912 82 1MB
Pages 265 Page size 595 x 842 pts (A4) Year 2004
JAMES PATTERSON JACK & JILL (Jack & Jill, 1996) A John Keresty PROLOGO COMINCIANO I GIOCHI I Sam Harrison scese agilmente dalla Ford Aerostar blu metallizzato che aveva parcheggiato in Q Street, nel quartiere di Georgetown, a Washington. C'è un ottimo motivo per cui thriller e racconti dell'orrore incontrano tanto successo, pensò chiudendo l'auto a chiave e inserendo l'allarme. Non i racconti dell'orrore che ascoltavamo seduti intorno al fuoco da ragazzini, ma il vero orrore che ci circonda quotidianamente, ovunque. Ne sto vivendo uno io stesso, sto per entrare a far parte dell'orrore. Com'è facile. È davvero tremendamente facile varcare il limite ed entrare nelle tenebre. Era l'ombra di Daniel Fitzpatrick da due lunghe settimane. L'aveva seguito a New York, Londra, Boston e infine lì a Washington. Quella sera avrebbe ucciso a sangue freddo il senatore degli Stati Uniti, stile esecuzione. Nessuno sarebbe riuscito a comprenderne il motivo. Nessuno avrebbe trovato un indizio di qualche rilevanza. Era la prima e più importante regola di un nuovo gioco, chiamato Jack & Jill. Sotto vari punti di vista, si trattava di una caccia alle celebrità da manuale. Sam lo sapeva bene, mentre si appostava di fronte al numero 211 di Q Street. Ma, se si guardava più attentamente, ci si sarebbe accorti che non era simile a nessun'altra caccia. Stava per compiere un atto più provocatorio che osservare di soppiatto il sanatore Fitzpatrick trangugiare un numero spropositato di cocktail al Monocle, il suo bar preferito di Washington. Sam Harrison sapeva che stava per mettere in atto un'autentica forma di follia. Follia pura. Ma lui non credeva di essere pazzo, credeva solo nella validità del suo gioco d'azzardo. Poi, a meno di trenta metri lungo la strada lucida di pioggia, vide com-
parire Daniel Fitzpatrick in persona. Era puntuale, o quasi. Osservò il senatore scendere rigidamente da una sfavillante Jaguar coupé blu, un modello del 1996. Indossava un soprabito grigio con una sciarpa di seta. C'era con lui una donna snella e sinuosa in abito nero, con un impermeabile Burberry gettato sul braccio. La donna rideva di qualcosa che aveva detto Fitzpatrick, gettando indietro la testa come una puledra inquieta. Una nuvoletta del suo fiato si levò nell'aria fredda della notte. La donna aveva almeno vent'anni meno del senatore. Sam sapeva che non era sua moglie. Danny Fitzpatrick dormiva raramente, o forse mai, con la moglie. La bionda zoppicava leggermente. I due formavano una coppia notevole, notevolissima. Sam Harrison si concentrò al massimo. Calcola tutto due volte, cinque volte se necessario. Riesaminò ancora ogni dettaglio. Era arrivato a Georgetown alle undici e mezzo e aveva tutta l'aria di abitare nell'elegante quartiere alla moda intorno a Q Street. Si era calato perfettamente nella parte che stava per recitare. Una parte importante in una storia importante, una delle più importanti della storia americana. Qualcuno avrebbe anche potuto dire del teatro americano. Era sicuramente un ruolo da protagonista. Portava un paio d'occhiali cerchiati di tartaruga che gli davano l'aria di un professore. In realtà non portava gli occhiali, non ne aveva alcun bisogno. Aveva i capelli biondo chiaro. Ma non era affatto biondo. Si chiamava Sam Harrison. Non si chiamava né Sam né Harrison. Per quell'occasione speciale aveva scelto d'indossare un maglione di cachemire nero, a collo alto, pantaloni grigio fumo con la piega e stivaletti marrone chiaro. In realtà non si curava mai tanto del proprio abbigliamento. I capelli folti erano tagliati corti e ricordavano vagamente il Kevin Costner di Guardia del corpo, uno dei film di quell'attore che gli erano piaciuti di meno. Portava una piccola borsa di tela nera che faceva dondolare avanti e indietro come un bastone, mentre avanzava rapido verso il 211. All'interno della borsa si trovava una telecamera. Era intenzionato a catturare su nastro il più possibile. Stava scrivendo la storia. Stava facendo la storia: l'America alla fine del secolo, l'America alla fine di un'era, l'America alla fine. A un quarto alle dodici, entrò nel 211 da un ingresso di servizio buio, che puzzava d'ammoniaca, di polvere e di vecchiume. Salì al quarto piano,
dove il senatore aveva il suo appartamento, il suo studio e il suo nido d'amore nella capitale. Arrivò davanti alla porta di Daniel Fitzpatrick, la 4J, alle dodici meno dieci, puntuale. Fino a quel momento tutto bene, tutto scorreva esattamente come pianificato. La lucida porta di mogano gli venne spalancata in faccia. Sam si trovò a fissare una donna biondo cenere dal fisico snello e curato. In realtà meno bella di quanto era sembrata da una certa distanza. La stessa donna scesa dalla Jaguar blu in compagnia di Fitzpatrick, quella che zoppicava leggermente. A parte un fermaglio d'oro fra i capelli, una leonessa ricordo di una visita al Museo d'arte moderna di New York, e un girocollo pure d'oro, era favolosamente nuda. «Jack», bisbigliò la donna. «Jill», disse lui. E sorrise. II In un'altra zona di Washington, su un altro pianeta, un altro aspirante assassino stava dandosi a un gioco altrettanto terrificante. Aveva trovato un nascondiglio perfetto nel folto dei pini e delle rare querce centenarie in mezzo a Garfield Park. Si era messo comodo in una specie di capanna formata dai rami sopra la sua testa e dai fitti cespugli intorno a lui. «Diamoci da fare», si disse a voce molto bassa, anche se non poteva sentirlo nessuno. Sarebbe stata un'avventura meravigliosa, la fantasia che diventava realtà. Ci credeva con tutto il suo cuore, il suo corpo e quello che rimaneva della sua anima. Sedette a gambe incrociate nell'erba umida e cominciò a lavorare alla faccia e ai capelli. Un pezzo delle Hole gli arrivava dalle cuffie. Era musica davvero buona, che gli piaceva da morire. Si travestì con frenesia. Mascherarsi era l'unico modo per fuggire e, perdio, lui doveva sempre fuggire. Quando ebbe finito, emerse dall'ombra degli alberi e scoppiò a ridere. Quel giorno aveva davvero fatto del suo meglio, era il travestimento migliore, talmente idiota da essere grande. Gli fece venire in mente alcuni versi divertenti: Le rose son rosse, le viole sono blu,
io son schizofrenico lo son sempre più. Duro-du! Sembrava proprio un vecchio vagabondo, un barbone senza speranza, uguale al pezzente di Aqualung. Si era messo un'orribile parrucca bianca e una barba sale e pepe prese da un kit per attori. Qualunque imperfezione nel travestimento e nel trucco rimaneva nascosta sotto il cappuccio morbido della sua felpa. Sulla felpa era stampata la scritta GIOIA E FELICITÀ. Che incredibile avventura da far scoppiare la testa stava per vivere, continuava a ripetersi. Gioia e felicità, gioia e felicità, era quello il suo biglietto d'ingresso. Quella scritta diceva tutto e l'ironia della cosa era semplicemente da schianto. L'aspirante assassino attraversò il parco a passo rapido, quasi di corsa, diretto verso il lato dalla parte del fiume Anacostia. Cominciò a vedere gente in giro: bighelloni, rapinatori, coppiette, quel cazzo che erano. Quasi tutti neri, ma andava bene così. Anzi, era ottimo: a nessuno importava un accidente dei neri a Washington, e quello era un dato di fatto. «Aqualung, oh-oh-oh, Aqualung», canticchiava camminando. Era un pezzo della splendida, vecchia band dei Jethro Tull. Ascoltava sempre rock, anche quando dormiva. Sempre con le cuffie alle orecchie. Aveva appena studiato la storia del rock and roll. Se fosse riuscito a costringersi ad ascoltare Hootie e i Blowfish, l'avrebbe digerita del tutto. Duro-du, rise fra sé. Era davvero di ottimo umore. Stava vivendo il trip mentale più fottutamente perfetto della sua vita. Era il momento migliore, il momento peggiore. Migliore e peggiore, peggiore e migliore, peggiore e anche peggio? Aveva già scelto il luogo dell'omicidio: il boschetto di abeti rossi e di sempreverdi vicino alla Southeast Freeway. Era un posticino selvaggio e dalla folta vegetazione, perfetto. Formava un angolo di novanta gradi con la fila di delapo, le casette a schiera di mattoni rossi, e la frequentata bottega fra la Sesta e la Southeast. Aveva perlustrato in tutti i sensi la zona e si era innamorato di quel nascondiglio. Vedeva già i bambini della Sojourner Truth School entrare e uscire dal negozio di caramelle all'angolo. I piccoli bastardi erano così carini a quell'età.
