovate. Cinquanta metri più avanti, nella radura, apparvero le finestre illuminate di una roulotte. Era un luogo isolato, nascosto alla vista. Mano a mano che si avvicinava, Stride cominciò a sentire il rumore soffocato di un televisore, che nella foresta aveva un effetto bizzarro e artefatto. Quando bussò, una voce femminile disse qualcosa in spagnolo, poi la televisione tacque. Micki Vega aprì la porta e quando lo vide si accigliò. «Ancora lei. Cosa vuole?» «Posso entrare?» «Se le dicessi di no sfonderebbe la porta?» «No.» La ragazza fece spallucce. «Ma sì, chi se ne frega, entri pure. Venga a vedere come rubo il pane ai lavoratori americani.» Stride salì i tre scalini della roulotte, che si abbassarono sotto il suo peso. L'interno, con il basso soffitto di metallo e le pareti anguste, aveva un'aria decisamente claustrofobica. I mobili puzzavano come un cane bagnato e il disordine regnava sovrano, con riviste sul pavimento, piante morte sui davanzali delle finestre e lattine di birra vuote impilate sui tavolini. La stanza era eccessivamente calda, e Stride iniziò a sudare. Micki non era sola. In fondo alla roulotte, vicino alla tendina semiaperta che dava sulla camera da letto, una donna corpulenta con lunghi capelli neri sedeva su una poltrona reclinabile davanti a un piccolo televisore. Sembrava sulla cinquantina e indossava una maschera di plastica che le copriva il naso e la bocca, collegata a una bombola d'ossigeno sul pavimento. Stride sentiva i suoi polmoni sibilare a ogni faticoso respiro. Il televisore, a cui era stato

tolto il sonoro, trasmetteva una puntata del gioco a premi La ruota della fortuna. «È mia madre» disse Micki. «Gliel'avevo detto che era malata.» Stride salutò la donna con un cenno educato del capo, ma lei reagì guardandolo con occhi scuri carichi di sospetto. «Come vede navighiamo nell'oro» riprese Micki. «Comunque, cosa si aspettava di trovare? Callie Glenn nascosta qui dentro? Secondo lei ho prelevato una neonata da quella bella casa per portarla qui?» «Non è per questo che sono venuto» disse Stride. «Ah, e cos'è successo stavolta? Noi stavamo per cenare.» Micki rigirò del riso giallo e del manzo tritato in una padella posata sui fornelli vicino alla porta e bevve un sorso da una lattina di birra già aperta. Indossava una larga maglietta bianca della fiera dello stato del Minnesota, un paio di jeans che le avvolgevano le cosce carnose ed era a piedi scalzi. «Riteniamo che Regan Conrad sia morta» la informò Stride. Micki si pulì la schiuma dalle labbra. «Davvero? E com'è successo?» «Sembra che qualcuno l'abbia uccisa.» Micki si fece il segno della croce e mormorò qualcosa tra sé e sé. «Santa Maria, ma è una cosa terribile. Uccisa?» «Sì.» «Come?» «Qualcuno le ha sparato in testa.» «Mio Dio.» Stride aggiunse: «Abbiamo trovato Marcus Glenn in casa sua, che rovistava tra le sue documentazioni cliniche». Micki rimase a bocca aperta. «Il dottor Glenn? Pensate che sia stato lui a ucciderla?» «Vogliamo sapere cosa ci faceva lì» disse Stride. «Non sarete contenti finché non lo avrete inchiodato, vero? Il dottor Glenn non farebbe mai una cosa simile. Non ne sarebbe capace.» «Da come si comporta, sembra che abbia qualcosa da nascondere, e io penso che lei sappia cosa.» «Io? E perché dovrei saperlo?» «Perché conosce bene il dottor Glenn, perché conosceva Regan Conrad e perché si trovava in casa dei Glenn quando Callie è scomparsa.» «E allora? Sono mesi che non parlo con l'infermiera Regan. Le ho già raccontato tutto quello che so. Perché non vuole lasciarmi in pace?» Micki riprese a mescolare rabbiosamente il riso con un cucchiaio di legno. «Se sa qualcosa sul dottor Glenn e Regan Conrad, deve assolutamente dirmelo. Comprendo la sua gratitudine per tutto quello che il dottor Glenn ha fatto per lei, ma se è coinvolto in questi crimini...» «Non lo è» sbottò la ragazza.

«Regan Conrad la pensava diversamente.» Micki sollevò gli occhi dai fornelli. Il vapore che saliva dalla padella le inumidì la fronte, e lei l'asciugò con uno strofinaccio. «Perché dice questo?» «Perché Regan aveva contattato Valerie Glenn e le aveva detto che il dottor Glenn era coinvolto nella scomparsa di Callie.» «Come faceva a saperlo?» chiese Micki. «Questo non lo so. Ora Regan è morta e non avrà mai l'occasione per dircelo.» «Si sbagliava.» «Come fa a esserne così sicura?» «Perché conosco il dottor Glenn» insistette. «Non avrebbe mai fatto del male di proposito a sua figlia. Mai. Qualunque cosa sia successa, deve essere andata diversamente.» «Di proposito?» chiese Stride. «Pensa che possa essersi trattato di un incidente?» «Sta rigirando la frittata. Le sto dicendo che il dottor Glenn è innocente.» «Migdalia» chiamò una voce rauca dall'altra parte della roulotte. Stride vide la madre di Micki puntare un indice contro la figlia. Teneva stretta in pugno la maschera d'ossigeno che fino a poco prima le copriva il volto. Inspirava e tossiva in modo discontinuo, ogni respiro uno sforzo, e disse in spagnolo: «Migdalia, digale». Micki sbatté il cucchiaio sul ripiano della cucina e tolse la padella dal fuoco. «Marna, caliate. No te metas.» «Sì no le dices, le estas dando tu espalda a Jesus.» La madre sbatté gli occhi e tornò a indossare la maschera. Il suo petto si gonfiò non appena ebbe inspirato la prima boccata di ossigeno. «No lo voy a traicionar» ribatté Micki, picchiando un piede per terra. Sua madre agitò una mano verso di lei con fare insistente, il volto pallido per lo sforzo. Dietro la maschera, disse di nuovo, con voce forzata: «Digale». Micki incrociò le braccia sul petto, diede un calcio a una lattina di birra sul pavimento e borbottò qualcosa sottovoce. «Cosa ha detto?» chiese Stride. «Ha detto che devo stare fuori da questa faccenda» rispose Micki ad alta voce, tenendo d'occhio la madre. «Ha detto che a parlare alla polizia non si ottiene mai nulla di buono.» «Forse dovrei chiederlo direttamente a lei» propose Stride. «Lasci perdere mia madre! Vede anche lei in che condizioni è, priva di forze. Non voglio che la coinvolga in questa faccenda.» «È coinvolta?» «Certo che no» sbottò Micki. Spinse da parte Stride e andò a sedersi su una sedia pieghevole di metallo. Intrecciò le dita e prese a fissarsi i piedi. La sua gamba sinistra ebbe un fremito. «Perché non se ne va?» chiese.

Stride si accovacciò accanto a lei. «Pensi a Callie. Voleva bene a quella bambina. Si prendeva cura di lei» «Era un angelo» confermò Micki, con un debole sorriso. Stride annuì. «Immagini come si sentirebbe se il suo bambino fosse scomparso e lei non sapesse più nulla di lui. Immagini la disperazione che proverebbe. Se sa qualcosa, Micki, non può tacere. Callie non merita un trattamento del genere.» «Il dottor Glenn non le ha fatto del male» ripetè Micki. «Allora cosa sta nascondendo? Perché era in casa di Regan Conrad?» Micki fece spallucce. Si alzò dalla sedia e, dando le spalle a Stride, raggiunse la poltrona reclinabile, prese il telecomando e spense il televisore, poi accarezzò i capelli di sua madre. Le due donne non si parlarono, ma la donna più anziana allungò una mano e strinse il polso di Micki con le dita grosse. Il labbro inferiore di Micki tremò come se fosse sul punto di piangere. Si staccò delicatamente dalla stretta e si chinò dietro la poltrona, mentre sua madre la guardava. Quando si rialzò, tra le mani stringeva una scatola da scarpe. Stride attese, in silenzio. Micki tornò a sedersi, con la scatola in grembo, poggiò gli avambracci sul coperchio e fissò la porta della roulotte. «Quella notte sono arrivata a casa tardi. Mia madre era preoccupata.» «La notte in cui Callie è scomparsa?» Micki annuì. «Mia madre continuava a guardare fuori dalla finestra, nella speranza di vedermi arrivare.» «E cosa ha visto?» chiese Stride. «Una luce» rispose Micki. «Ha visto una luce nel bosco, vicino al cimitero. C'era qualcuno.» «A che ora?» «Intorno a mezzanotte. Me lo ha detto sabato, e io ho subito pensato alle persone che vanno in quel luogo a seppellirvi le loro cose. E, sa, ho pensato che tutta la famiglia del dottor Glenn è sepolta lì. Lui viene spesso a visitare la tomba di sua madre. Così sono andata a controllare.» «E cosa ha trovato?» incalzò Stride. Lei sollevò di poco il coperchio della scatola. All'interno, Stride vide uno strano miscuglio di oggetti. Fiori di plastica sporchi. Collari di cani con gli Strass. Fotografie sbiadite e arricciate. «Questa è la mia collezione» dichiarò Micki. «La gente lascia un sacco di cose sulle tombe e anche nei boschi, e io le conservo. Mi piace pensare che un po' del loro affetto giunga sino a me. So che è una sciocchezza, ma sono capace di trascorrere ore intere in questo modo.» «Ha trovato qualcosa nel bosco?» chiese Stride. «Vicino al punto dove sua madre, quella sera, ha intravisto la luce?» Dalla scatola, Micki estrasse un piccolo giocattolo, una trombetta di carta

arrotolata con un bocchino di plastica. Stride la riconobbe. Era del tipo che si usava per festeggiare a capodanno. «L'ho trovata in una piccola radura.» «Capisce cosa significa?» chiese Stride. «Callie è nata la notte di capodanno.» «Sì, lo so.» «Ha trovato anche qualcos'altro?» Micki annuì. «Qualcuno ha cercato di nasconderlo, ma io me ne sono accorta perché il terreno sotto le foglie era smosso. Là sotto era sepolto qualcosa.»

38 Maggie vide gli occhi di Kasey riempirsi di paura quando la giovane poliziotta scese dall'auto. Il suo corpo era illuminato dai fanali incrociati delle auto di pattuglia parcheggiate nei campi confinanti con la casa di Regan. Kasey passò attraverso quell'intrico di luci stringendo gli occhi a fessura e sollevando una mano con le dita allargate. «Che succede?» chiese. «Cosa vuoi?» «Ha colpito di nuovo» le riferì Maggie. Kasey rabbrividì e si strinse nel cappotto. «Chi è la vittima?» «La casa appartiene a un'infermiera di nome Regan Conrad.» «Un'infermiera? Non è la stessa di cui Serena parlava ieri sera a cena? Quella collegata al caso della neonata a Grand Rapids?» Maggie annuì. «E che ci faccio io qui?» Maggie si accigliò. «Voglio mostrarti una cosa. Non è un bello spettacolo, Kasey.» La ragazza si infilò le mani in tasca. «Anche se sono una poliziotta, il mio stomaco fa fatica a sopportare la vista dei cadaveri. Non ne vedo molti, nel tipo di lavoro che svolgo.» «Non c'è nessun cadavere.» Kasey inclinò la testa da una parte. «Cosa?» «Niente corpo, solo una marea di sangue. Ha portato via il cadavere, come ha fatto con le altre donne.» «Nessun corpo?» ripetè Kasey. «Allora come fate a essere certi che si tratta di Regan? Come fate a sapere che è morta?» «Non lo sapremo con certezza finché non avremo eseguito dei test, ma sta di fatto che oggi nessuno l'ha vista. E riguardo alla morte, con tutto il sangue che ha perso è impossibile che sia viva. Pare che le abbia sparato alla testa con un fucile a canne mozze.» Kasey sembrava confusa. «Cosa devi farmi vedere, allora?» Maggie indicò la casa con un cenno del capo. «Vieni con me.» Mentre la seguiva, Kasey disse: «Non so se questo cambia qualcosa, ma oggi ho consegnato le mie dimissioni. Io e Bruce ne abbiamo parlato, e siamo entrambi d'accordo che sia la cosa migliore da fare. So che avrei dovuto chiamarti, ma ho avuto parecchio da fare con le valigie e il resto dei preparativi. Partiremo domattina presto». «Comprendo benissimo.» «Mi sento come se ti stessi abbandonando.» «No. Se io fossi al tuo posto, probabilmente farei la stessa cosa.» «Pensi che sia paranoica?» Maggie scosse la testa. «No, non lo penso affatto.» Quando furono davanti alla porta, aggiunse: «Togliti le scarpe e indossa gli stivali di plastica. E non toccare niente, ci siamo intese?». «Certo.»

L'interno della casa era pervaso dall'odore colloso dei materiali usati dai tecnici della Scientifica per rilevare le impronte digitali. Sulla moquette era appena stato passato l'aspirapolvere per raccogliere eventuali residui. Maggie condusse Kasey al piano di sopra. Quando giunsero davanti alla porta aperta della stanza da letto di Regan, si girò e trattenne la collega mettendole una mano sul petto. «Non vorrei apparirti crudele, Kasey. Se preferisci non entrare, non hai che da dirmelo, ma credo che ci sia una cosa che dovresti vedere con i tuoi occhi. Probabilmente, ti farà sentire meglio riguardo alla tua decisione di salire su quel furgone domani mattina.» «Cosa c'è lì dentro?» domandò Kasey. «Ti ha lasciato un messaggio.» Maggie lasciò che fosse Kasey la prima a entrare. La giovane poliziotta varcò la soglia e i suoi occhi passarono in rassegna la stanza. La gigantesca macchia di sangue attirò subito la sua attenzione. Kasey si avvicinò e si accovacciò accanto a essa, dove l'odore era più intenso. Maggie pensò che Kasey volesse toccare il sangue e stava per dirle di non farlo, ma la giovane ritrasse la mano. Poi girò la testa e vide la scritta sul muro. Due parole. Un saluto agghiacciante. Kasey si portò le mani alla bocca. «Mi dispiace» disse Maggie. «Ma dirtelo al telefono non sarebbe stata la stessa cosa. È giusto che tu sappia quanto è diventata pericolosa la situazione per te.» Kasey si rimise in piedi barcollando e andò a urtare la parete della stanza. Maggie avvertì il brontolio dello stomaco della poliziotta che si rivoltava sottosopra. Kasey corse verso il bagno, ma quando raggiunse la soglia crollò in ginocchio. Il vomito spruzzò tra le sue dita serrate e finì sulle piastrelle. Cadde in avanti sulle mani, con la testa china e i capelli rossi davanti al viso. Tutto il suo corpo era scosso dai conati di vomito. Maggie si avvicinò a lei e, con delicatezza, le posò una mano sulla schiena. «Ti senti bene?» Kasey non rispose, impegnata com'era a respirare affannosamente. Si appoggiò sui tacchi e spinse la testa all'indietro, sbattendo le palpebre e fissando il soffitto. «Merda, mi dispiace» mormorò. «Non preoccuparti.» «Come siamo arrivati a questo?» domandò Kasey. «Com'è possibile che questa sia diventata la mia vita?» «Non è colpa tua.» «Devo andarmene da qui» dichiarò Kasey. Con passo malfermo si rimise in piedi barcollando. Maggie le passò un braccio intorno alla vita per sostenerla e l'aiutò a tornare verso la porta della stanza da letto, facendola girare intorno alla pozza di sangue nero e secco.

«Non voglio spaventarti» disse «ma forse allontanarsi da qui potrebbe non essere sufficiente. Per qualche oscuro motivo, è ossessionato da te. Per lui sei speciale. Abbandonare queste zone non è una garanzia che ti lasci in pace. Ovunque tu vada, guardati sempre le spalle.» Sulla porta, Kasey si fermò e riuscì a sostenersi da sola. Si avvicinò di qualche passo al muro, dove il messaggio sembrava schernirla. «Hai ragione.» Maggie colse qualcosa di inatteso negli occhi di Kasey. La paura era scomparsa, come se la donna avesse toccato il fondo e avesse capito che più in basso di così non sarebbe potuta scendere. Ora sembrava più adulta, la sua aria da ragazzina immatura era scomparsa. Sul suo volto si disegnò una furia così profonda che inquietò Maggie. «O io o lui» aggiunse Kasey. «È così che deve andare. Solo uno di noi due uscirà vivo da questa faccenda.» Stride riconobbe la Ford Taurus parcheggiata in fondo alla strada che conduceva alla casa dei Glenn. Scese dal fuoristrada e trovò Blair Rowe seduta sulla staccionata di paletti bianchi che fiancheggiava il vialetto. Picchiettava ritmicamente i tacchi delle scarpe contro il legno, come una ballerina di tip tap. Una sigaretta le pendeva dalle labbra. Quando vide Stride saltò giù e gli andò incontro. «Tenente!» chiamò. Stride si infilò le mani nelle tasche della giacca di pelle mentre la minuta giornalista si fermava, per i suoi gusti, troppo vicino a lui. «Ehi» disse, con il fiato corto. «Ero quasi certa che sarebbe venuto qui.» «E perché mai?» «Ho poggiato un orecchio a terra e l'ho sentita arrivare.» Si tolse la sigaretta di bocca e la rigirò tra le dita, spargendo cenere sulla strada. «Allora, come sta andando?» «Non pensavo che lei fosse una fumatrice, Blair.» «Non è solo grazie all'adrenalina che mi mantengo così magra» rispose lei, con un sorriso. «E poi, sono una giornalista. Dobbiamo fumare. Fa parte del personaggio. E la prima cosa che ti insegnano alla scuola di giornalismo.» Picchiettò un dito sul profilo quadrato del pacchetto di sigarette, infilato in una tasca della giacca. «Ne vuole una?» Stride l'avrebbe accettata volentieri, ma scosse il capo. «E una nocciolina tostata?» chiese, rovistando in una tasca e infilandosi una nocciolina in bocca. «Le fa mia madre, e le glassa alla cannella. Sono davvero buone.» «Sua madre è proprio una gran cuoca.» «Be', sta spesso a casa con mio figlio, e deve trovare un modo per tenersi

occupata mentre lui dorme. Anche lei è magra come uno stecco, ma siamo entrambe ottime forchette.» «Cosa vuole, Blair?» chiese alla fine Stride. Lei lasciò cadere la sigaretta a terra e si sistemò gli occhiali sul naso. «Ho saputo di Regan Conrad. È vero che Marcus Glenn è in arresto per l'omicidio?» «No.» «Davvero? Si dice che lo abbiate colto con le mani nel sacco. Qualcuno mi ha detto che Glenn ha predisposto la scena del crimine in modo da far sembrare che fosse stata opera del serial killer.» «Non mi occupo io dell'indagine, Blair» tagliò corto Stride. «Sì, questo lo so, ma so anche fare due più due. Regan è morta e voi avete trovato Marcus che rovistava tra i suoi documenti. A quanto pare lei era in possesso di qualcosa di poco pulito su Marcus e Callie.» «Abbiamo finito, Blair.» Lui la superò e percorse il vialetto circolare che conduceva alla casa dei Glenn. Blair si girò e cercò di tenere il passo di Stride, muovendo velocemente le gambe corte. Il suo alito si condensava in nuvolette di vapore, che il vento disperdeva subito. «È venuto per vedere Valerie, dico bene?» chiese Blair, ansimante. «Sa, dovrebbe ringraziarmi. Sono stata io a diffondere la notizia sulla relazione extraconiugale di Valerie. Voi della polizia non ne sapevate niente.» «Non è rilevante» sbottò Stride. Gli occhiali di Blair scivolarono per l'ennesima volta e le si fermarono sulla punta del naso, costringendola a inclinare la testa per poterlo guardare. «Sta scherzando? Andiamo, questo fornisce un movente a Marcus. E lo sappiamo entrambi. La sua bella mogliettina che si scopa il cognato? Re Marcus non accetterebbe mai una cosa del genere. E sa cosa penso? Penso che Marcus abbia costretto Regan a fare un test che ha dimostrato che non era lui il padre di Callie. Ecco cosa stava cercando tra le documentazioni cliniche. Non voleva che si sapesse che lui era al corrente della verità.» Stride si fermò e la guardò negli occhi. «Ha le prove di quanto afferma?» «Non ancora, ma le sto cercando.» «Allora le sue sono solo supposizioni.» Riprese a camminare, ma Blair gli afferrò un braccio. «Cosa avete intenzione di fare, tenente? Quando inizierete a perlustrare il cimitero?» «Cosa ha detto?» Stride era confuso. Si era allontanato dalla roulotte di Micki meno di un'ora prima, e l'unica persona alla quale aveva telefonato era stata Denise Sheridan. Blair fece un sorrisetto compiaciuto, come se potesse leggergli nel pensiero. «Comincerete stasera stessa o aspetterete domattina? Presto nevicherà e tutto si farà più complicato. Scommetto che userete le luci Klieg e

comincerete stasera stessa.» «No comment.» «Ehi, la notizia sarà trasmessa, che le piaccia o no. Tanto vale fare in modo che racconti la versione giusta. Ispezionerete il cimitero dove è sepolta la famiglia Glenn e di cui Micki Vega è la custode. Allora, cosa le ha raccontato Micki? Io l'ho detto fin dall'inizio che, probabilmente, sia lei che Marcus erano invischiati nella faccenda.» «Non le sto confermando che il cimitero verrà ispezionato» ribatté secco Stride. «Certo, prima deve parlarne con Valerie e comunicarle la brutta notizia. Ho capito. Ma io ne parlerò comunque.» «Glielo ripeto, non confermo che sia stato pianificato nulla del genere.» «Lei dice di no, ma Craig Hickey afferma il contrario, e io scommetto su Craig.» «E chi diavolo sarebbe?» chiese Stride. Blair fece spallucce. «Siccome non tarderebbe a scoprirlo da solo, tanto vale che glielo dica io. Craig possiede una grande fattoria vicino a Cohasset, e ai tempi del liceo sono stata con suo figlio Terry per un paio di anni. Ogni tanto ci vediamo ancora. Ricordi, tenente, che questa è la mia città. Conosco tutti.» «E allora?» «Allora Denise Sheridan ha chiamato Craig, Craig ha chiamato Terry e Terry ha chiamato me. Da queste parti è così che funziona. Vede, quando la polizia ha bisogno di cani va da Craig. Cani da soccorso. Cani antidroga o antibomba.» Si alzò in punta di piedi e gli sussurrò all'orecchio. «O cani per individuare un cadavere.»

39 Stride non aveva trascorso molto tempo con Valerie Glenn, ma aveva capito subito che era il tipo di donna che gli uomini amavano soccorrere. Parlarono in cucina, dove lei tagliava a dadini una cipolla gialla sopra un tagliere. Teneva la testa bassa e gli occhi socchiusi, concentrata sul suo lavoro, anche se di tanto in tanto si fermava di scatto e lanciava un'occhiata fuori dalla finestra, al buio della notte. Poi con un rapido movimento posava i suoi occhi azzurri su Stride come per dirgli: Fuori è buio. Ci sono i mostri. Proteggimi. La cipolla le faceva lacrimare gli occhi, ma Valerie non sembrava farci caso. Tagliava con precisione, come se un cubetto più grande di un altro avrebbe potuto vanificare l'armonia che cercava di infondere nel suo lavoro. Stride era quasi certo di aver intuito che tipo di persona fosse. Era una donna che, come Serena, aveva eretto molte barriere, ma che, a differenza di Serena, avrebbe voluto disperatamente che qualcuno le abbattesse. «È taciturno, tenente» rimarcò Valerie. «Quando qualcuno evita di dirmi le cose, di solito è perché sono brutte notizie.» Smise di tagliare la cipolla, e i suoi occhi lucidi incrociarono di nuovo quelli di Stride. «È di questo che si tratta?» «È ancora presto per dirlo» rispose lui, cercando di prendere tempo. Il suo lavoro lo portava a riferire in continuazione notizie spiacevoli, ma non voleva devastare quella donna. Aveva in tasca la trombetta giocattolo. Doveva mostrargliela, ed era consapevole di ciò che sarebbe successo quando lo avesse fatto. Ogni residua speranza di Valerie sarebbe andata in frantumi. Significava che le sue preghiere erano state accolte con un silenzio indifferente. Nonostante la sua facciata serena, Valerie era in bilico sull'orlo di un precipizio. «So ciò che è successo a Regan Conrad» disse lei. «Non fingerò che mi dispiaccia.» «Capisco.» «Dov'è Marcus?» gli chiese. «Lo stiamo ancora interrogando.» Lei assestò un altro colpo misurato con la lama. «Era in casa sua?» «Sì, stava rovistando tra le sue cartelle cliniche» rispose Stride. «Denise mi ha detto che, secondo voi, non è stato lui a ucciderla.» «Quanto è accaduto nella stanza da letto di Regan risale a stanotte. Marcus si trovava qui?» «Sì.» «Allora è estraneo ai fatti.»

Poi Stride aggiunse: «Lei ha idea di cosa stesse cercando tra i documenti di Regan?». Le mani della donna fecero un brusco movimento e la punta del coltello le forò un dito, da cui uscì una goccia di sangue. Lei fece una smorfia, poi si infilò la punta del dito in bocca e la succhiò. Quando lo tirò fuori, il dito riprese subito a sanguinare. «Si è fatta male?» «Niente di grave. Di solito non sono così sbadata.» Mise il dito sotto il rubinetto dell'acqua fredda, poi prese una piccola benda da un pensile. «Non ha risposto alla mia domanda» riprese Stride. «Mi scusi. No, non so proprio cosa Marcus stesse cercando.» Era una pessima bugiarda e lo sapeva benissimo, ma non l'avrebbe mai ammesso. Lo sguardo di Stride parlava da solo: Stai mentendo, e lo sappiamo entrambi, ma lei, indifferente, raccolse il coltello e quando riprese il suo lavoro, una lacrima scese a rigarle il volto. Stride non seppe dire se era provocata dalla cipolla o da una premonizione di quello che stava per udire. «Devo mostrarle una cosa» le disse. «Ah.» La sua compostezza parve incrinarsi, come se fosse sul punto di crollare da un momento all'altro. Stride infilò una mano nella tasca interna della giacca ed estrasse una busta di plastica, nella quale era conservata la trombetta azzurro pastello ritrovata da Micki nella foresta. Fece ondeggiare la busta davanti agli occhi di Valerie per permetterle di osservarla bene. «La riconosce?» Lei si piegò in avanti, confusa. «Che cos'è?» Poi la riconobbe. Capì. Il pallore pervase il suo viso, fino a un istante prima sereno. Allungò una mano per afferrare la busta, ma Stride la allontanò da lei. «Mi dispiace.» «Quando l'ha avuta?» chiese Valerie. «La riconosce?» La lacrima di poco prima fu seguita da molte altre. «Quella notte, all'ospedale, ho visto trombette del genere.» «La notte in cui è nata Callie?» Valerie non rispose. Si allontanò da lui come stordita, aprì di nuovo l'acqua e la fece scorrere sulla lama del coltello per pulirla. Usò una spugna nuova per sfregare la superficie lucida, che poi asciugò con uno strofinaccio. Poggiò il coltello accanto al tagliere di legno, lasciando uno spazio vuoto nel porta-coltelli. La cipolla era diventata un mucchietto di cubetti tutti uguali, posati al centro del tagliere. Valerie si allontanò dall'isola della cucina e andò a sedersi su una poltrona, di fianco all'elegante tavolino in vetro. «Signora Glenn?» incalzò Stride, seppur con voce pacata.

«Come ho detto a Serena, per gran parte di quella notte sono stata male ed ero stanca» disse Valerie. «Avevo perso la cognizione del tempo. Sono restata sola ad aspettare per un sacco di tempo. Ricordo di essere stata svegliata dallo strepito delle trombette. Era mezzanotte. Il corridoio era pieno di gente che rideva e si baciava. Un'infermiera entrò per augurarmi buon anno, e appoggiò una trombetta sul vassoio accanto al mio letto.» «La trombetta che le ha regalato era azzurra come questa?» «Non lo ricordo. Mi sembra di sì. Dove l'ha trovata?» «Micki Vega asserisce di averla trovata nei boschi vicino al cimitero di Sago. La notte in cui Callie è scomparsa, la madre di Micki sostiene di aver visto qualcuno nella foresta.» Valerie si cinse il corpo con le braccia e prese a dondolarsi sulla poltrona. «Oh mio Dio.» «Temo che dovremo ispezionare il cimitero.» «Ispezionarlo?» chiese lei, stordita. «Dobbiamo controllare se qualcuno è stato seppellito nella zona di bosco dove è stata ritrovata la trombetta.» «Callie» gemette Valerie. «Per favore, non pensi subito al peggio. Quell'oggetto potrebbe non significare nulla.» Valerie si coprì la bocca con entrambe le mani e non ribatté. La sua disperazione quasi spinse Stride a chinarsi su di lei e ad abbracciarla. Invece, rigido come un soldato, rimase dov'era e la lasciò sola con la sua sofferenza. «Devo farle ancora qualche domanda» disse. Valerie non reagì in alcun modo. «Ha portato una trombetta come questa a casa quando è uscita dall'ospedale?» Lei parlò da dietro le mani. «Volevo farlo.» Si asciugò gli occhi e, lentamente, abbassò le mani in grembo. «Credevo sarebbe stato bello tenerne una. Come simbolo di quella notte. Un nuovo anno, una nuova bambina e una nuova speranza di vita. Ma non era tra le cose che abbiamo riportato a casa dall'ospedale.» «Che fine aveva fatto?» «L'ho data a Marcus e l'ho pregato di fare attenzione a non perderla.» «Gli ha più chiesto dove l'avesse messa?» «Sì, settimane dopo. I primi giorni a casa ho avuto un sacco di cose da fare, Callie aveva bisogno di costanti attenzioni e io ero così stanca. Per tutto il primo mese non ho avuto il tempo di tirare il fiato. Poi ho iniziato a riordinare i ricordini della sua nascita, ed è stato allora che mi sono accorta che la trombetta non c'era.» «E Marcus cosa le ha detto in proposito?» Valerie scosse la testa. «Che l'aveva buttata via.»

40 «L'ho buttata via» disse Marcus Glenn a Serena. Erano seduti nella Lexus del chirurgo, sulla strada sterrata vicino al cimitero di Sago. La notte era illuminata da una grande varietà di luci: fanali rossi che roteavano sui tetti delle autopattuglie, torce che fendevano i boschi e i fari Klieg collocati su alti treppiedi che riflettevano la luce sulla neve. Dietro di loro, la strada era stata chiusa per tenere a freno i media. I finestrini dell'auto erano alzati e i rumori delle frenetiche attività che si svolgevano nei pressi giungeva loro in modo ovattato. «Quando l'ha fatto?» chiese Serena. «Non lo ricordo.» «L'ha portata a casa dall'ospedale o l'ha lasciata nel suo studio? O non l'ha mai presa?» Glenn fece spallucce. «Non ne ho idea. Era uno stupido giocattolo da due soldi.» «Ricorda di che colore era?» chiese Serena. «Secondo lei è un dettaglio a cui possa aver prestato attenzione? Avrebbe potuto essere viola, rosa, rossa, blu o qualunque altro colore.» Dopo le lunghe ore trascorse con la polizia, la pazienza di Glenn cominciava a esaurirsi. Avevano trascorso tutto il pomeriggio e la prima parte della serata nella casa di Regan Conrad, nella zona rurale a nord. Quando Serena stava per rilasciarlo, Stride l'aveva chiamata per informarla della scoperta fatta da Micki Vega e dell'imminente perlustrazione a Sago. Così anche lei e Glenn si erano recati sul posto, accompagnati da una pattuglia della polizia di Duluth, sul tratto deserto della Highway 2. Glenn non era per nulla soddisfatto di quella situazione. «Non capisco perché mi abbiate portato qui» aggiunse. «Non ho altro da dirvi.» «Sto cercando di capire come ha fatto questa trombetta a finire nel bosco vicino alle tombe della sua famiglia dalla stanza d'ospedale di sua moglie» disse Serena. «Ah, ma per favore. Quanti milioni di giocattoli escono ogni anno dalle fabbriche cinesi? Non potete pensare che ci sia un collegamento tra qualcosa che Micki sostiene di aver trovato nei boschi e un oggetto ricordo avuto da mia moglie quando ha partorito Callie.» «Sua moglie ha soffiato nella trombetta?» domandò Serena. «Cosa?» «Ricorda se quella notte, all'ospedale, l'ha usata?» «No, non lo ricordo. Tutti avevano quegli affari.» «Se lo ha fatto, potrebbe aver lasciato tracce di dna sul bocchino di plastica. Eseguiremo dei test.»

«Fantastico, mi sembra un'ottima idea. Se troverete del dna, sono certo che corrisponderà a quello di qualcun altro.» «Come mai ne è così sicuro?» chiese Serena. Glenn diede un pugno sul cruscotto, esasperato. «Perché la trombetta di Valerie l'ho buttata via! Pensa che qualcuno sia venuto a rovistare tra la mia spazzatura per recuperare quell'aggeggio, per poi seppellirlo nel bosco undici mesi dopo?» Serena studiò l'atteggiamento nervoso del chirurgo. Nonostante il sedile su cui l'uomo era seduto fosse tirato indietro completamente, lo spazio nella berlina risultava comunque esiguo per le sue lunghe gambe. «Le coincidenze continuano a radunarsi intorno a lei, dottor Glenn» commentò Serena. «Cosa intende dire?» «Ipotizziamo che lei abbia ragione e che questa trombetta non sia quella che è stata data a Valerie in ospedale. Non le sembra strano che Micki Vega trovi proprio un oggetto del genere nei pressi del cimitero dove lei si reca in visita ogni mese? Due giorni dopo la scomparsa di sua figlia? Che lo trovi nel punto esatto dove la madre di Micki, la notte in cui è scomparsa Callie, ha visto qualcuno aggirarsi tra gli alberi? Che il giocattolo abbandonato in quel punto sia identico a quello che Valerie le aveva chiesto di conservare come ricordo della nascita di vostra figlia?» Glenn guardò oltre il parabrezza in direzione degli agenti di polizia, sparsi a piccoli gruppi sul campo erboso. Le sue dita lunghe e affusolate si strinsero intorno al volante, come se fosse a una gara di corsa. «Concordo con lei» disse con voce calma e ragionevole. «Davvero?» «Sì, ha ragione. Non sembra proprio trattarsi di una coincidenza.» «Allora come lo spiega?» chiese Serena. Glenn si girò per guardarla in faccia. «Mi vengono in mente tre possibili spiegazioni. La prima è che si tratti davvero di una coincidenza e che io sia molto sfortunato. Cose strane di questo genere possono accadere.» «E le altre?» «La seconda possibilità è che Micki stia mentendo. Forse non ha trovato la trombetta nel bosco, o magari non l'ha trovata quando sostiene lei. Ma, personalmente, credo che Micki abbia detto la verità.» «Davvero?» Glenn annuì. «Dubito che voglia danneggiarmi di proposito.» «Se però lei se la portava a letto, l'ha messa incinta poi lei ha perso il bambino, magari la faccenda le ha dato alla testa.» «Non sono mai stato a letto con Micki, non ero io il padre di suo figlio. Se volete riesumare il cadavere del bambino per dimostrarlo, procuratevi un mandato del tribunale e avrete le vostre conferme. Ma farete solo la figura di stupidi senza cuore. Signorina Dial, ammetto di avere un sacco di difetti

in ogni aspetto della mia vita tranne in ciò che riguarda la professione di medico. Ho aiutato Micki perché sono un dottore e lei aveva bisogno di assistenza. Non c'è altro.» «Ha detto che le spiegazioni plausibili erano tre» riprese Serena. «Qual è la terza?» «La terza è che qualcuno stia cercando di coinvolgermi nella scomparsa di Callie.» «Vuole dire che qualcuno ha messo di proposito la trombetta in quel punto?» «Esatto.» Serena sapeva bene quale avrebbe dovuto essere la prossima, ovvia domanda, ma non era ancora pronta a farla e la lasciò sospesa tra loro due. Si chiese se Glenn l'avrebbe apprezzata. Cosa troveremo nei boschi? Serena preferì scegliere un'altra strada. «Cos'ha provato quando ha saputo che sua moglie la tradiva?» gli chiese. «Visto che non posso definirmi un marito modello, non mi sarei certo dovuto lamentare.» «Può darsi. Tuttavia è tipico del maschio giustificarsi riducendo un proprio tradimento a una semplice avventura sessuale, ma guai se la compagna alza anche solo gli occhi su un altro uomo.» Glenn fece spallucce. «Non sto dicendo che mi abbia fatto piacere.» «Quando ha scoperto che andava a letto con Tom?» domandò Serena. L'uomo impiegò più tempo del dovuto per rispondere. «Quando lo ha scoperto lei, signorina Dial» disse infine. «Quando Blair Rowe lo ha spifferato al mondo intero.» «Fino ad allora non ne sapeva niente?» «No.» «Ha impiegato un bel po' di tempo per decidere come rispondere. Cercava di immaginare se abbiamo un modo per dimostrare che in realtà lei era a conoscenza della relazione tra Valerie e Tom?» Glenn non rispose. «Mi auguro per lei che di questo non ne abbia parlato con nessuno» riprese Serena «e che non abbia fatto pedinare sua moglie da un investigatore privato, perché, in caso contrario, lo verremo a sapere.» «Mi fidavo di mia moglie» ribatté Glenn. «Aveva motivo di dubitare che Callie fosse davvero sua figlia?» «Assolutamente no.» «E adesso?» «Ora non posso esserne più così sicuro» ammise. «E in passato non le era mai venuto un dubbio? Erano tre anni che cercavate di concepire un figlio. Sicuramente avrà trovato strano che Valerie non riuscisse a rimanere incinta e poi, all'improvviso, fosse successo.» «Non è affatto strano. Sono un medico. La gente pensa che il concepimento

sia qualcosa di programmabile, ma la gente si sbaglia. Può succedere dopo un unico rapporto sessuale, oppure possono volerci mesi o anni, o magari può non capitare mai, anche se entrambi i partner sono in perfetta salute. È inutile cercare di superare Dio in astuzia, signorina Dial.» «Pensavo che la maggior parte dei chirurghi fosse convinta di essere Dio.» «La sicurezza e un ego ipertrofico ti aiutano a essere un medico migliore, ma bisogna anche rendersi conto che non si hanno tutte le risposte.» «Lei invece sembra che le abbia proprio tutte» commentò Serena. «Vorrei che fosse così.» «Mi dica una cosa. Perché lei ha tradito Valerie? È bella. È intelligente. Le vuole bene. Non le bastava?» «Valerie non c'entra niente. E non significa che io non la ami.» «Il suo disinteresse l'ha condotta a tentare il suicidio.» Serena si pentì subito di aver pronunciato quelle parole, ma lui non reagì con rabbia. Anzi, parlò in tono rassegnato. «Pensa davvero che il suo tentativo di suicidio sia dipeso dal mio comportamento? Valerie ha sofferto di depressione per gran parte della sua vita. La sua è una vera e propria patologia cronica.» «Sta dicendo che lei, almeno in parte, non si sente responsabile della sua condizione mentale?» «Sto dicendo che non sono stato io a renderla la persona che è. Forse non sono un cuore d'oro, ma questo Valerie lo sapeva fin dall'inizio. Non le faccio mancare nulla, compresi tutti i soldi che mai riuscirebbe a spendere. Un sacco di donne metterebbero la firma per un matrimonio del genere.» Serena non aveva nessuna intenzione di affrontare quell'argomento. La visione distorta dell'amore e del matrimonio che aveva quell'uomo non aveva importanza. Era ora di tornare alla domanda che avrebbe dovuto fare da subito. «Cosa troveremo in quei boschi?» chiese. Lui non rispose. «Mi ha sentito? Stanno iniziando le ricerche. Cosa troveremo?» «Non ne ho idea.» Serena indicò un punto oltre il finestrino. Dall'altra parte della strada sterrata, lontano dal cimitero, un uomo basso e ormai calvo serrava con forza il guinzaglio teso di un beagle. Le orecchie del cane ballonzolavano mentre procedeva con il naso immerso nell'erba alta. L'animale non vedeva l'ora di correre. Annusare. Cacciare. «Vede quel cane?» chiese Serena. «È addestrato per individuare i gas emessi dalla carne umana in decomposizione.» Glenn fissò il beagle. «Una cosa terribile da insegnare a un animale, non crede?» «Cosa troverà?» «Non lo so, posso solo ipotizzare.» «Allora lo faccia.» Il volto di Glenn era stranamente passivo, come se l'uomo

non fosse minimamente interessato a tutto ciò che stava accadendo intorno a lui. «Ipotizzo che troverete Callie.» Serena sentì il cuore batterle più forte. «Pensa che Callie sia sepolta da quelle parti?» «Lei no? Non è per questo che siamo qui?» «L'ha portata lei qui?» chiese Serena. «No» rispose Glenn con un sospiro rauco. «Ma se qualcuno sta cercando di incastrarmi, se qualcuno ha messo lì quella trombetta affinché voi la trovaste, la conclusione non può che essere una sola.» «E cioè, che sua figlia sia morta.» «È quello che temo. Comunque, lo scopriremo presto.» «È tutto quello che ha da dire?» «Cos'altro c'è da aggiungere?» "Che questo ti fa soffrire?" pensò Serena. "Che da aggiungere ci sono le lacrime e la disperazione. Che da aggiungere c'è un terribile e irreparabile senso di perdita." «Chi potrebbe essere il responsabile?» domandò la donna, evitando di dire: A parte lei. «Regan, direi.» «Aveva un alibi» gli ricordò Serena. «Magari era in combutta con qualcuno.» Serena cercò di interpretare l'espressione sul volto del chirurgo, ma era impenetrabile. «Probabilmente non mi crederà, dottor Glenn, ma io l'ho sempre difesa. Sono l'unica che, fin dall'inizio, non è mai stata convinta che lei sia coinvolto nella scomparsa di sua figlia.» «E ora, invece, cosa pensa?» chiese il medico. «Penso che lei è l'uomo più glaciale che io abbia mai conosciuto» rispose Serena. «E gli uomini come lei sono privi di coscienza. Nessuna empatia. Sono capaci di fare cose terribili.» «Oppure sono capaci di salvare delle vite su un tavolo operatorio» rispose Glenn con una scrollata di spalle. Fuori dall'auto, il beagle prese ad abbaiare con impazienza. Serena vide Stride avvicinarsi all'uomo che teneva il cane al guinzaglio e indicare un punto sul lato settentrionale del bosco. Quando si girò verso la Lexus, Stride incrociò lo sguardo di Serena e subito distolse gli occhi. Accanto a lui c'era Micki Vega. Anche lei vide la Lexus, e Serena vide i suoi occhi riempirsi di costernazione quando la ragazza riconobbe Marcus Glenn. A bocca spalancata fece un passo verso la macchina, come a volergli correre incontro. Serena pensò che sarebbe scoppiata a piangere. Ad alta voce, anche se le sue parole furono quasi totalmente assorbite dai vetri dell'auto, Micki disse: «Mi dispiace». Marcus Glenn sorrise debolmente alla ragazza mentre le sue labbra si muovevano a formulare tre parole: «Va tutto bene».

Micki si girò dall'altra parte e chinò il capo. «Sono in arresto?» chiese Glenn. «No.» «Allora me ne torno a casa.»

41 Valerie era seduta sul pavimento. Le sue dita giocherellavano con il tappeto bianco. A circa tre metri di distanza, un fuoco bruciava nel camino di pietra che occupava gran parte della parete. Era un camino a gas, con ceppi finti che bruciavano in eterno senza crepitare né scoppiettare. Il calore di quelle fiamme artificiali riscaldava a malapena la stanza piena di spifferi e una spalla della donna. Valerie aveva freddo. Pensò al falò dietro la casa di Denise e Tom, accanto al fiume. Ogni anno, a capodanno, Tom accendeva un fuoco che continuava a bruciare per ore, intorno al quale i bambini potevano urlare e giocare liberamente, e gli adulti bere birra e vino. Prima di sposarsi con Marcus, per Valerie era una tradizione unirsi a loro nel periodo delle feste. Si sedeva silenziosa davanti al fuoco e invidiava sua sorella per tutto ciò che aveva. Un marito. Dei figli. Delle responsabilità. La felicità. Ogni anno, si era sentita come un'intrusa al banchetto di qualcun altro, ma nonostante questo, quei momenti ora le mancavano. Le mancava quella semplicità. Ogni Natale con Marcus era lussuoso ma privo di sentimento. Un anno erano andati in Italia. L'anno dopo avevano fatto una crociera nei Caraibi. Un'altra volta avevano organizzato un banchetto per lo staff dell'ospedale, con un servizio di catering a base di tacchino arrosto, elaborati canapè e costosi vini della California. Nonostante fossero nella sua casa, Valerie si era sentita come un'intrusa che guardava la festa da fuori. Quell'anno aveva pensato che, con Callie tra le braccia, sarebbe stato diverso. Con lei, avrebbe potuto dar vita a una nuova tradizione. Ma adesso non sarebbe più successo. Non sarebbe andata così. Sarebbe stata sola come un'isola in mezzo a un lago. Valerie sapeva cosa stavano cercando. Erano nel bosco, con le torce, i cani e le macchine fotografiche. Non le avrebbero riportato a casa Callie, rosea e felice, che ridacchiava mentre sua madre rideva e piangeva di gioia. L'avrebbero chiamata per darle notizie diverse. Il telefono avrebbe squillato nel cuore della notte, rompendo il silenzio. All'altro capo della linea ci sarebbero stati Denise o Serena o Stride. Le loro voci avrebbero avuto il tono basso e minaccioso della tragedia, e le avrebbero espresso tutto il loro dispiacere. Marcus l'avrebbe abbracciata e il suo tentativo di consolarla sarebbe risultato falso come i ceppi che si rifiutavano di bruciare nel camino. Marcus. Lei per caso ha idea di cosa stesse cercando suo marito tra la documentazione di Regan?

Valerie fissò la busta dell'ospedale. L'aveva tirata fuori dal cassetto della biancheria e l'aveva portata con sé nel soggiorno, senza aprirla. Accanto a sé aveva un paio di grosse forbici argentate. Avrebbe potuto tagliare la linguetta che teneva chiusa la busta e vedere cosa conteneva, oppure tagliuzzare tutto in minuscoli pezzetti e gettarli nel fuoco, dove si sarebbero dissolti diventando le uniche vere ceneri mai state in quel camino. Avrebbe potuto scoprire la verità o cancellarla per sempre. Pensò: "È questo che cercavi in casa di Regan, vero? Dimmelo, Marcus. È questo che volevi tanto disperatamente trovare? Cosa c'è qui dentro di così prezioso? Cosa non vuoi che io sappia? Quando Regan aveva scoperto che io non sapevo nulla era scoppiata a ridere. Aveva pensato che fossi una sciocca. E forse lo sono davvero. Sei stato tu a uccidere Regan, Marcus? Questo segreto è così terribile che hai dovuto metterla a tacere? Ma sei arrivato troppo tardi." Valerie doveva solo prendere la busta, ma non riusciva a trovare nemmeno la forza per toccarla. Invece, prese le forbici. Erano massicce e affilate. Le rigirò tra le mani e allargò le lame scintillanti, che formarono la sua iniziale, V. Quelle lame le ricordarono anche altre cose. Somigliavano alla bocca di un pesce, boccheggiante sul ponte di una nave nel tentativo di trovare dell'ossigeno. Erano gambe spalancate, che invitavano un uomo a fare l'amore. Con l'altra mano prese la busta per i bordi e la sollevò in aria. La tenne stretta. Ne valutò il peso. Non riusciva a immaginare come un foglio di carta potesse cambiare una vita o valerne il prezzo. Certi peccati, certi segreti, è meglio non conoscerli. Voleva ridurla in coriandoli, buttarla nel fuoco, fingere, dimenticare, soffrire, andare avanti. Invece no. Doveva sapere. Brandì le forbici e con un unico movimento tagliò un lato della busta, la premette a formare un'apertura ovale e lasciò che il foglio al suo interno le scivolasse sulla mano. Era piegato. Conteneva la verità. Lo aprì, lo girò e cercò di capire cosa avesse tra le mani. Era una fotocopia di scarsa qualità, difficoltosa da leggere. Un modulo medico, pieno di codici e redatto nella tipica calligrafia incomprensibile di un medico. La prima cosa che vide e che riuscì a capire fu una data, riportata in un angolo, risalente a quasi cinque anni prima. Il foglio originale era vecchio. Com'era possibile che, oggi, qualcosa di così datato potesse avere per lei una qualche rilevanza? Cinque anni sono un sacco di tempo. Cinque anni prima lei era seduta in quella stessa stanza, alle due del mattino, con il fuoco artificiale che brillava e suo marito addormentato al piano di sopra, e si era versata nel palmo della mano un numero spropositato di aspirine. Si accorse che la data indicava lo stesso mese. Il mese dell'angoscia e della rinascita.

La data del modulo era successiva di due settimane a quella del suo tentativo di suicidio. Studiò i codici, la calligrafia, le note a margine, e cercò di interpretare quei dati, come fossero scritti in una lingua straniera. Poi una parola sembrò spiccare sulle altre. Era un termine medico che non capiva bene, ma non importava, perché ormai aveva capito. Anche le altre parole iniziarono ad avere senso. I tempi, le implicazioni, tutto era diventato chiaro. Ora sapeva come un foglio di carta poteva riscrivere la storia. La colpì come uno tsunami. Spalancò la bocca in un urlo silenzioso, talmente profondo e angosciato da non potersi concretizzare in alcun suono. Il modulo le cadde di mano. Cadde lentamente, di lato, come una statua che precipitava sul tappeto. Si portò le ginocchia al petto e le cinse con le braccia. Il mondo esterno era svanito. I gemiti le perforavano le orecchie, ma erano solo dentro la sua testa. Le lacrime le gonfiarono gli occhi, ma senza scendere lungo le guance. Come una bambina, prese a dondolarsi avanti e indietro, nel tentativo di cancellare ciò che aveva appreso e annegando nel suo dolore. Iniziò a nevicare. I fiocchi scendevano tra l'intrico di rami come palline d'argento in una partita di Pachinko e si posavano, sciogliendosi, sulla pelle di Stride. Il manto bianco sul fondo della foresta era ancora sottile e a chiazze, ma con il passare delle ore notturne si sarebbe ispessito. Nonostante i decenni trascorsi nel Minnesota, Stride si stupiva ancora di come la neve fosse così inconsistente eppure in grado di formare cumuli che potevano bloccare il mondo intero. Novembre, sul calendario, era un mese autunnale, ma lì significava già inverno. Si fermarono in mezzo al bosco. Erano a una trentina di metri dal pendio del cimitero, e Stride vedeva le luci girevoli delle auto della polizia parcheggiate sulla strada sterrata oltre le tombe. Diresse il raggio della torcia davanti a sé, in mezzo alla neve che scendeva fitta, e Migdalia Vega scrutò gli alberi, come a disagio. Poi puntò il cono di luce verso terra e lo mosse avanti e indietro. «Manca molto?» chiese a Micki. «Mi sembra tutto uguale» rispose lei. «Cinque minuti fa, ha detto che eravamo quasi arrivati.» «Adesso non ne sono più tanto sicura.» Accanto a loro, Craig Hickey tirò il guinzaglio del suo beagle, che era impegnato, con la lingua a penzoloni, ad assaggiare i fiocchi di neve. Il tozzo addestratore indossava guanti pesanti e una cuffia di lana rossa calata sulle orecchie. Il vento gelido gli aveva reso paonazzo il volto. «Che notte di merda» commentò Hickey, pestando i piedi sugli aghi di pino

sparsi a terra. «Proprio non capisco perché non possiamo aspettare domani.» «Di sicuro domattina non farà più caldo» rispose Stride «e ci saranno anche trenta centimetri di neve a ricoprire tutta la zona.» Hickey ebbe un brivido. Masticava gomma e muoveva la mandibola in continuazione. «Al mio Cujo la neve gli fa un baffo. Percepisce gli odori attraverso qualsiasi cosa.» Stride non perse tempo a chiedersi perché aveva chiamato Cujo un cane addestrato a ritrovare i cadaveri. Voleva procedere alla svelta con l'ispezione, in parte per motivi pratici (non voleva che la scena del crimine fosse coperta da uno spesso strato di neve) e in parte per motivi umani: sapeva che quella sarebbe stata la notte più lunga nella vita di Valerie Glenn. «Forse ha ragione lui» disse Micki. «Al buio mi sembra tutto diverso. Forse dovremmo riprovare domani.» «A quel punto la neve avrà già cancellato ogni punto di riferimento.» «Be', non sono più certa di riuscire a ritrovare il posto.» Stride vide che la ragazza aveva assunto un'espressione imbronciata. Fece un cenno con il capo a Craig Hickey. «Lasciaci soli un minuto, ti spiace?» «Certo, fate pure.» Hickey tirò Cujo oltre il groviglio di arbusti tra gli abeti e lasciò Stride e Micki da soli. «Cosa succede?» le chiese Stride. Micki abbassò lo sguardo. «Niente. Provi lei a cercare qualcosa in questi boschi di notte. Mi sono persa. Abbiamo girato in tondo.» «Poco fa ha visto Marcus Glenn» disse Stride. «E ora ha cambiato idea e non vuole più aiutarci.» Lei si sfregò il naso gocciolante con il dorso del guanto. «So come funziona. Se troverete qualcosa lo arresterete subito.» «Non necessariamente.» «Certo, come se potessi fidarmi di tutto quello che lei mi dice. Ho un freddo cane. Andiamocene e riproviamo domattina. Mi sono persa.» Stride scosse la testa e fiocchi di neve schizzarono via dai suoi capelli umidi. «L'ho guardata in faccia pochi minuti fa, Micki. Lei sa esattamente dove si trova. Conosce ogni centimetro di questi boschi come le sue tasche. Siamo vicini? È questo il punto?» «Pensavo di sì, ma adesso non ne sono più sicura.» Stride spense la torcia facendoli piombare nel buio. Alle sue spalle riusciva a scorgere, poco distanti, le luci della roulotte di Micki. «Lei ha capito subito le implicazioni di quella trombetta non appena l'ha trovata, vero? Sapeva cosa significava. Io penso che lei abbia memorizzato a dovere i punti di riferimento della foresta. Anzi, forse ha anche lasciato un indizio che la aiutasse a ritrovare il punto preciso. Sapeva che prima o poi saremmo venuti qui.» Micki non rispose. «Mi dica una cosa» riprese Stride. «Si reca mai nel luogo dove è sepolto il

suo bambino?» «Sì, certo. Molto spesso.» «È una fortuna che lei sappia dov'è» disse, accendendo di nuovo la torcia e puntandola dritta davanti a loro. «Ora immagini come sarebbe non saperlo.» Micki imprecò sottovoce. «Se glielo dico, dopo mi lascerà andare?» «D'accordo.» Gli occhi di Micki seguirono il raggio della torcia, poi lei indicò un punto tra gli alberi. «Da quella parte c'è un gruppo di quattro betulle. Circa sei metri più a nord c'è un vecchio pino dal tronco spesso, sul quale ho inciso una croce. Glielo dovevo.» «Dove ha trovato la trombetta?» «Il pino è sul bordo di una piccola radura. L'ho trovata proprio al centro della radura. Come se qualcuno l'avesse messa lì di proposito» Stride chiamò Craig Hickey con un fischio. L'uomo li raggiunse con Cujo al guinzaglio. «Mi segua» ordinò. Fece strada, con Hickey che lo seguiva a corta distanza. Micki rimase dov'era e lasciò che i due uomini si allontanassero. Le quattro betulle davanti a loro erano cresciute da un singolo tronco e si piegavano in direzioni diverse. Stride, prendendo il cimitero come punto di riferimento, stabilì che il nord era proprio davanti a loro. Procedette lentamente, e a ogni passo illuminava il terreno con la luce della torcia. Sul morbido letto di aghi di pino era impossibile trovare impronte. Vide un mucchietto nero di escrementi di animali, pigne secche e un barattolo arrugginito di caffè. Il pino solitario si trovava esattamente dove aveva indicato Migdalia. Cespugli fitti e spinosi lo cingevano come un muro protettivo. Stride si accovacciò davanti al tronco e individuò la piccola croce, circa sette centimetri per sette, incisa nella corteccia con un coltellino da tasca. «Lì» disse, indicando un punto tra i cespugli. Hickey liberò Cujo, che schizzò in mezzo gli arbusti e scomparve. Stride udì il rumore frenetico delle sue zampe. «Come sapremo se trova qualcosa?» chiese Stride. «Lo vedrà» rispose Hickey. Stride, immobile accanto al pino, osservava la piccola radura piatta che si apriva oltre i cespugli. La sua torcia illuminò Cujo, il naso premuto a terra, impegnato ad annusare il letto di aghi di pino. Il cane sembrava concentrato ed eccitato. Correva avanti e indietro, una scia indistinta di pelo bianco e marrone, poi tornava sempre al centro della radura e con la zampa grattava il terreno. Qualunque odore provenisse da quel punto, il cane spinse il muso nel terreno per percepirlo meglio. «Aspetti» disse Hickey.

Improvvisamente Cujo si bloccò, poi si accovacciò sulle zampe posteriori in mezzo alla radura e starnutì. Puntò il muso verso il cielo e, con la stessa sofferenza di un lupo smarritosi dal branco, cominciò a ululare.

42 Nel seminterrato umido, Kasey richiuse l'ennesimo scatolone. Indossava calzettoni di lana, che non impedivano al gelo del pavimento di cemento di farsi strada fino ai suoi piedi. Mentre prendeva i libri dagli scaffali di metallo, si accorse di una chiazza di muffa nera che si era allargata sul muro, simile a un ragno. Non l'aveva mai notata prima di allora e si chiese con orrore se c'era il rischio che le spore avessero fluttuato nelle tubature per tutto l'anno, infestando i loro polmoni. Fissò la macchia come se si aspettasse di vederla mutare davanti ai suoi occhi. Il telefono le vibrò in tasca, facendola sobbalzare. Rispose, ma all'altro capo della linea ci fu solo un lungo momento di silenzio. Poi una voce sussurrò: «Ciao, Kasey». Lei serrò i pugni. Riconobbe la voce. Era lui. «Hai ricevuto il mio messaggio?» chiese. Istintivamente, gli occhi di Kasey saettarono in giro per la cantina, e si rese conto che era sola. L'unico movimento che vide fu quello di un topo che zampettò lungo la cornice delle fondamenta e andò a infilarsi in un buco nella coibentazione rosa. Fu percorsa da un brivido. «Cosa vuoi?» chiese. Lui attese parecchio prima di rispondere. «Te ne stai andando.» «Proprio così.» «Ma la nostra partita non è ancora finita, Kasey.» «Sì, invece. La finisco io. Non gioco più.» Ancora silenzio. Kasey fissò le macchie di ruggine sotto il lavandino e pregò che l'uomo riagganciasse. «Finisce quando lo decido io, Kasey.» «Fottiti» sibilò lei, e chiuse la comunicazione. Era conscia che la sua spavalderia era solo apparente. Pochi secondi dopo, il telefono vibrò nuovamente nel palmo della sua mano, simile al gemito di un insetto. Avrebbe voluto lasciarlo squillare, ma non ne fu capace. «Lasciami in pace» ribadì. «Abbiamo superato da un pezzo quella fase. Lo sappiamo entrambi. Ora si tratta di te, non di me.» «Cosa vuoi?» ripetè Kasey. «Voglio incontrarti.» «Sei pazzo.» «Parli come se avessi una scelta, Kasey. Invece non ce l'hai. E anche questo lo sappiamo entrambi.» Lei chiuse gli occhi e li strinse con forza. Sotto le

palpebre, sentì le lacrime spingere per uscire. «Partiamo stasera. Andremo lontano. Non ci troverai mai.» «Vi troverò eccome. Troverò anche tuo marito. E anche tuo figlio.» «Lasciali in pace!» La voce le uscì in un urlo strozzato e penoso. «Mi piacerebbe. Questa è una faccenda che riguarda solo noi due. Ma se tu te ne vai non mi lascerai scelta. Dovrò fartela pagare e dovrò farla pagare anche alla tua famiglia, finché di voi non rimarrà più niente. E tu non vuoi che questo accada.» «Oh mio Dio. Ma perché fai tutto questo?» «Sei stata tu a intrometterti nel mio gioco.» «È stato un incidente. Non avrei mai voluto che succedesse. Non volevo avere niente a che fare con te.» Pianse, e le guance le si tinsero di rosso. «Ti prego.» «Dovrai incontrarmi. Subito. Tra un quarto d'ora.» «Non verrò.» «Sì che verrai, invece. Farai qualunque cosa pur di salvare la tua famiglia. Ti conosco.» Kasey non disse nulla. Il suo cervello ragionò freneticamente per trovare una via di fuga, ma si trovò davanti un muro invalicabile. «Un quarto d'ora» ripetè lui. «Nel posto dove tutto è iniziato tra noi. Vieni sola.» «No.» «Se non verrai, Kasey, li ammazzerò in modi orribili. E tu sai bene che lo farò. Se fai tardi o se sento puzza di sbirri, sappi che quando tornerai a casa loro non ci saranno più. Ti conviene sbrigarti.» Riagganciò. Kasey si poggiò il palmo della mano sul petto. Era in iperventilazione. Vide un coltello da caccia arrugginito poggiato su uno scaffale e pensò di togliersi la vita. Tagliarsi i polsi e morire dissanguata sul pavimento di cemento. Ma così non avrebbe salvato la sua famiglia. Se lei fosse morta, quell'uomo avrebbe comunque dato la caccia ai suoi cari. Kasey lo sapeva. Prese il coltello e lo infilò nella tasca posteriore dei pantaloni. Un quarto d'ora. Non aveva molto tempo. Si asciugò il volto e cercò di calmarsi. Se l'assassino voleva uno scontro, lei lo avrebbe accontentato. Solo uno di loro ne sarebbe uscito vivo, e non sarebbe stato lui. Su una cosa quell'uomo aveva ragione: lei avrebbe fatto di tutto pur di salvare la propria famiglia. Kasey salì le scale della cantina. Bruce era in cucina e la guardava con aria interrogativa. «Sbaglio o ti ho sentita parlare con qualcuno?» le chiese. «Era Guppo. Vuole che vada sulla scena del crimine al vecchio caseificio.» «Perché?» Lei fece spallucce. «Non riesce a capire una cosa e gli serve subito il mio aiuto. Sa che partiamo domattina.»