Amico, li odio con una ferocia da non credere. In realtà erano piccoli robot del cazzo, meschini parassiti. Tutto in loro era così carino. Si accucciò per passare sotto i cespugli fitti e spinosi e mettersi a fare sul serio. Per prima cosa gonfiò un mucchio di palloncini colorati: ce n'erano di rossi, arancioni, blu e gialli. Rappresentavano un'attrattiva colorata cui nessun bambino avrebbe saputo resistere. Lui invece aveva sempre odiato intensamente i palloncini, la loro allegria falsa e forzata. Ma i marmocchi di solito andavano matti per i palloncini, no? Legò un lungo spago a un palloncino e lo assicurò al ramo di un albero. Il palloncino si levò pigramente sopra la cima del vecchio albero. Sembrava una bella testa decapitata. Si mise ad aspettare nella sua capanna fra gli alberi, tutto solo, cosa che peraltro gli piaceva. «Og-gi di-strug-go qual-cu-no», intonò su un'inesistente melodia. «Lo faccio, lo faccio, lo faccio», continuò a cantare, e quasi il motivo gli piaceva. Poi sentì qualcosa muoversi vicino al suo nascondiglio e qualcosa scricchiolare. Un ramo spezzato? Chi veniva a trovarlo? Ascoltò più attentamente. Era proprio un rumore di rami spostati, calpestati e rotti, che risuonava amplificato alle sue orecchie. La mente era scivolata via e quel rumore lo fece infuriare. Sentiva l'adrenalina scorrere furiosa nel sangue. Per poco non fece un salto. All'improvviso si trovò davanti la metà superiore di una faccia, giusto la fronte e gli occhi. Gli occhi di una bambina! La bambina lo fissava attraverso i rami. Vide la faccia di una ragazzina nera e minuta, di cinque o sei anni, molto carina. Anche lei lo squadrò, dalla testa ai piedi. Ti ho vista, tesoruccio. Sì, adesso ti vedo bene! «Ciao», la salutò, gentile e cordiale. Sapeva esserlo, quando occorreva. Le sorrise e la bambina quasi gli rispose. Le parlò piano. «Vuoi un palloncino bello grosso? Ho un sacco di palloncini, palloncini di tutti i tipi. Eccone uno rosso ciliegia con il tuo nome sopra.» La bambina si limitava a fissarlo, senza pronunciare una sillaba. Non si mosse: aveva paura... probabilmente. Forse era perplessa all'idea che ci fosse un palloncino con il suo nome sopra.
«D'accordo, allora niente palloncino, va bene lo stesso. Dimentica la mia offerta di un palloncino gratis. Niente palloncini per te, ragazzina. A me va bene lo stesso. Oggi niente palloncini gratis! Nossignore!» «Sssì, per favore», disse all'improvviso la bimbetta, sgranando come petali gli occhi castani. La piccola aveva begli occhi color nocciola, no? «Non fare tanto la timida, ragazzina. Vieni qui che ti do un bel palloncino. Vediamo, ne ho di rossi, di blu, di arancioni, di gialli, di tutti i colori dell'arcobaleno.» Si mise a fare un'imitazione... forse di quel matto di Kevin Bacon nel Fiume della paura, un film che aveva noleggiato una settimana prima. O due? Chi lo sapeva più? Chissene frega! Mentre parlava, strinse la mano intorno all'impugnatura di una mazza da baseball in miniatura, rinforzata con nastro isolante. La mazza era lunga quasi mezzo metro, del tipo usato dalle bande locali per mantenere l'ordine nel quartiere. Continuò a parlare alla ragazzina in un tono cantilenante, che in realtà era sarcastico e ironico. «Quello rosso», squittì infine la piccola. Certo: aveva un nastro rosso nei capelli. Rosso è il colore di chi mi ama di vero amore. Poi, leggera, uscì cauta allo scoperto. Lui notò che aveva piedi piccolissimi, incredibilmente piccoli. La bambina allungò un braccio verso i palloncini colorati che lui stringeva saldamente fra le dita. Non sembrò accorgersi che la mano dell'assassino tremava violentemente. Fu allora che l'assassino estrasse da dietro la schiena la mazza e vibrò il colpo... con tutta la propria forza. Gioia e felicità, gioia e felicità. III Potevano veramente uccidere e farla franca, soprattutto con una vittima tanto altolocata? Jack ne era sicuro. Uccidere un altro essere umano, o parecchi altri esseri umani, senza essere presi e nemmeno minimamente sospettati era più facile di quanto si pensasse. Capitava continuamente. Invece Jill era spaventata e visibilmente tesa. Non poteva darle torto. Nella «vita reale» era una brillante donna in carriera di Washington, non aveva certo l'aria della pazza omicida. Non sarebbe stato facile sospettare che fosse Jill, quindi era perfetta per la sua parte nel gioco dei giochi. Quasi perfetta quanto lui. «È ubriaco, completamente fuori», bisbigliò lei nell'ingresso buio del-
l'appartamento. «Per fortuna è una serpe davvero repellente.» «Sai cosa si dice in giro del nostro Danny: è un pessimo senatore, ma con le donne è anche peggio.» Lei accennò un sorriso, un sorriso nervoso. «Pessima battuta, ma posso testimoniarlo. Andiamo, Jack.» Jill girò sui calcagni nudi e lui la seguì come un'ombra, osservando la sua lieve zoppia, che in un certo senso la rendeva interessante. La seguì in un salottino appena illuminato, che conduceva alla camera da letto. Attraversarono in silenzio la piccola sala, con la bandiera americana che si levava orgogliosa accanto al camino di pietra. La vista del drappo gli rivoltò lo stomaco. Alle pareti erano appese foto a colori di una regata, probabilmente a Cape Cod. «Sei tu, cara?» tuonò dalla camera da letto una voce appesantita dal whisky. «Chi altri potrebbe essere?» rispose Jill. Jack e Jill entrarono in camera insieme. «Sorpresa», annunciò Jack, puntando alla testa del senatore una Beretta semiautomatica. La mano che teneva la pistola era ferma e lui si sentiva la testa lucidissima. Stiamo facendo la storia e non c'è più modo di tornare indietro. Daniel Fitzpatrick si levò di scatto sul letto, sbalordito e infuriato. «Cosa diavolo? Chi... chi cazzo sei? Come cazzo hai fatto a entrare?» biascicò, la faccia e il collo scarlatti. Nonostante la gravità della situazione, Jack non poté reprimere un sorriso. Il senatore, nel suo lettone di lusso, sembrava una balena arenata sulla spiaggia, o forse un vecchio tricheco. «Diciamo che il suo spregevole passato l'ha finalmente raggiunta, senatore», rispose. «Adesso stia zitto, per favore. Rendiamo le cose più semplici possibile.» Fissò Daniel Fitzpatrick, ricordando un'osservazione letta di recente. Dopo aver visto il senatore a una conferenza, uno spettatore aveva notato: «Dio mio, ma ormai è vecchio!» In effetti lo era. Fitzpatrick era un vecchio dai capelli bianchi e dal corpo grasso e sfatto. Era anche il nemico. Jack aprì la borsa di tela nera e passò a Jill due paia di manette. «Legalo alle colonnine del letto, una per mano. Per favore.» «Sarà un piacere», rispose lei. C'era una semplice eleganza nel modo in cui parlava e si comportava. Persino nel modo in cui si muoveva. «Sei sua complice?» sussultò Fitzpatrick, guardando la bionda che si era
portato a casa dal bar La Colline. Pareva che la vedesse per la prima volta. Jill sorrise. «No, no. Sono stata attratta dal tuo pancione e dal tuo fiato puzzolente.» Jack prese la telecamera e la diede a Jill, che la puntò subito sul senatore Fitzpatrick, mise a fuoco e cominciò a girare. Era brava con la telecamera. «Cosa state facendo, in nome di Dio?» chiese Fitzpatrick. I suoi slavati occhi azzurri erano sgranati per lo stupore e per la paura. «Che diavolo volete? Cosa succede? Accidenti, sono un senatore degli Stati Uniti!» Jill cominciò dall'espressione alterata, sorpresa e ferita del senatore, poi allargò l'inquadratura. Oops... un po' troppo. Dovette rimettere a fuoco. Jack sorrise davanti a quell'inappropriata manifestazione di fierezza: era davvero fitzpatrickiana. Poi all'improvviso parve che tutto l'annebbiamento da alcol svanisse dal cervello di Daniel Fitzpatrick, che finalmente capì. «Non voglio morire», mormorò. Le lacrime presero a rigargli le guance. Strano: era proprio commovente. «Per favore, fermatevi, non fatemi del male», implorò. «Non voglio morire così. Ve ne prego, ascoltatemi. Volete starmi a sentire?» Jill era consapevole dell'importanza del suo filmato, roba da Oscar, forse il documentario del secolo. Ne avevano bisogno per il gioco dei giochi, per una delle sorprese che sarebbero venute in seguito. Jack attraversò rapido la camera da letto e puntò la pistola a pochi centimetri dalla fronte del senatore. Era il momento. Cominciava veramente il gioco, in tutta la sua perfezione. Regola numero due: Quello che fai è importante, è storia. Non dimenticarlo mai, neppure per un istante. «Sto per ucciderla, senatore Fitzpatrick, non abbiamo niente da dirci. Non c'è modo di cambiare le cose. Lei è cattolico, quindi, se crede in Dio, dica una preghiera. Per favore, ne dica una anche per me. Dica una preghiera per Jack & Jill.» Era il momento di dimostrare di avere fegato. Notò che gli tremava un po' la mano. Se ne accorse anche Jill. Si disse: Questa è un'esecuzione e lui se la merita in pieno. Sono entrato veramente in una storia dell'orrore. Sparò una volta, a pochi centimetri di distanza: la testa di Daniel Fitzpatrick esplose. Sparò una seconda volta. Calcola tutto due volte e colpisci due volte. Aveva fatto la storia.
Il gioco dei giochi era cominciato. Jack & Jill. PARTE PRIMA È GIÀ DOMANI 1 Oh, no, è già domani! Mi pareva di essermi appena addormentato quando sentii qualcosa sbattere in casa. Era un rumore forte, fastidioso come un antifurto, insistente. Che stava capitando in casa mia? «Merda, accidenti», bisbigliai nelle pieghe morbide del cuscino. «Lasciatemi in pace. Lasciatemi dormire tutta la notte come una persona normale. Andatevene.» Cercai a tastoni la lampada e feci cadere alcuni dei libri posati sul comodino: La figlia del generale, Viaggio in America e La neve cade sui cedri. Il tonfo mi svegliò del tutto. Presi dal cassetto il revolver di servizio e mi precipitai giù per le scale, passando davanti alla camera dei bambini. Sentii, o credetti di sentire, il suono del loro respiro. La sera prima avevo letto loro La storia di Peter Coniglio, di Beatrix Potter. Non entrare nel giardino del signor McGregor: tuo padre ha appena avuto un incidente. È stato messo nel forno dalla signora McGregor. Strinsi più forte nel pugno destro la mia Glock. I colpi, che prima avevano smesso, ripresero. Di sotto. Diedi un'occhiata all'orologio: erano le tre e mezzo del mattino. Gesù, abbi pietà. Di nuovo l'ora delle streghe. L'ora in cui mi svegliavo spesso senza bisogno di aiuti esterni, senza bisogno di nessun bang, bang, bang. Continuai a scendere i gradini ripidi e infidi. Cauto e sospettoso. A un tratto mi circondò il silenzio. Non emisi un suono nemmeno io. Nel buio sentivo l'elettricità sulla pelle. Non era il modo migliore per cominciare la giornata, e nemmeno la notte. Non entrare nel giardino del signor McGregor: tuo padre ha appena avuto un incidente... Entrai in cucina puntando la pistola e all'improvviso capii da dove veniva il rumore. Il primo mistero della giornata era risolto. Il mio collega e amico, appostato dietro la porta, era una versione ampli-
ficata di vicino che lancia l'allarme. Era stato John Sampson a fare tutto quel fracasso, era lui la mia spina nel fianco, o quanto meno il primo a seccarmi ogni mattina. Era lì in tutti i suoi due metri abbondanti e centoventi chili di peso. Doppio John, come veniva chiamato talvolta, o la Montagna Umana. «C'è stato un omicidio», annunciò mentre giravo la chiave, staccavo la catenella e gli aprivo la porta. «Questa volta è davvero un bel lavoretto, Alex.» 2 «Oh, cristo, John, sai che ora è? Hai un qualche concetto del tempo? Per favore, vattene, torna a casa, vai a bussare alla tua porta nel cuore della notte.» Emisi un grugnito, scuotendo lentamente la testa per scacciare il sonno. Non ero ancora sveglio del tutto. Forse era solo un brutto sogno. Forse Sampson non aveva affatto bussato alla porta della mia cucina. Forse ero ancora a letto ad abbracciare il cuscino. Ma forse no. «Può aspettare», sentenziai. «Di qualunque cosa si tratti.» «Oh, invece no», fece lui, scuotendo la testa. «Credimi, bello, non può.» Sentii un crepitio in casa alle mie spalle e mi voltai rapido, ancora annebbiato e scosso. La mia bambina era entrata in cucina, con il suo pigiamino a farfalle blu elettriche, i piedi nudi e un'aria spaventata. Dietro di lei c'era l'ultima arrivata in famiglia, una bella gatta abissina di nome Rosie. Anche Rosie aveva sentito il rumore. «Che succede?» bisbigliò assonnata Jannie, strofinandosi gli occhi. «Perché ti sei alzato così presto? È successo qualcosa di brutto, vero, papà?» «Torna a dormire, tesoro», dissi a Jannie, nel tono più gentile possibile. «Non è niente.» Dovevo mentire alla mia bambina: il lavoro mi aveva di nuovo seguito a casa. «Adesso saliamo di sopra, così torni nel tuo bel lettino.» La portai in braccio su per le scale, strofinandole il naso sulla guancia e mormorandole paroline dolci per farla riaddormentare. Le rimboccai le coperte e andai a controllare mio figlio, Damon. Entro poche ore se ne sarebbero andati tutti e due nelle loro rispettive scuole: Damon alla Sojourner Truth e Jannie in Union Street. Mentre mi occupavo di loro, la gattina Ro-
sie continuò a strofinarsi contro le mie gambe. Poi mi vestii e mi precipitai con Sampson, sulla sua auto, sulla scena dell'omicidio. Non dovemmo percorrere un lungo tragitto. Davvero un bel lavoretto, Alex. A soli quattro isolati da casa mia, in Fifth Street. «Adesso sono sveglio, che mi piaccia o no, e questa faccenda non mi piace affatto. Raccontami tutto», dissi a Sampson, osservando i lampeggianti rossi e blu delle auto della polizia e mettendo a fuoco i furgoni della scientifica. A quattro isolati da casa. C'erano un mucchio di poliziotti in fondo al tunnel formato dalle querce nude e dalle casette a schiera di mattoni rossi. Pareva che il fattaccio fosse avvenuto nella scuola di mio figlio Damon. (La scuola di Jannie si trova a una dozzina di isolati nella direzione opposta.) Il mio corpo si tese tutto e sentii un gran ronzio in testa. «È una bambina, Alex», disse Sampson in un tono insolitamente basso. «Sei anni. È stata vista per l'ultima volta ieri pomeriggio alla Sojourner Truth School.» Era proprio la scuola di Damon. Sospirammo entrambi; Sampson vuole bene a Damon e a Jannie quasi quanto me e anche loro gli sono molto affezionati. C'era già una gran folla intorno al cupo e severo edificio a due piani della Sojourner Truth Elementary School. Pareva che metà vicinato fosse in piedi alle quattro del mattino. Ero circondato da facce arrabbiate e sconvolte. Qualcuno indossava una vestaglia, altri erano avvolti in una coperta. I fiati gelati uscivano come fumo da un tubo di scappamento e sembravano diffondersi in tutto il cortile della scuola. Secondo il Washington Post, solo nell'ultimo anno nel Distretto di Columbia erano morti più di cinquecento bambini sotto i quattordici anni di età. La gente che c'era lì lo sapeva senza bisogno di leggerlo sul giornale. Una bambina di sei anni uccisa nella scuola di Damon, la Truth School. Non avrei mai potuto immaginare di svegliarmi in un incubo peggiore. «Mi dispiace», disse Sampson mentre scendevamo dalla macchina. «Ma ho pensato che volessi vederlo con i tuoi occhi.» 3 Sentivo il cuore martellare al punto che mi parve all'improvviso troppo
grosso per il mio petto. Mia moglie Maria era stata uccisa non lontano da quel posto: ricordi di quartiere, ricordi di una vita. Ti amerò sempre, Maria. Nel cortile della scuola era posteggiato il furgone arrugginito dell'obitorio: una vista incredibilmente stomachevole per me e per tutti gli altri. Una musica rap tutta bassi risuonava da qualche parte vicino alle luci della polizia. Sampson e io ci facemmo strada a gomitate tra la folla spaventata e ostile. Qualche furbo borbottò: «Allora, capo?» rischiando che gli rispondessi. I nastri gialli per delimitare la scena del delitto erano ovunque. Con il mio metro e ottantotto non raggiungo la Montagna Umana, però siamo tutti e due grandi e grossi. Quando arriviamo dove è stato commesso un omicidio, formiamo una coppia impressionante: Sampson con il suo gran cranio calvo e il giubbotto di pelle nera e io che di solito indosso un giaccone grigio alla Georgetown. Sotto la giacca ho la fondina con la pistola. L'abbigliamento adatto per il mio gioco, un gioco chiamato morte improvvisa. «È arrivato il dottor Cross», sentii borbottare in giro, ma il mio nome veniva pronunciato invano. Cercai