«Non sei costretta ad andare. Ora è un problema loro, non ti riguarda più.» «Finché quell'uomo è in libertà, continua a essere un problema anche mio» disse Kasey senza riflettere, con la voce resa stridula dalla rabbia e dalla frustrazione. «È un nostro problema.» Bruce la fissò. «Qualcosa non va?» «Niente. È tutto a posto. Ora devo andare. Non starò via molto.» Il suo cappotto era appoggiato sullo schienale del divano. Lo indossò e chiuse la lampo fino al collo. Bruce la guardava, e Kasey sperò che non riuscisse a leggerle il pensiero. Le aveva detto che lei era l'unica persona al mondo di cui si fidava ma, a volte, questo era un fardello che lei non riusciva a sostenere. Lui era il suo opposto in molte cose, e questo era uno dei motivi per cui andavano così d'accordo. Non sarebbe mai riuscita a sopravvivere all'anno appena trascorso, se non ci fosse stato lui. «Vedrai, quando saremo in mezzo al deserto andrà tutto meglio» la rassicurò. Kasey annuì, mentre indossava i guanti e cercava di non piangere. Il deserto le sembrava una specie di sogno. Si chiese se sarebbe mai riuscita a vederlo. Aprì la porta d'ingresso e il vento soffiò nell'atrio, portando con sé una nuvola di neve. Prima di uscire, si girò e carezzò con una mano guantata la folta barba di Bruce. «Mi dispiace» gli disse. «Per cosa?» «Per aver messo entrambi in questa situazione.» «Non è colpa tua. Non devi biasimare te stessa.» «Non posso evitarlo.» Lo baciò e chiuse la porta prima che le sue emozioni la tradissero. Si diresse verso il garage, stringendosi nel cappotto per proteggersi dall'aria gelida. Il vento sferzava i punti scoperti della sua pelle e i fiocchi di neve le finivano negli occhi, accecandola. Spostava lo sguardo in continuazione, studiando ogni angolo e ogni ombra, chiedendosi se lui era lì. Aprì la porta del garage e si assicurò che non ci fosse nessuno prima di salire a bordo. Mise la sicura agli sportelli e non attese che il motore si scaldasse prima di partire a razzo verso la statale. Sulla strada Kasey era sola. La neve scendeva copiosa davanti ai fanali e rendeva difficile la guida. Ricordò quando, appena una settimana prima, aveva percorso quello stesso tratto solitario, immerso nella nebbia. Ora, invece, sapeva dove stava andando. Quella notte, la pistola sul sedile accanto era stata fonte di conforto, ma ormai l'aveva già riconsegnata alla centrale. Mise il coltello nel punto dove era stata la pistola e ne osservò la lama smussata, ma non le trasmise alcun senso di sicurezza. Impiegò meno di dieci minuti, zigzagando lungo la Highway 43, per raggiungere il caseificio abbandonato su Strand Avenue. Arrivò da nord-est, oltrepassò la casa della donna morta nel campo e superò il ponte sopra le

rapide del fiume Lester. Il suo corpo sentì di nuovo la gelida morsa dell'acqua, il modo in cui le aveva fatto perdere l'equilibrio. Ricordò le grida e il rumore degli spari della sua pistola e il corpo senza vita della donna, dopo che l'uomo era fuggito. Svoltò nel vialetto vicino alla bianca struttura del caseificio. Non c'era nessuna macchina parcheggiata, e nessuno in vista. Prima di scendere dall'auto afferrò il coltello e lo nascose in tasca. Il vento ululava. Barcollò per un istante, il cervello inondato dalle immagini del fatidico incontro di una settimana prima. Da allora aveva passato le giornate cercando di dimenticare, e ora eccola di nuovo qui, nell'ultimo posto sulla terra dove avrebbe voluto essere. Kasey si infilò le mani in tasca e strinse gli occhi per vedere meglio attraverso la neve che cadeva fitta. Mentre avanzava verso il caseificio, notò macchie d'acqua sui blocchi di cemento e sulle finestre congelate e rotte. Se avesse guardato da vicino, forse avrebbe potuto vedere persino le orme dei propri passi risalire dal fiume e serpeggiare tra i pini, per poi arrivare sul retro dell'edificio, fino al punto dove si era nascosta. Girò l'angolo e si trovò sull'ampio prato imbiancato di neve. Ebbe una visione della donna stesa lì, sul campo. Susan Krauss. Kasey poteva scappare quanto voleva, ma non sarebbe mai riuscita a lasciarsela alle spalle. Solo che quella non era una visione. Era reale. Kasey aguzzò la vista per vedere oltre la neve che infuriava obliqua sul prato, e nel punto esatto dov'era morta la donna ora c'era un altro corpo. «Oh, no.» Corse, scivolando, verso l'ennesima vittima, girata a faccia in giù e mezza sepolta dalla neve che le si accumulava addosso. Era il corpo di una donna. Era nuda, la pelle esangue e bluastra, come se si trovasse lì da ore. Aveva la testa girata da una parte, e al posto della faccia era rimasta un'orrenda poltiglia di ossa e cervello. Kasey fece un balzo all'indietro. Era Regan Conrad. Quando si girò lui era già alle sue spalle, vicino alla parete del caseificio a circa tre metri di distanza, e sorrideva. «Ero certo che saresti venuta.» La sua voce era roca e tranquilla. Stavolta non indossava una maschera e Kasey potè vederlo in volto. La guancia destra era punteggiata da cicatrici dell'acne. Aveva capelli neri tagliati corti. I suoi occhi scuri si fissarono su di lei come quelli di un rettile, e la studiarono per quello che era: una preda. Kasey comprese perché l'uomo non si era preoccupato di nascondere il proprio volto e non si fece illusioni. Questa era la fine. Urlò per cercare aiuto, ma il sibilo della tempesta ridusse il suo grido a un

sussurro. «Non ti sentirà nessuno» disse l'uomo. «Qui fuori ci siamo solo noi due.» «Pazzo figlio di puttana» lo insultò lei, nel tentativo di mascherare il proprio terrore. «Questa storia non deve finire male per forza, Kasey. Il tuo posto è accanto a un uomo come me, non a un panzone gonfio di birra come tuo marito. Vieni con me.» «Vai al diavolo.» «Pensaci. Anche se scapperai non sarai mai al sicuro. Io, invece, posso proteggerti.» Kasey si sentì umiliata e furiosa. Avrebbe voluto piangere e, nello stesso tempo, farlo a pezzi. Quello era l'uomo che si era frapposto tra lei e il resto della sua vita. Tra lei e tutti i suoi piani per il futuro. «Adoro vedere la tua mente arrovellarsi, Kasey» le disse. «Te l'ho già detto. So esattamente chi sei.» «E se ora ti ammazzassi?» Lui sorrise e fece un passo avanti, avvicinandosi a lei di pochi centimetri. «Allora saresti libera, vero?» «Avvicinati ancora e ti faccio saltare la testa» lo avvisò lei. «Se tu avessi una pistola, sarei già morto.» Lei indietreggiò di un passo e lui ne fece uno verso di lei, riducendo ulteriormente la distanza che li separava, ma rimanendo ancora fuori dalla portata di Kasey. Lei era consapevole della stazza e della forza del suo avversario. Gli occhi dell'uomo non la persero di vista nemmeno per un istante. Lui lasciava ciondolare le mani guantate lungo i fianchi e lei aveva afferrato il coltello nascosto nella tasca, le dita ben strette intorno al manico. «Cosa vuoi da me? Uccidermi come hai fatto con le altre?» «Le altre non significavano nulla» disse. «Con te è diverso, Kasey. Per te ho progetti speciali.» «Quali progetti?» «Presto lo scoprirai.» Lei fissò quegli occhi scuri e il suo cuore si riempì di sete di sangue. C'era solo una cosa da fare. Attaccare. Combattere. Uccidere. «Perché lo fai?» gli chiese. «Chi sei?» «La storia della mia vita non ha importanza. Io sono quello che sono e tu sei quella che sei, ecco l'unica cosa che importa.» Lentamente, Kasey indietreggiò di un altro passo, ma stavolta caricò il peso sulla gamba destra, pronta a scattare verso di lui. «Non merito di morire. Non ora. Non così.» «Non lo meritavano nemmeno Susan Krauss e le altre. Ma i nostri cammini si sono incrociati. La vita è fatta di simili casualità.» Poi aggiunse: «O forse è stato Dio a mandarti da me. Che ne pensi?».

«Non esiste nessun Dio» rispose Kasey. Si scagliò in avanti con un grido, agitando il coltello davanti a sé, e lo immaginò squarciare la pelle dell'uomo. Immaginò di sentirlo affondare nella sua carne, nelle sue ossa, nei suoi organi. Era così vicina. Ma fu tutto inutile. Lui la aspettava, come se fosse nella sua mente e riuscisse a leggere i suoi pensieri. Quando lei si allungò per colpirlo, l'uomo girò una mano e rivelò un dispositivo nero poco più grande di un cellulare. Kasey fece appena in tempo a vederlo e a capire di cosa si trattava, prima di udire lo sfrigolio dell'elettricità. Il coltello le cadde dalle dita irrigidite. Nel millisecondo successivo, il dolore le esplose in tutto il corpo, sconvolgendo le terminazioni nervose e facendola crollare a terra. Il suo corpo divenne di fuoco. Si contorse nella neve, agonizzante, il cervello ridotto in mille frammenti fluttuanti. Lui le era sopra, sfuocato e vorticante. Kasey avrebbe voluto resistere, ma si sentiva impotente come una bambola di pezza, con le braccia inutilizzabili e le gambe piene di segatura. Era diventata il suo giocattolo. Adesso era sua. Era stata sua fin da quella notte nebbiosa. Kasey sentì che la voltava. Sentì la neve e il terriccio entrarle in bocca. Sentì che le sue mani venivano legate. Sentì la sua carezza sui capelli e il suo sussurro nell'orecchio: «Ragazza cattiva». L'uomo si alzò, sollevò il suo corpo rigido tra le braccia e la trasportò sul terreno nevoso.

Parte Quarta TRA LE ROVINE 43 Valerie udì il rumore della porta d'ingresso che veniva aperta. Non si era più mossa dal punto in cui era seduta, vicino al fuoco. Le lacrime le si erano asciugate sulle guance. Udì i passi di suo marito sul pavimento dell'ingresso e ogni battito dei tacchi era come un ago infilato nel palmo della sua mano. Lui non la chiamò. Girò per casa come un fantasma, minaccioso e invisibile. Lei aveva paura di trovarselo davanti. Era come se, per tutti quegli anni, Marcus si fosse nascosto dietro una facciata di comodo e solo ora Valerie avesse visto il suo vero volto. Il rumore dei passi si interruppe. Valerie alzò lo sguardo e sussultò, trovando l'alta sagoma di suo marito che riempiva lo spazio della porta. Odorava di freddo e di sudore. Aveva l'abito stropicciato e la cravatta allentata. La sua mascella squadrata era resa più scura da un'intera giornata senza essersi sbarbato. «Ho bisogno di un drink» esordì. Raggiunse il mobile bar e lasciò cadere del ghiaccio in un bicchiere tozzo. Si versò due dita di whisky, lo trangugiò in un sorso e digrignò i denti quando sentì il calore dell'alcol pervadergli il petto, poi si versò quello che era rimasto nella bottiglia. «Hai saputo?» chiese. Quando lei non rispose, aggiunse: «Mi dispiace». Non si mosse per andare a consolarla. Grazie a Dio. Valerie non avrebbe potuto sopportare il contatto fisico. Marcus sorseggiò il suo drink e ignorò il silenzio ostile della moglie. Nella testa di Valerie vorticavano un sacco di parole, ma nessuna sembrava quella giusta da dire. Era come ritrovarsi bloccati sotto la pioggia, e accorgersi che era un vero e proprio diluvio. «È tutto qui ciò che hai da dire?» gli chiese. «Che ti dispiace?» «Cos'altro vuoi da me? Al momento è tutto quello che posso darti.» Era vero. Fin dall'inizio, Marcus non aveva mai avuto nulla da darle. «Voglio che tu mi dica cos'hai fatto» riprese Valerie. «Voglio sentirlo dalle tue labbra.» Lui posò il bicchiere e scosse la testa. «Oh, cazzo, non ti ci mettere anche tu.» Valerie si alzò dal pavimento. «Mi sono sempre chiesta come un padre potesse odiare la propria figlia. Interrogavo il mio cuore, in segreto. Non ne ho mai parlato con nessuno, nemmeno quando vedevo come ti comportavi con lei. Denise mi diceva spesso che aveva paura, che non avrei dovuto lasciare Callie da sola con te. Io ribattevo che era fuori di testa, ma

da qualche parte dentro di me mi ponevo comunque delle domande.» «Stronzate. Io non ho mai provato quello che dici tu. Ti hanno fatto il lavaggio del cervello.» «Hai ragione, è così. E sei stato tu a farmelo. Per anni ho indossato il paraocchi. Non permettevo a quel pensiero di entrarmi nel cervello. Lo scacciavo via, con la forza della razionalità. Anche quando Callie è scomparsa, mi sono convinta che tutti si sbagliassero ad accusare te. Che Blair Rowe si sbagliasse. Che le tue amanti si sbagliassero. Che tu non avevi detto veramente quanto sostenevano, che avresti preferito che Callie non fosse mai nata. Non tu. Non potevi pensare una cosa del genere. Nessun uomo potrebbe pensarla.» «Valerie, non lo intendevo in quel senso.» «E come lo intendevi, allora?» «Ero arrabbiato. Mi stavo solo sfogando, tutto qui.» «Arrabbiato? Con una neonata?» «Con te.» Lei si irrigidì. «Va bene, me lo merito. Ti ho tradito.» «Oh, Cristo, non è questo il punto. Io non sono un santo, né ho mai finto di esserlo. Cazzo, se Tom Sheridan ti rendeva felice tanto meglio, perché io non ho mai capito come riuscirci. Ti ho dato tutti i soldi che potevi desiderare. Eri invidiata da ogni donna della città. Ma non ti bastava. Ti aggiravi per questa casa come un guscio vuoto. Una volta alla settimana allargavi le gambe e mi facevi entrare dentro di te come fosse un favore. Dai, Marcus, sbrigati così posso tornare a piangermi addosso, sembravi dirmi. Sì, ero incazzato e lo sono ancora.» «Avresti potuto chiedere il divorzio e trovarti un'altra» ribatté lei. «Perché hai dovuto sfogare la tua rabbia su Callie?» «Non l'ho fatto. E non voglio il divorzio.» «Aspettavi che non ci fossi?» chiese lei. «Ti serviva una sera in cui non fossi a casa?» «Sei fuori di te. Vado a prenderti un calmante.» «Bravo, drogami. Ecco la soluzione giusta.» Lui non rispose. «Almeno dimmi che è stato un incidente» sussurrò Valerie. «Dimmi che non l'hai fatto a sangue freddo.» Lui si girò verso la porta, amareggiato. «Sono stanco di tutte queste accuse. Vado a letto.» «No, tu stai qui e mi ascolti!» gridò Valerie. Lui si bloccò e, lentamente, tornò a girarsi. Valerie attraversò la stanza, il volto contorto in un'espressione di rabbia. «Mi hai mai amata, Marcus? Dio, ma guarda a chi lo sto chiedendo. Tu sei capace di amare solo te stesso. Sapevo che eri un egoista, ma non pensavo che ti saresti potuto spingere a tanto affinché non ti facessi mancare le mie attenzioni. Era questo il problema? Eri invidioso del fatto che Callie riuscisse a rendermi felice e tu no?»

«Sì, in parte è vero» ammise lui. «Ma non significa nulla.» «Povero Marcus. La sua bella mogliettina non gli dedicava abbastanza attenzioni. Era troppo occupata ad amare la figlia di un altro uomo.» Lui aprì la bocca per dire qualcosa, ma la richiuse subito. Si massaggiò il mento con la punta delle dita e quando parlò, lo fece con tono pacato. «Mi stai dicendo che Callie non è mia?» «Non mentirmi fingendo di non saperlo» sibilò Valerie. «Non provarci neppure.» Lui fece spallucce. «Avere dei dubbi non equivale a saperlo. Ci abbiamo messo tre anni e quando ci siamo riusciti tu avevi una relazione. È una domanda che ti sarai posta anche tu.» Tre anni. Valerie sentì quelle parole e fu come essere tagliata da un coltello. Lui, invece, ne parlava in modo del tutto disinvolto. Tre anni. Come se fossero un periodo di tempo qualunque, non l'inferno che lei aveva dovuto subire, mese dopo mese, precipitando sempre più nell'oscurità di un pozzo senza fondo. Il pozzo che lui aveva scavato per lei. Consapevolmente. Con malvagia premeditazione. «Tre anni.» Stavolta fu lei a dirlo, la voce resa rauca dal dolore. «Tre anni, Marcus. Hai visto tu stesso cosa ho passato.» Gli occhi di Marcus divennero nervosi e ferini. Per la prima volta, nella sua mente si fece largo l'idea che Valerie sapesse. «Hai accettato di avere un bambino per rendermi felice» riprese lei. «Per tenermi buona. Per lanciare un osso alla tua povera moglie tormentata con tendenze suicide.» «L'avevo messo in chiaro fin dall'inizio che non volevo figli, e tu avevi detto che ti stava bene» ribatté lui. Valerie scosse la testa. «A quel tempo ne ero convinta. Ma credevo anche che avrei vissuto con un marito, non con un robot. Poi hai accettato di avere un figlio. Non ti sei reso conto dell'effetto che ha avuto su di me, e che, per la prima volta nella mia vita, ero davvero felice? Era chiederti troppo che anche tu condividessi questa gioia?» «Ho già risposto a queste obiezioni» rispose lui, senza troppa convinzione. «Smettila! Smettila! Mio Dio, come hai potuto? Come hai potuto farmi una cosa simile? Come hai potuto permettere che per tre anni mi guardassi come si guarda una macchina rotta? Ero riuscita a pormi un obiettivo nella vita, e pensavo che non sarei mai riuscita a raggiungerlo. Pensavo che Dio mi stesse punendo, Marcus. Invece eri tu.» «Valerie, non dire così.» «No? Non dire cosa? Non vuoi che pronunci quella parola?» Lei girò sui tacchi e prese il modulo medico dal punto in cui era rimasto, sul pavimento. Il modulo che le aveva dato Regan. «Voglio essere sicura di usare la parola giusta. I dottori hanno una parola specifica per tutto. Deferentectomia. È questa, vero? È così che dovrei

chiamarla?» Lui chiuse gli occhi. «Sì, è questa.» «Vedi, io l'avrei definita semplicemente vasectomia, Marcus, ma io non sono un medico come te.» Gli agitò il foglio davanti alla faccia. «È questo che cercavi tra le cartelle di Regan, vero? È questo che non volevi venisse trovato. Due settimane dopo che io avevo rischiato di morire, Marcus. Due settimane dopo aver accettato di fare un bambino, sei andato a farti una vasectomia. Per assicurarti che non succedesse mai. E poi mi hai lasciato sperare e pregare per tre anni interi che il bambino arrivasse. Mi hai lasciato incolpare me stessa e Dio perché non riuscivo a restare incinta.» Lui scosse la testa. «Merda» mormorò. Alzò lo sguardo verso il soffitto e aggiunse: «Regan, brutta stronza». «Sei stato tu a ucciderla? Volevi mantenere il segreto al punto da fare una cosa simile?» «No.» «Lei lo ha sempre saputo? Le hai detto la verità su Callie?» «Lo sapeva» ammise Marcus. «Dio, chissà quanto avete riso alle mie spalle. O era Regan che rideva di te? Tu avevi congegnato il piano perfetto, poi è arrivato un altro uomo e mi ha messa incinta. E tu non potevi dire nulla. Sai qual è l'ironia? Che io non avevo mai dubitato che fosse figlia tua. Non importava se andavo a letto con Tom. Ho sempre creduto che Callie fosse tua. Pensavo che, finalmente, avremmo avuto qualcosa che avevamo fatto insieme.» «Avrei potuto chiedere il divorzio» disse lui «ma non l'ho fatto. Ti ho permesso di farla entrare nella nostra vita. L'ho accettata come fosse stata nostra.» «Non fingere di esserti sforzato, Marcus. Non fingere di aver investito anche un solo grammo di compassione nella mia piccolina. Avrei preferito che mi avessi detto la verità e ci avessi buttate entrambe in mezzo a una strada. Invece, me l'hai portata via. L'unica cosa che avessi veramente amato in vita mia. L'hai portata via.» «Ora basta. Questa storia finisce qui» disse lui, uscendo dalla stanza. Valerie lo guardò allontanarsi e comprese che Marcus aveva ragione. Era finita. La lunga caduta finiva lì. Ora non c'era altro da fare che attendere, nel silenzio e nel senso di colpa. Aspettare che le ricerche terminassero e che la foresta rivelasse i propri segreti. Aspettare che la notte trascorresse. Aspettare di sentire lo squillo del telefono.

44 Kasey si svegliò con il naso colmo del lezzo della morte. Le sembrava di stare annegando in una pozza fetida. Della carne morta marciva poco distante ed emanava una puzza densa come nebbia. Tentò di respirare solo con la bocca, ma il fetore continuò a salirle nel naso, provocandole una contrazione della gola. Tossì della bile e grumi aspri le gorgogliarono fuori dalle labbra. Quando aprì gli occhi si trovò nell'oscurità totale. Rimase in ascolto e udì il rumore costante della pioggia cadere dal soffitto e raccogliersi in pozze. Sul pavimento correvano avanti e indietro degli animali, con le unghie che grattavano il metallo e la pietra. Ratti. Non riusciva a immaginare quanti potessero essere. Faceva un freddo terribile. Non tirava un filo di vento, ma l'aria gelida le faceva formicolare la pelle e la intorpidiva. I muscoli le dolevano ancora a causa della scarica della pistola stordente. Kasey cercò di muoversi e si accorse di non poterlo fare. Aveva le braccia tese sopra la testa, ammanettate a una sorta di tubatura. Nei punti in cui i polsi scoperti toccavano il metallo, il gelo era tale da risultare rovente. Si trovava in piedi su una instabile piattaforma di legno, che ondeggiava a ogni suo sussulto. Aveva le caviglie immobilizzate con del nastro adesivo. «Dove sono?» chiese, quasi gridando. La voce le echeggiò nelle orecchie in modo strano. Non ebbe risposta. Girò la testa, e avvertì intorno alla gola la stretta di una corda ruvida e pesante che le impediva di respirare e rischiava di strozzarla. Lottò contro i legacci e la piattaforma sotto di lei si mosse. La voce dell'uomo sembrava provenire dall'oscurità stessa. Troppo alta e troppo vicina. «Attenta, Kasey.» Lei si morse un labbro e tacque. Al freddo e al dolore si mescolò la paura. Pensò di implorare, ma era certa che sarebbe stato inutile. «Dove sono?» ripetè. «Nella mia scuola» rispose lui, ancora invisibile, anche se era a una manciata di centimetri da lei. «È qui che le persone vengono a imparare la triste verità sulla vita.» Una luce si accese proprio di fronte a lei, accecandola. Strinse gli occhi a fessura, poi li chiuse e cerchi arancioni presero a danzarle dietro le palpebre. La luminosità si smorzò. Quando aprì di nuovo gli occhi, vide che la torcia era puntata verso il soffitto. Riusciva a intravedere scorci della stanza intorno a lei. Era una sorta di edificio in rovina, pieno di macchinari arrugginiti e di rottami. In vari punti di quelle fragili pareti si erano formati dei buchi e l'acqua colava dal soffitto come

attraverso un colino. «Che razza di posto è questo?» «Molto tempo fa, era una classe. Ecco cosa succede quando alla natura e ai vandali vengono lasciati alcuni decenni per riprendersi un edificio.» Kasey cercò di alzare la testa per guardarsi attorno, ma la corda intorno al collo glielo impedì. Non riusciva a vedersi le mani. In basso, riusciva a malapena a scorgere i suoi piedi, legati con nastro adesivo grigio. L'uomo le aveva tolto le scarpe e i calzini. Era in piedi, in posizione precaria, su un tavolo circolare largo circa un metro e mezzo, e le dita dei piedi sporgevano oltre il bordo arrotondato. Lui attese che lei finisse di valutare la propria condizione. Era in piedi sopra una lunga scrivania in legno di noce, sulla quale camminava tranquillamente da un lato all'altro, evitando i buchi che erano andati formandosi nel legno marcio. Lei cercò di cancellare il terrore dal proprio volto e di concentrarsi sul suo rapitore con rabbia e disprezzo. Quando lui le si fermò davanti, Kasey inspirò e gli sputò. «Sei uno stronzo pazzoide» disse con voce rauca. La corda che le stringeva il collo le rendeva difficile parlare. Lui si pulì la guancia. «Potresti dare a molte donne una bella lezione sul coraggio, Kasey. Ecco perché ti ho messo dietro la cattedra, così gli studenti potranno alzare lo sguardo verso di te.» Con un rapido movimento del polso, puntò il raggio della torcia alle sue spalle e verso il pavimento. Kasey gemette quando il fascio di luce illuminò quattro corpi, tre donne e un uomo, legati a seggiole per gli scolari. Le donne erano nude. Erano morte da giorni, e ciò che rimaneva della loro pelle aveva ceduto dentro lo scheletro e ora i loro corpi apparivano incavati e orribilmente biancastri. Avevano gli occhi aperti, fissi in uno sguardo di vuoto orrore. Due dozzine di ratti neri, intenti a divorare le ossa sporgenti e la carne decomposta, schizzarono via spaventati non appena la luce si posò su di loro. Quando Kasey, istintivamente, si contorse in un vano tentativo di fuga, il tavolo ondeggiò sotto di lei. «Non è una buona idea, Kasey.» Lui si avvicinò e le carezzò il volto con il dorso della mano, costringendo Kasey ad arretrare nel tentativo di sottrarsi a quella carezza. «Sei ammanettata a un vecchio tubo dell'acqua» spiegò l'uomo. «È corroso e piuttosto fragile.» Toccò la corda che le cingeva il collo. «Questo cappio, invece, è legato a uno dei travetti sul soffitto.» «Brutto bastardo. Che intenzioni hai?» «Te l'ho detto che ho dei progetti speciali per te.» «Quali?» «Sei in una scuola, Kasey. Dovrai superare una prova.»

«Lasciami andare. Non farmi questo, non uccidermi.» Con un dito, l'uomo giocherellò con i bottoni della camicia di Kasey, aprì i primi tre e separò i lembi di stoffa. Premette una mano sul petto della donna e assaporò i movimenti che lei faceva respirando. «Forse non dovrò ucciderti. Forse potremo andarcene insieme. Noi due. Verresti con me?» Lei fece una smorfia. «Dove?» «Lontano.» «E se accettassi?» «Stai dicendo che accetteresti di rimanere con me?» «In cambio della mia vita?» balbettò. «Sì.» Lentamente, lui finì di sbottonarle la camicetta aprendola del tutto. «Dimentichi che non puoi mentirmi. Io sono proprio come te.» «Allora, se non mi credi, perché mi fai queste domande?» «Perché mi piace sentirti dire di sì. Perché adoro quando complotti qualcosa. Cosa faresti se andassimo via insieme? Trameresti per uccidermi? Passeresti ogni minuto ad aspettare l'occasione giusta?» «Sai che lo farei» sbottò Kasey. Quella farsa non aveva alcun senso. Non sarebbe riuscita a cambiare il risultato finale. «Credo tu sia la donna più eccitante che io abbia mai incontrato» disse lui, in tono ammirato. Appoggiò la torcia accanto ai suoi piedi e da una tasca estrasse il coltello di Kasey. Lei inspirò rumorosamente quando l'uomo tese la sottile striscia di elastico alla base del reggiseno. Poi le sfiorò la pelle con la punta arrugginita del coltello, tagliò l'elastico e scostò le coppe del reggiseno, mettendole i seni allo scoperto. I capezzoli, a causa del freddo, si inturgidirono e si indurirono come due sassolini. Lui si piegò in avanti poi, a turno, li prese in bocca e li succhiò. Kasey sentì il suo seno rilasciare del latte. L'uomo si leccò le labbra, gustando il sapore della donna. «Ho sentito che allattare eccita le donne. È vero?» Si raddrizzò e le massaggiò i seni con entrambe le mani. «Non toccarmi.» «Non posso evitare di farlo» rispose l'uomo. Allungò una mano verso la cintura dei jeans di Kasey e li slacciò. Lei serrò la mascella, infuriata, quando sentì che le abbassava la zip, poi strinse con forza le ginocchia, per impedirgli di spogliarla. Lui prestava attenzione ai suoi vestiti, non a lei, e non appena Kasey vide un'occasione la colse al volo. Sollevò le ginocchia, facendo leva sulla tubatura sopra di sé, che gemette e cedette di qualche centimetro, tendendo la corda che le cingeva il collo e rischiando di strangolarla.

Le ginocchia centrarono il rapitore proprio sotto la mascella e lo scagliarono all'indietro. L'uomo cadde dal lungo tavolo e atterrò con uno schianto sul pavimento. La torcia rotolò lontana e si spense. Kasey bloccò il tavolo con i piedi prima che scivolasse via, lasciandola senza un punto di appoggio. Poi, con un rantolo, si appoggiò alla superficie piatta e abbandonò la presa sulla tubatura. La corda che le serrava la gola rimase tesa e Kasey fece del proprio meglio per riuscire a inspirare. Intanto, sentì l'uomo muoversi sotto di lei, con movimenti lenti e sofferti. Si stava alzando. Zoppicava. Rovistava tra le macerie alla ricerca della torcia. Il tono provocante era scomparso dalla sua voce, ora restava solo la crudeltà. La cosa non la turbò minimamente. La luce tornò, ma più soffusa di prima. Lui si arrampicò di nuovo sul tavolo e lei potè vederlo in faccia. Dalla bocca gli gocciolava del sangue, e i suoi occhi erano due puntini di furia fredda. Caricò il colpo e con il braccio destro le assestò un forte pugno all'addome. Lei si piegò in due per il dolore e la corda si strinse ancora di più, mentre l'aria sgusciava fuori dai suoi polmoni. Ogni respiro con cui cercava di incamerare ossigeno era sempre più faticoso. Kasey temette di soffocare e strozzarsi con il suo stesso vomito. «Ti avrei lasciata qui, in attesa del mio ritorno» le disse. «Ma ora non più. Ora le difficoltà della prova sono notevolmente aumentate.» Estrasse una chiave da una tasca, allungò una mano e la liberò dalle manette, che caddero tintinnando sul pavimento. Kasey lasciò cadere le braccia lungo i fianchi. Non aveva idea di quali fossero le intenzioni di quell'uomo. Perché la stava liberando? Poi scese dalla scrivania, e quando la allontanò da lei, Kasey capì quali fossero le sue intenzioni. Ora si trovava in piedi sostenuta solo dal tavolo instabile. La corda le premeva sul collo e la costringeva a spingere la testa in avanti. Se il tavolo fosse scivolato via, si sarebbe impiccata. Lui si toccò il sangue sulla faccia, respirando affannosamente. «Quanto a lungo riuscirai a reggerti alla tubatura, Kasey? Cinque minuti? Un quarto d'ora?» Lei non rispose. «Ora devo andare, ma tornerò presto. Riuscirai a reggerti fino ad allora? O ti arrenderai e morirai? Ti sto dando una scelta, Kasey, ma ricorda: se fallirai questa prova la tua famiglia morirà. Capisco che possa non piacerti, ma queste sono le condizioni. Capito?» Lei non disse nulla. «Hai capito?» ripetè lui. «Sì» rispose con voce rantolante. «Bene. Così va meglio. Ora tieni duro.» Kasey aveva già intuito cosa sarebbe successo. Squadrò attentamente l'uomo, mantenendo le braccia distese lungo i fianchi, quasi a volerlo sfidare. Voleva che il sangue le scorresse negli arti il più a lungo possibile per

accumulare forze. Solo quando lo vide avvicinarsi, con il volto cupo e minaccioso, sollevò le braccia e si aggrappò al tubo. Il metallo gelido bruciava come fuoco e aggrapparsi a esso era come afferrare qualcosa di rovente. Ma doveva farlo. Lui le tolse il tavolo da sotto i piedi. Le gambe di Kasey ciondolarono a mezz'aria. Ora tutto dipendeva dalla presa sulla tubatura. «Se riuscirai a sopravvivere per i prossimi minuti, poi tutto sarà in discesa» le disse, carezzandole la pelle nuda dello stomaco, mentre lei si contorceva sospesa sopra il pavimento. «Mentre io sono via, voglio che ti prepari, perché la tua famiglia conta su di te. Vedi, presto ti porterò una persona, Kasey. Una nuova studentessa per la nostra classe. E per superare la prova non dovrai fare altro che... ucciderla per me.»