di ignorare quelle voci, di estraniarle dalla mia coscienza. Ufficialmente ero il vicecapo della squadra omicidi, ma negli ultimi tempi facevo più che altro il poliziotto di strada. E mi andava bene così, doveva essere così. Era un momento particolare per me. Avevo visto omicidi e violenze da riempire una vita intera e stavo pensando di tornare alla pratica privata, di fare di nuovo lo strizzacervelli. Stavo pensando a un mucchio di cose. Sampson mi sfiorò la spalla. Capiva che era difficile per me, che questa volta ero stato colpito un po' troppo da vicino. «Stai bene, Alex?» «Benissimo», mentii per la seconda volta quella mattina. «Certo, bello, tu stai sempre benissimo anche quando ti senti da cani. Sei lo sbranamostri, no?» disse Sampson scuotendo la testa. Vidi con la coda dell'occhio una giovane donna che indossava una felpa nera con la scritta a lettere bianche: TI AMEREMO SEMPRE, TYSHEIKA. Tysheika era un'altra bambina morta. La gente del quartiere portava quelle felpe ai funerali dei bambini uccisi. Mia nonna, Nana Mama, ne aveva un'intera collezione. Un'altra donna attrasse la mia attenzione: se ne stava in piedi dietro la folla, sotto i rami spettrali di un olmo, e pareva diversa dagli altri. Era alta e bella. Portava un impermeabile stretto dalla cintura sui jeans e le scarpe
basse. Dietro di lei vidi una berlina blu, una Mercedes. Eccola, è lei, è la donna che fa per te. Questa folle idea sbucò dal nulla e mi riempì all'improvviso la testa di una gioia inopportuna. Presi mentalmente nota di scoprire chi fosse. Mi fermai per parlare con il giovane e impegnato detective della omicidi che indossava un berretto rosso, una giacca sportiva marrone e una cravatta di lana marrone, fatta a mano. Cominciavo a prendere il controllo della situazione. «Brutto modo di cominciare la giornata, Alex», osservò Rakeem Powell mentre gli andavo incontro. «E anche di finirla, come nel mio caso.» Annuii. «Non so immaginare un modo peggiore.» Sentivo un buco allo stomaco. «Cosa ne sai finora, Rakeem? Niente di consistente su cui basarci? Devo sentire tutto.» Il detective abbassò lo sguardo sul taccuino nero, voltandone qualche pagina. «Il nome della bambina è Shanelle Green, molto conosciuta nel quartiere. Per quanto ho sentito finora, assolutamente adorabile. Faceva la prima qui alla Truth School. Abita a due isolati dalla scuola, al Northfield Village. I genitori lavorano tutti e due e la lasciano tornare a casa da sola. Un po' imprudente, certo, ma che altro si può fare? Quando sono rientrati ieri sera Shanelle non c'era e verso le otto ne hanno denunciato la scomparsa. Eccoli laggiù.» Lanciai un'occhiata: sembravano due ragazzi anche loro. Due ragazzi devastati, con il cuore spezzato. Sapevo che non sarebbero mai più stati gli stessi dopo quell'orribile notte. Nessuno lo sarebbe più stato. «Hanno per caso qualche sospetto?» dovetti chiedere. Rakeem scosse la testa. «Non credo, Alex. Shanelle era tutta la loro vita.» «Per favore, controlla, Rakeem. Parla con tutti e due. Com'è arrivata nel cortile della scuola?» Powell sospirò. «È la prima cosa che non sappiamo. Dove sia stata uccisa è la seconda. Il terzo punto per la squadra omicidi è: chi l'ha uccisa?» Guardando Shanelle, era evidente che era stata probabilmente uccisa altrove e poi trascinata fin lì. Il caso si apriva e avevamo un mucchio di lavoro da svolgere. Era il mio caso. «Sai come è stata uccisa?» chiesi a Rakeem. Il detective aggrottò la fronte. «Guarda tu stesso e dimmi cosa ne pensi.» Non volevo guardare, ma dovevo, così mi chinai su Shanelle e sentii subito l'odore del suo sangue. Non potei impedirmi di pensare a Damon e a
Jannie, i miei figli. Ero sopraffatto dalla tristezza, mi divorava come un acido. M'inginocchiai sul cemento crepato per esaminare il corpo della bambina di sei anni. Shanelle giaceva in posizione fetale, con indosso soltanto un paio di mutandine a fiorellini rosa e azzurri. Aveva un nastro rosso impigliato nei capelli e due cerchietti d'oro alle orecchie. Gli altri suoi vestiti erano scomparsi: se li era probabilmente portati via l'assassino. Vidi che era un vero tesoro, adorabile, perfino dopo quello che le avevano fatto. Guardavo il come, il modo in cui qualcuno la sera prima aveva brutalmente ucciso la bimba di sei anni, spento per sempre tutta la sua vita in un istante di orrore e di follia. La girai cautamente di qualche centimetro. La testa rotolò di lato... con ogni probabilità il collo era spezzato. Non pesava praticamente nulla, pareva una neonata. Il lato destro del faccino non c'era più: annientato, sarebbe stata la descrizione migliore. L'assassino l'aveva colpita un tale numero di volte, e con tale violenza, che c'era ben poco di riconoscibile sul lato destro del viso di Shanelle. «Come ha potuto fare una cosa del genere a una così bella bambina?» borbottai fra i denti. «Povera Shanelle, povera bimba», bisbigliai solo a me stesso, mentre una lacrima si formava sotto le palpebre. La scacciai subito. Non c'era tempo per piangere. Shanelle era senza un occhio. Il suo volto pare una maschera a due lati, una maschera con due volti. I due volti della bambina? Due maschere? Cosa significava? Un altro killer girava libero per Washington. Questa volta era un assassino di bambini. 4 Un uomo alto e magro in impermeabile nero e cappello floscio nero si avvicinò, lento e cauto, alla porta dell'appartamento del senatore Daniel Fitzpatrick, poco prima delle sei di martedì mattina. Esaminò la porta cercando segni di scasso o di lotta, ma non trovò niente. Non gli piaceva affatto essere lì e non sapeva bene che cosa l'aspettasse dentro l'appartamento, però aveva la sensazione che fosse qualcosa di orribile. Di peggio che orribile. Era tutto così irreale. Era così strano per lui essere lì, un mistero dentro il mistero. Eppure
doveva procedere. L'uomo prese nota di tutto quello che vedeva nel corridoio del piano: le schegge d'intonaco cadute sul tappeto, le altre otto porte. Un tempo era stato ragionevolmente bravo in quel lavoro. Fare l'investigatore era come andare in bicicletta, no? Certo, una volta imparato, non si dimenticava più. Aprì la porta del 4J con una tessera di plastica molto simile a una carta di credito, ma più sottile e più viscida al tocco. Supponeva che anche violare un appartamento in quel modo fosse come andare in bicicletta: non si dimenticava più. «Sono dentro il 4J», mormorò nella ricetrasmittente portatile. Stava cominciando a sudare e gli tremavano leggermente le gambe. Era disgustato e atterrito e convinto di trovarsi nel posto sbagliato. L'irrealmondo, lo chiamava dentro di sé. Attraversò rapido l'ingresso e il salottino con le pareti coperte dalle foto del senatore Fitzpatrick: ancora nessuna traccia di scasso o di lotta. «Potrebbe essere solo un brutto scherzo», disse nella radio. «Spero che sia così.» Fece una pausa. «Oh, oh, qui abbiamo un problema.» Era accaduto tutto in camera da letto, dove regnava un caos incredibile. Era peggio di qualunque cosa avesse immaginato. «È orribile. Il senatore Fitzpatrick è morto. Daniel Fitzpatrick è stato ucciso. Non è uno scherzo. Il cadavere è ormai rigido, la pelle è cerea. C'è un mucchio di sangue. Dio mio, davvero un mucchio di sangue!» Si chinò sul cadavere del senatore e sentì odore di cordite. Ne sentiva quasi il sapore sulla lingua: probabilmente veniva dalla pistola che aveva ucciso Fitzpatrick. Purtroppo c'era parecchio di più sulla scena di quell'omicidio brutale, troppo per lui. Fece di tutto per controllarsi. Come andare in bicicletta, no? «Due spari alla testa, a bruciapelo, stile esecuzione», disse nella ricetrasmittente. «I fori d'entrata si trovano a un paio di centimetri di distanza.» Fece un gran sospiro, attese un attimo e riprese a parlare. Ma non occorreva che riferisse subito tutto quello che vedeva e sentiva. «Il senatore è ammanettato alle colonnine del letto. Mi sembrano manette della polizia. Il cadavere è nudo e non è un bello spettacolo. Pene e scroto sembrano tagliati via. C'è un sacco di sangue su tutto il letto, una quantità strepitosa. E vedo una grande macchia anche sul tappeto... ne è impregnato.» Si costrinse ad avvicinare il viso al petto del senatore; era coperto di peli argentei. Non gli piaceva avvicinarsi tanto a un morto, o in ogni caso a un
uomo. Fitzpatrick portava una specie di medaglietta religiosa, probabilmente d'argento. Odorava di profumo femminile. L'alto investigatore ne era quasi certo. «La polizia penserà a un'amante gelosa, a una specie di delitto passionale», disse. «Aspettate... c'è qualcos'altro. D'accordo, rimanete in linea, controllo.» Non sapeva come avesse fatto a non accorgersene subito, ma vide il biglietto soltanto in quel momento, posato accanto al telefono portatile sul comodino. Era impossibile non vederlo, no? Eppure lui non l'aveva visto. Lo raccolse con la mano coperta dal guanto. Era un biglietto scritto a macchina su una carta bianca spessa, costosa. Lo lesse in fretta, poi lo lesse di nuovo, tanto per essere sicuro che fosse... reale. Ti conoscevamo fin troppo bene, Danny, inutile, ricco bastardo eliminato e tanti altri ne verranno. Jack & Jill sono venuti sulla Collina per lavar via tutta la melma. Il povero Fitzpatrick era segnato. Il fesso giusto nel posto sbagliato al momento sbagliato. Sinceramente, Jack & Jill. Lesse la nota nel microfono poi, data un'ultima occhiata, lasciò l'appartamento del senatore com'era: in uno stato di caos, orrore e morte. Quando fu di nuovo al sicuro in Q Street, chiamò la squadra omicidi di Washington. Fece una telefonata anonima. Nessuno doveva sapere che era stato nell'appartamento del senatore e, soprattutto, come c'era entrato e chi era. Se qualcuno l'avesse scoperto, sarebbe scoppiato l'inferno... come se non fosse già scoppiato. Era tutto irreale e aveva l'aria di diventare molto peggio, come avevano promesso Jack & Jill. ...inutile, ricco bastardo eliminato e tanti altri ne verranno. 5
In ogni tragedia umana come questa, c'è sempre qualcuno che punta il dito. Un uomo al di là del nastro giallo che delimitava la scena del crimine puntava il dito sulla bimba assassinata e su di me, mentre ricordavo le parole profetiche di Jannie all'alba di quel mattino: È successo qualcosa di brutto, vero, papà? Sì, era successo, ed era quanto di più brutto si potesse immaginare. La scena dell'omicidio alla Sojourner Truth School spezzava il mio cuore e, ne ero certo, quello di chiunque altro. Il cortile della scuola era il luogo più triste e desolato dell'universo. Il chiacchierio che arrivava dalle radio della polizia sembrava appestare l'aria e rendeva difficile respirare. Sentivo ancora l'odore del sangue della bambina in gola e nelle narici, ma soprattutto in testa. I genitori di Shanelle Green, in un angolo, piangevano, e con loro piangeva tanta altra gente, anche perfetti estranei. In molte città del mondo civile l'omicidio di una bimba così piccola sarebbe stato una catastrofe, ma non a Washington, dove centinaia di bambini muoiono ogni anno di morte violenta. «Voglio una perquisizione casa per casa... La più completa che si possa immaginare», chiesi a Rakeem Powell. «Sampson e io vi parteciperemo personalmente.» «Tranquillo, ci stiamo già dando da fare. Comunque, chi pensa più a dormire?» «Andiamo, John. Dobbiamo muoverci subito», dissi a Sampson. Lui non obiettò. Di solito un omicidio del genere viene risolto in ventiquattro ore, oppure non si risolve più. Lo sapevamo tutti e due. Dalle sei in poi di quella fredda, desolata mattina ci mettemmo a setacciare il quartiere con gli altri detective e gli uomini di pattuglia. Dovevamo fare a modo nostro, casa per casa, strada per strada, in gran parte a piedi. Avevamo bisogno di sentirci coinvolti nel caso, di fare qualcosa, di risolvere in fretta quell'orrido crimine. Verso le dieci venimmo a sapere di un altro incredibile omicidio avvenuto a Washington: il senatore Daniel Fitzpatrick era stato ucciso la sera prima. Una brutta notte, davvero. «Non sono fatti nostri», commentò Sampson con uno sguardo freddo e impassibile. «È un problema che riguarda qualcun altro.» Non negai. Nessuna delle persone con cui parlammo quel mattino aveva notato
niente di strano intorno alla Sojourner Truth School. Sentimmo tutte le solite lamentele sugli spacciatori, sugli zombie drogati, sulle prostitute che lavorano in Eighth Street e sul numero crescente di bande di delinquenti. Ma niente fuori della norma. «Volevano tutti bene alla piccola Shanelle», ci disse la signora ispanica dall'età indefinibile che gestiva da sempre la drogheria all'angolo con la scuola. «Veniva qui a comprare le cicche. Aveva proprio un bel sorriso, sapete?» No, non avevo mai visto il sorriso di Shanelle Green, ma scoprii di poterlo immaginare. E continuavo a rivedere il lato destro distrutto del viso della bambina: mi portavo in testa quell'immagine neanche fosse una bizzarra foto da tenere nel portafoglio. Zio Jimmie Kee, un influente coreano-americano proprietario di vari negozi della zona, fu contento di parlare con noi. Jimmie è un buon amico e qualche volta viene alle partite con noi. Ci diede un nome che avevamo già nella nostra breve lista di indiziati. «Che ne dite di quel brutto ceffo, Chucky-taglialo-via?» suggerì zio Jimmie mentre parlavamo nel retro di Ho Woo Jung, il suo popolare ristorante in Eighth Street. Lessi il cartello alle sue spalle: L'IMMIGRAZIONE È LA FORMA PIÙ SINCERA DI ADULAZIONE. «Nessuno ha ancora preso quel figlio di puttana, ma ha già ucciso altri bambini. È l'uomo peggiore di tutta Washington. Subito dopo il presidente», ci fece sapere Jimmie, ridacchiando. «Ma niente cadaveri e niente prove», gli ricordò Sampson. «Non sappiamo nemmeno se esista veramente quel Chucky.» Era vero. Si chiacchierava da anni di un ripugnante molestatore di bambini che operava nel Northfield Village, ma non era mai emerso nulla di concreto, non era mai stato provato niente. «Chucky esiste, eccome», affermò zio Jimmie, mentre gli occhi neri si stringevano ancor più del solito. «Chucky è reale come il demonio. Qualche volta l'ho visto in sogno, Alex, proprio come capita ai bambini del quartiere.» «Non hai mai sentito niente di più specifico su Chucky? Dove è stato visto? Chi l'ha visto?» domandai. «Aiutaci se puoi, Jimmie.» «Oh, lo faccio volentieri», annuì lui, corrugando le labbra grosse e il triplo mento. Come sempre, indossava un vestito color cioccolata e un cappello floscio che gli ballonzolava sulla testa mentre parlava. «Alex, mediti sempre? Sei entrato in contatto con il tuo chi?»