45 Serena scivolò nell'auto di pattuglia accanto a Denise Sheridan, che tese una sigaretta fuori dal finestrino del conducente e scrollò la cenere a terra. Quando Denise non fumava, si infilava in bocca le dita e si mangiava le unghie. Rimasero sedute in silenzio nell'auto parcheggiata sullo sterrato vicino al cimitero. A una cinquantina di metri da loro, luci luminose splendevano come piccoli soli bianchi in mezzo agli alberi. I tecnici della Scientifica si muovevano nell'intrico di piante, portando con sé buste di plastica. Era ormai passata un'ora da quando avevano iniziato a scavare e a perlustrare la foresta, cercando ciò che poteva essere sepolto sotto quel terreno indurito dal freddo. «Non avrei mai voluto arrivare a questo» disse Serena. La sorella di Valerie sospirò. Il suo volto era teso per la rabbia e la rassegnazione. «Sapevo che prima o poi saremmo finite in un posto del genere.» Un posto del genere. Un posto dove dissotterrare i morti. Serena era felice di non essere nel bosco insieme agli altri. Non era sicura che sarebbe riuscita a sopportare il momento in cui le squadre avessero trovato ciò che cercavano. Quello era un caso in cui non sarebbe riuscita a spegnere le proprie emozioni solo girando un interruttore. Aveva sacrificato il proprio distacco avvicinandosi troppo a Callie e a Valerie. «È sempre meglio che restare nel dubbio» disse Serena. Denise fece spallucce. «Se non lo sai, puoi continuare a sperare.» Attesero, mentre la neve si raccoglieva sul parabrezza ricoprendolo con un velo bagnato. Quando la visibilità si fu ridotta a zero, Denise attivò i tergicristalli, che spazzarono via la neve e tracciarono un arco pulito. All'interno, il calore che fuoriusciva dai bocchettoni manteneva caldo l'abitacolo. «Come stai?» chiese Serena. Denise non rispose, mordendosi le unghie con più energia. «Scusa» si affrettò a dire Serena. «Pessimo argomento.» «Già.» «Ti va di parlarne?» Denise la guardò come se fosse una pazza, poi fece spallucce. Forse parlare di qualcosa, di qualsiasi cosa, sarebbe stato meglio che rimanere sedute in silenzio mentre le pale rivoltavano il terreno. «Non pensavo che una bomba sarebbe esplosa proprio nella mia vita» rispose Denise. «E ora che succederà?» Denise prese un pacchetto di sigarette dalla tasca, lo guardò accigliata e lo ripose. «Quando si è sposati da tanto tempo come lo siamo io e Tom, il divorzio non è una scelta facile, a prescindere da tutte le scocciature di ordine pratico che comporta, a cominciare dai bambini. D'altra parte non posso

nemmeno starmene con le mani in mano. Certe donne sono capaci di mettersi i paraocchi e adattarsi a un matrimonio di merda. Io no.» «E Valerie?» chiese Serena. «Se nel bosco troveranno Callie, avrà bisogno di tutto il tuo sostegno.» «Dovrà chiederlo a qualcun altro, non a me.» Serena esitò. «Si troverà da sola.» «Mi stai facendo la predica?» ribatté Denise, infastidita. «No, ma Callie è tutto il suo mondo.» Denise tirò fuori una fotografia da una tasca e Serena vide che era la foto di Callie diffusa in tutto il paese. «Cosa salta in testa alle mogli degli stronzi? Si convincono che fare un figlio possa risolvere tutti i loro problemi. Come se fosse una specie di cura miracolosa. Valerie avrebbe dovuto chiedergli il divorzio, non una figlia.» Serena non rispose. «Non fraintendermi» aggiunse Denise. «Sto malissimo per quanto è successo a Callie.» «Lo so. Non sei brava a nasconderlo come pensi.» Denise si accigliò e ripose la fotografia. «Visto che metti il naso nei miei segreti, che mi dici di te? Come va tra te e Stride?» La domanda colse Serena con la guardia abbassata. «Cosa intendi dire?» «Oh, non fare la finta tonta. Si vede subito che voi due avete dei problemi.» Serena, lì per lì, pensò di inventarsi una scusa, ma sentì il bisogno di ammetterlo a voce alta. «È andato a letto con Maggie.» Denise non sembrò sorpresa. «Be', erano anni che ci giravano intorno. E ora cosa pensi di fare?» «Sono nella tua stessa situazione, non ne ho la minima idea. Ma, almeno, noi non abbiamo bambini di cui preoccuparci. Immagino che, in questa situazione, per me sarebbe più facile lasciarlo.» «Pensi che tra voi sarebbe stato diverso se aveste avuto un figlio? Ti sbagli.» «Forse mi chiedo se io sarei stata diversa.» Denise si girò verso Serena e le puntò contro un dito. «Non è un proiettile magico, Serena. Il momento in cui ti senti più vulnerabile è proprio quando hai un bambino. Se non stai attenta, il senso di responsabilità può ucciderti. Se dovesse succedere qualcosa al tuo bambino, potresti impazzire.» Tornò a girarsi verso il parabrezza, ora coperto di condensa. «Oh, cazzo.» Anche Serena guardò in quella direzione. Vide Stride dirigersi verso di loro in mezzo alla neve, il volto stanco e cupo. Nonostante il freddo teneva le maniche sollevate, e le braccia nude erano sporche di terra. Si fermò davanti alla luce dei fanali. Entrambe le donne scesero dall'auto e gli andarono incontro. Serena vide la mascella di Denise tremare. In quel momento, non era più una poliziotta,

ma una sorella e una zia, e non voleva ricevere la brutta notizia. E neanche Serena lo voleva. Aveva saputo fin dall'inizio che le probabilità non erano a favore di un lieto fine. Non era così che di solito si chiudevano i casi di scomparsa dei bambini? Speravi in un miracolo, ma alla fine dovevi farti forza davanti alla cruda realtà. La maggior parte dei bambini scomparsi non tornavano a casa. La maggior parte dei bambini scomparsi non sopravvivevano. Il volto di Stride era madido di sudore. Si asciugò la fronte, lasciandovi sopra una striscia di fango. I folti capelli erano fradici e appiattiti. Non le fece attendere. «Abbiamo trovato il corpo di un bambino» annunciò. Denise si girò di scatto, sferrò un calcio con la punta dello stivale al copertone della sua auto, poi picchiò entrambi i pugni sul cofano. «Porca puttana!» «Denise, aspetta» disse Stride, ma Denise sembrò non sentirlo. Continuò a colpire la macchina con forza, tanto che Serena temette che si sarebbe rotta le ossa delle mani. Le lacrime le sgorgarono dagli occhi e le rigarono il volto in solchi scintillanti. Aspettarsi una cosa non bastava. Un conto era immaginare la verità e un altro era sentirsela dire. Un conto era essere infuriata con Valerie e un altro era scoprire che la figlia di sua sorella era morta. «Denise, aspetta» chiamò Stride. Serena guardò il suo volto. Dietro il dolore che segnava, il volto del suo compagno, trasparivano altre emozioni. Qualunque cosa fosse successa, non era quella che tutti si aspettavano. C'era dell'altro. «Ascoltami, non si tratta di Callie» disse. Denise girò la testa di scatto. «Cosa?» «Il corpo che abbiamo rinvenuto non è quello di Callie.» Denise si portò le mani alla bocca. «Oh, mio Dio, sei sicuro? Come puoi esserne sicuro?» «Non è una bambina» rispose Stride. «Il corpo sepolto nel bosco è quello di un maschietto.»

46 Valerie era in piedi sulla soglia della camera da letto. Incorniciata dalla luce che proveniva dal corridoio alle sue spalle» osservava Marcus che, sdraiato sul letto a pancia in su, dormiva completamente rilassato. Guardò suo marito e si chiese come potesse dormire così tranquillamente mentre degli uomini erano intenti a cercare il corpo di Callie sepolto in un bosco, mentre la sua piccola era sola e al gelo. Conosceva già la risposta. Callie non era mai stata sua figlia. Era un'estranea che viveva in casa sua. La figlia di qualcun altro. Il frutto della relazione di sua moglie con un altro uomo. Lui aveva saputo la verità fin dall'inizio. «Davvero avresti preferito che non fosse mai nata?» chiese. Lui continuò a dormire, senza rispondere. Si avvicinò al letto e lo guardò. Era un bell'uomo: atletico, forte, attraente. Si chiese se Marcus dormisse davvero o se stesse solo fingendo. Una parte di lei avrebbe voluto gridare e fare un gran baccano, per costringerlo ad accorgersi della sua presenza, ma non lo fece. Ormai avevano superato quella fase. Erano giunti oltre ogni possibilità di recupero. Valerie si spogliò, raggiunse il bagno principale e si chiuse la porta alle spalle. Le piastrelle di marmo erano fredde sotto i suoi piedi scalzi. Fece scorrere l'acqua della doccia e, mentre aspettava che si scaldasse, studiò il riflesso del suo corpo nudo nello specchio a figura intera. Tutti le dicevano che era molto bella, ma sarebbero rimasti stupiti se avessero saputo quanto lei detestasse il suo corpo. Non potevano vedere che un capezzolo bruno era leggermente più grosso dell'altro. Che le sue ginocchia erano imperfette. Che il suo stomaco era una costellazione di pallidi nei. Si mise sotto il getto dell'acqua, che scese sulla sua testa come pioggia, poi attraverso i suoi capelli biondi e le sue spalle e i suoi seni e tra le sue gambe e sui suoi piedi per poi sparire, vorticando, nello scarico. Valerie non si mosse e non si lavò con il sapone o con lo shampoo. Rimase in piedi con gli occhi chiusi, le braccia distese lungo i fianchi e la faccia sotto il getto d'acqua. La sua pelle diventò ancora più rosea e pulita. Rimase lì immobile così a lungo che l'acqua calda si esaurì e divenne fredda. Tremante, uscì dalla doccia sul tappetino da bagno, dove si asciugò tutto il corpo ma lasciò bagnati i capelli. Tornò in camera da letto e fissò Marcus, senza provare nulla. Si vestì, ma non per andare a letto, bensì per la giornata successiva, la giornata in cui sarebbe stata finalmente libera. Aveva fame, così scese al piano di sotto. Le parve strano che in un momento come quello il cibo fosse una priorità ma, dopotutto, erano ore che non metteva qualcosa sotto i denti. Accese la luce della cucina e prese una piccola scodella da uno dei pensili. Dentro al frigo trovò un gambo di

sedano, un grappolo d'uva verde, un avocado, una mela, un limone e uno yogurt. Li prese tutti e li mise sul bancone. «Questa si chiama insalata Waldorf» disse a sua figlia. Non importava se Callie non era veramente lì. Con la fantasia, Valerie vide la sua bambina che le sorrideva, seduta sul seggiolone accanto all'isola della cucina. «Io uso lo yogurt al posto della maionese. Perché riempirsi di grassi e calorie? E mezzo avocado, un frutto che mi piace tantissimo.» Staccò un gambo di sedano, ne rimosse la testa e lo tagliò in sottili segmenti larghi poco più di un centimetro, poi li depose nella scodella. Lavò il grappolo d'uva sotto l'acqua del rubinetto, staccò una dozzina di chicchi e li tagliò a metà, e li aggiunse al resto nella scodella. «Dovrei metterci anche le noci, ma non ne ho. Comunque non ne sentirò la mancanza, visto che di croccante ci sono già le mele.» Valerie tagliò la mela a metà e separò gli spicchi dal torsolo. Ne assaggiò un pezzetto e fece una smorfia. Era aspra. Come un angelo, Callie ridacchiò e picchiò le manine sul vassoio davanti a sé. I riccioli d'oro le danzarono sulla fronte. Valerie le fece l'occhiolino, tagliò a dadini gli spicchi di mela e li unì al sedano e all'uva. «Ora mettiamo il mio ingrediente segreto.» Tagliò l'avocado in due parti, poi con il coltello rimosse i semi da ciascuna metà, e in quel momento il telefono sul ripiano della cucina squillò. Lei si immobilizzò e il labbro inferiore prese a tremare. Gli squilli proseguirono, musicali e insistenti. Quando guardò il display, vide che a chiamarla era sua sorella. «È la zia Denise» disse, con una strana cadenza nella voce. «Ma forse non è necessario rispondere proprio adesso, sei d'accordo? Non ora che siamo impegnate a preparare un'ottima insalata.» Quando il telefono smise di squillare, Valerie fissò Callie e il suo sorriso si spezzò. «Abbiamo un sacco di tempo per richiamarla. Lo faremo quando avremo finito di preparare l'insalata, va bene? Dunque, dove ero rimasta? Direi che ormai è pronta.» Sbucciò una metà dell'avocado e lo tagliò a strisce che aggiunse, una alla volta, al resto dell'insalata. Tolse il coperchio dal barattolo di yogurt e, con un cucchiaino, lo mise sull'insalata. Tagliò il limone a metà e lo spremette sugli altri ingredienti e infine, servendosi di un cucchiaio e di una forchetta, mescolò il tutto. «Non ha un aspetto delizioso?» disse. Ne prese una forchettata e la assaggiò. «Buonissima.» Si sedette e masticò lentamente ogni boccone, senza mai smettere di fissare Callie. Gli occhi di sua figlia la seguirono. Callie emetteva dei versi e presto sarebbe stata in grado di pronunciare vere e proprie parole. Memorizzò il volto della sua piccina, i suoi due dentini bianchi appena spuntati, il suo sorriso con le fossette.

Assaporò quei momenti di tranquillità e di intimità insieme al suo tesoro. Quando la scodella fu quasi vuota, il telefono squillò di nuovo. Valerie si bloccò, con la forchetta a mezz'aria davanti alla bocca, mentre l'orrore causato dalla trepidazione le si dipingeva sul volto. Stavolta a chiamarla era Blair Rowe. Lo sguardo di Valerie si fece vacuo. Il telefono continuò a squillare, poi la musichetta cessò. Lei si riscosse dalla trance. «È incredibile come la gente riesca sempre a chiamarti proprio mentre stai mangiando, non trovi?» chiese a sua figlia. «Meglio spegnere quel fastidioso telefono. Stasera non ho voglia di parlare con nessuno. A parte te, naturalmente.» Staccò la presa del telefono e, quando tornò a piegarsi sulla ciotola, qualcosa le cadde dal volto e finì sul bancone. Erano lacrime. Valerie si toccò una guancia, sorpresa. «Ma guarda un po', sto piangendo. Non ti sembra strano?» Callie inclinò la testa e assunse un'espressione seria. Valerie aveva l'impressione che fosse sempre intenta a pensare a qualcosa di molto importante. «Come stai crescendo. E come sei bella. Da grande diventerai una ragazza stupenda.» Portò la ciotola vuota nel lavandino, la sciacquò e la sistemò in un pensile, poi ripose in frigo il mezzo avocado, il mezzo limone, il sedano e l'uva avanzati. Con un piede, aprì il bidone color argento, fece scivolare gli scarti nell'immondizia poi con un asciugamano di carta pulì il bancone. Mise il coltello sotto l'acqua corrente e lo sfregò con una spugna, pulendolo. Quando ebbe finito, aprì il pensile delle spezie e fece scorrere il vassoio girevole finché non ebbe trovato ciò che cercava. Era una bottiglietta che aveva acquistato un anno addietro, prima di rimanere incinta. Una bottiglietta che non aveva mai aperto. Una bottiglietta piena fino all'orlo di aspirine. Si girò e guardò il seggiolone. Callie non c'era più. Il sorriso di Valerie si dissolse lentamente e la luce nei suoi occhi si spense. «D'ora in avanti, non ti lascerò mai più sola» le promise Valerie. «Mai più. Resterò sempre con te.» Kasey non sapeva da quanto tempo era aggrappata al gelido tubo di metallo. Forse da qualche secondo. Forse da un'ora. In quell'oscurità il tempo non aveva alcun significato. Si sentiva le braccia rigide e pesanti, il freddo le bruciava la pelle e avrebbe solo voluto lasciarsi andare. Ma non lo fece. Non poteva farlo. Lui se n'era andato. Per il momento. Lo aveva guardato raccogliere la torcia e allontanarsi tra le macerie, e poco dopo la luce era scomparsa dietro un muro diroccato. Da qualche parte, dall'altra estremità dell'edificio, era

giunto fino a lei il rumore di una porta d'acciaio che veniva aperta e poi richiusa. Da allora, aveva udito solo i rumori propri di quelle rovine: lo sgocciolio tormentoso dell'acqua sopra la sua testa e l'ossessivo squittio dei ratti. Non aveva una vera speranza di essere salvata. Gridò: «Aiuto! Aiutatemi!» ma la sua voce rimbalzò contro ciò che restava delle pareti, poi il silenzio riprese possesso del posto. Nessuno arrivò di corsa. Nessuno rispose al suo grido d'aiuto. In qualsiasi luogo si trovasse, era sola. Nei primi minuti, non osò muoversi. Aveva paura di scivolare e perdere la presa sul metallo, oppure che la tubatura cedesse. Alla fine, quando la forza iniziò a esaurirsi, decise che era necessario fare un tentativo. Se avesse commesso un errore sarebbe morta, ma se non avesse fatto nulla sarebbe morta lo stesso. Doveva restare in vita. Doveva fuggire. Con estrema lentezza, staccò una mano dalla tubatura e tastò la corda con le dita, verificando se era possibile sciogliere il nodo e sfilarsi il cappio dal collo. La tastò in vari punti, ma il nodo era stato fatto a dovere e, forse, solo servendosi di entrambe le mani sarebbe riuscita a scioglierlo. Continuò ad armeggiare finché l'altro braccio protestò inviandole un'intensa fitta di dolore, e quando sentì che stava per scivolare riportò anche l'altra mano sul tubo. Avrebbe potuto arrampicarsi sulla corda fino al travetto del soffitto a cui era fissata, ma sentiva che le poche forze che le restavano non erano sufficienti per la buona riuscita del tentativo. Considerò anche la possibilità di sollevare le gambe come una ginnasta e stringerle intorno alla tubatura, ma temeva che il metallo avrebbe ceduto sotto quella pressione. Kasey decise di verificare dove il tubo finisse. Staccò le dita della mano sinistra e le mosse lentamente di pochi centimetri, poi ripetè l'azione con la destra. Il metallo era freddo e bagnato e mancò poco che le dita perdessero la presa. Continuò a procedere, pochi centimetri alla volta, avanzando con una lentezza estenuante. Il freddo e il dolore l'avevano stordita. Cominciò a vedere strane cose nel buio che la circondava. Fece l'ennesimo tentativo di proseguire e scoprì di non esserne più in grado. Per quanto la sua volontà cercasse di imporsi, i suoi muscoli si rifiutavano di ubbidirle. Rimase lì appesa e paralizzata, mentre il tubo dondolava e le scivolava sotto le dita. Sarebbe stato facile lasciarsi andare. Sarebbe stato facile arrendersi. Lasciare il metallo e abbandonarsi alla corda. No. Era una prova. E non poteva fallire. Fu investita da un'ondata di calma.

Tese le gambe legate e le fece ondeggiare a destra e a sinistra. La punta dei piedi sfiorò qualcosa di solido. Del cemento. Una parete. Fece scorrere le mani di pochi centimetri e quando tese di nuovo le gambe scoprì di riuscire ad abbracciare il fianco della parete con i piedi, grattando via frammenti di vernice. Se fosse riuscita a trovare un appiglio su cui poggiare i piedi, avrebbe potuto cercare di togliersi la corda dal collo servendosi di entrambe le mani. Cercò di far scorrere le mani ancora di qualche centimetro, ma la corda si tese e a Kasey parve di soffocare. Aveva già sfruttato tutta l'estensione della corda e oltre non sarebbe potuta andare. Era in trappola. Allungò di nuovo le gambe, ma stavolta si mosse troppo rapidamente: la mano sinistra perse l'appiglio e abbandonò la presa. La destra continuò a stringere il tubo gelido, ma la corda le strinse ancora di più il collo, togliendole il fiato. Kasey ansimò e sputò, appesa a una sola mano. Si mosse freneticamente, nel tentativo di aggrapparsi al tubo anche con l'altra mano, e le sue dita toccarono un pezzo di metallo che afferrò e gettò a terra finché, alla fine, i suoi sforzi furono premiati, e riuscì a sollevarsi di quel tanto che bastava perché la pressione sul collo si alleggerisse permettendole di respirare normalmente. Kasey si concesse qualche secondo di pausa, ma stava per esaurire il tempo e le forze. Con un grugnito, sollevò di nuovo la mano sinistra. Le dita toccarono qualcosa di affilato e di forma squadrata, appeso a un sottile filo di plastica. Lo strattonò e sentì che cedeva ma, prima di riuscire ad afferrarlo la mano destra scivolò e lei dovette desistere per riprendere la presa ed evitare di cadere. Trasse alcuni respiri lunghi e profondi. Il sudore si era raccolto sul palmo delle mani, rendendole scivolose. Provò nuovamente. Stavolta, la placca di metallo e il filo sottile cedettero e un po' di polvere le finì in faccia. Tossì e, rischiando nuovamente di perdere la presa, riuscì a stringere la placca nella mano. Il braccio destro ululò di dolore mentre le dita della sinistra seguivano il contorno dell'oggetto fino a trovare un angolo piegato e affilato, nel punto in cui si era staccato da un blocco più grande. Kasey sapeva di avere una sola speranza: tagliare la corda che le cingeva il collo. Facendo appello alle poche forze che le erano rimaste, piegò i gomiti per tentare di sollevarsi. Il suo corpo prese a salire lentamente, un centimetro dopo l'altro. Il tubo oscillò, e le sue dita scivolarono mentre il sudore e il sangue si raccoglievano sotto la pelle. Quando sentì il mento toccare il metallo, fece forza con il braccio destro e lasciò andare il sinistro, reggendosi all'incavo del gomito.

Il tubo si piegò pericolosamente verso il basso e il mento fu tirato di scatto verso l'alto. Kasey prese a sfregare freneticamente il bordo della placca di metallo contro la corda che le stringeva il collo. Sentì dei frammenti di filo tagliarsi e schizzare via. Il tubo scivolò di nuovo verso il basso e la pressione del cappio le impedì di respirare. Sentì le guance gonfiarsi e sgonfiarsi e prosciugarla del poco ossigeno che le restava. Il suo viso era bagnato di lacrime. Il braccio destro si intorpidì. Continuò a segare. La corda si assottigliava sempre più ma si rifiutava di cedere. Il suo corpo sussultò mentre lei strattonava il metallo su e giù, e quel movimento non fece che peggiorare la pressione sul tubo. Era troppo. Le mancava l'ossigeno. Le mancavano le forze. Distese il braccio sinistro lungo il fianco, la placca di metallo le cadde di mano e finì a terra con un tonfo. Stava per perdere i sensi. Oh, Dio, no. Poi, dalla parete accanto, le giunse un suono di metallo lacerato. Il tubo si staccò. Kasey sentì il proprio corpo cadere, con la corda stretta intorno alla trachea, simile a due mani robuste.

47 Troy Grange aprì la porta di casa, reggendo in mano una bottiglia di birra. Da sopra la sua spalla, Maggie vide che il televisore widescreen in soggiorno trasmetteva una partita di basket. L'uomo indossava un paio di jeans e una camicia di flanella, che portava fuori dai pantaloni. Aveva gli occhi rossi ed era pallido. «Scusa l'orario» disse lei. «Va tutto bene. Entra pure.» La precedette in sala, dove tolse l'audio alla televisione. «Vuoi qualcosa da bere? Una birra?» «No, ti ringrazio.» «Dimmi, hai perso una scommessa?» chiese Troy. «In che senso?» «I capelli.» «Ah, già. Molto spiritoso. È solo uno stupido capriccio.» «Capito.» Poi, dopo una lunga pausa, aggiunse: «Ho visto il telegiornale». «Lo immaginavo.» «Lo stesso uomo?» «Pare di sì.» Troy imprecò. Finì la birra e si pulì la bocca. «Le indagini vi hanno avvicinato a lui?» «Mi piacerebbe poterti rispondere di sì, ma per ora è sempre un passo avanti a noi. Stiamo seguendo una pista in Colorado, ma è ancora troppo presto per dire dove ci porterà. L'auto che usava è stata rubata a Colorado Springs, così stiamo controllando i registri dei crimini avvenuti in quella zona.» «Pensate che lo faccia già da tempo?» «Non lo so, ma di solito questi tizi non la smettono finché non li becchiamo.» Troy scosse la testa. «Che mondo del cazzo.» «Com'è andata al lavoro?» chiese Maggie. «Oh, un vero delirio, il che è un bene. Sono entrato in ufficio e il primo problema si è presentato due minuti dopo, ed è andata avanti così fino a sera, quando sono tornato a casa. Non ho avuto tempo di pensare a niente.» «La piccola è ancora dai genitori di Trisha?» Troy annuì. «Probabilmente andrò a prenderla questo fine settimana. Debbie e io ne sentiamo la mancanza.» «L'offerta è ancora valida, Troy. Se pensi che io possa fare qualcosa per aiutarti non hai che da chiedere.» «Lo so, e te ne sono grato.» Poi aggiunse: «E il ragazzo scomparso? Avete scoperto qualcosa su Nick Garaldo?». «Pensiamo sia uno di quei tipi strani che amano intrufolarsi dove non

dovrebbero. Sai, tra le rovine urbane.» «Davvero?» «Nel suo appartamento abbiamo trovato una scheda di memoria con delle foto. Qualche mese fa era entrato nella vecchia armeria di Duluth.» Troy si massaggiò il mento. «Negli ultimi anni, si sono verificate delle effrazioni nelle zone meno utilizzate del porto. Chissà se Nick c'entrava qualcosa.» «Metà del divertimento di questi tizi sta nel non farsi beccare da quelli come me o come te» commentò Maggie. «Pensi che abbia avuto un incidente da qualche parte?» Maggie annuì. «Per il momento è il nostro principale sospetto. Probabilmente Nick aveva nel mirino una scuola abbandonata a Buckthorn. Ho chiesto all'addetto dell'agenzia di sicurezza locale di andare a controllare, ma non ho ancora avuto sue notizie.» «Be', tienimi aggiornato. La ragazza di Nick è preoccupatissima.» «Contaci.» «Sembri stanca, Maggie. L'indagine ti sta sfinendo?» «Sì, un po'» ammise lei. «Stride dovrebbe tornare al lavoro la settimana prossima, se non sbaglio. Forse questo ti aiuterà.» Lei fece un verso affermativo, ma Troy colse nella sua risposta un contrasto di emozioni. «Non sembri troppo eccitata all'idea di riaverlo in squadra» disse. «Non vuoi rinunciare alla poltrona del capo?» «Può riprendersela quando vuole.» «Allora qual è il problema?» Maggie fece spallucce. «È una faccenda complicata. Non voglio annoiarti con i miei problemi.» «Al momento, mi è più semplice preoccuparmi dei problemi altrui. Siamo amici, Maggie. Se ti va di parlarne, fallo pure liberamente.» Maggie sospirò. Era stanca di tenere solo per sé quella storia. «Si tratta di me e Stride. C'è stato qualcosa.» «Qualcosa?» chiese Troy, poi comprese l'espressione sul volto della ragazza. «Oh, quel qualcosa. Sì, be', allora è proprio una complicazione.» «A chi lo dici.» «Lui non sta con un'altra?» «Sì.» «E adesso?» «Adesso continuo a ripetermi che mi sono comportata da perfetta idiota.» Troy ridacchiò. «Mi dispiace. Vorrei poterti essere d'aiuto. I consigli romantici non sono proprio il mio forte.» «Neanche il mio. Ascolta, tienilo per te, capito? Non lo sa nessuno.» »

«Sarò muto come un pesce.» Il cellulare di Maggie squillò. Lei lo tirò fuori dalla tasca e controllò chi la stesse chiamando, ma il numero era nascosto. «Maggie Bei» rispose. «Signorina Bei, sono Jim Nieman.» Maggie non riconobbe né il nome né la voce. «Cosa posso fare per lei, signor Nieman?» «Oggi ho ricevuto una chiamata da Matt Clayton, di Buckthorn. Mi ha riferito che lei gli ha fatto delle domande sulla vecchia scuola in rovina che c'è da quelle parti. Io sono la persona incaricata di controllare che sia tutto a posto.» «Sì, certo. Ha avuto occasione di andarci, oggi?» «Sì. In realtà sono qui proprio in questo momento. Speravo di poterci venire prima, ma sono stato bloccato da altri lavori.» «Ha trovato qualcosa?» chiese. «Matt mi ha detto di cercare dei gusci rossi di pistacchio. Come mai?» «Ne ha trovati?» domandò Maggie, senza fornire spiegazioni. «Sì.» Maggie coprì l'altoparlante del telefono con una mano e disse a Troy: «È il tizio incaricato di sorvegliare la scuola di Buckthorn. Credo di avere avuto la conferma che Nick Garaldo si sia recato lì». Poi disse, parlando al telefono: «Ha controllato all'interno?». «Stavo per farlo, ma ho pensato che prima fosse meglio chiamarla. Visto che ho trovato quei gusci, forse preferisce che sospenda il giro di controllo? Se pensate che questa possa essere la scena di un crimine, non voglio correre il rischio di incasinare eventuali prove.» «Quando è stata l'ultima volta che è entrato in quell'edificio?» «Un paio di giorni fa, direi.» «Dopo sabato sera?» «Sì, credo fosse domenica» rispose Nieman. «Ha notato nulla fuori dall'ordinario?» Lui rise. «Be', se vuole la mia opinione, direi che già di per sé quel posto mette i brividi.» «C'erano segni recenti di effrazione? È possibile che all'interno ci fosse qualcuno e che lei non se ne sia accorto?» L'uomo fece una pausa. «Tutto è possibile, credo. Ci sono un sacco di nascondigli e di grosse crepe. Non ho visto segni d'effrazione, ma questo non significa necessariamente qualcosa.» «Ricevuto.» «Vuole che entri?» chiese Nieman. «Come ho detto, mi trovo proprio fuori dalla scuola.» «Sì, entri e controlli tutto con attenzione. È scomparsa una persona, e abbiamo motivo di credere che, di recente, sia stata in quella scuola. È possibile che sia entrata o che abbia cercato di farlo, e che si sia fatta male. Mi richiami quando ha finito il suo giro, d'accordo?»

«Ci conti.» Maggie lo sentì esitare. «Qualcosa non va?» «Oh, no, sono ben felice di farlo. Sono lieto di aiutare voi ragazzi in uniforme. Però pensavo una cosa. Se è effettivamente successo qualcosa a questo tizio, forse è meglio se durante la mia ispezione vengo affiancato da un poliziotto. So che è tardi, ma forse potrebbe mandarmi qualcuno.» Maggie ci pensò su. «Certo, è una buona idea.» «Lascerei tutta la faccenda in mano vostra, ma sono io ad avere le chiavi» aggiunse. «Capisco.» «Aspetterò la cavalleria prima di aprire le porte. Pensa che ci vorrà molto?» Maggie controllò l'orologio. «Sa una cosa, signor Nieman? Mi trovo a cinque minuti dalla scuola. Vengo io direttamente.»

48 Denise Sheridan appoggiò il telefono con uno scatto della mano. «Continua a non rispondere» disse. «Vuoi andare a controllare di persona se va tutto bene?» chiese Serena. Denise scosse la testa. «No, è già tardi. Se Valerie è a letto, preferisco lasciarla dormire.» Serena era certa che Valerie non stesse dormendo. Se era a letto, sicuramente stava fissando il soffitto. Se aveva il telefono spento, era perché non voleva ricevere nessuna notizia di Callie. Le due donne raggiunsero Stride tra le lapidi del cimitero. Dietro di lui, uno dei fari allestiti dai tecnici della Scientifica ne proiettava l'ombra sull'erba e in mezzo agli alberi. Stride si fermò davanti a una fila di tombe, tutte recanti il nome Glenn. Serena lo guardò. Aveva le braccia incrociate sul petto, con un'espressione cupa e pensierosa. La neve scendeva obliqua, illuminata dal fascio di luce e si posava su di lui, rendendolo simile a una scultura di marmo. Indossava la giacca di pelle che possedeva ormai da anni. I suoi capelli erano spettinati, come se si fosse appena alzato dal letto. Nei suoi occhi, Serena riconobbe la determinazione di un uomo che non si arrendeva mai. Non poteva farci niente: era ancora innamorata di lui. Non avrebbe potuto voltare le spalle a ciò che aveva provato in quei tre anni trascorsi insieme. La cosa più facile sarebbe stato sussurrargli: Non vado da nessuna parte e osservare la sua reazione. Scoprire se anche lui condivideva le stesse sensazioni. Ma non lo fece. Non disse nulla. «Allora, che cavolo significa, Stride?» chiese Denise. «Chi è il bambino sepolto?» Stride fissò le tombe. «Ancora non lo sappiamo.» «Cosa dice la squadra medica?» chiese Serena. «Hanno stabilito le cause del decesso?» «Non ci sono segni di violenza» rispose Stride. «Non ci sono tracce evidenti di traumi né di ferite o di abusi, ma lo sapremo con certezza solo dopo l'autopsia.» «È morto di recente?» chiese Denise. «A giudicare dalle condizioni del corpo, sì. Parliamo di giorni, non di settimane.» «Nulla che possa consentire un'identificazione?» «No.» Serena studiò a lungo il cimitero e la foresta circostante. Si mise nei panni della persona che aveva portato un neonato in quel bosco e gli aveva scavato la tomba. Erano tanti i posti dove avrebbe potuto farlo sparire e dove nessuno avrebbe mai potuto trovarlo. Perché, allora, così vicino al cimitero? «In che modo il corpo è stato collocato nel terreno?» chiese a Stride.

Voleva capire che tipo di sepoltura era avvenuta, se sacra o profana. I loro sguardi si incrociarono, e Serena comprese che anche lui aveva pensato la stessa cosa. Le menti che lavoravano all'unisono era un altro aspetto della loro relazione di cui non sarebbe mai riuscita a liberarsi. «Era avvolto in un lenzuolo bianco.» «In modo sbrigativo?» Stride scosse il capo. «Qualcuno si è preso tutto il tempo necessario. Sembra fatto quasi con amore.» «Ma non ha senso» protestò Denise. «Chi si prende la briga di avvolgere un bambino in un lenzuolo per poi seppellirlo nel bosco come fosse spazzatura?» «Non spazzatura» ribatté Serena, scuotendo la testa. «Chiunque l'abbia fatto sapeva che, se avesse seppellito il corpo in un cimitero, sarebbe stato facilmente scoperto. Invece, lo ha sepolto vicino a un cimitero. Ritengo che questo sia un dettaglio significativo.» «Concordo» disse Stride. «Ho l'impressione che sia stata eseguita una specie di rituale, quasi religioso.» «Ma cosa ha a che fare tutto questo con Callie e Marcus?» chiese Denise. «Non lo so. Forse niente. Forse siamo incappati in qualcosa che non ha nulla a che vedere con il caso di Callie.» «O forse Micki mente» suggerì Denise. Una voce ruvida e stanca attraversò l'aria. «Non sto mentendo.» Tutti e tre girarono la testa e videro Migdalia Vega, in piedi alle loro spalle, sulla collina del cimitero. Il suo viso rotondo scintillava a causa dei fiocchi di neve che si scioglievano. Teneva i piedi ben piantati a terra e le mani sui fianchi. «Mi avete capito?» riprese. «Non sto mentendo. Ho fatto tutto ciò che mi avete chiesto. Vi ho mostrato dove ho trovato il giocattolo, dove mia madre ha visto la luce.» «Sapevi che avremmo trovato un cadavere» sbottò Denise «ma nessuno ci garantisce che tu abbia trovato davvero quel giocattolo. Chi è il bambino, Micki? Chi abbiamo esumato?» «Non lo so. E ho trovato la trombetta nel bosco, proprio come vi ho detto.» Stride posò delicatamente una mano sul braccio di Denise, poi si avvicinò a Micki e le parlò in tono pacato. «Non pensiamo che stia mentendo.» «Lo dica a lei!» sbottò la donna. «Siamo tutti stanchi, Micki. E' stata una lunga notte. Ci è stata di grande aiuto e gliene sono grato. Ma se pensa di sapere chi può essere quel bambino, deve dirmelo.» «Gliel'ho già detto, non lo so. Di sicuro non è Callie e questo è un bene, giusto? Ero certa che il dottor Glenn non fosse coinvolto. Non avrebbe mai

potuto fare una cosa simile a sua figlia.» «E se ti dicessi che Callie non è sua figlia?» intervenne Denise. Stride le lanciò un'occhiata ammonitrice, poi tornò a rivolgersi a Micki. «Mi ha detto di aver perso il suo bambino all'inizio della gravidanza» le disse a bassa voce. «Scusi, ma devo chiederglielo. È questa la verità?» «Sì! Lei sa benissimo cos'è successo a mio figlio!» «È vero, lo so. Ed è sicura che sua madre abbia visto la luce nel bosco proprio la stessa sera in cui è scomparsa Callie?» «Sì, me lo ha detto sabato. Allora sono andata a fare un sopralluogo e ho trovato la trombetta.» Stride annuì. «Va bene, Micki. Per ora può bastare. Torni pure a casa.» La ragazza li superò e salì la collinetta. Serena la guardò sparire tra gli alberi, in direzione delle luci della roulotte. «Questo ritrovamento dove ci porta?» chiese. «Da nessuna parte» rispose Stride. Denise si infilò una sigaretta in bocca, senza accenderla. «Ascolta, la trombetta è stata messa lì affinché noi la collegassimo con Callie, non credi?» Stride ci pensò su, poi scosse la testa. «No, non ha alcun senso, perché bastava infilare una vanga nel terreno per scoprire che non si trattava di Callie.» Serena ripensò a chi poteva aver portato il corpo di un bambino nel bosco seppellendolo con un rituale quasi religioso. Una cerimonia intima e dolorosa. «E se la trombetta fosse esattamente ciò che sembra, e cioè qualcosa lasciato lì come ricordo?» «Che intendi dire?» chiese Stride. «Che forse nessuno si aspettava che noi trovassimo davvero quel giocattolo. È stato messo in quel punto proprio come si mettono dei fiori su una tomba.» «Ma di chi è la tomba?» domandò Denise. Serena ripensò alla sua conversazione con Valerie. Quando Stride l'aveva informata del ritrovamento della trombetta da parte di Micki, quel dettaglio le era sembrato familiare. Era come se facesse già parte delle sue nozioni riguardanti il caso, perché ne aveva già sentito parlare. Valerie le aveva raccontato di quella notte di capodanno all'ospedale e di come il personale si fosse messo a suonare le trombette allo scoccare della mezzanotte. Riusciva quasi a visualizzare la scena mentalmente. A vederla. A sentirla. Valerie che sonnecchiava a causa del dolore e dei sedativi. Il rumore e i festeggiamenti per l'anno nuovo nel reparto maternità. Il suono delle trombette. Le ninnananne trasmesse dagli altoparlanti dell'ospedale a ogni nuova nascita. «Un altro bambino» disse Serena.

Denise la guardò. La sigaretta spenta le penzolava dalle labbra. «Di cosa stai parlando?» «Quella notte, all'ospedale, sicuramente sono nati altri bambini. La notte di capodanno, intendo.» «E allora?» chiese Denise. «Allora mi piacerebbe scoprire di chi si tratta. E se Regan Conrad ha assistito una di quelle partorienti.» «Anche se così fosse, perché seppellirlo proprio qui?» chiese Denise. «Cosa c'entra tutto questo con Callie?» «Non ne ho idea» ammise Serena. Ciò nonostante, il suo istinto le suggeriva che il corpo nel terreno era collegato alla scomparsa di Callie. In qualche modo, intuiva che quel bambino, chiunque fosse, era la chiave di tutto. Stride aveva il telefono in mano e Serena vide che stava componendo un numero. «Guppo, sono Stride» lo sentì dire. «Mi servono alcune informazioni. Voglio una lista dei bambini nati il primo gennaio, in modo particolare quelli del St.Mary. Probabilmente puoi trovare gli annunci delle nascite sul sito internet del "News Tribune". Mi interessano solo i maschi. Attendo in linea.» Attese. Fissò Serena, e lei ricambiò lo sguardo. Si rese conto che in quel momento, più di ogni altra cosa, avrebbe voluto baciarlo. «Ci sono» disse Stride al telefono. «Hai fatto in fretta. Dammi i nomi e gli indirizzi dei genitori.» Poi, subito dopo: «Aspetta, ripeti un po'. Sul serio?». Stride chiuse la comunicazione. «Dobbiamo tornare subito a Duluth.» Troy Grange attivò il sistema di sicurezza della casa e salì al piano superiore per coricarsi. Era un gesto inutile. Aveva fatto installare quel sistema per proteggere Trisha e i bambini, ma l'assassino era riuscito a entrare comunque e a portare via la sua bella moglie. Avrebbe voluto strappare il pannello di controllo dalla parete e gettarlo nei campi. Troy pianse. Non era una cosa che si concedeva spesso, comunque mai in pubblico e mai davanti alle figlie. Doveva apparire forte ai loro occhi. Non poteva riportare indietro sua moglie ma la vita doveva continuare. Doveva proteggerle. Fare di tutto per renderle felici. Ma quando era solo, nella sua intimità, piangeva. Ricordava chiaramente il volto di Trisha, come

se fosse ancora accanto a lui. Ricordava il suo tocco. La sua risata. La sua pelle quando erano a letto. Picchiò un pugno contro la parete quando capì che presto quelle sensazioni avrebbero iniziato a sbiadire e che, alla fine, sarebbero scivolate via dai suoi ricordi. Sicurezza. Protezione. Concetti astratti. Potevi anche vivere in una fortezza, ma non potevi tenere fuori i mostri. I sensori, gli allarmi, le serrature e le sbarre erano una pia illusione. Se qualcuno fosse voluto entrare, nulla avrebbe potuto impedirglielo. Persone come Nick Garaldo avrebbero sempre trovato il modo di riuscirci. A volte erano spinti dal puro senso di trasgressione, per potere poi raccontare di essersi intrufolati in un luogo proibito. A volte erano spinti dalla voglia di uccidere. Troy pensò a Nick Garaldo. E a Maggie. E alla scuola abbandonata. Chissà se là dentro avrebbero trovato Nick: intrappolato, soffocato, con il collo spezzato o dissanguato. Tra quelle rovine molti erano i modi di morire. Fu allora che un pensiero, un ricordo, fece capolino nella mente di Troy. Fissò il pannello del sistema di sicurezza appeso alla parete e si ricordò dell'uomo che era venuto a installarglielo qualche settimana prima. Un uomo alto con la pelle rovinata e lo sguardo di un pesce morto. Il genere di uomo che quando sorride non sembra affatto che lo stia facendo. A Troy non era piaciuto. Non sapeva perché la sua mente avesse ripescato il ricordo dell'addetto al sistema di sicurezza, poi si rese conto che era un'idea associata alla telefonata ricevuta da Maggie. Una guardia l'aveva chiamata per riferire di Nick e dei gusci di pistacchio. Una guardia incaricata della sicurezza alla vecchia scuola. Jim Nieman. Ecco come si chiamava. Ne era quasi certo. Nieman era lo stesso uomo che era stato in casa sua.

49 Kasey cadde, la corda le fece scattare il mento all'indietro e un fremito di dolore le percorse la spina dorsale. Sentì un peso schiacciarle la gola, a causa della spessa corda che si stringeva come una morsa intorno al suo collo. Le sue gambe si agitarono convulse. Artigliò la corda, ma il nodo non cedette e lei riuscì solo a graffiarsi a sangue. Allungò le mani sopra la testa nel tentativo di sollevarsi e alleviare il dolore, ma le sue forze si erano ormai esaurite. La mente iniziò ad annebbiarsi. Stava morendo e lo sapeva. Poi la sezione di corda consumata dal metallo seghettato si spezzò e cedette, e Kasey precipitò nell'oscurità. Atterrò sul pavimento di cemento con un contraccolpo che la scosse fino alle ossa. Un chiodo le si conficcò nella gamba e si morse la lingua per impedirsi di gridare. Ma riusciva a respirare. L'aria, dolcissima, le inondò i polmoni. Si mise carponi e inspirò profondamente. Qualcosa le zampettò sulle dita facendola sobbalzare. Era un ratto, e non era solo. Gli squittii eccitati degli animali erano molto vicini. Strappò via il nastro adesivo dalle caviglie e si alzò in piedi. L'oscurità le procurava le vertigini e attese immobile finché la mente non le si fu schiarita, poi restò in ascolto e stabilì che il suo rapitore non era nei paraggi. Per il momento era sola. Da sola senza luce. Senza armi. Senza un telefono. Era come se si fosse persa di nuovo nella nebbia. Iniziò a camminare con le braccia e le mani tese davanti a sé. Quasi subito, inciampò e cadde. Si appiattì sul pavimento e prese a tastarlo, finché le sue dita incapparono in un blocco seghettato di cemento, delle dimensioni di circa un metro per un metro e mezzo. Ne seguì i contorni, poi ci girò intorno. Procedette lentamente e a ogni passo i suoi piedi, ancora intorpiditi, calpestavano cocci di vetro che li facevano sanguinare. Gocce d'acqua le cadevano sul volto. Scalciò inavvertitamente un pezzo di metallo che andò a sbattere con fragore contro il cemento, strappandole un grugnito di dolore. Si chinò e lo raccolse: era una putrella a forma di L, pesante e arrugginita. La strinse in pugno e l'idea di avere qualcosa con cui difendersi la fece sentire meglio. Davanti a sé toccò una parete liscia. La esplorò con le dita e sentì strisce di intonaco tra piastrelle quadrate. Allargò il palmo della mano e seguì il muro. Dopo qualche passo si imbatté nel vano di una porta, ma era bloccato da una pila alta almeno un metro di tavole di legno, fradice e marce. Si fermò e strizzò gli occhi, cercando di capire se oltre la porta ci fosse una qualche via di fuga, ma vide solo il buio. Oltre il vano della porta, la parete proseguiva e lei la seguì. A un certo

punto, i mattoni furono sostituiti dal compensato. Era arrivata a un angolo. Seguì la parete perpendicolare muovendosi con maggiore rapidità. Procedendo a tastoni, non si accorse di una corta trave di legno appoggiata al muro, che le arrivava all'altezza della vita. Il pezzo di legno cadde a terra con un gran rumore. Kasey si immobilizzò, aspettandosi che un cono di luce perforasse le tenebre, individuandola. Non successe nulla. Solo i ratti continuarono a seguirla. Kasey prese coraggio e si chiese se l'uomo l'avesse lasciata effettivamente da sola. Decise che in tal caso era il tempo, non il rumore, il suo peggior nemico. Cominciò a spostarsi più velocemente lungo il muro. L'acqua gocciolava rumorosa e le sue dita sbattevano contro fredde tubature che pendevano dal soffitto come grosse ragnatele. Incocciò anche in un pilone di cemento e lo aggirò. A un tratto, la parete finì e Kasey mosse due passi in uno spazio aperto, nel buio fitto. Sentì un debole sibilo, da qualche parte lì vicino. Era il vento. Il mondo esterno non era lontano. Seguì il rumore e comprese di essere nei pressi di una finestra sbarrata, oltre la quale si trovava la libertà. Esaminò freneticamente la cornice con le dita, alla ricerca di un punto dove l'acqua avesse indebolito il legno. A pochi centimetri da lei, la neve picchiettava contro le assi che coprivano la finestra. «Ti prego, fammi uscire» disse in un sussurro. Prima di provare a sfondare il pesante compensato con il travetto di metallo che aveva in mano, il tempo a sua disposizione terminò di colpo. Udì delle voci. La voce dell'uomo. In fondo al tunnel lungo e buio, vide una luce serpeggiare tra le crepe dei muri. Maggie scese dalla Avalanche gialla davanti alla scuola di Buckthorn. La fioca luce della luna, poco più di un alone luminoso dietro le nuvole grigie, illuminava quelle desolate rovine. La neve cadeva contro le pareti di mattoni scuri e si depositava sul tetto piatto. La scuola, o ciò che ne restava, era protetta da due grandi querce i cui rami contorti somigliavano alle dita di una strega. Ogni finestra era sprangata da pesanti tavole di compensato. Ogni porta era chiusa da catene e lucchetti. Immaginò come doveva essere stata la scuola dopo la guerra, accanto a una strada sterrata e polverosa, circondata da campi di grano e frequentata da giovani ragazzi di campagna in camicia e cravatta. Ma quello era stato molto tempo prima. Ora era dimenticata, in rovina, e ogni gelido inverno la corrodeva un po' di più. Dopo trent'anni di abbandono, gli animali e il clima se ne erano appropriati. Ecco cos'è che attirava gli esploratori come Nick Garaldo. Maggie vide un uomo alto e dall'aspetto atletico, sui trent'anni, avvicinarsi

al suo fuoristrada. Indossava una giacca nera di pile, teneva le mani infilate in tasca, e aveva con sé uno zaino appeso a una spalla. Le rivolse un sorriso arrogante. «Nieman?» chiese lei. «In persona.» «Grazie per avermi aspettato.» «Nessun problema.» Indicò la scuola con un gesto della mano. «Vuole entrare?» «Prima facciamo un giro intorno al perimetro.» «Ma certo.» Si avviarono attraverso il campo facendo scricchiolare sotto i loro piedi la neve, rami di quercia e foglie morte. Dove terminava il muro occidentale, il terreno piegava ripido verso il basso. Maggie discese il pendio e superò un gruppo di alti abeti. Il terreno tornava a essere pianeggiante sul retro della scuola dove, nella parte inferiore, c'erano delle aperture. Lei infilò la testa oltre i pilastri di cemento e studiò l'intrico di mattoni e tubature. Nieman accese una torcia e la puntò verso terra. «Ecco i gusci di pistacchio. Sono quelli che cercava lei, giusto?» «Sì. Continui a illuminarli, per favore.» Maggie si chinò. Quella porzione di terreno era piena di gusci e si accorse che non erano coperti di polvere e che il loro colore era di un bel rosso intenso. Nick Garaldo era stato lì poco tempo prima. Si drizzò e chiese: «Recentemente, ha notato tracce di intrusione? Ad esempio, qualcuno che abbia scalzato le travi alle finestre o abbia manomesso le serrature?». «No, nulla del genere. Tutto il posto è sigillato a dovere.» Maggie annuì. In quel momento il vento cambiò direzione e fece vorticare la neve dal tetto della scuola fin sulle macerie del primo piano. Annusò l'aria dolce e fredda, e insieme alla brezza giunse sino a lei qualcosa di indefinito, che subito scomparve. Fu talmente fugace che non capì se lo avesse sentito davvero o se i suoi sensi lo avevano solo immaginato. Tornò in mezzo al campo e osservò il piano superiore dell'edificio. Su quel lato, tutte le finestre erano sbarrate da tavole di compensato. Nieman la guardò incuriosito. «Qualcosa non va?» «Non ne sono sicura. Lei non ha sentito nessun odore particolare?» L'uomo fece spallucce. «Dentro ci sono un mucchio di animali morti. Procioni, cani, scoiattoli, ratti. Non mi pagano per tenere d'occhio anche loro.» «Già.» Il fetore che le aveva sfiorato le narici era fresco e ripugnante. Rimase immobile in mezzo al campo, mentre le correnti atmosferiche lottavano tra loro. Quando il vento spazzò di nuovo il tetto della scuola e soffiò verso di lei, quell'odore la investì di nuovo. Stavolta durò più a lungo e, nonostante

l'aria pungente della sera, la costrinse a tapparsi il naso. Non era solo uno scoiattolo morto. Era l'odore di un cadavere, il fetore rivoltante del gas che un corpo esala in un posto senza ricambio d'aria. «Ma che cazzo è?» chiese Maggie. Nieman annusò l'aria. «Merda, ha ragione. Questo è nuovo. Lo scorso week-end non ho sentito nulla del genere.» «Andiamo, là dentro c'è un morto.» Maggie lo precedette sulla via del ritorno. Risalirono il breve pendio, girarono l'angolo e arrivarono sul davanti dell'edificio. Quattro scalini di cemento conducevano a una serie di porte d'acciaio. In quel punto, dove il vento non riusciva a raggiungerli, quel fetore era assente. Maggie sentiva l'impulso di fare in fretta, ma sapeva che era un bisogno irrazionale. Se Nick Garaldo era lì dentro, era morto da un pezzo. «Per favore, apra questa porta» disse all'uomo. Nieman cercò la chiave. La trovò, aprì il lucchetto e se lo infilò in tasca, lasciando che le catene scivolassero sugli scalini. Maggie lo oltrepassò, spalancò la porta e corse dentro, con Nieman alle costole, mentre le porte si richiudevano alle loro spalle. Maggie si bloccò quasi immediatamente, poiché non vedeva più nulla. Il mondo era diventato nero. Il lezzo la soffocò. Intrappolato tra le rovine, il fetore si era amplificato come un batterio fuori controllo e aveva infestato l'aria. Fu talmente improvviso e intenso che Maggie riusciva a malapena a respirare. Avrebbe voluto solo piegarsi in due e vomitare. Si coprì il volto con entrambe le mani, nel vano tentativo di bloccare quelle disgustose esalazioni, che però continuarono a insinuarsi nelle sue vie respiratorie. «Oh mio Dio!» gridò. «Accenda subito la torcia!» Nieman non rispose, e quando Maggie allungò un braccio nell'oscurità per assicurarsi che l'uomo fosse accanto a lei, il telefono prese a squillare. Lo tirò fuori di tasca e sul display vide che a chiamarla era Troy Grange. «Troy...» fece in tempo a dire. Poi uno schiaffo le colpì la mano, facendo cadere il telefono sul cemento. Maggie cercò di gridare, ma le parole le morirono in gola. Qualcuno le stava stringendo un cavo d'acciaio intorno al collo.

50 Durante il viaggio lungo le strade buie e deserte, Stride e Serena si scambiarono a malapena qualche parola. Sapevano che non c'era tempo da perdere e si chiedevano cosa avrebbero trovato all'arrivo. Stride guidava veloce, concentrato sulla strada resa scivolosa dalla neve. Di tanto in tanto lanciava un'occhiata a Serena, sul sedile del passeggero. Era certo che lei se ne accorgesse, ma non si voltò neppure una volta dalla sua parte. Il suo viso era un profilo scuro accanto a lui. «Attento ai cervi» lo avvisò quando si immisero su un lungo tratto di superstrada fiancheggiato su entrambi i lati da un fitto bosco. «Saltano fuori quando meno te lo aspetti.» «Lo so.» Pensò al consiglio impartito nelle scuole guida del Minnesota: «Don't steer for deer», non sterzate davanti a un cervo. Meglio investirlo. Ucciderlo. Meglio lui di voi, perché correreste più rischi di ammazzarvi cercando di evitarlo. Nel corso degli anni, Stride ne aveva investito qualcuno, e ogni volta si era detto che sarebbe potuta andare diversamente se avesse rallentato, se avesse tenuto gli occhi sulla strada, se avesse usato gli abbaglianti. Ma non importava. Non si poteva impedire a un cervo di correre, e se decideva di attraversare la strada proprio nel mento in cui passavi tu, la collisione era inevitabile. L'unica cosa da fare era cercare di uscirne vivi. Saltano fuori quando meno te lo aspetti. Serena non stava parlando dei cervi. Alludeva a loro due. O forse a loro tre. E alla loro collisione. Stride sapeva che, a conti fatti, Maggie era l'ultimo dei pensieri di Serena. Lei aveva sempre saputo quello che Maggie provava per lui e aveva cercato di conviverci, nel bene e nel male. Il problema era se lui sarebbe uscito vivo da quell'incidente. Se sarebbe riuscito a lasciarsi Maggie alle spalle. Era questo che Serena voleva sentirgli dire. Dubitava che sarebbe riuscita ad accettare l'idea di lui e Maggie che lavoravano spalla a spalla ogni giorno, ma era lui a dover fare il primo passo. Doveva dirglielo. Ti amo più di quanto ami lei. Non voglio perderti. Ripensò a Maggie. Riusciva ancora a sentirla tra le sue braccia. Dopo tutti gli anni passati insieme, era stato stranamente facile superare la linea che divideva l'essere amici dal diventare amanti. I suoi sentimenti per lei si erano intrecciati con il passato condiviso insieme. Ecco perché non riusciva a dire quello che Serena voleva sentire. Avrebbe rischiato di mentirle se prima non avesse fatto chiarezza sui suoi sentimenti. Ma anche tacendo, le aveva detto comunque qualcosa. Qualcosa che lei non voleva sentire. Per tutto il viaggio, non si dissero altro. Attraversarono Duluth e si diressero

a nord, verso le fattorie. In silenzio. Stride parcheggiò sul ciglio della statale, poi lui e Serena scesero dall'auto. Guppo li aspettava su un pick-up dall'altra parte della strada, e quando li vide uscì a fatica dal veicolo. La strada era deserta e la neve sferzava l'asfalto. «Ti sei procurato il mandato?» chiese Stride. Guppo tirò fuori dalla tasca posteriore dei pantaloni un foglio di carta bianca ripiegato. «Il giudice Kassel non ha gradito. Hai interrotto il suo sonno rigeneratore.» «Tanto non le sono mai piaciuto» ribatté Stride. Guardò le due auto di pattuglia, ferme dietro il fuoristrada di Guppo. «I ragazzi non hanno acceso le sirene durante il tragitto, vero?» «Approccio silenzioso» lo rassicurò Guppo. Stride vide che Serena fissava la fattoria. Era stranamente nervosa, e lui non capì se la causa fosse la tensione tra loro o l'ansia per l'indagine. Sapeva che lei si era lasciata coinvolgere emotivamente dalla vicenda di Valerie e Callie. Era un'altra delle tante cose di cui non avevano parlato. Serena si rivolse a Guppo: «Ti sei già avvicinato alla casa?». «No, aspettavo voi due.» Si infilò le mani in tasca e aggiunse: «Allora, come volete procedere?». «Spero di poterlo fare con le buone» disse Stride. «Dubito che qualcuno voglia farsi male. Il rischio maggiore è che tenti la fuga. Ordina a una delle pattuglie di bloccare la strada e tenete i motori accesi.» «Vuoi che venga con te?» chiese Guppo. «Ti chiameremo quando saremo pronti a iniziare l'ispezione. Prima, io e Serena, andremo a scambiare due chiacchiere. Non voglio spaventare nessuno, intesi? La chiave è fare tutto con estrema calma.» «D'accordo.» Guppo andò verso le auto di pattuglia per riferire gli ordini, mentre Stride e Serena proseguirono lungo la superstrada e si fermarono all'imbocco del vialetto. La fattoria, circondata dagli alberi, distava una cinquantina di metri. Le luci all'interno erano accese. «Hai chiamato Valerie?» chiese Stride. Serena scosse la testa. «Non sappiamo ancora cosa troveremo lì dentro. Potremmo anche aver preso un granchio.» «Ho detto che voglio cercare di fare tutto con le buone, ma spero che tu sia armata.» Serena lo guardò. «Ho la pistola, ma pensi davvero che sarà necessario usarla?» «Non lo so. Spero di no, ma potrebbero essere disperati.» Poi aggiunse: «Non volevo dire nulla, almeno non prima di aver fatto chiarezza, ma questa faccenda solleva un sacco di domande». «Parli di Regan» disse Serena.

«Non solo di lei.» Serena ci pensò su un attimo, poi imprecò sottovoce. «Mio Dio, pensi davvero che sia possibile?» «Ora come ora, tutto è possibile» disse Stride. Il cellulare squillò e lo tirò fuori dalla tasca. Se lo premette contro l'orecchio per riuscire a sentire qualcosa sopra il ruggito del vento. «Stride.» «Tenente, sono Troy Grange.» Stride era sorpreso. «Troy, che succede?» «Mi scusi se la chiamo a quest'ora, ma sono un po' preoccupato e non riuscivo a dormire.» «Cosa è successo?» «Stasera Maggie è passata da me, e mentre era qui, ha ricevuto una chiamata da parte della guardia che controlla la vecchia scuola di Buckthorn. Ha presente, è quel vecchio edificio sulla Township Road.» «Lo conosco. Chiamava in merito a Nick Garaldo?» «Sì, esatto. L'uomo ha riferito a Maggie di aver trovato qualcosa sul posto e ha richiesto la presenza di un agente prima di entrare a controllare. Quel vecchio edificio non è molto distante da qui, così Maggie gli ha detto che l'avrebbe raggiunto di persona.» «Bene.» «Il fatto è che pensandoci su mi è venuto in mente che la guardia della scuola è la stessa persona che ha installato il mio sistema di sicurezza, subito dopo che da queste parti sono iniziati gli omicidi.» «E questo è un problema?» Troy esitò. «Cazzo, non saprei. Però le coincidenze non mi sono mai piaciute. E, a dirgliela tutta, non mi piace neanche quel tipo. Così ho chiamato Matt Clayton, l'amministratore del comune. Lo conosco perché giochiamo a tennis un paio di volte all'anno, e gli ho chiesto cosa sapeva di questo tizio della sicurezza, questo Jim Nieman.» «E lui cosa le ha detto?» «Di non aver mai ricevuto alcuna lamentela. Ma ecco la cosa strana. Quando gli ho chiesto se aveva controllato le referenze di Nieman, lui mi ha risposto affermativamente. Nieman gli aveva dato il nome di un tizio che possiede un piccolo centro commerciale a Pueblo.» «Continuo a non seguirla, Troy.» «Pueblo è a mezz'ora d'auto da Colorado Springs. Maggie mi aveva detto che il furgone usato dall'assassino era stato rubato proprio a Colorado Springs.» Stride strinse il telefono con più forza. «Ho chiamato Maggie per avvisarla» riprese Troy «ma ha fatto appena in tempo a rispondermi che è caduta la linea. Ho riprovato più volte, ma non sono mai riuscito a contattarla.» «Controllo subito, Troy» disse Stride.

«Ha fatto bene a chiamarmi.» «Mi avvisi quando sa qualcosa, okay?» «Certamente.» Stride interruppe la comunicazione. Serena lo studiò con le sopracciglia inarcate in un'espressione interrogativa, ma lui non parlò subito. Digitò, invece, il numero del cellulare di Maggie e rimase in ascolto. La chiamata lo collegò direttamente alla sua casella vocale. «Va tutto bene?» chiese Serena. Avrebbe voluto rispondere di sì, ma l'istinto gli suggeriva che qualcosa non andava. Niente andava bene. L'aria fredda gli stringeva il collo come una mano. Non esitò. «Devo andare» disse. «Maggie è nei guai.»

51 Kasey si rannicchiò al buio, stesa sulla pancia e nascosta dietro una pila di assi marcescenti. Era bagnata e aveva freddo. I capelli caddero a coprirle il volto e strinse i pugni per impedirsi di tremare. Dall'alto, l'acqua gelida le gocciolava sulla schiena e sulle gambe. I piedi erano diventati quasi insensibili. Non sapeva da quanto tempo era rintanata lì, ma era certa che lui la stesse cercando e che, prima o poi, l'avrebbe trovata. Il raggio della torcia sondò la stanza come un laser. Lo puntava negli angoli e nelle fenditure, sperando di sorprenderla. La luce indugiò sulla parete sopra la sua testa e lei si appiattì ancora di più sul cemento e trattenne il fiato. Nel punto in cui il raggio illuminò la parete, Kasey vide macchie di ruggine arancione, graffiti realizzati con lo spray dai vandali e dei fori nei punti in cui qualcuno aveva usato la pietra per fare tiro al bersaglio. Cinque secondi dopo la luce scomparve, e fu di nuovo cieca. L'uomo le parlò dall'oscurità. Era a non più di cinque metri da lei. «So che sei qui, Kasey.» Lei, disperata, attese che lui andasse a cercarla in un altro punto della scuola, ma trascorso un lungo minuto di silenzio, la torcia si accese di nuovo, illuminando il pavimento davanti al suo volto e costringendola ad arretrare. Il cemento era cosparso di chiodi e mattoni. Un ratto lungo una trentina di centimetri e molto vicino a lei la fissava immobile con i suoi occhi rossastri. Spaventato dalla luce corse direttamente verso di lei, e Kasey fu costretta a coprirsi la bocca per non urlare quando il corpo peloso dell'animale le zampettò sulla schiena. «Non puoi nasconderti per sempre, Kasey.» Poi aggiunse: «C'è qualcuno che ti aspetta». Kasey si irrigidì. Udì un forte colpo seguito da un gemito di dolore. «Parla!» ringhiò l'uomo. «Non preoccuparti per me, Kasey. Pensa a salvarti.» Maggie. Era la voce di Maggie. Kasey provò l'impulso di battere i pugni per terra. Sbirciò oltre il mucchio di travi, solo quel poco che bastava per vedere Maggie legata a una sedia, con le mani dietro la schiena e illuminata dalla luce della torcia. Il suo collo era attraversato da un anello sanguinante, che le fece venire in mente la notte in cui si era persa tra la nebbia e Susan Krauss, sbucata dal nulla, era apparsa accanto al finestrino dell'auto. Maggie era nelle stesse condizioni, con la gola ferita. Dietro di lei, alla luce tenue della torcia, vide gli altri corpi, in pose che li facevano sembrare bambole in decomposizione.