«Ci penso sempre, ci penso al mio chi, Jimmie, ma forse in questo momento è un po' basso. Parlaci di Chucky.» «Conosco un mucchio di brutte storie su Chucky-taglialo-via. Spaventa continuamente i bambini, perfino i balordi hanno paura di lui. Mamme e nonne attaccano avvisi nei giardini e anche nei miei negozi: tutte tristi storie di bambini scomparsi... Io le lascio fare. Chi fa male ai bambini è il peggiore degli uomini. Sei d'accordo, Alex? La pensi diversamente?» «No, sono d'accordo con te, è per questo che Sampson e io siamo in giro, oggi.» Sapevo parecchio sul molestatore di bambini che era stato soprannominato Chucky-taglialo-via. Girava la voce che tagliasse i genitali ai ragazzini del quartiere. Maschi e femmine, senza preferenze. Fosse vero o no, era comunque innegabile che qualcuno molestava i bambini della Northfield e Southview Terrace, non lontano da lì. Altri bimbi, poi, erano semplicemente scomparsi. La polizia del quartiere non aveva i mezzi per dare effettivamente la caccia a Chucky, ammesso che Chucky esistesse. Io l'avevo riferito più volte all'investigatore capo, però non era successo niente. Pareva che nella zona sud-est non fosse mai disponibile qualche agente in più. L'ingiustizia di quella situazione mi faceva infuriare più di qualunque altra cosa al mondo. «Sembra un'altra missione impossibile», osservò Sampson mentre risalivamo G Street. «Siamo soli a dare la caccia a una chimera.» «Bella immagine», commentai, ritrovandomi a sorridere alla Montagna Umana, alla sua fantasia galoppante, alla sua mente. «Sapevo che, da quell'uomo colto e raffinato che sei, ti sarebbe piaciuta.» Sorseggiavamo tisane bollenti nel ristorante di Jimmie e andavamo su e giù per le strade con un'aria da veri detective, colletti alzati e tutto. Detective grossi e cattivi. Volevo che la gente ci vedesse in giro per il quartiere. «Nessuna pista da seguire, nessun indizio, nessuna soffiata», dissi, concordando con Sampson. «Continuiamo a occuparcene comunque?» «Come sempre», replicò lui, con un lampo così truce nello sguardo che spaventò perfino me. «Attento, Chucky, guardati le spalle. Siamo dietro il tuo mitico culo.» «La chimera del tuo culo.» «Giusto, bello, giusto.»
6 Era davvero bello girare di nuovo per il quartiere con Sampson. È sempre bello, anche in un orribile caso d'omicidio che mi fa ribollire il sangue. L'ultimo grosso enigma che avevamo risolto ci aveva portati nella Carolina del nord e in California, ma Sampson era stato presente solo all'inizio e alla fine. Cresciuti nello stesso quartiere, ci conoscevamo dall'età di nove o dieci anni e la nostra amicizia si rinsaldava sempre di più, si faceva ogni anno più profonda. «Per quale motivo ci facciamo vedere qui?» chiese Sampson mentre percorrevamo G Street. Indossava un giubbotto di pelle nera, occhialoni da sole e un fazzoletto nero al collo: gli stava bene. «Come facciamo a sapere di aver svolto un buon lavoro?» chiese. «Facciamo girare la voce che ci stiamo occupando personalmente dell'assassino della Truth School», risposi. «Facciamo vedere le nostre belle facce e facciamo sentire più sicure possibile le famiglie della zona.» «Già, poi prendiamo Chucky-taglialo-via e glielo tagliamo», concluse ammiccante Sampson, con il suo sorriso da lupo. «Non sto scherzando.» Non ne avevo dubitato nemmeno per un istante. Quando finalmente tornai a casa quella sera erano le dieci passate e Nana Mama mi stava aspettando. Aveva già messo a letto Damon e Jannie, ma la sua aria preoccupata mi rivelò che lei non riusciva a dormire, cosa piuttosto strana. Nana è capace di addormentarsi anche nell'occhio di un ciclone. E a volte è lei l'occhio del ciclone. «Ciao», mi disse. «Brutta giornata? Te lo leggo in faccia.» A volte sa essere anche incredibilmente dolce e comprensiva. Mi piace che si cali tanto bene nelle due interpretazioni, anche se non so mai quale devo aspettarmi. Sedetti accanto a lei sul divano del soggiorno e la mia nonnina ottantunenne mi prese la mano fra le sue. Le raccontai quello che avevo scoperto fino a quel momento e lei prese leggermente a tremare, altra cosa strana. Non è una persona debole, in nessun senso. Si mostra raramente intimorita, perfino con me. Con gli anni, Nana Mama non ha perso niente di se stessa; anzi, è diventata ancora più luminosa e concentrata. «Mi fa stare così male questo delitto alla Sojourner Truth School», disse, abbassando il capo. «Lo so, non ho pensato ad altro per tutto il giorno. Sto rivoltando ogni sasso.» «Che ne sai di Sojourner Truth, Alex?»
«So che era una potente abolizionista, una ex schiava.» «Andrebbe citata ogni volta che si parla di Susan B. Anthony e di Elizabeth Cady Stanton, Alex. Non sapeva leggere, quindi imparò a memoria quasi tutta la Bibbia per poterla insegnare. Fu lei a porre termine alla segregazione sui mezzi di trasporto qui a Washington... e adesso succede questo abominio nella scuola che porta il suo nome... Prendilo, Alex», bisbigliò all'improvviso in tono basso e quasi disperato. «Per favore, prendi quel mostro. Non riesco nemmeno a dire come lo chiamano... quel Chucky. Esiste veramente, Alex, non è un orco inventato.» Avrei fatto assolutamente del mio meglio. Mi occupavo io del delitto, ero io a dare la caccia alla chimera con tutte le mie forze. La mia mente lavorava senza tregua. Un molestatore di bambini? Maschi e femmine. Adesso era diventato anche un assassino di bambini? Chucky-taglialo-via? Esisteva veramente, o era un'invenzione dei bambini spaventati? Era solo una chimera o aveva ucciso lui Shanelle Green? Quando Nana andò a letto, sentii il bisogno di strimpellare un po' il piano in veranda. Suonai Jazz Baby e The Man I Love, ma quella sera non funzionò nemmeno la musica. Poco prima di addormentarmi, mi ricordai di una cosa: il senatore Daniel Fitzpatrick era stato ucciso a Georgetown. Che giornata era stata, che incubo. Due delitti. 7 Jack & Jill. Sam e Sara. Chiunque fossero veramente, se ne stavano sdraiati supini sul bel tappeto persiano del soggiorno del pied-à-terre di Jill a Washington. Era una specie di casa sicura. Il fuoco nel caminetto scoppiettava, bruciando fragranti ciocchi di melo. Stavano facendo un gioco da tavolo sul tappeto che copriva il parquet a spina di pesce. Era un gioco speciale, unico da tutti i punti di vista. Lo chiamavano il gioco della vita e della morte. «Mi sento come un dannato yuppie bianco liberale della Georgetown University», disse Sam Harrison, sorridendo all'improbabile immagine creata dalla sua mente. «Ehi, io ci assomiglio davvero», fece Sara Rosen, mettendo il broncio. Stava scherzando: Sam e lei non erano yuppie. Sam sicuramente no.