Era arrabbiata. Arrabbiata con Dio perché l'aveva messa in quella situazione senza che fosse preparata. Arrabbiata con Dio perché l'aveva abbandonata. Ma, tutto sommato, forse questo era il Suo modo di punirla. Nel corso dell'ultimo anno, Kasey aveva smesso di credere in Lui e aveva ritrovato la fede solo nei momenti di disperazione e di tradimento. Era molto amareggiata nei confronti del mondo, ma non avrebbe mai immaginato che quella brutta strada l'avrebbe condotta fin lì. «Non puoi scappare, Kasey» la schernì l'uomo. «E adesso cosa conti di fare?» Lei si morse il labbro e ascoltò il rumore dei suoi passi che si allontanavano lentamente. Il fascio di luce della torcia si spostò e si immerse in un buco aperto nella parete di fronte. L'uomo le dava le spalle. Era la sua occasione e lei non corse il rischio di attendere oltre. "Ti ammazzo" si disse. "Ecco cosa penso di fare adesso." Si alzò in piedi e raccolse la pesante putrella di metallo, impugnandola come una mazza, poi aggirò la pila di legname. Controllò il terreno davanti a sé con la punta di un piede, poi appoggiò a terra il tallone evitando di fare rumore. Mentre si spostava, un centimetro alla volta, teneva d'occhio il raggio della torcia nel corridoio quando, improvvisamente, quella luce scomparve. Kasey restò immobile, sentendosi esposta. Pensò di tornare nel suo nascondiglio, quando si rese conto di essere molto vicina a Maggie. Con voce appena udibile, le mormorò: «Sono qui». Udì il rumore di movimenti frenetici. La sedia a cui era legata Maggie traballò sul pavimento e la donna grugnì per lo sforzo, mentre lottava contro le corde nel tentativo di liberarsi. Kasey fece un altro passo e sussurrò di nuovo: «Maggie». Stavolta, la risposta a bassa voce fu immediata. «Vattene da qui, Kasey.» Ma era troppo tardi. La luce inondò la stanza e immobilizzò Kasey come un faro che inquadra un evaso. Aveva ancora il travetto di metallo sollevato sopra la testa, ma lui era sulla porta, ad almeno cinque metri di distanza, troppo lontano per poter tentare un attacco. Era controluce, ma Kasey riuscì a vedere che impugnava la pistola di Maggie, e la teneva puntata al petto della poliziotta. Si avvicinò di qualche passo, calpestando i vetri e si fermò a un paio di metri da lei. Teneva la pistola nella mano sinistra, tesa in avanti. Kasey irrigidì la schiena, con aria di sfida. «Ti conviene sparare. Solo così riuscirai ad avvicinarti di nuovo a me.» «Non è così che finirà, Kasey. Sai cosa voglio farti fare.» «Fottiti, psicopatico del cazzo.» «Voglio che tu la uccida» disse lui. «Sei completamente pazzo.»

«Usa il travetto e sfondale il cranio.» «Scordatelo.» «Sì, invece. Farai tutto ciò che è necessario pur di salvarti.» «Tu non mi conosci.» «Ti conosco meglio di chiunque altro. Tu sei proprio come me.» «Non sono come te» sbottò Kasey, ansimando più forte e fissandolo. «Invece sì, e lo sappiamo entrambi. Uccidila.» «Ucciderò te» imprecò Kasey, sollevando il travetto sopra la testa e stringendolo con forza. «Non essere stupida.» «Non mi interessa più cosa mi accadrà.» «Invece io credo di sì. Conosci le regole, Kasey. Sai cosa succederà se fallirai la prova.» «Lascia in pace la mia famiglia. Loro non c'entrano niente.» «Tu non facevi parte del mio gioco, ci sei voluta entrare. Ora non puoi smettere di giocare.» «Sei finito» gridò lei, facendo un passo avanti. «Sei morto.» Lui riconobbe la violenza sul suo volto. «E' una sensazione potente, vero? Odiare a tal punto da arrivare a uccidere. Solo allora ci si sente davvero vivi.» «Questa storia finisce qui.» «Voglio renderti le cose più semplici, Kasey. Ammazzala e ti lascerò andare.» «Cosa?» «Ti lascerò andare» ripetè. «Fine dei giochi.» «Sei un bugiardo del cazzo.» «Non sto mentendo.» Kasey sentì il travetto scivolarle leggermente nella mano. «Non mi lascerai mai andare. Ti ho visto in faccia.» «Ma non mi consegnerai alla polizia, dico bene? Non puoi permetterti di correre un rischio simile. Andiamo, Kasey. Dopotutto, che cos'è un'altra morte sulla coscienza? Ti sto dando la possibilità di uscirne sana e salva.» «Kasey.» La voce di Maggie lo interruppe bruscamente. «Kasey, guardami. Non ascoltarlo. Non credergli.» Lo sguardo di Maggie era calmo e concentrato, come se stesse cercando di convincere Kasey a non buttarsi dal tetto di un palazzo. «Questo tizio è patetico» proseguì, con un tono di voce che diventava via via più deciso e sarcastico. «È un buffone. Ma guardalo. Probabilmente il nostro amico Faccia Butterata è stato deriso dalle ragazze al liceo e ora se la prende con donne scelte a caso. O forse la sua mammina amava fargli indossare la sua biancheria? Com'è che ti chiami, Nieman? Ehi, NieMan in tedesco non significa forse

"nonuomo"? Wow, su questo aspetto gli strizzacervelli avranno da divertirsi.» «Maggie» mormorò Kasey. Nieman non si mosse e non parlò, ma Kasey vide i suoi muscoli tendersi mentre il suo corpo si irrigidiva per la rabbia. Il sorriso gli si congelò sul volto rendendolo simile a una maschera grottesca. «Allora, qual è la tua storia, NieMan?» continuò Maggie. «Cos'è che ti ha trasformato in questa miserabile caricatura di un essere umano? Quando eri piccolo, a tua zia Penny piaceva portarti nello sgabuzzino e giocare con il tuo pipino? Sei cresciuto in una fattoria e hai passato troppo tempo a scopare capre e maiali?» Gli occhi di Nieman non abbandonarono mai quelli di Kasey. «Ammazzala, Kasey» le disse con calma. «Ammazzala adesso e sarai libera.» «E come mai la scelta della scuola?» proseguì Maggie, imperterrita, continuando a ronzargli intorno al cervello come una zanzara. «È tutta colpa di un'insegnante? Una delle tue insegnanti ti ha infilato un manico di scopa nel culo? O sono stati gli altri ragazzini? E magari dicevano alle ragazze di stare a guardare? Ridevano di te? Povero, patetico NieMan.» «Ammazzala, Kasey» ringhiò. «Fallo subito o vi torturerò entrambe in modi che non potete nemmeno immaginare. Mi hai sentito? Pensi che non lo farei?» Quella sfuriata fece indietreggiare Kasey che, improvvisamente, capì. Maggie stava cercando di darle mezzo secondo di vantaggio in modo che lei potesse aggredirlo. Un attimo di distrazione. L'occasione di colpirlo. E stava funzionando. «Allora, me lo racconti o no? Sei un pezzo di merda impotente, NieMan? Non riesci a far alzare il tuo coso dalle palle? Incolpi le donne se tutto quello che hai tra le gambe è un flaccido tubicino di liquirizia? Magari la prossima volta potresti sceglierti un nome come Harry SenzaCazzo, che ne dici? Sarebbe un nome perfetto per te.» Kasey lo vide negli occhi dell'uomo. E anche Maggie. Stavolta era stato colpito. Nieman sbatté le palpebre più forte mentre la sua rabbia era sul punto di esplodere. «Abbassati i pantaloni, SenzaCazzo. Dai, facci fare un'ultima risata.» «Chiudi quella cazzo di bocca! Chiudila! Chiudila!» Nieman si lanciò su Maggie con la mano destra chiusa a pugno e le braccia piegate per assestarle un manrovescio. La canna della pistola seguì il suo movimento. L'uomo distolse la sua attenzione da Kasey. Mezzo secondo. Quando Kasey balzò in avanti lui, con la coda dell'occhio, la vide arrivare, indietreggiò e sparò, ma non fu abbastanza rapido. Il proiettile sfiorò l'orecchio di Kasey con un ruggito rovente per poi perdersi alle sue spalle e,

prima che lui potesse sparare di nuovo, lei abbassò il travetto sul polso dell'uomo. La giuntura della mano si ruppe con un rumore raccapricciante. Nieman lanciò un urlo e mollò la pistola, che cadde a terra. Kasey caricò un altro colpo, stavolta mirato alla testa, ma lui riuscì ad afferrarla per le spalle ed entrambi caddero, atterrando con un tonfo tra i vetri e le macerie. La torcia scivolò via ma rimase accesa, illuminando i loro corpi. Kasey non ebbe il tempo di svincolarsi e l'uomo fu sopra di lei, premendole sulla gola con un avambraccio robusto. Incombeva su di lei, con le pupille scure che vibravano di ferocia. Gli occhi erano visibili nella luce della torcia e lei gli conficcò l'unghia dell'indice nel centro umido di una pupilla. L'uomo gridò e si coprì il volto con una mano. Kasey approfittò del fatto che aveva allentato la presa e gli diede un pugno al centro della gola e un altro su un lato della testa, riuscendo a toglierselo di dosso. Nel triangolo di luce, vide la pistola tra le macerie che coprivano il pavimento e si lanciò per prenderla. Nieman, comprendendo le sue intenzioni, scalciò e il suo stivale picchiò contro il cranio di Kasey, con un colpo che la stordì e la fece roteare sulla schiena. Poi spiccò un balzo, le atterrò sul petto e le spinse la testa sul pavimento, girata di lato, dove i cocci di vetro le tagliarono la guancia e le labbra. Prima che riuscisse nuovamente a prenderle la testa, lei gli afferrò l'altra mano e fece ruotare il polso spezzato. Nieman emise un urlo lacerante e mollò la presa, permettendole di arretrare, contorcendosi sul pavimento. Kasey tastò il terreno alla ricerca della pistola ma non riuscì a trovarla. L'uomo strisciò verso di lei, costringendola ad arretrare ancora, finché andò a sbattere contro qualcosa di freddo e umidiccio. Quando Kasey strinse la mano attorno a quella cosa, le sue dita affondarono in mezzo a carne morta e putrefatta. Era finita in mezzo ai cadaveri, travolta dal loro fetore. Continuò a indietreggiare, riparandosi dietro la fila di corpi, ma lui continuò ad avanzare, alzandosi prima in ginocchio poi torreggiando sopra di lei. L'occhio destro di Nieman era chiuso e la mano sinistra penzolava a una strana angolatura. Ma era in piedi, mentre lei era ancora stesa sulla schiena. Kasey, indietreggiando, raggiunse la parete, contro la quale fu costretta ad arrestarsi. Lui scaraventò da parte le sedie e due corpi caddero grottescamente a terra, facendo scappare i ratti in mille direzioni. I loro sguardi si incrociarono. Nieman sorrise, spiccò un balzo e le atterrò addosso, schiacciandola con tutto il peso del suo corpo e privandola dell'ossigeno che aveva nei polmoni. Con la mano sana le serrò la gola, soffocandola. Kasey cercò di allargare le dita che le premevano sul collo e lo colpì con pugni alla testa e al corpo, ma lui non cedette. Con il sangue che le martellava nelle orecchie, aprì la bocca per inspirare ma

l'ossigeno non le giunse ai polmoni. Disperata, artigliò il pavimento, in cerca di un'arma e le sue dita trovarono un coccio di vetro con cui tagliò l'uomo, ma il sangue e il dolore non bastarono a farlo cedere. Quella mano era una morsa che stava schiacciando la cartilagine del suo collo. «Hai perso, Kasey» sibilò Nieman. Maggie gridò: «Alla tua sinistra! Kasey, alla tua sinistra!». Col braccio sinistro lei tastò il terreno intorno a sé, mentre i capillari del viso esplodevano come minuscoli fuochi artificiali. «Più su!» Kasey si allungò all'indietro rischiando di slogarsi una spalla, e fu allora che lo sentì. Le sue dita strinsero un pesante pezzo di cemento staccatosi dalla parete. Lo strinse come una palla da baseball e la sollevò da terra. Il braccio vacillò per il peso, rischiando di farle perdere la presa. «Sì! Colpiscilo!» Si mosse troppo lentamente e mancò il colpo. Aveva le dita intorpidite e rischiò di lasciar andare il blocco. Come ubriaca, colpì l'uomo alla nuca, e stavolta udì lo schiocco di un osso che si rompeva. Nieman allentò la stretta e cadde su di lei a peso morto, privo di conoscenza. Rivoli di sangue scorrevano dai suoi capelli sul volto di Kasey. Lei lo spinse di lato e si rimise in piedi, con il mondo che le vorticava intorno. Tossì, cercando disperatamente di incamerare ossigeno. «Kasey!» gridò Maggie. «Stai bene?» Kasey incespicò sulla torcia. Si chinò, la raccolse, e il raggio di luce danzò come impazzito tra le sue mani mentre lei recuperava l'equilibrio. Sul pavimento, individuò la pistola di Maggie. La raccolse e poi l'impugnò con l'altra mano. Si mosse lentamente verso il muro e abbassò la luce verso il corpo di Nieman. «È morto?» chiese Maggie. Kasey lo osservò con attenzione. Una pozza scura si stava allargando sotto la sua testa, ma il petto continuava ad alzarsi e abbassarsi. Non lo aveva colpito abbastanza forte da ucciderlo. L'incubo non era ancora finito. Lui gemette e mosse gli arti, mentre bolle di sangue gli gorgogliavano sulle labbra e le palpebre si muovevano veloci. Si stava riprendendo. «Presto, aiutami a liberarmi» le disse Maggie. Kasey non si mosse. Non riusciva a farlo. Immobile, fissava l'uomo che stava rinvenendo. Anche lei sanguinava, e rivoli rossi le segnavano il collo. Stesa accanto a lui, vide la pelle bluastra di una delle vittime. Qualcosa si contorceva nel collo della donna. Larve. «Kasey» disse Maggie, in tono preoccupato. Nieman aprì gli occhi. Ecco cosa stava aspettando Kasey. Che si aprissero abbastanza da permettergli di vederla sopra di sé. Voleva che sapesse che lei era lì e che la sua immagine gli penetrasse la mente. Nieman vide Kasey con la pistola, e comprese subito cosa aveva intenzione

di fare. E perché. «Sei un'assassina, Kasey» disse lentamente, allargando le labbra in un sorriso spezzato. «Proprio come me.» Lei annuì. «Hai ragione.» Alzò la pistola e gli piantò un proiettile nel cervello.

52 Serena avanzò lungo il vialetto. I suoi stivali lasciavano impronte nella neve. Le luci della fattoria erano accese, e dietro una finestra vide un'ombra muoversi al secondo piano. Si avvicinò e trovò la porta spalancata. Un furgone da traslochi era parcheggiato all'esterno, con il motore acceso e una vecchia Ford Escort sul retro, agganciata per il traino. Era la stessa macchina che aveva visto da Regan Conrad, l'auto che si era dileguata mentre Serena era in casa. Tutto quadrava, benché desiderasse il contrario. Serena sentiva il gonfiore della pistola sotto la giacca, nella fondina ascellare, ma la lasciò dov'era. Sulla soglia, esitò. La casa era stata praticamente svuotata, ma in soggiorno era rimasto un vecchio televisore, che in quel momento era acceso e sintonizzato su un canale locale. Udì la voce affannata di Blair Rowe e vide la scritta edizione straordinaria scorrere nella parte bassa dello schermo. LA POLIZIA RECUPERA IL CORPO DI UN BAMBINO NEI PRESSI DEL CIMITERO. Il notiziario spiegava perché gli occupanti della casa avessero tutta quella fretta di allontanarsi. Sapevano che ci sarebbe stata un'ispezione nel bosco, sapevano cosa la polizia avrebbe trovato e che non ci sarebbe voluto molto prima che qualcuno si presentasse alla loro porta. Serena entrò silenziosamente. Il piano terra era vuoto, ma dal piano superiore giunse un rumore di passi pesanti e affrettati. Vide un uomo barbuto e corpulento scendere le scale. Appena la vide si immobilizzò, spaventato e sorpreso. Il cuore di Serena prese a battere più forte. L'uomo reggeva tra le braccia un neonato avvolto in una coperta. Serena non riusciva a vederne il volto, coperto da un cappuccio, ma sapeva di chi si trattava. Aveva sospettato fin dall'inizio ciò che avrebbe trovato in quella casa, ma non si era concessa di credere razionalmente che sarebbe finita così. Una manina sbucò da sotto la coperta e tirò la barba dell'uomo. Il cappuccio scivolò mettendo la testolina allo scoperto e Serena vide spuntare riccioli biondi, un bel visetto con occhi grandi e un sorriso. La bambina di Valerie. Era Callie Glenn. Viva. Sana e salva. Serena sollevò le mani per fermare l'uomo. «Resta dove sei, okay? Vediamo di non perdere la calma. Nessuno deve farsi male.» L'uomo non si mosse e rimase in silenzio.

«Dov'è Kasey?» chiese Serena a Bruce Kennedy. Bruce si accasciò sui gradini. La testa sprofondò nel collo taurino. «È uscita.» «Pensavate davvero di riuscire a farla franca?» Bruce tese un grosso dito, che Callie afferrò e si infilò in bocca. Gli occhi dell'uomo si gonfiarono di lacrime. «Non so cosa pensavo. Davvero, non credevo saremmo arrivati a questo. Poi, quando ho visto il notiziario, ho capito che sareste venuti da noi a riprendervela.» Serena indicò il divano. «Perché non vieni di sotto, Bruce, e mi racconti tutto? Mi racconti perché tu e Kasey l'avete fatto.» Bruce scese le scale stringendo Callie come fosse un tesoro. Tra le sue enormi braccia, sembrava poco più che un fagottino. Bruce lanciò un'occhiata alla porta aperta alle spalle di Serena, e quest'ultima scosse la testa. «Per favore, non provarci neanche» gli disse. «Fuori ci sono un sacco di poliziotti. Scappando non faresti che mettere in pericolo la piccola.» «Non potrei mai farlo.» Si sedette su un angolo del divano e Serena si sistemò di fronte a lui. La donna non riusciva a staccare gli occhi da Callie. Quella bambina era ancora più bella di quanto avesse immaginato. Fino a quel giorno l'aveva vista solo in una foto, e da tempo si era preparata al momento in cui l'avrebbe trovata priva di vita. O all'idea di non trovarla mai. E invece eccola lì, perfetta e bellissima. Era così felice che le si spezzava il cuore, e si accorse che stava piangendo. La visione di Callie l'aveva colpita con più forza di quanto pensasse. «Non è bellissima?» chiese Bruce. Serena annuì senza parlare. Non ci riusciva. «Non potete portarcela via.» «Dimmi cosa è successo» lo invitò Serena, con voce rotta. «Per l'amor del cielo, perché avete fatto una cosa simile?» Bruce sprofondò nel divano, con Callie poggiata sul petto. «Il nostro bambino non ha avuto nessuna occasione.» «Vostro figlio? E lui che abbiamo trovato nel bosco?» «Sì.» «Raccontami.» Bruce scosse la testa. «I polmoni di Jack hanno avuto uno sviluppo anomalo. Povero piccolo, diventava blu ogni volta che cercava di respirare, e più cresceva, più la lotta diventava impari.»

«Lo avete portato da un medico?» chiese Serena. «Certo. Hanno fatto un sacco di esami e di controlli, gli hanno fatto passare le pene dell'inferno e alla fine sono riusciti a dirci solo che i difetti erano troppo gravi. Un intervento lo avrebbe ucciso e se non lo avesse fatto sarebbe morto comunque. Era solo questione di tempo. Non volevamo che morisse in ospedale. Lo volevamo a casa, con noi. Almeno sarebbe stato coccolato, finché il tempo lo avesse permesso.» «Mi dispiace.» «Kasey era caduta in una forte depressione. Non dormiva mai. Era pronta a uccidersi se fosse servito a guarire nostro figlio, e pensava che fosse colpa sua se lo stavamo perdendo.» «Mi hai parlato di numerosi difetti congeniti. Non è colpa di nessuno.» «Lo so, ma Kasey pensava che Dio ci avesse abbandonato. Era disperata.» Serena studiò la spaventosa malinconia dipinta sul volto di Bruce e cercò di figurarsi il modo in cui le loro menti erano andate in pezzi, un mese dopo l'altro, a causa della malattia del loro bambino. «E Callie?» chiese. Bruce guardò la piccola stesa tra le sue braccia. «È stata Regan a dare l'idea a Kasey. Era la nostra infermiera all'ospedale. Per tutto l'anno è venuta a casa nostra tutti i giorni a darci una mano. Non credo che, senza di lei, Kasey sarebbe sopravvissuta.» «Cosa vi ha detto?» «Che Jack stava morendo e che non c'era nulla da fare» rispose Bruce con un sospiro. «Ci disse che non era giusto, che qualcuno ci aveva rifilato una grossa fregatura, che meritavamo di avere un bambino. Ci parlò di Marcus Glenn e di come lui non amasse Callie perché non era sua, di come lui e sua moglie si tradissero a vicenda, e di quanto sarebbe stato orribile per la bambina crescere in un simile ambiente familiare. Disse che quella notte Dio aveva commesso un errore e invertito i due neonati. Ecco di cosa si era trattato. Di un errore. Quei due avevano avuto una splendida bambina in perfetta salute, e noi eravamo costretti a sopportare l'agonia di vedere il nostro ometto combattere e combattere senza possibilità di farcela. Capisci? Non è così che doveva andare.» Serena sentì un'ondata di rabbia all'idea di Regan che approfittava delle loro anime vulnerabili. Si era servita di Kasey e Bruce come pedine nel suo piano di vendetta contro Marcus e Valerie Glenn. «Poi, cosa è successo?» chiese. «La settimana scorsa, finalmente Jack ha smesso di lottare» rispose Bruce. «Ci ha lasciati.» «E voi cosa avete fatto?» «Ho pensato che se era stato davvero un errore del Creatore, avrei potuto

sistemare le cose. Ho voluto seppellirlo vicino alle tombe della famiglia Glenn. Volevo che fosse protetto, che qualcuno si prendesse cura di lui. Quella notte l'ho portato al cimitero e l'ho sepolto. Finalmente aveva trovato la pace. Era dove avrebbe dovuto essere fin dall'inizio.» Serena chiuse gli occhi. «E Kasey?» «Kasey era andata a prendere Callie. Regan ci aveva detto che era l'unico modo possibile per portarla via ai Glenn. Possedeva una chiave della casa del dottore, e si offrì di aiutarci. Ci disse che dovevamo andare a salvare la piccola.» Serena fissò la bambina tra le braccia di Bruce. La piccolina non sapeva nulla di tutto il dolore che la circondava, era del tutto inconsapevole della sofferenza e della disperazione che la situazione in cui si trovava aveva generato. «Bruce, posso tenerla in braccio?» Serena trattenne il fiato, in attesa di una reazione dell'uomo. Voleva sincerarsi se fosse pronto a lasciarla andare. In cuor suo, pensò Serena, doveva sapere che non l'avrebbe mai più riavuta indietro. Che non l'avrebbe più abbracciata. Era la figlia di qualcun altro. Il loro bambino era sepolto nel terreno. Bruce emise un singhiozzo e posò delicatamente una mano sui capelli della piccola. «Non posso perdere anche lei» mormorò. «Capisco. Lascia solo che la abbracci per un po'.» "Dalla a me. Lascia che torni a casa, dai suoi veri genitori. Piangi il tuo vero figlio." Bruce sollevò Callie tendendo le braccia. La bimba ridacchiò. Bruce torse la bocca in una smorfia di terribile sofferenza, nonostante si sforzasse di sorridere per non spaventare la piccola. Serena si alzò dal divano e allungò le mani. Le sue dita sfiorarono la coperta della bimba, poi portò le mani intorno ai fianchi di Callie. Per un istante, Bruce parve esitare e continuò a stringere Callie, come se quella separazione fosse troppo dolorosa da sopportare. Poi, con un leggero strattone, Serena prese la bambina e se l'appoggiò al petto. Bruce le guardò entrambe mentre Serena tornava a sedersi, poi si nascose il volto tra le mani. Ora piangeva per entrambi i bambini. Uno morto e l'altra viva, ma entrambi ormai fuori dalla sua vita. Serena sapeva che lui amava moltissimo Callie, anche se non era sua. «Dimmi cos'è successo quella notte, Bruce. Cos'ha fatto Kasey?» «È andata a Grand Rapids. E' entrata nella casa del dottore e ha preso Callie.» «Poi?» «Poi si è persa nella nebbia.»

53 «Sei pazza?» gridò Maggie. «Kasey, che cazzo hai fatto?» Dalla pistola nelle mani di Kasey si alzava un filo di fumo. L'odore di polvere da sparo bruciata coprì per un momento il fetore della morte. Lei guardò l'uomo che giaceva a terra, la materia grigia schizzata sulla parete dietro di lui. Insanguinata e stordita, si appoggiò a una colonna di cemento, scivolò sul pavimento, poggiò la pistola accanto a sé, poi puntò la torcia in faccia a Maggie. «Lo sapeva» le disse. «Di cosa stai parlando?» «Sapeva di Callie.» Maggie la fissò e spalancò la bocca. La confusione nei suoi occhi si tramutò in qualcos'altro. Consapevolezza. Orrore. Rabbia. Kasey sentì il giudizio di Maggie gravarle addosso e detestò quella sensazione, perché Maggie le piaceva. Non avrebbe mai voluto che finisse così. Avrebbe solo voluto scappare nel deserto con suo marito e sua figlia. «Perché?» chiese Maggie. Kasey fece spallucce. «Dio si è portato via mio figlio senza un buon motivo, ha lasciato che morisse. Non meritavo di perdere il mio bambino in quel modo. Non meritavo di partorire un bambino malato, mentre Valerie Glenn ha partorito una bambina bellissima e in perfetta salute. Ho deciso che non sarei riuscita a convivere con tutto ciò.» Dirlo a voce alta, raccontare a qualcuno la verità, fu un sollievo. Aveva da tempo accettato chi era e cosa stava facendo. Era determinata a fare tutto il necessario per cancellare l'anno appena passato e tutta la sofferenza e il dolore che, insieme a Bruce, aveva dovuto affrontare. Quella notte, nella nebbia, aveva affrontato la verità su se stessa e deciso che una volta che si è superato il confine non si può più tornare indietro. Maggie capì. Era una ragazza sveglia. «Susan Krauss» disse a bassa voce. «Cos'è successo veramente?» «Quella notte, Callie era sul sedile posteriore della mia auto» spiegò Kasey. «Ero ormai a casa. Riesci a crederlo? Quando mi sono persa ero, al massimo, a un chilometro e mezzo da casa. E all'improvviso mi sono ritrovata in mezzo a un bosco, con Susan Krauss sanguinante fuori dalla mia auto. Lei ha visto Callie. Non potevo lasciarla andare. Dovevo inseguirla... e inseguire anche lui.» «Non l'ha uccisa Nieman.» Kasey scosse la testa.

«No. Quando lui è fuggito in direzione della superstrada Susan era ancora viva. Quando Nieman ha lasciato cadere la garrota lei respirava ancora, anche se a malapena. Io l'ho raggiunta e ho pensato che era mio dovere salvaguardare la sua incolumità. Poi ho pensato che avrebbe visto le foto di Callie in tv e fatto due più due. Dopo tutti quei sacrifici, non potevo permettere che succedesse. Ho pensato che quella donna era ormai mezza morta e che avrebbero incolpato lui. Così ho raccolto la garrota e finito il lavoro.» Maggie lottò contro i legacci che la tenevano stretta alla sedia di legno. «Mio Dio, Kasey.» «Lo so. Ti ho deluso. Mi dispiace.» «Nieman sapeva che eri stata tu, e non lui, a uccidere quella donna. Ecco perché ti stava addosso.» «Sì, sapeva che ero stata una ragazza cattiva. Cos'altro posso dire?» La luce della torcia si affievolì, e Kasey la scosse leggermente rimettendola in funzione. Le parve di udire un rumore provenire da oltre i muri in rovina dell'aula e girò di scatto la testa. Rimase in attesa, ma non si mosse nulla. Tranne i fantasmi. In quel luogo c'erano un sacco di fantasmi a tormentarla. Kasey fissò i corpi vicino alla parete e i loro occhi senza vita. Ogni notte, Susan Krauss era andata a trovarla in sogno e aveva gli stessi occhi. Kasey era sopra di lei, sul campo dietro il caseificio, e quegli occhi supplicavano aiuto, supplicavano di essere portati al sicuro. Avevano guardato Kasey come se lei fosse la salvezza, poi quello sguardo si era trasformato in panico e incredulità mentre Kasey le stringeva il filo d'acciaio intorno al collo. Una volta varcata la linea, non si può più tornare indietro. «E Regan Conrad?» chiese Maggie. Il volto di Kasey avvampò di rabbia. «Io e Regan avevamo pianificato tutto, ma lei non è riuscita a tenere la bocca chiusa. Ho capito che mi aveva mentito fin dall'inizio, che non si trattava di me e del mio bambino, ma del suo odio verso i Glenn. Quando cominciò a deridere Valerie, compresi che avrebbe rovinato tutto. Quella sera, a cena, Serena ci informò che si sarebbe procurata un mandato di perquisizione. Se lo avesse fatto, avrebbe trovato informazioni su di me, su Regan e sul mio bambino. Così mi sono dovuta occupare di lei e ho sottratto la documentazione medica che mi riguardava, per impedire che altri potessero trovarla. Pensavo che avrebbero incolpato Nieman anche di quell'omicidio, ma neanche lontanamente avrei pensato che mi stesse tenendo d'occhio. Deve avermi visto entrare e ha portato via il cadavere. Per farmi impazzire.» Maggie la fissò come se la vedesse per la prima volta.

«Kasey, cosa ti è successo?» Kasey le lanciò un'occhiata piena di rammarico, e il suo cuore si indurì, come era già successo molte altre volte nel corso dell'ultimo anno. «Immagina di vedere il tuo piccino spegnersi giorno dopo giorno, notte dopo notte. Non fa che peggiorare e non c'è niente che tu possa fare, se non guardarlo morire. E sei sola. Non c'è nessun Dio. Nessuna pietà. Puoi solo incolpare te stessa e ripeterti che razza di pessima madre sei. Cerchi di sopravvivere a undici mesi d'inferno...» iniziò a gridare «e poi trovami un valido motivo che giustifichi il fatto per cui Valerie Glenn dovrebbe avere Callie quando tu non hai un bel cazzo di niente!» P icchiò più volte il pugno contro il cemento, costringendo i ratti a fuggire spaventati in ogni direzione. Respirò affannosamente e la stanza tornò silenziosa, fatta eccezione per il suono del suo respiro e per l'incessante gocciolio dell'acqua. Poi, ancora una volta, le parve di udire un rumore provenire da un'altra stanza. Strinse gli occhi a fessura e lasciò libero sfogo all'immaginazione. «Mi dispiace» mormorò Maggie. Kasey fece spallucce. Era ansiosa di andarsene da quel posto. «Non trattarmi con condiscendenza.» «E adesso che succede?» «Sai benissimo cosa mi resta da fare. Vorrei che ci fosse un altro modo, ma ormai mi sono spinta troppo oltre per tornare indietro.» «Non puoi pensare di scappare e farla franca. Capiranno tutto. Scopriranno di Callie e di tutto il resto.» «Ormai è troppo tardi» disse Kasey. «Credimi, non avrei mai voluto tirarti in mezzo. Era una faccenda tra me e lui. Ma ora non ho scelta.» «Kasey; tu non sei come lui. Ma se mi ammazzi non sei migliore di lui.» «Hai ragione, non lo sono.» Kasey raccolse la pistola ancora calda e con movimenti stanchi si drizzò in piedi e si appoggiò alla colonna di cemento. Agitò di nuovo la torcia e vide il raggio di luce vacillare. Si piegò sul corpo di Nieman, gli infilò una mano in tasca e trovò le sue chiavi. La sua via di fuga. Tornò a girarsi verso Maggie e la mano le tremò. Sapeva cosa doveva fare, ma non avrebbe mai voluto farlo. Era con le spalle al muro e senza scappatoie. Nell'ultima settimana, aveva ucciso tre volte. Quello era solo un altro omicidio. L'ultimo. Poi sarebbe stata finalmente libera. A un paio di metri da lei, Maggie lottò, divincolandosi nel tentativo di liberarsi. «Non farlo Kasey, io ti conosco, tu non sei così. Non farlo.» Kasey capì che nessuno sapeva davvero chi fosse. Bruce. Regan. Maggie.

Nessuno di loro. L'uomo sul pavimento, l'uomo che l'aveva perseguitata, l'uomo che lei aveva ucciso, si era vantato di averla capita. Aveva sostenuto di essere in grado di vedere nella sua testa. Aveva detto che loro erano spiriti affini. La terribile ironia era che aveva ragione. A conti fatti, era quello che l'aveva capita meglio di chiunque altro. «Mi dispiace» disse. Sollevò la pistola e la puntò alla testa di Maggie. Si avvicinò a lei di un passo. Poi si immobilizzò. Stavolta il rumore le giunse chiaro e inconfondibile, non era il prodotto della sua paura. L'eco di passi che si avvicinavano calpestando i cocci di vetro. Nell'edificio c'era qualcun altro. «Ferma!» ordinò una voce dal buio.

54 La Mustang di Serena era un bozzolo di silenzio. C'erano solo lei e Callie. Dallo specchietto retrovisore, vedeva la bimba addormentata sul seggiolino che aveva preso dalla Escort di Bruce Kennedy. Dormiva come un angioletto, pacifica e innocente, inconsapevole di tutto ciò che le era successo. Ecco la benedizione dell'essere così piccoli. Non si sarebbe mai ricordata di Kasey che la rapiva dalla sua culla o di quando, subito dopo, la donna si era persa nella nebbia, né di quando era rimasta da sola sul sedile posteriore dell'auto, mentre Kasey inseguiva Susan Krauss in mezzo ai boschi. Non avrebbe mai ricordato le giornate trascorse in una casa che non era la sua. Mentre dormiva, probabilmente si era già dimenticata di tutto quanto e sognava di essere tra le braccia di Valerie. Era quella la parte triste dell'essere così piccoli. Non avrebbe ricordato le lacrime di gioia di sua madre quando l'avrebbe riabbracciata. Il pianto di sollievo e di felicità. L'abbraccio senza fine. Non avrebbe mai saputo di essersene andata ed essere poi tornata. Serena guidava lentamente. In quelle strade deserte, buie e innevate era meglio procedere con prudenza. Sarebbe stato fin troppo facile investire un cervo, troppo facile uscire di strada. In realtà desiderava che quel viaggio non finisse mai. Per un'ora, Callie era affidata totalmente alle sue cure, e Serena capì che Valerie aveva ragione. Poiché non aveva figli, lei non aveva mai compreso la disperazione per la perdita di un figlio e il senso di responsabilità che l'accompagnava. Ora, per un breve momento, l'aveva capito. Avrebbe sacrificato la propria vita per quella bambina. Desiderava fermare quel momento in una sorta di animazione sospesa, fino a quando avrebbe passato di nuovo a Valerie il testimone della responsabilità. Il giorno dopo sarebbe stato tutto diverso: i media avrebbero circondato la casa dei Glenn, i fotografi avrebbero riempito di foto le copertine delle riviste e nella sala riunioni di Grand Rapids avrebbero stappato una bottiglia di champagne. Sarebbe stato un giorno pieno di gioia. L'indomani sarebbe stato il suo primo giorno di fronte a un nuovo mondo. Il suo nuovo mondo. Da sola. Ma quella sera era riservata solo a lei e a Callie. «Quando sarai grande, leggerai tutta la storia sui giornali» disse alla bambina, che dormiva placidamente, inconsapevole di tutto. Si chiese a che età Callie avrebbe espresso curiosità in merito al suo rapimento quando era ancora in fasce. A quindici, diciotto anni? Forse mai. Forse Valerie avrebbe cercato di tenerglielo nascosto, ma Serena sapeva che un'esperienza del genere non avrebbe potuto essere tenuta sotto silenzio. Con il passare degli anni, si sarebbe insinuata nella coscienza di Callie, come

qualcosa di cui la gente parlava e che lei non comprendeva, qualcosa che la rendeva diversa. Un giorno avrebbe voluto saperne di più. Non sarebbe stato facile né piacevole. C'era il lieto fine, certo, ma sarebbe stato meglio tenere segreti i fatti che l'avevano preceduto. Quando arriva il momento in cui scegli di scoprire che il padre con cui vivi era il sospettato principale del tuo rapimento, un uomo che tutti accusavano di averti uccisa e sepolta? Quando arriva il momento in cui desideri conoscere le sue dichiarazioni, in cui afferma che avrebbe preferito che tu non fossi mai nata? Quando arriva il momento in cui tua madre ti racconta che quell'uomo non è il tuo vero padre e cominci a pensare che non sei nata per un atto d'amore, ma perché tua madre si sentiva talmente sola che è andata a cercare conforto tra le braccia di un altro uomo? Quando arriva il momento in cui capisci che nessuno è innocente e tutto ruota intorno al tradimento? Non certo ora e neppure per molti anni a venire. «Spero che tu non biasimerai mai te stessa» disse Serena. «Anche se è facile che accada. La mente è strana. Succede una cosa sulla quale tu non hai alcun controllo, eppure in qualche modo pensi che sia colpa tua.» Guardò nello specchietto retrovisore sorridendo e aggiunse: «Se dovessi mai sentirti così non esitare a chiamarmi, intesi? Verrò da te e faremo due chiacchiere. Ti racconterò di come tu hai salvato la vita a tua madre molto prima che lei salvasse la tua». Superò la svolta che conduceva alle strade sterrate del cimitero di Sago e rabbrividì. Ecco come agiva il destino. Nella stessa notte erano nati due bambini: uno era morto, l'altra era sopravvissuta. Non era giusto. «Ormai sei a casa, Callie» disse. Gli ultimi chilometri scivolarono via, inghiottiti dal pulsare ipnotico del motore. La foresta si diradò e la civiltà si avvicinò di nuovo. Comparvero degli edifici, le sagome scure delle case che circondavano la statale. Erano le due del mattino quando imboccò le strade del centro, vuote e artificiali come il set di un film. Il silenzio la seguì oltre l'ultimo ponte. Poi quella pace fu lacerata dal gemito assordante di una sirena della polizia. Nello specchietto retrovisore vide luci rosse che roteavano e si avvicinavano, poi una pattuglia dell'ufficio dello sceriffo la superò, svoltando nella strada che conduceva a casa di Valerie. Non c'era bisogno che qualcuno glielo dicesse. Disperata, Serena capì dov'era diretta. «Oh, no» disse. Stride guardò la torcia di Kasey dirigersi oscillando verso di lui e catturarlo nel punto in cui si trovava, tra le macerie e i cavi sospesi di un muro frastagliato. Kasey girò la testa e lo vide, vide che reggeva la pistola con

entrambe le mani ma non abbassò l'arma, e la puntò invece su Maggie, a bruciapelo. «È finita» disse lui. Il volto della donna era coperto di sangue e sporcizia. Aveva la camicia strappata, da cui sporgevano i seni, e i capelli rossi erano tutti arruffati. Le braccia tese e malferme reggevano la pistola. Stride sostenne il suo sguardo e ciò che vide negli occhi della donna non gli piacque. Dietro lo sfinimento e il panico, vide tormento. Avrebbe fatto di tutto pur di riuscire a scappare. «Abbassa subito quell'arma» la ammonì. Il labbro inferiore di Kasey tremò. Era in iperventilazione, e il petto le si gonfiava e sgonfiava ritmicamente. La gabbia che aveva costruito iniziava a stringersi intorno a lei. «Kasey, non sono venuto solo, questo lo capisci? Stanno arrivando altri poliziotti e non ci sono vie di fuga. Mi stai ascoltando? Nessuna via di fuga. Ora abbassa la pistola, così nessuno si farà del male.» Stride spostò lo sguardo su Maggie. Era pallida e il collo le sanguinava. Nonostante la canna della pistola fosse a pochi centimetri dal suo volto, non mostrava segni di paura. Quando si accorse che Stride la stava osservando, le sue labbra si mossero a formare silenziosamente due parole. Sto bene. Ma non era così. Il suo dito era ancora saldamente intorno al grilletto. «Sappiamo tutto di Callie» riprese Stride. «Ascoltami, Kasey. E' finita. La polizia, in questo momento, è a casa, tua. Callie tornerà con i suoi genitori, e non c'è nulla che tu possa fare per impedirlo.» «Vi riprenderete Callie?» mormorò Kasey. La sua voce sembrava quella di una bambina smarrita. «Mi dispiace.» «Non potete portarmela via.» «Il mistero è stato risolto, Kasey. Ora tutti conoscono la verità. È ora che tu ti lasci aiutare.» Disperazione e orrore passarono sui volto di Kasey. «Mio Dio, è stato tutto inutile.» Lui tenne d'occhio la pistola. Il dito. Nessuno dei due si mosse. «Adesso devi abbassare la pistola. Subito.» «Inutile» ripetè. «È stato tutto inutile.» «Kasey, fai come dice» intervenne Maggie, con voce ferma. «Abbassa l'arma.» I grandi occhi di Kasey si girarono verso la poliziotta.

«Mi dispiace, ma non posso. Devo assolutamente andarmene da qui.» La voce di Maggie si ammorbidì. «Ascoltami, Kasey, ti capisco. Io ho abortito e ho incolpato me stessa. Sono andata fuori di testa. Ho fatto cose di cui mi pentirò per sempre. So come ti sei sentita. Volevi bene a tuo figlio ma non c'era niente che potessi fare per lui. È il dolore peggiore che una donna possa provare, peggiore persino della morte. Ma non è questa la soluzione, e tu lo sai.» Kasey abbassò il gomito e la canna della pistola si inclinò verso i pannelli sfondati del soffitto. Poi il suo corpo sembrò sgonfiarsi. Stride fece un passo verso di lei, continuando a stringere la pistola con entrambe le mani. «Brava, Kasey. Ora sdraiati a terra e metti le mani sopra la testa.» Kasey lo fissò con uno sguardo ferito che lo colse alla sprovvista, poi si inginocchiò sul pavimento. Stride stava iniziando a rilassarsi, quando si rese conto che lei impugnava ancora la pistola e che la stringeva ancora con la stessa intensità di prima. Non aveva staccato il dito dal grilletto. La guardò negli occhi e capì che la sua arrendevolezza era simulata. Non si stava consegnando. Anche Maggie lo vide. «Stride» disse, nel tentativo di avvisare il collega, ma lui reagì con troppa lentezza. Kasey mosse un dito, non della mano con cui reggeva la pistola, ma dell'altra. Spense la luce e le rovine piombarono di nuovo nell'oscurità. Stride intuì ciò che stava per succedere. Si gettò di lato e dalla pistola di Kasey partì un colpo. Qualcosa di rovente gli attraversò la pelle del collo, seguito dal calore del sangue che cominciò a inzuppargli la camicia. Cadde a terra e rotolò tra vetri appuntiti e mucchi di pietre. Esplosero altri colpi, e i proiettili rimbalzarono caoticamente sul pavimento e sulle pareti intorno a lui. Polvere e frammenti di cemento scesero come una nube sul suo volto. Continuando a rotolare andò a sbattere contro una colonna di cemento. L'aggirò e poi vi si accovacciò dietro. Si azzardò a sbirciare oltre la colonna, ma non vide e non sentì nulla in quell'ambiente buio e improvvisamente silenzioso. L'aria intorno a lui era satura di fumo. A cinque metri di distanza, la torcia di Kasey si riaccese, ma prima che Stride potesse mirare e poi sparare, la luce si spense di nuovo, e dal buio giunsero fino a lui i passi di corsa della donna che stava scappando. Nell'arco di mezzo secondo la luce si accese e si spense in un'altra stanza e Stride capì che Kasey sfruttava quei brevi attimi di luce per orientarsi. «Mags» sibilò Stride. «Sono qui.»

Guidato dal suono di quella voce, procedette a tentoni. Scalciò un mucchio di pezzi di metallo e, spaventato, si accovacciò in attesa dello sparo, che non giunse. Avvertiva distintamente i passi di Kasey attraversare un'altra stanza, in cerca di una via d'uscita. «Stride» sussurrò Maggie. Lui passò le mani lungo i bordi della sedia per individuare i nodi. «Stai bene?» le chiese, «Sono viva.» Quando artigliò il nastro adesivo si rese conto che non sarebbe riuscito a scioglierlo a mani nude, allora raccolse dal pavimento un pezzo di vetro affilato e tagliò uno dei legacci, liberando una mano di Maggie. Lei emise un grido soffocato, mentre Stride slegava anche l'altra mano e i piedi. «Alzati con cautela» sussurrò, ma lei non gli diede ascolto. Si alzò di scatto, poi vacillò e cadde all'indietro, finendogli addosso. Stride la afferrò con entrambe le braccia, mentre la sedia si rovesciava. Lei gli mise le mani intorno al collo e sentì il sangue che usciva dalla ferita. «Cazzo, ma sei ferito» disse. «Mi ha colpito di striscio. Fa un male cane, ma non è nulla.» Un cono di luce trapassò il buio del corridoio di fronte e loro, gettando ombre oltre le colonne di cemento. Per la prima volta, Stride scorse i corpi che erano stati nascosti nella scuola e imprecò. Maggie indicò il cadavere di un uomo con un foro di proiettile al centro della fronte, disteso a terra proprio accanto a loro. «Quello è il nostro uomo. L'assassino delle fattorie. Kasey gli ha sparato.» Stride annuì. Da un punto poco distante dell'edificio, da dove proveniva la luce della torcia, giunse fino a loro il rumore di un colpo di pistola sparato da Kasey contro una delle tavole di compensato inchiodate alle finestre. La donna fece fuoco altre due volte e il suono delle esplosioni rimbombò tra le pareti. Il legno si scheggiò e si spezzò. Videro sbuffi di fumo levarsi nel cono di luce. Ci fu una breve pausa, a cui seguì il rumore di un tonfo provocato da Kasey che si era gettata di peso contro la barriera di legno. Il compensato si spezzò con un suono simile a un urlo. Nella parete della scuola si aprì un'apertura, e i due poliziotti avvertirono subito il cambiamento di pressione nell'aria. La luce della torcia scomparve. «È uscita» disse Maggie. Stride le passò un braccio intorno alla vita per sostenerla. «Dobbiamo andarcene da qui. La prima cosa che farà sarà andare a cercare Callie.»

55 «Valerie è scomparsa» disse Denise a Serena. «Scomparsa? Come è potuto accadere?» Serena non ebbe risposta. Denise guardò oltre la sua spalla, verso il sedile posteriore sul quale dormiva Callie, e la sua maschera da dura poliziotta si sciolse all'istante. Serena sentì che tratteneva il respiro mentre si copriva il volto con le mani a coppa, quasi stesse pregando. Denise aprì la portiera e slacciò delicatamente la cintura di sicurezza, poi sollevò Callie come se fosse fatta di fragile porcellana. La bambina non si svegliò. «Mio Dio» mormorò Denise. «Piccola, pensavo che non ti avrei più rivista.» Abbracciò la nipote e affondò il viso tra i suoi morbidi riccioli biondi. In quel momento, nient'altro aveva importanza. Non esistevano infedeltà, rabbia, né vite complicate. C'era solo la gioia. «Avevo perso ogni speranza» ammise. «Sproniamo sempre le famiglie a non arrendersi, ma stavolta ero io a non crederci. Pensavo fosse morta. Dio mi perdoni, avrei dovuto avere più fede.» Serena scese dall'auto. «Denise, cos'è successo a Valerie?» Il sollievo scomparve, e gli occhi della poliziotta si incupirono per la preoccupazione. «Ha lasciato un biglietto. Marcus l'ha trovato e ha chiamato la polizia.» «Un biglietto?» Denise annuì. «È abbastanza evidente cosa si sia messa in testa di fare.» «Oh, cazzo, no! Non adesso!» esclamò Serena. «Quando è successo?» «L'agente appostato in strada l'ha vista uscire circa due ore fa.» «E non l'ha segnalato?» «Tenevamo d'occhio Marcus, non Valerie. Non era lei che dovevamo pedinare. Quando Marcus ci ha chiamati, ho ordinato a tutte le pattuglie presenti in città di cercare la sua auto, ma per ora non l'hanno ancora localizzata.» Poi aggiunse: «Dai, togliamo Callie dal freddo». Denise portò la bambina lungo il vialetto e quando giunsero alla casa un agente aprì loro la porta d'ingresso e le fece entrare. Percorsero il corridoio fino alla cucina sul retro, dove trovarono Marcus seduto con una tazza di caffè davanti. Indossava un accappatoio color cioccolato, le ciabatte e gli occhiali calati a metà sul naso. Stava leggendo una rivista medica online da un computer portatile. Marcus vide Callie tra le braccia di Denise. Già da un'ora aveva appreso che la bambina stava tornando a casa, ma un conto era saperlo e un altro era vederla sana e salva. Serena lo osservò cercando di decifrare il cambiamento

di emozioni sul suo volto. Marcus si tolse gli occhiali, irrigidì le labbra e sbatté le palpebre più forte. Un sorriso vacillò sulle sue labbra, come una fiamma che non riesce a prendere forza. Denise non consegnò la bambina a Marcus e non fece nulla per nascondere la propria ostilità, ma fissò il cognato con uno sguardo feroce. «Posso tenerla in braccio?» chiese infine lui. Denise strinse Callie e non si mosse. «Non è tua, o mi sbaglio?» «Pensi che abbia importanza? Pensi che me ne freghi qualcosa?» «Secondo me l'unico di cui ti frega qualcosa sei tu stesso.» Serena mormorò: «Dai, Denise». Con la mascella serrata, Denise fece un passo avanti e staccò la bambina dalla propria spalla. Marcus posò la tazza di caffè e scese dallo sgabello, poi allungò le braccia e Denise gli passò Callie con palese riluttanza. La piccola si agitò ed emise un debole lamento, ma seguitò a dormire. Marcus se la strinse al petto, poi tornò a sedersi. Tra le sue grandi mani la bambina sembrava ancora più piccola. «Allora?» chiese a Denise. «Allora cosa?» «Non hai niente da dirmi?» «Credo che tu non lo voglia sentire, quello che ho da dirti, Marcus.» «Mi aspettavo delle scuse» disse lui. «Che cosa?» «Delle scuse» ripetè lui, a voce bassa, in tono secco e amareggiato. «È tutta la settimana che vedo il mio nome coperto di fango. La gente mi accusa di essere un assassino. Gli amici non rispondono alle mie telefonate. I pazienti annullano gli appuntamenti. Il mio matrimonio è in rovina e la mia vita privata è messa in vetrina davanti a tutto il mondo. E so da dove tutto questo ha avuto inizio, Denise. Da te. Be', guarda un po', la verità è quella che io avevo sostenuto fin dall'inizio. Non c'entravo niente. E penso che il minimo che tu possa fare sia avere la decenza di dirmi che ti dispiace.» «Che mi dispiace?» gli fece eco Denise, con le mani sui fianchi. «Tu hai provocato tutto questo, Marcus. Sei stato tu a consentire che accadesse. Tu e la tua amante psicopatica, Regan Conrad. Sì, mi dispiace. Mi dispiace che Valerie ti abbia messo gli occhi addosso. Mi dispiace che tu sia un emerito stronzo arrogante. Forse, anziché piangerti addosso,, potresti ringraziare Dio per le persone che hanno riportato a casa la bambina. E forse potresti versare almeno una lacrima e fingerti un po' preoccupato mentre cerchiamo tua moglie.» Uscì dalla cucina a passi pesanti, il cui rumore fece sussultare Callie, che aprì per un istante gli occhi per poi richiuderli subito. Marcus guardò accigliato la cognata che si allontanava, poi cancellò la rabbia dal volto e annuì in

direzione di Serena. «Non mi fraintenda, vi sono grato per tutto quello che avete fatto. Sono solo furioso per come sono stato trattato.» «So come si sente» ribatté Serena. «Spesso sono gli innocenti a uscire distrutti da crimini del genere. Sappiamo tutti che non è giusto.» Poi aggiunse: «Ha il biglietto che ha lasciato Valerie? Posso vederlo?». Lui indicò un cartoncino sette per dodici poggiato sul bancone della cucina. «Era fissato con del nastro adesivo allo specchio del bagno. L'ho visto quando mi sono alzato nel cuore della notte.» Serena lesse il biglietto, che recitava: «Ora siamo libere entrambe». Cercò di ricostruire il delicato stato mentale di Valerie, e le implicazioni la spaventarono. «Stasera è accaduto qualcosa di particolare tra voi due?» chiese. «Abbiamo litigato.» «Per via di Callie?» «Sì.» «Pensa che Valerie potrebbe arrivare a farsi del male?» «Non lo so. Tutte le voci su di me l'hanno avvelenata. Aveva perso ogni speranza di rivedere Callie. Sì, ritengo che sia capace di tutto.» «Se accende il telefono o la radio saprà subito che Callie sta bene.» «Già, sempre che ormai non sia troppo tardi» commentò Marcus. Abbassò gli occhi sulla bimba addormentata. «Ora è meglio che la metta a letto.» «Denise le ha parlato della donna che l'aveva rapita?» chiese Serena. «Di Kasey Kennedy?» «Ho sentito dire che è ancora in fuga.» «Esatto, e non sappiamo che intenzioni abbia. Con il suo permesso, vorremmo lasciare degli agenti a vigilare sulla casa. Vorrei anche mettere un'agente donna nella cameretta di Callie.» «Va bene, ma non penserete davvero che quella donna sia così sciocca da riprovarci.» «È disperata e imprevedibile. Finché non la troveremo, credo sia meglio prendere tutte le precauzioni possibili. Forse è meglio che lei porti Callie altrove per qualche giorno, sempre con la protezione della polizia. La sua casa è un bersaglio ovvio.» Lui scosse la testa. «Non mi farò buttar fuori da casa mia.» «Capisco.» Entrambi alzarono lo sguardo quando Denise Sheridan ricomparve sulla soglia della porta della cucina. Aveva un'espressione afflitta sul volto e la voce spezzata. «Qualcuno ha visto l'auto di Valerie accanto al fiume, vicino alla stazione

radio. Era vuota.» Valerie era seduta sul terreno bagnato, e con le braccia si cingeva le ginocchia. Davanti a lei, le acque scure del Mississippi erano incrostate di ghiaccio. Era il tipo di crosta sottile che si sarebbe spezzata come vetro, aprendosi sotto i piedi non appena lei si fosse allontanata dalla riva. Si chiese se quello fosse il modo più semplice per fare ciò che aveva in mente. Camminare sul ghiaccio e lasciare che la morsa dell'acqua gelida l'abbracciasse. Il freddo l'aveva intorpidita. Le lacrime si erano congelate sul suo volto come piccole perle. Aveva perso la sensibilità alle dita e i piedi le formicolavano come se fossero coperti di punture di api. Era rimasta seduta lì per un'ora, in compagnia soltanto del freddo e dell'acqua, eppure non riusciva a decidersi a farlo. Aveva estratto la bottiglietta di aspirine dalla tasca almeno una dozzina di volte e l'aveva sempre rimessa a posto senza aprirla. Sperava che, restando lì seduta il tempo necessario, il freddo avrebbe fatto il suo lavoro e si sarebbe portato via tutte le sue sensazioni, finché non avrebbe provato più nulla. Poco lontano, udì voci fluttuare nel vento come sussurri di fantasmi. C'erano delle persone più in alto, in cima all'argine del fiume su Canal Street, che gridavano in modo insistente. Sul ponte della Highway 169 diretta a monte, vide fanali di auto sfrecciare veloci. Ignorò tutto e tutti. Per l'ennesima volta tirò fuori il flacone, maneggiandolo con gesti impacciati a causa delle dita intorpidite. Immaginò di inghiottire le pillole aiutandosi con della neve sciolta. L'ultima volta aveva usato una boccetta semivuota. Ecco qual era stato il suo errore. Ecco perché si era risvegliata in ospedale. Stavolta, invece, la boccetta conteneva centinaia di pastiglie, e sarebbe riuscita a inghiottirle tutte prima che le ottundessero il cervello e la facessero addormentare. Toccò la fascetta di plastica che sigillava il collo del flacone, poi cercò di tagliarla con la punta di un'unghia, ma le mani non rispondevano bene. Si infilò il tappo in bocca, e raschiò la fascetta con i denti riuscendo a strapparne un pezzetto. Tirò il pezzo che si era staccato e la fascetta venne via come un nastro. Salutò quel piccolo successo come una grande vittoria. Strinse gli occhi nella penombra per vedere quale direzione indicava la freccia sul tappo, poi cercò di aprirlo con il pollice, ma la pelle era umida e le dita scivolarono sul tappo zigrinato. Finalmente, attaccandolo con entrambi i pollici, riuscì a staccarlo. Il tappo roteò in aria come una moneta. Bucò il sigillo di alluminio e la boccetta tremolò tra le sue dita intorpidite. Una dozzina di pastiglie cadde sulla neve. Non importava, non erano un numero sufficiente per fare la differenza.

Tese un braccio tremante e rivolse il palmo della mano sinistra verso l'alto. Girò il flacone e una piccola piramide di pastiglie si accumulò sulla mano. Si mise il flacone in grembo, tenendolo in equilibrio, e fissò le pillole. Non era difficile. Mettile in bocca. Prendi una manciata di neve fresca. Ripeti l'operazione fino a quando la boccetta non sarà vuota. Ma non ci riusciva. Voleva farlo, ma non ci riusciva. «Oh, Callie, mi dispiace» disse. Si maledisse per quell'esitazione. La sua piccola era sola e aveva bisogno di lei. Per salvarla doveva fare solo la cosa giusta, compiere quel piccolo, insignificante passo, e sarebbero state di nuovo insieme. Nonostante questo, non riusciva ad accettare l'idea di morire in quel modo. Arrendersi sarebbe stato un atto egoista e privo di fede per il quale non sarebbe mai stata perdonata. Le sembrava di sentire una voce solitaria sopra la sua tomba, che diceva: Come hai potuto abbandonarmi? Valerie ascoltò quella voce, allargò le dita e le aspirine caddero nella neve e vi aprirono dei piccoli crateri. L'umidità iniziò a scioglierle. Si alzò in piedi barcollando, mentre il sangue riprendeva a scorrerle nelle gambe. Camminò fino a quando non fu quasi arrivata nei pressi dell'acqua. Il ghiaccio saliva dalla sponda come nebbia attraverso una finestra. Valerie mise un piede in acqua, spezzando il ghiaccio con il tacco dello stivale, poi ripetè più volte il gesto e aprì svariati buchi irregolari sulla superficie ghiacciata. Capovolse la boccetta e lasciò che le pastiglie cadessero attraverso il ghiaccio e sparissero nel fiume. Alla fine, quando il contenitore fu vuoto, lo lanciò lontano. Per un po' rimase a galleggiare in superficie poi, quando l'acqua iniziò a riempirlo, girò su se stesso e affondò. Valerie sapeva che avrebbe dovuto sentirsi una fallita, invece fu pervasa da una scarica di adrenalina, da una nuova sensazione, proveniente dal nulla, che la faceva sentire irrequieta. Da qualche parte, in qualche modo, qualcosa era cambiato, come uno spostamento della terra sotto i suoi piedi. Si sentì attirata lontano da quel luogo. Si toccò il volto e sentì che era nuovamente rigato da una cascata, un'alluvione di calde lacrime. Il perché non importava. Sapeva solo che doveva andare. Subito. E in fretta. Valerie camminò, poi inciampò, poi corse. Risalì la sponda del fiume a gattoni, con il respiro che le martellava nel petto. Non riusciva ad andare abbastanza veloce da soddisfare l'impazienza che si era impossessata del suo cervello. Sentì nuovamente quelle voci, più penetranti e più vicine mano a mano che riduceva la distanza dalla strada: delle persone la chiamavano, gridavano il suo nome. Uscì dai bassi cespugli vicino al parcheggio dove la polizia era tutta intorno

alla sua auto. Luci rosse e blu illuminavano la strada come fuochi artificiali. Vide Denise e Serena. Tutti guardavano dappertutto, tranne che verso di lei. Era invisibile. Restò dov'era a riprendere fiato, incapace di muoversi o di gridare: «Sono qui». Poi Serena si girò. I loro sguardi si incrociarono, da una trentina di metri di distanza. Valerie vide il volto di Serena allargarsi in un ampio sorriso e la sentì gridare eccitata e ripetere in continuazione le stesse parole. Il vento le soffocò, ma non importava, perché sapeva già cosa le stava dicendo. Sapeva qual era stato l'impulso che l'aveva allontanata dal fiume e riportata alla vita. Sapeva chi l'aveva salvata. Lo sapeva. «È viva» ripeteva Serena, correndo verso di lei. «È viva, è viva, è viva.» Valerie crollò in ginocchio e pianse di gioia.

56 Kasey aveva ancora la chiave, quella che le aveva dato Regan. La chiave che le aveva permesso di entrare in casa dei Glenn. L'aveva già usata una volta e quella sera l'avrebbe usata di nuovo, dopodiché lei e Callie sarebbero partite verso ovest, dove sarebbero sparite per sempre. Si sarebbero nascoste, entrambe al sicuro, nelle cittadine che punteggiavano il deserto. Aveva ancora con sé la pistola di Maggie. La teneva infilata nei jeans e a ogni respiro sentiva il contatto del metallo freddo sulla pelle. Si allontanò da Duluth evitando la Highway 2 e percorrendo le tortuose stradine secondarie. Si era fermata solo una volta in un emporio, lungo il bordo di una strada, e aveva fatto una breve sosta nel negozio in penombra per pulire e medicare le ferite. L'emorragia si era fermata, lasciandola debole e stremata. La sua mente e il suo corpo stavano entrambi crollando, ma era decisa a non arrendersi. Aveva parcheggiato l'auto di Nieman tra gli alberi, sul bordo della County Road 76, dove non sarebbe stato possibile vederla dalla strada. Poi si era inoltrata nei boschi e dopo aver percorso circa un chilometro si era nascosta poco distante dalla casa dei Glenn, sulla sponda del Lago Pokegama. Si era accovacciata vicino all'acqua e aveva studiato le attività che si svolgevano intorno alla casa. Agenti di polizia pattugliavano il cortile posteriore e Kasey era certa che fossero lì per lei. Ma non le importava. Il suo obiettivo era la porta laterale che conduceva nel garage, dove il cortile non era illuminato. Nessuno l'avrebbe vista arrivare dal bosco e le sarebbero bastati pochi secondi per entrare. Poi avrebbe potuto attendere il momento propizio per muoversi all'interno della casa. Grazie alla neve che attutiva i suoi passi, Kasey procedette zigzagando fino al confine della foresta, che fiancheggiava il prato posteriore della villa. Nonostante tutte le sue cautele, spaventò un coniglio che corse rumorosamente in mezzo ai cespugli e raggiunse il campo innevato, allo scoperto. Lei si immobilizzò, al riparo dai fitti rami di un abete. Una poliziotta che si trovava vicino all'angolo della casa notò il coniglio e scrutò la zona della foresta dalla quale era emerso. Studiò l'oscurità, guardando proprio nella direzione in cui si trovava Kasey. Lei aveva la mano sulla pistola. La poliziotta si avvicinò e si fermò a cinque metri di distanza. Kasey si irrigidì, convinta che il suo respiro facesse un rumore assordante. Il freddo la fece tremare e i rami si spostarono nel punto in cui il suo corpo li

toccava. Dell'acqua le gocciolava dai capelli rossi. Dietro la poliziotta poteva vedere la buia rientranza della porta che conduceva in garage. Era a pochi passi da lei, al termine di un sentiero lastricato. La poliziotta perse interesse per il coniglio, si infilò una mano in una tasca, dalla quale estrasse un fazzoletto, poi si soffiò rumorosamente il naso e tossì. Lanciò un'ultima occhiata al bosco, girò i tacchi e scomparve sul davanti della casa. Kasey attese immobile per assicurarsi che non sarebbe ritornata. La striscia di terreno tra il bosco e il garage era buia e deserta. Il vento dal lago aveva soffiato cumuli di neve sul fianco della casa, che avevano ricoperto gran parte della muratura. Kasey fece un profondo respiro, scattò fuori dagli alberi e corse sul sentiero lastricato, accovacciandosi nella rientranza della porta del garage. Quando si girò, si rese conto di aver lasciato due impronte vicino al bordo della foresta. Erano a malapena visibili, ma se qualcuno avesse osservato con attenzione le avrebbe sicuramente notate, proprio vicino al punto dove era stata la poliziotta. Due larghe tracce di stivali a poco più di un metro di distanza dal limitare del bosco. Ma ora non aveva tempo di preoccuparsene. Kasey tirò fuori la chiave dalla tasca e la sentì calda nella mano. Lanciò un'occhiata prudente in entrambe le direzioni, spinse la chiave nella serratura e la girò, ma la chiave non si mosse. La spostò leggermente e ritentò, poi si accorse che non era della dimensione giusta. La estrasse, la strinse nel pugno e serrò gli occhi. Frustrata, provò a dare una spallata alla porta, ma era solida e chiusa a chiave. Lanciò un'imprecazione silenziosa e si girò. Doveva tornare nel bosco, ma il tempo a sua disposizione terminò prima che avesse modo di muoversi. In piedi e paralizzata nella rientranza della porta, udì il rumore di passi sulla pietra. La poliziotta era tornata. Kasey appiattì il corpo contro la porta, ma non era sufficiente per nascondersi. Non appena la poliziotta avesse guardato verso di lei l'avrebbe vista, dato che erano a non più di due metri di distanza. Guardò la donna avvicinarsi, estrasse la pistola dalla cintura e la strinse nella mano sudata. Gli occhi della poliziotta erano in quel momento concentrati sulla foresta. Se avesse guardato attentamente la neve avrebbe notato le impronte al limitare del bosco e, a quel punto, si sarebbe voltata e l'avrebbe vista. Kasey trattenne il fiato. Aveva la bocca spalancata e gli occhi sbarrati e colmi di paura. Il corpo della poliziotta si girò verso di lei e Kasey si raccolse come una molla, pronta a scattare. Doveva piombarle addosso prima che la donna potesse gridare.