Eppure il pollo arrostiva in cucina profumando l'aria e loro stavano giocando stesi sul tappeto della sala. Ma non si trattava di un gioco come Monopoli o Risiko. In realtà il gioco serviva a scegliere la prossima vittima. Facevano rotolare con calma il dado, a turno, spostando il segnalino intorno a un rettangolo di fotografie. Erano foto di gente molto famosa. Il gioco da tavolo era importante per Jack & Jill. Il loro era un gioco d'azzardo, che avrebbe reso impossibile alla polizia o all'FBI predirne le mosse o comprenderne le motivazioni. Ammesso che ci fossero motivazioni. Ma certo che c'erano le motivazioni. Sam tirò di nuovo il dado, poi spostò il segnalino. Sara lo osservò alla luce calda del caminetto, gli occhi che brillavano appena. Stava ricordando il loro primo incontro, il contatto iniziale. Il principio di tutto quello che era ormai in pieno svolgimento. Quel bel gioco complesso e misteriosissimo era cominciato nel caffè di una libreria del centro di Washington. Sara era arrivata per prima, con il cuore in gola. Quell'appuntamento era una totale follia, forse anche pericolosa, ma irresistibile. Non poteva mancare l'opportunità, e soprattutto venir meno alla causa. La causa era tutto per lei. A quel primo appuntamento non aveva avuto la minima idea di che aspetto potesse avere Sam Harrison ed era rimasta piacevolmente sorpresa quando al tavolino si era seduto un uomo dall'aspetto estremamente accattivante. L'aveva visto entrare nell'area del caffè ordinando un espresso e una brioche salata, ma non aveva immaginato che il tizio da sogno al banco del bar potesse essere Harrison. Invece era lui «il Soldato», il suo partner potenziale. Pareva del tutto a proprio agio nella libreria, ma sarebbe sembrato a proprio agio ovunque. Non aveva affatto l'aria del killer, come d'altronde non l'aveva lei. Sembra un pilota d'aereo, pensò Sara, soppesandolo con lo sguardo. Oppure un avvocato di successo della capitale. Era alto più di un metro e ottanta e aveva un fisico asciutto. Una faccia dai lineamenti forti, sicuri. Aveva anche i due occhi azzurri più chiari e luminosi del mondo e l'aria di una persona gentile, sensibile. Del tutto diversa da quello che si era aspettata. Le piacque subito. Sapeva che erano d'accordo sulle cose basilari della vita e che nutrivano un sogno in comune. «Mi stai guardando come se dovessi avere l'aria del cattivo e fossi sor-
presa perché non ce l'ho», disse lui, sedendole di fronte al tavolino. «Non sono una persona cattiva, Sara. Puoi chiamarmi Sam e darmi del tu, comunque. In realtà sono un bravo ragazzo.» No, Sam era anche meglio. Era stupefacente: intelligentissimo, forte, sempre attento a non ferirla, impegnato nella causa. Sara Rosen si era innamorata di lui nel giro di una settimana. Sapeva che non avrebbe dovuto, ma non era riuscita a impedirselo. E adesso erano stesi sul tappeto a vivere la loro vita segreta. A fare il gioco della vita e della morte mentre il pollo girava lentamente sullo spiedo. Seduti davanti al caminetto acceso a pensare di fare l'amore... o almeno ci pensava lei. Pensava continuamente di stare con Sam, con Jack. Le piaceva sentirlo dentro di sé. «È l'ultimo tiro», disse Sam porgendole i dadi. «Tocca a te. Sei tiri per uno. A te l'onore, Sara.» «Ci siamo, eh?» «Sì, ci siamo di nuovo.» Il cuore di Sara Rosen prese a battere all'impazzata, ne sentiva i tonfi sotto la camicetta. Era paralizzata dall'idea che quell'unico tiro di dadi fosse come l'omicidio stesso: era come premere il grilletto. A chi toccava morire? Era tutto nelle sue mani, vero? A chi sarebbe toccato? Strinse forte nel pugno i tre dadi, poi li agitò e li tirò, osservandoli rotolare sino a fermarsi bruscamente, come se qualcuno avesse tirato un cordino invisibile. Fece rapida la somma: nove. Sara prese il segnalino e contò nove caselle, nove fotografie. Fissò la faccia su cui si era fermato, la prossima vittima celebre: era una donna! È per la causa, si disse, ma il cuore continuava a martellarle in petto. La prossima vittima era una donna molto famosa. Washington e il resto del mondo sarebbero stati sconvolti e oltraggiati per la seconda volta. 8 Sampson e io ci incamminammo nel cuore avvolto dalla nebbia di Garfield Park, che costeggia il fiume Anacostia e l'Eisenhower Freeway, non lontano dalla Sojourner Truth School. Il colore della verità è grigio, pensai entrando nel parco. Sempre grigio. Non eravamo usciti per fare una corset-
ta di primo mattino, ma per precipitarci sul posto in cui Shanelle Green era stata veramente uccisa, dove qualcuno le aveva fracassato il cranio. Parecchi agenti, un capitano e un altro investigatore erano già sul luogo del delitto, circondati da una dozzina di curiosi. I cani poliziotto fatti venire dalla Georgia avevano indicato quell'angolo del parco. Dal boschetto di sempreverdi in cui l'omicida aveva brutalmente assassinato la bambina, si vedeva Sixth Street. Riuscivo quasi a vedere anche la Truth School. «Pensi che l'abbia portata da qui al cortile della scuola?» chiese Sampson. Il suo tono di voce indicava che non ci credeva, e nemmeno io. Ma allora com'era arrivato fino alla scuola il cadaverino? Sopra la cima delle piante, nel luogo del terribile omicidio, si levava un bel palloncino rosso. «Indica il posto?» chiese Sampson. «A cosa serve quel palloncino?» «Non lo so, mi chiedo se...» borbottai, spostando i rami per raggiungere il nascondiglio dell'assassino. Nonostante l'aria fredda, si sentiva un forte profumo di pino, che mi ricordò come Natale fosse alle porte. Sentivo la presenza dell'omicida fra i rami degli alberi, a sfidarmi. Sentivo anche la presenza di Shanelle, come se avesse cercato di dirmi qualcosa. Volevo star solo per qualche minuto in quel nascondiglio. Il delitto era stato compiuto in una piccola radura. C'era sangue secco per terra ed era schizzato perfino sui rami. L'aveva attirata lì dentro, ma come aveva fatto? Lei doveva essersi insospettita o spaventata, a meno che non lo conoscesse. A un tratto capii. Il palloncino! Era solo una supposizione, tuttavia mi pareva giusta. Poteva averla attirata con il palloncino rosso, averlo usato come esca per la bambina. Mi accucciai e rimasi immobile nella tana fra gli alberi. All'assassino piaceva stare lì, nascosto nell'ombra. Non si piaceva granché, preferiva il buio. Amava la sua mente e i suoi pensieri, ma non il suo aspetto. Era probabile che ci fosse qualcosa che lo distingueva fisicamente. Non ne ero certo, però mi sembrava che quadrasse; sì, mentre me ne stavo acquattato sul luogo del delitto, sentivo che era così. Probabilmente si era nascosto in quella tana fra gli alberi perché in lui c'era qualcosa che la gente poteva ricordare. Se era così, era un buon indizio. Vidi di nuovo il faccino distrutto di Shanelle Green, poi mi arrivò un'immagine di mia moglie morta, Maria. Sentii la rabbia montare dai visceri alla gola, farmi ribollire il sangue. Pensai a Jannie e Damon.
Mi venne in mente un'altra cosa sull'assassino di bambini: di solito la rabbia implica la consapevolezza del proprio valore. Strano ma vero. L'assassino era infuriato perché credeva in se stesso molto più del resto del mondo. Finalmente mi alzai e uscii dal nascondiglio: ne avevo abbastanza. «Tirate giù quel palloncino», dissi a un agente. «Staccate subito quel dannato palloncino dall'albero: è una prova.» 9 C'era qualcosa che lo distingueva fisicamente, ne ero quasi certo. Si poteva cominciare da lì. Quel pomeriggio Sampson e io tornammo a battere le strade dalle parti del Northfield Village. I quotidiani e la televisione non avevano dato grande rilievo all'omicidio della bambina nel quartiere sud-est. Parlavano invece moltissimo dell'assassinio del senatore Fitzpatrick da parte dei cosiddetti Jack & Jill. A quanto pareva, Shanelle Green non aveva molta importanza. Tranne per Sampson e per me, che avevamo visto il suo corpicino martoriato e conosciuto i suoi genitori distrutti dal dolore. Parlammo con i nostri soliti informatori, ma anche con la gente comune. Continuammo a farci vedere al lavoro nelle vie del quartiere. «Un bell'omicidio mi piace sempre. Adoro girare per queste povere strade nel gelo dell'inverno», osservò Sampson passando davanti a un rivenditore d'auto da cui usciva un'assordante musica rap tutta bassi. «Mi piacciono la sofferenza, la puzza, i rumori della paura.» La sua espressione era impassibile, oltre la rabbia. Filosofica. La felpa sotto il giaccone aperto sbandierava il messaggio del giorno: NON ME NE FREGA UN CAZZO / NON M'INTERESSA UN CAZZO / NON FACCIO LAVORI DEL CAZZO. Conciso, accurato, in puro stile John Sampson. Nessuno di noi due aveva avuto molta voglia di parlare nell'ultima ora. Non andava affatto bene, ma era quello il nostro lavoro. Di solito era proprio così. La Montagna Umana e io arrivammo al Capitol City Market verso le quattro del pomeriggio. Quel supermercato è un postaccio in Eighth Street, conosciuto da tutti. È forse il più squallido e deprimente grande magazzino di tutta Washington... ed è una bella lotta.