Poi, un istante prima che i loro sguardi si incrociassero, la poliziotta si fermò e corse in direzione della casa. Kasey capì subito il perché. Nel vialetto dietro l'angolo rispetto a dove si trovava, una donna stava gridando. «Dov'è?» Valerie non attese che la macchina si fermasse. Le ruote erano ancora in movimento quando balzò dalla Mustang di Serena. Gridando il nome di Callie corse alla porta e prese a percuoterla finché un agente le permise di entrare. Serena scese dall'auto e alzò entrambe le mani per tranquillizzare una poliziotta che era arrivata di corsa dal retro della casa, con la mano sopra la pistola. «Va tutto bene» disse. «Stanno tutti bene. È successa una cosa fantastica.» Entrambe entrarono in casa. Dal piano di sopra, oltre la porta aperta della cameretta di Callie, Serena udì singhiozzi di sollievo. Preferì non disturbare quei momenti di intimità tra madre e figlia. Era uno di quei rari momenti della sua vita in cui confidava che al mondo ci fosse davvero un po' di giustizia. Marcus Glenn, che indossava ancora l'accappatoio, la raggiunse nell'ingresso. Sentì la voce di sua moglie al piano di sopra e guardò verso la porta della camera da letto. «Allora non è andata fino in fondo.» «Si sentirà sollevato.» «Sì, certo.» La sua voce non esprimeva né gioia né sollievo, e si accigliò, come se potesse leggerle la mente. «Sono abituato a pensare a tutto ciò che può andare storto. Ero certo che questa situazione non avrebbe avuto un lieto fine. Per nessuno di noi.» «Invece l'ha avuto» disse Serena. E avrebbe voluto aggiungere: non certo grazie a te. Fissò il chirurgo, fermo accanto alla ringhiera delle scale, e capì che l'esternazione di sentimenti che proveniva dal piano di sopra era troppo dolorosa per lui. Era più a suo agio in un ambiente sterile come la sua sala operatoria. Clinico. Asettico. Ecco cosa lo rendeva tanto sgradevole. Ecco perché Marcus era capace di fare tanti danni. Prima di quanto Serena si sarebbe aspettata, Valerie ricomparve nel corridoio con Callie tra le braccia, avvolta in una giacca pesante, con le manine coperte da guanti e stivaletti rosa ai piedi. Valerie la trasportava con una grazia rilassata, quasi fluttuando. Non staccò mai gli occhi dal volto di sua figlia e la bambina, ora completamente sveglia, fissava allegra sua madre. Valerie procedette lentamente e con cautela finché non arrivò in fondo alle scale. Su una spalla aveva una borsa da viaggio che poggiò a terra, poi porse

Callie a Serena il tempo sufficiente per prendere un cappotto invernale dall'armadio nell'ingresso e infilarselo. «Dove stai andando?» le chiese Marcus. Sembrava sinceramente sorpreso. Valerie lo ignorò e guardò Serena. Riprese Callie e sollevò la borsa. «So che è tardi, ma potrebbe accompagnarci in un hotel?» «Sareste più al sicuro se rimaneste da me» rispose Serena. «Possiamo mettere dei poliziotti a vigilare la casa. Che ne dice?» «Sì, va bene. Andiamo.» «Valerie» intervenne Marcus. Allungò una mano verso la spalla della moglie, ma lei se lo scrollò di dosso. «Cosa ti sei messa in testa? Non essere avventata.» Valerie, con Callie in braccio e senza girarsi, uscì dalla porta. Poggiò la borsa sul sedile posteriore della Mustang di Serena e sistemò Callie sul seggiolino con movimenti delicati. I poliziotti sul prato la osservavano, senza che nessuno di loro si muovesse o parlasse. Marcus la seguì sulla veranda e la chiamò, poi incrociò le braccia sul petto, arrabbiato e infastidito. «Vuoi che ti dica che mi dispiace?» chiese. «E va bene, mi dispiace. Ma ricorda che in tutto questo sono innocente.» Valerie, che in quel momento gli dava le spalle, si irrigidì. Si voltò lentamente e con occhi di pietra ripetè: «Innocente?». «Sai benissimo cosa intendo dire.» Valerie non aggiunse altro. Attese in silenzio. Il suo respiro si condensava in nuvolette di vapore che svanivano subito nell'aria fredda. «Per l'amor del cielo, torna dentro» insistette Marcus. «Cosa vuoi da me?» Valerie scosse la testa. «Non voglio niente da te. Manderò qualcuno a prendere le mie cose.» «Non sei nelle condizioni di prendere decisioni. Passa qualche giorno con Callie. È stata una settimana difficile per tutti noi e ti serve tempo.Quando tornerai a casa, parleremo con calma.» Serena raggiunse Valerie all'esterno, salì al volante e mise in moto. Valerie restò in piedi, accanto alla portiera del passeggero. «Non tornerò a casa» disse, salendo in macchina. «Addio, Marcus.»

57 Le due donne viaggiarono in silenzio attraverso la città e le luci, che furono ben presto sostituite da spazi aperti e oscurità. Ora la statale appariva più familiare a Serena. L'aveva percorsa talmente tante volte che le distanze le sembravano più brevi. Mancavano ancora alcune ore all'alba. «Sta bene?» chiese infine. Valerie si voltò e guardò Callie che si era riaddormentata, cullata dal movimento della macchina. Allungò una mano per toccarla, poi la ritrasse per timore di disturbarla. «Benissimo.» «Diceva proprio sul serio, prima?» «Sul fatto di non tornare? Sì. E finita. Sono libera.» «Buon per lei.» Valerie allungò una mano e la posò su quella di Serena, sul volante. «Le devo tutta la mia vita.» «Non mi deve nulla» rispose Serena. «Sono io che dovrei ringraziarla. Vedervi insieme, lei e la bambina, mi aiuta a ritrovare un poco di speranza.» Valerie sorrise. «Ho pensato spesso a tutti gli errori che ho commesso nella mia vita. Ora capisco che senza quegli errori Callie non sarebbe qui. Non saremmo insieme. E questo non può essere solo un caso, non crede?» «Forse ha ragione.» «Almeno, non vorrei più tornare indietro per evitare di ripeterli. Non più.» Poi aggiunse: «Le sono grata per tutto questo. A Stride dispiacerà se mi fermo da voi?». «Non ci saranno problemi. Ci sentiremo entrambi meglio sapendovi al sicuro.» Serena non aggiunse altro. Pensò a Stride e si chiese dove lei avrebbe dormito quella notte. Di sicuro non nel loro letto, non accanto all'uomo che aveva amato negli ultimi tre anni. Avevano commesso entrambi degli errori e ora si chiese dove quegli errori li avrebbero condotti e se, come Valerie, sarebbero stati in grado di convivere con i loro rimpianti. «Mi dica una cosa» riprese Valerie. «La donna che ha rapito Callie, quella giovane poliziotta, la conosce bene?» «L'ho conosciuta solo questa settimana.» «È riuscita a scappare?» «Sì, ma non si preoccupi. La troveremo e non le permetteremo di avvicinarsi a lei.» «Che persona è?» chiese Valerie. Serena le lanciò un'occhiata obliqua. «In che senso?» «Cioè, cosa le è passato per la testa? Come ha potuto fare una cosa simile? Voglio solo cercare di capire.» «Non ha importanza, Valerie.»

«Lo so, ma non voglio odiarla.» «Le ha fatto passare le pene dell'inferno» disse Serena. «Ha tutto il diritto di odiarla.» Valerie scosse la testa. «Non porterebbe a nulla.» «Al momento, so solo che anche lei aveva perso un figlio» spiegò Serena. «E non era riuscita ad accettarlo. Callie era diventata la sua ossessione.» Valerie rimase in silenzio. «Era disperata» disse infine. «So come ci si sente.» «Non provi a mettersi nei suoi panni. Ha superato limiti che lei non potrà mai valicare. Per quante disgrazie possano colpire una persona, lei non farebbe mai quello che ha fatto Kasey.» «Lo so, ma anch'io me la sono vista brutta.» «Quello è il passato, ormai» disse Serena. Guardò il volto di Valerie e vide che la stanchezza e la commozione, oltre a tutto il trambusto di quella notte, iniziavano a farsi sentire. «Perché non prova a dormire un po'?» propose. «Ci vorrà ancora un'ora per arrivare a Duluth.» «Non sono certa di voler dormire» disse Valerie. «Voglio essere sicura che tutto questo stia accadendo davvero. Ho paura di svegliarmi e accorgermi che è stato tutto un sogno. Mi capisce?» «Non è un sogno. Siete entrambe sane e salve.» «Dormirò quando saremo a destinazione» ribatté Valerie, ma subito dopo si appoggiò al finestrino e le si chiusero gli occhi. Quando Serena la guardò di nuovo, dormiva profondamente. Anche Serena era stanca e la strada buia aveva un effetto soporifero, ma aveva ancora parecchia adrenalina in circolo a tenerla sveglia. In parte era la consapevolezza che anche lei, come Valerie, era sul punto di essere libera, benché non fosse quella la libertà che aveva cercato o previsto. In parte era la consapevolezza che Kasey Kennedy era là fuori da qualche parte, e Serena non sapeva fino a che punto si sarebbe spinta né quale sarebbe stata la sua prossima mossa. So cosa si prova quando si è disperati. Serena si lasciò guidare dagli abbaglianti lungo la statale deserta e pensò a quando Kasey si era trovata su quella stessa strada e la nebbia l'aveva avvolta. Una giovane poliziotta sconsiderata, che aveva innescato una reazione a catena e rovinato un sacco di persone. Come Serena, si era trovata sola sulla strada, sola con i cervi, i laghi e gli alberi delle zone settentrionali. Solo che Serena, a un tratto, si rese conto di non essere sola. Quando la strada si appiattì in un lungo rettilineo che attraversava le zone paludose della riserva indiana, guardò nello specchietto retrovisore e, a circa

un chilometro e mezzo di distanza, li vide di nuovo. Li aveva individuati la prima volta otto chilometri dopo Grand Rapids, che apparivano e sparivano dietro le curve. Due fanali. Kasey si appoggiò alla parete della vecchia casa, quasi troppo stanca per riuscire a reggersi in piedi. Sapeva che non poteva fermarsi, ma non sapeva come riuscirci. Sotto le bende il sangue aveva ripreso a scorrere. Si toccò il collo con un dito, e lo ritrasse rosso e appiccicoso. La testa le pulsava e si sentiva stordita. A malapena riusciva a reggere in mano la pistola. Voleva solo sdraiarsi. Sdraiarsi e dormire. Sdraiarsi e morire. Nella gelida notte, attendeva la sua ultima occasione. L'acqua del porto lambiva la spiaggia alle sue spalle e Kasey sentiva il rumore del lago Superiore dall'altra parte della strada. Da dietro la duna. Da dietro la casa di Stride. Scrutò la Punta e vide che non c'erano poliziotti ad attenderla. Niente pattuglie, né lampeggianti, né agenti appostati nell'ombra. C'erano solo Serena e Valerie in quella casa. Le aveva seguite lungo la statale deserta, e ora le vedeva nella camera da letto principale, quella che si affacciava sulla strada. La stanza era ben illuminata e la luce splendeva attraverso il vetro terso della finestra. Valerie stringeva Callie tra le braccia. Nel vedere la piccola, Kasey si sentì spezzare il cuore. La rabbia tornò a pulsare con prepotenza, la stessa rabbia che nel corso dell'ultima settimana le aveva dato la forza di andare avanti. La rabbia per la morte di suo figlio. La rabbia per l'ingiustizia divina. La brama di stringere di nuovo un bambino tra le braccia. Mentre piangeva e ansimava, tossì e sentì qualcosa di umido bagnarle la bocca, e capì che era sangue. Barcollò e quando, per sorreggersi, appoggiò una mano alla parete, la pistola le scivolò dalle dita e cadde a terra con un rumore di ferraglia. Si piegò e la raccolse, poi controllò di nuovo la strada. Era deserta. Nella stanza da letto, dietro la finestra, le due donne si abbracciarono e si salutarono per la notte. Kasey vide Serena tornare nell'ampia sala dietro la porta d'ingresso e si accovacciò quando la donna scostò le tende e diede un'occhiata alla strada. Serena aprì la porta e uscì sulla veranda di legno, da dove scrutò attentamente la casa e le ombre circostanti. Kasey si nascose dietro un bidone dell'immondizia. Quando si arrischiò a sbirciare, vide Serena rientrare e un attimo dopo udì lo scatto della serratura. Le luci nel soggiorno si spensero. Subito dopo, nell'altra stanza, anche Valerie spense la luce. Tutta la casa era buia. Valerie e Callie erano sole.

Kasey attese un quarto d'ora prima di staccarsi dalla parete e attraversare barcollando la strada stretta. Spruzzi di neve scendevano su di lei e le pizzicavano la pelle. Il ruggito del lago si fece più intenso, come un animale invisibile acquattato dall'altro lato della duna. Kasey evitò la porta principale. Sul lato occidentale della casa individuò una scala in ferro battuto che saliva al primo piano. La raggiunse zoppicando, senza curarsi delle impronte che lasciava sulla neve. Quando arrivò alla scala, si accorse che i gradini di metallo erano ghiacciati e scivolosi. Si aggrappò alla ringhiera con una mano e cominciò a salire, uno scalino dopo l'altro. Lo sforzo la sfinì e, quando abbassò lo sguardo, la struttura di ferro aperta le diede le vertigini. Giunta in cima, fu costretta a fare una sosta in attesa che il capogiro cessasse. Guardò in basso e vide gocce di sangue che punteggiavano la neve come ciliegie. A quel punto si coprì una mano con la manica della giacca e ruppe con un pugno il vetro della finestra, vicino alla maniglia. Il vetro si frantumò con uno schianto sommesso, quasi musicale, e i suoi frammenti si riversarono sul pavimento della stanza. Si piegò accanto alla finestra rotta e tese l'orecchio per captare eventuali rumori provenienti dal piano inferiore. Non udì nulla. Allora allungò una mano nel foro e, trovata la maniglia, aprì la serratura ed entrò in casa. La soffitta era buia e fredda. Svariati chiodi pendevano come denti dalle travi del soffitto. Il pavimento, non ancora ultimato, era cosparso di contenitori e altre attrezzature. Nella penombra, individuò una scala che scendeva al primo piano e la raggiunse facendo attenzione ai cocci di vetro. La scala era buia come la pece, e quando tastò in cerca di un corrimano, non lo trovò. Trattenendo il respiro, poggiò un piede alla cieca sopra il primo scalino, poi sul secondo. Barcollò e pensò di cadere. Quando i suoi occhi si furono adattati all'oscurità riuscì a scorgere il contorno di una dozzina di scalini sotto di lei, ma a ogni passo era costretta a fermarsi poiché il legno, sotto il suo peso, emetteva cigolii di protesta e Kasey non era certa che il rumore non avrebbe attraversato la porta chiusa più in basso. Le sembrava di star facendo un gran baccano. Raggiunse l'ultimo scalino e attese, avvolta dall'aria calda che proveniva dall'altro lato della porta. Poi, cercando di non fare rumore, girò la maniglia ed entrò. Altri gradini la condussero nell'ampio soggiorno, dal pavimento ricoperto di moquette. Riuscì a distinguere le sagome dei mobili in cuoio. Sentì la corrente prodotta dal vento risucchiare l'aria dal camino. La porta d'ingresso e la vetrata che davano sul porticato erano alla sua destra, come anche la stanza in cui dormivano Valerie e Callie. Raggiunse la porta d'ingresso, lasciandosi alle spalle impronte bagnate, ne

forzò la serratura e la spalancò, assicurandosi così una rapida via di fuga verso la strada. Per un istante prese in considerazione la possibilità di uscire subito e di allontanarsi. Tornare all'auto. Guidare. Iniziare una nuova vita. Ma ormai era tardi. Aveva già perso Jack. E Bruce. Non avrebbe perso anche Callie. Kasey fissò la porta chiusa della camera da letto, da cui non filtrava alcuna luce. Tese l'orecchio per accertarsi se dall'interno provenissero rumori, anche soltanto quello di un respiro, ma non udì nulla. La pistola era pesante nella sua mano. Si chiedeva se avrebbe dovuto uccidere ancora e sperò che non fosse necessario. Era stanca della morte. Stanca di uccidere. Niente era andato come aveva previsto e sognato. Allungò una mano verso la maniglia e aprì la porta silenziosamente, spingendola verso l'interno. Sulla parete alla sua destra, nella penombra, vide un letto matrimoniale e scorse la sagoma di un corpo. Mosse due passi incerti ed entrò nella stanza. Sollevò la pistola e avanzò verso il letto. Le luci sopra la sua testa si accesero con un'intensità che la lasciò senza fiato, trasformando la notte in giorno. Kasey strinse gli occhi involontariamente e sollevò un braccio davanti al volto. Quando abbassò la mano si accorse che il letto era vuoto. La sagoma del corpo non era altro che un cuscino sotto una coperta. Volse lo sguardo in direzione dell'altro muro e vide qualcuno seduto su una poltrona accanto alla finestra che stava fissando lei, con in mano una pistola puntata verso il suo petto. Era Maggie. «Ora abbassa quell'arma, Kasey.» Kasey iniziò a indietreggiare verso la porta della stanza da letto ma subito avvertì la pressione di un'altra pistola contro la nuca. «Ti ha detto di metterla giù» disse Stride. «È finita.» Kasey udì rumori di passi in tutta la casa. Sulla veranda. Nel cortile. In soggiorno. C'erano poliziotti a tutte le finestre. Volti. Pistole. Rimase immobile dov'era, paralizzata e in trappola, e sentì Stride allungare una mano e disarmarla. «Serena ti ha vista arrivare, Kasey» disse Maggie con voce dura e triste, alzandosi dalla poltrona. «Ci ha chiamato affinché ti organizzassimo un party di benvenuto.» «Oh mio Dio» mormorò Kasey. «Oh, Dio, no.» Stride le strattonò le mani dietro la schiena e Kasey sentì le manette serrarsi intorno ai suoi polsi. Poi l'uomo la trascinò all'indietro fuori dalla stanza. Lei non stava opponendo resistenza, ma all'improvviso le gambe non la ressero più. Cadde di schiena sul petto di Stride. Sentì Stride afferrarla sotto le

ascelle e adagiarla sul pavimento, e quando guardò il soffitto vide volti sfuocati chini su di lei. Stride. Maggie. Poliziotti in uniforme. Da qualche parte nella sua testa, giunse la voce di Stride. «Ha perso parecchio sangue. Chiamate subito un'ambulanza.» Cercò di alzarsi, ma delle mani la spinsero giù con delicatezza. La stanza vorticò e fluttuò pigramente lontano da lei, come se fosse trasportata da un fiume. Osservò i corpi andare e venire in una confusione di movimenti e a tutte le persone raccolte intorno a lei si aggiunse un volto nuovo. Valerie Glenn. Serena era dietro di lei, nella stanza ben illuminata, e teneva in braccio Callie. Kasey vide Valerie guardarla come chi ha avuto un lutto guarda una tomba, e avrebbe voluto dirle qualcosa, spiegarsi, gridare, ma era persa nella nebbia. Valerie chiese ad alta voce: «Qualcuno sa come si chiamava suo figlio?». Jack, avrebbe voluto rispondere Kasey. Si chiamava Jack. Era il mio bambino, e Dio me l'ha portato via. Non capisci? Nessuno riesce a sentirmi? «Jack» rispose Maggie per lei. «Si chiamava Jack.» Valerie annuì. Kasey la vide accovacciarsi accanto a lei. Il suo volto era a pochi centimetri di distanza e la sua pelle emanava il fresco profumo di una madre che stringe un neonato. Valerie posò una mano sulla guancia di Kasey e la accarezzò, avvertendo sotto le dita l'umidità del sangue e del sudore. Valerie piangeva e Kasey si rese conto che anche lei stava piangendo. «Mi dispiace per quello che è successo a Jack» le sussurrò Valerie in un orecchio. Kasey cercò di parlare, ma udì soltanto il sibilo del proprio respiro. Il metallo delle manette le sfregava contro la schiena. Chiuse gli occhi, ma sentiva ancora il tocco della mano di Valerie, che rimase lì, delicato e tiepido, fino all'avvicinarsi delle sirene.

Epilogo

Alle prime ore del mattino, Stride era seduto su una poltrona pieghevole tra l'erba alta dietro il suo cottage e osservava le acque agitate del lago. Dalle nuvole rosse all'orizzonte filtrava la luce dell'alba, ma il giorno non aveva ancora preso il sopravvento sulla notte. La giacca di pelle, chiusa con la zip fino al collo, era una protezione misera contro il freddo e il vento. Teneva le mani infilate in tasca. Aspettava Serena. Non voleva essere in casa mentre lei finiva di preparare le sue cose e le caricava sulla Mustang. Una cosa era sapere che se ne stava andando, un'altra era vederla allontanarsi. Prima o poi sarebbe dovuto tornare in casa, dopo che lei se ne fosse andata, e affrontare il vuoto lasciato dalla sua assenza. Ma questo avrebbe potuto farlo anche più tardi. Avrebbe lavorato fino a mezzanotte e iniziato a sbrigare in ufficio tutto quello che si era accumulato in sua assenza, in modo da rimandare il più possibile il ritorno in una casa dove l'unica cosa rimasta di lei era il profumo. Non si girò a guardare quando alle sue spalle sentì un rumore di passi sulla neve. Lei si sedette sulla sedia accanto e non disse nulla. Trascorsero un minuto in silenzio, rimandando l'inevitabile. «Sei pronta?» chiese finalmente Stride, quando la tensione si fece insopportabile. Serena annuì senza guardarlo. «Sì.» «Non devi andartene per forza adesso» le disse. «Se vuoi, puoi dormire nell'altra camera da letto per qualche settimana.» «Ne abbiamo già parlato, Jonny.» «Lo so.» La realtà lo guardava dritto in faccia. Tra loro due era finita. Chiuso. Almeno per ora. Almeno per un po'. «Lo sai che ti amo» le disse. «Ti amo anch'io, ma a te serve tempo, e lo stesso vale per me. Non so se è stato solo un momento di passione, ma resta il fatto che ti trovi più a tuo agio con Maggie che con me. Con lei ti sei aperto, mentre io sono stata tagliata fuori, e questo non mi sta bene.» «Mi dispiace.» «Anche a me. Non biasimo te, Jonny. È anche un problema mio.» «E adesso?» chiese lui. Serena scosse la testa. «Non lo so.» «Tornerai a Las Vegas?»

«No» rispose lei. «Non per ora, comunque. Potrei tornarci e trovarmi un lavoro, ma non la sento più come casa mia. Non so nemmeno più dov'è, casa mia. Io non sono come te. Non ho radici.» «Allora, cosa farai?» Serena fece spallucce, come se il futuro fosse qualcosa di insignificante se confrontato col presente. «Denise mi ha chiesto di continuare a lavorare per l'ufficio dello sceriffo a Grand Rapids. Può essere che per un po' mi occupi di quello. Valerie dovrà cavarsela da sola con Callie e non mi dispiacerebbe darle una mano. Ha preso una casa in affitto, e mi ha detto che posso sistemarmi in una delle stanze per gli ospiti.» «Mi piace l'idea di saperti qui vicino» disse Stride. Le stava porgendo un ramo d'ulivo, ma Serena lo lasciò dov'era. Lui osservò la tristezza sul suo volto e desiderò di poterla spazzare via. Sapeva che Serena si era sempre sentita incompleta, in un certo senso. Forse aveva solo bisogno di stare un po' da sola. L'idea non, sembrava spaventarla come, invece, spaventava lui. «Devo andare» disse lei, alzandosi. Lanciò un'occhiata verso il lago, poi alla fredda sabbia sulla spiaggia. Tre anni prima, una calda notte d'estate, avevano fatto l'amore per la prima volta proprio su quella spiaggia. «Se ti serve qualcosa, qualunque cosa, chiamami» disse Stride. «In qualunque momento del giorno e della notte. Sai che puoi farlo, vero?» «Cerchi sempre di proteggere le donne della tua vita, Stride» mormorò. «Ma noi non abbiamo tutte bisogno di protezione.» «Volevo solo che lo sapessi.» «E lo so. Se avrò bisogno di qualcuno, sarai il primo che chiamerò.» «Un giorno potrei bussare alla tua porta» disse lui. Lei ricambiò con un debole sorriso. «Chissà, forse potrei venire a bussare io per prima.» Serena gli posò una mano sulla spalla, si girò e si allontanò lungo la salita innevata che conduceva al cottage. Lui non la guardò. Il ruggito del lago era intenso e Stride non sentì nemmeno il rumore della Mustang che si allontanava lungo la strada. Rimase lì sulla spiaggia, immobile, mentre il freddo gli intorpidiva il volto. Passò parecchio tempo e, quando infine si alzò, il sole era già salito oltre il bordo dell'acqua. Il Detective Bureau al municipio era quasi deserto. Non c'era nessuno ad accoglierlo. Se n'era andato e ora era tornato. Varcò la soglia del suo ufficio come aveva fatto altre mille volte nel corso degli anni e appese la giacca all'attaccapanni. Nella stanza c'era ancora una traccia dell'odore di Maggie. A parte questo, nulla era cambiato.

Era come se in sua assenza il tempo si fosse fermato. Stride non si sedette subito. Carezzò le cornici delle foto sulla credenza e ne prese in mano una che ritraeva lui e Serena, in cima alla torre Stratosphere, a Las Vegas. Ricordò che in quell'occasione aveva pensato di aver preso in prestito il tempo con Serena, e che qualcuno un giorno l'avrebbe rivoluto indietro. All'improvviso, quel giorno era arrivato. Rimise la foto dove era sempre stata, così avrebbe potuto continuare a vedere il suo viso. Si appoggiò al telaio della finestra e guardò il traffico scorrere sulla First Street e il lago oltre gli edifici cittadini. Duluth era una città di conflitti, di gloria sbiadita, dove il nuovo era sempre colorato dal vecchio. Era abbastanza piccola da poter essere stretta in un abbraccio e abbastanza grande da non riuscirla mai a tenere in pugno. Era freddissima, primitiva e intimidatoria, come un avamposto di frontiera. Stride capì di avere un vantaggio, rispetto a Serena. Lui sapeva dov'era la sua casa. Lì. A Duluth. Si sedette sulla sua poltrona, la stessa da anni. Si era modellata intorno al suo corpo come un vecchio paio di jeans, e si muoveva insieme a lui. I tre mesi trascorsi lontano da quel luogo gli sembravano la deviazione più lunga e dolorosa dal sentiero della sua vita. Era stato un errore rifugiarsi in una baita tra i boschi. Avrebbe dovuto assecondare il proprio istinto e tornare prima al lavoro. Era quello il suo posto. «Bentornato, capo.» Alzò lo sguardo e vide Maggie sulla soglia della porta. Aveva il collo coperto da una fasciatura e quando entrò nell'ufficio fece una smorfia di dolore, poi scivolò sulla sedia davanti alla scrivania come faceva sempre. Da più di dieci anni. Capo; aveva detto. Ora sarebbero tornati colleghi, e non amanti? Stride si chiese se sarebbero riusciti a mantenere quel distacco. O se era quello che volevano veramente. Indicò la fasciatura. «Non dovresti stare a letto?» «È così che mi vorresti?» ribatté lei, facendogli l'occhiolino. Era seria eppure non lo era. Scherzava eppure non scherzava. Le cose si stavano già complicando. «Sei simpatica come un calcio in culo» disse lui. «A dire il vero, quello è l'unico punto che non mi fa male.» Stride scosse il capo e distolse lo sguardo. Maggie seguì i suoi occhi, che si erano posati sulla foto di Serena. «Allora?» chiese. «Se ne è andata.» Maggie imprecò a bassa voce. «Mi dispiace davvero tanto.»

«Non è colpa tua.» «Ah, no? Allora come mai ho l'impressione che lo sia?» «Non cominciare, Mags. Tanto non cambierebbe nulla.» Dopo un momento, aggiunse: «Forse certe cose vanno in un certo modo per un motivo ben preciso». «O forse le cose vanno in merda in modo totalmente casuale» ribatté lei. «Ci hai mai pensato?» «Al momento sto cercando di non pensare a niente.» Maggie annuì. «Ricevuto.» Stride allontanò lo sguardo dalla foto e cambiò argomento. «Hai visto il notiziario? L'avvocato di Kasey invocherà l'infermità mentale. Sostiene che la morte del suo bambino e le manipolazioni subite da Regan Conrad l'hanno resa incapace di distinguere ciò che è giusto da ciò che è sbagliato.» «Una giuria potrebbe anche bersela» disse Maggie. «Tu pensi che sia pazza?» «Tu non lo pensi?» «Io penso solo che ha rapito una bambina e ammazzato tre persone» rispose Stride. «Sì, ma è anche una madre che ha dovuto restare a guardare mentre suo figlio moriva.» Poi, di proposito, aggiunse: «Abbiamo tutti un punto di rottura» Lui non rispose, ma pensò: "Sì, è vero". «E Nieman?» chiese. «Cos'hai scoperto su di lui?» «Nieman è un fantasma» rispose Maggie. «Potremo andare avanti a rovistare nei suoi segreti per mesi. Per ora lo abbiamo collegato a vari omicidi in Colorado, Iowa e Nuovo Messico, ma non sappiamo ancora con esattezza chi sia né da dove venga. L'Fbi ci sta aiutando a rimettere insieme i pezzi.» «L'avvocato di Kasey sosterrà che averlo ucciso è stato un servizio pubblico» disse Stride. «Lo è stato.» Maggie fissò Stride, i capelli che le coprivano parte del volto. «E adesso? Anche io e te invocheremo l'infermità mentale temporanea?» «Togli pure il "temporanea".» «Vuoi metterti subito al lavoro o vuoi che prima lo facciamo sulla scrivania?» Stride riuscì a sorridere. «Ti sforzerai di rendere questa situazione sempre più complicata, vero?» «Dannatamente complicata.» «Hai finito?» «Per adesso.» «Allora mettiamoci al lavoro.» Maggie indicò una cartellina sulla scrivania. «Ti ricordi di quell'adolescente il cui cadavere è stato ributtato a riva dal

lago un anno fa? L'avevamo archiviato come suicidio, ma i genitori erano convinti che si trattasse di omicidio. Abbiamo trovato nuove prove, e forse hanno ragione loro.» «Ok, vedo di mettermi subito in pari» disse. «Possiamo andare a fare due chiacchiere con loro anche stamattina.» «Contaci.» Maggie si alzò e si diresse alla porta. Stride capì che nulla era cambiato, e che nulla era più lo stesso. «Ehi» la chiamò. Lei si girò e lo guardò. «Mi piacciono i tuoi capelli» le disse. Maggie sorrise, si scostò le ciocche rosse dagli occhi e uscì. Stride fissò la superficie impolverata della scrivania in quercia e tutti gli oggetti che la ingombravano. Il tagliacarte d'argento a forma di pugnale. La pila di post-it gialli sui quali aveva scribacchiato degli appunti. L'orologio che con il suo ticchettio scandiva i secondi, i minuti, le ore e i giorni. Le cartelline con le documentazioni dei crimini. Tutta la sua vita. Prese il fascicolo e lo trasse a sé. Nel farlo, urtò con la mano il tagliacarte d'argento, che cadde a terra. I suoi occhi lo seguirono. Stride si irrigidì, in attesa che il flash-back piombasse su di lui come un'onda. Il suo cuore prese a battere più forte. Sentì il sudore pizzicargli la base del collo e si chiese quanto sarebbe stato intenso quel nuovo attacco. Invece, non arrivò mai. Non precipitò nell'aria nera della notte verso le acque spietate. Il ponte era altrove, sul lago, e lui era ancora nel suo ufficio. Stride allungò una mano, raccolse il tagliacarte e lo ripose in un cassetto. Poi appoggiò i piedi sulla scrivania e iniziò a leggere.

Fine