Sul suo muro grigiastro vengono di solito scritti con il gesso rosa i prodotti in offerta, che quel pomeriggio erano birra, acqua tonica, banane, costolette di maiale e Tampax... tutto l'occorrente per una prima colazione completa ed equilibrata. Davanti al negozio c'era un ragazzo di colore con gli occhiali scuri, la testa rasata e il pizzetto: attirò subito la nostra attenzione. Se ne stava in piedi vicino a un uomo che teneva in bocca una tavoletta di cioccolato, neanche fosse un sigaro. Testa rasata mi fece cenno che voleva parlarci, ma non lì. «Ti fidi di quel teppista?» indagò Sampson mentre lo seguivamo a distanza di sicurezza. «Di Alvin Jackson?» «Io mi fido di tutti.» Gli strizzai l'occhio, ma lui non rispose. «Sei fottuto, bello», mi annunciò, con uno sguardo ancora terribilmente serio. «Provo solo a fare la cosa giusta.» «Ah, già, allora ci provi troppo.» «È per questo che mi ami.» «Sì», ammiccò finalmente Sampson. «Se amare te è sbagliato, non voglio essere giusto», citò da una canzone di moda. Trovammo Alvin Jackson dietro l'angolo. A Sampson e a me capitava di usarlo come informatore. Non era cattivo, ma conduceva un'esistenza pericolosa che poteva crollargli addosso da un momento all'altro. Quando frequentava le superiori era un discreto mezzofondista e si allenava per strada. Adesso gestiva un piccolo spaccio, vendendo anche fumo. Sotto molti aspetti, Alvin Jackson era ancora un bambino. Questo era importante per capire parecchie cose su quei teppistelli, perfino su quelli dall'aspetto più truce e minaccioso. «Inpistapershanelle», disse Alvin attaccando tutt'e quattro le parole. «Cercate informazioni su chi l'ha freddata e tuttilresto?» Teneva il giubbotto sbottonato secondo l'ultimo look, il baggin', e sopra la cinta s'intravedeva la canottiera a strisce bianche e rosse. Il look era ispirato al fatto che in prigione viene tolta la cintura ai detenuti, i cui calzoni tendono così a calare. Già, nel nostro quartiere i detenuti sono i modelli di ruolo. «Già. Tu cos'hai sentito, Alvin? Ma non farci perder tempo», disse Sampson. «Amico, i miei sono fatti», protestò Alvin Jackson, rivolto a me, continuando a dondolare la testa rapata e facendo tintinnare i cerchi alle orec-
chie. Poi contrasse i lunghi e potenti bicipiti, mentre saltellava sulle Nike. «Lo sappiamo», garantii. «Fumi?» E gli offrii una Camel. Lui la prese. Io non fumo, ma porto sempre le sigarette con me. Alvin fumava come un camino quando si bucava a scuola: sono cose che si notano. «Lapiccolashanelle vive nella stessa casa di mia zia a Northfield. Forse so chi è stato. Micapite?» «Finora», annuì Sampson. Stava veramente cercando di essere gentile. Alvin aveva la tipica parlata del tossicomane: velocissima, quasi incomprensibile. «Vuoi farci vedere cos'hai trovato?» domandai. «Vuoi aiutarci?» «Vi farò vedere Chucky in persona, chenedite?» Mi sorrise. «Masoloavoidue. Mesi fa ho provato a parlarne ad altri agenti, ma non ne hanno voluto sapere. Nonmisonostatiasentire, amico, non avevano tempo.» Mi sentivo come suo padre, suo zio o suo fratello maggiore: responsabile. Non mi piaceva granché. «Be', noi ti stiamo ascoltando», dissi. «Abbiamo tutto il tempo che vuoi.» Andammo con Alvin Jackson fino al Northfield Village, una delle zone più infestate dal crimine del Distretto di Columbia. Ma nessuno pare badarci. Il primo distretto di polizia ci ha rinunciato e, fatto un giro per Northfield, non si può biasimarlo del tutto. Non mi pareva una pista molto promettente, eppure Alvin Jackson sembrava in missione. Me ne chiesi il motivo. Cosa avevo trascurato? Infine puntò un lungo dito accusatorio su un edificio di mattoni gialli, malridotto e scrostato quanto gli altri. Sopra il portone c'era un'insegna di metallo blu con il numero tre. I gradini d'ingresso erano crepati, come colpiti da un fulmine o da una mazzata. «Vivelì. O almeno ci viveva l'ultima volta. Si chiama Emmanuel Perez. A volte fa il fattorino da Famous. La conoscete, la Famous Pizza? Corre dietro ai ragazzini, amico. È un vero schizoide. Un maniaco sessuale. Fa paura, davvero. Non gli piace sentirsi chiamare Manny. Chiamatelo sempre Emmanuel.» «Come mai lo conosci?» chiese Sampson. Lo sguardo di Alvin Jackson si oscurò immediatamente e s'indurì come roccia. «Lo conoscevo una volta, girava già quand'ero bambino io. Si dava da fare anche allora. Emmanuel è sempre stato in giro, capite?» Avevo capito: Chucky-taglialo-via non era più una chimera.
Davanti alla casa c'era uno spiazzo in cemento, affollato di ragazzini che giocavano. Il canestro del basket era senza rete e aveva il cerchio tutto storto. A un tratto qualcosa attirò l'attenzione di Alvin Jackson. «È lui, laggiù», esclamò in tono acuto, lamentoso. Aveva paura «È lui, amico. È Emmanuel Perez quello in mezzo ai ragazzini.» Non aveva neppure finito di parlare che Perez ci avvistò. Con quella sua lunga barba rossa e ispida, sembrava uscito diritto da un incubo. C'è qualcosa che lo distingue fisicamente, qualcosa che la gente avrebbe ricordato vedendolo a Garfield Park. Lanciò una cupa occhiata minacciosa ad Alvin Jackson, poi scappò via come il fulmine. Emmanuel Perez correva molto veloce, ma anche noi, o almeno così mi pareva. 10 Sampson e io ci mettemmo a rincorrere Perez, guadagnando un poco di terreno, lungo un vicolo sporco e tortuoso fra gli alti e deprimenti caseggiati. Riuscivamo ancora a cavarcela. «Fermo, polizia!» gridai a quella specie d'uomo che scappava davanti a noi. Era un orco, una chimera, un innocente fattorino? Perez, sospettato di essere un molestatore e un assassino di bambini, stava comunque scappando. Non sapevamo con sicurezza se fosse lui Chucky-taglialo-via, comunque il fatto era che stava scappando da Sampson e da me, dalla polizia. Avevamo finalmente una traccia? Certo qualcosa stava capitando. Però un brutto pensiero mi si era conficcato nel cervello. Se stiamo per prenderlo dopo solo due giorni, perché non è stato preso prima? Credevo di conoscere la risposta e non mi piaceva affatto. Perché non importa un accidente a nessuno di quel che succede in questi quartieri popolari, ecco perché. «Siamo rimasti indietro!» gridò a un tratto Sampson, mentre passavamo come fulmini tra gli edifici cavernosi, rovesciando sacchi di spazzatura e facendo levare in volo i piccioni. «È ancora da vedersi», gli gridai. Non importa niente a nessuno! «Non dubitare che l'acciuffiamo.» «Anche Emmanuel è veloce.» Non importa niente a nessuno!
«Noi siamo più veloci, più forti e più duri di quanto Manny si sia mai sognato di essere.» «Diciamo anche più stronzate», sbuffai io. Solo uno sbuffo, ma stavo ansimando. «Anche, sì. Non c'è bisogno di dirlo.» Seguimmo Perez/Taglialo-via fino in Seventh Street, su cui si affacciavano brutte case a quattro e cinque piani, negozi malandati e qualche baraccio. A metà dell'isolato, Perez s'infilò in un edificio scrostato, un palazzone che aveva quasi tutte le finestre chiuse da una lastra di metallo: sembravano i denti incapsulati di una bocca malandata. «Sa quello che fa», gridò Sampson. «Sa dove sta andando.» «Almeno uno dei tre lo sa.» Entrammo anche noi nello sgangherato edificio, ma avevamo perso terreno. Si sentiva un forte odore di urina e vecchiume. Salendo i gradini di cemento, sentii il fuoco scoppiarmi nel petto. «Si era studiato una via di fuga!» sbuffai, spompato. «È furbo.» «Sta cercando di sfuggirci, questo non è da furbo. Non è mai successo... Ti abbiamo preso, Manny!» urlò Sampson su per le scale. «Ehi, Manny, Manny, Manny, Manny!» «Fermo, polizia! Manny Perez, fermati!» urlò Sampson al sospetto in fuga, estraendo la sua minacciosa Glock 9 mm. Ma Perez continuava a salire, senza rispondere; sentivo le scarpe da tennis scricchiolare sui gradini. Sulle scale non c'era nessuno: a nessuno importava della caccia all'uomo all'interno dell'edificio. «Credi che sia stato davvero Perez?» urlai. «Qualcosa ha fatto, sta scappando come se avesse il culo in fiamme e il fuoco gli salisse lungo il midollo.» «Già, abbiamo dato fuoco alla miccia.» Sbucammo da una porta di metallo grigio su un gran tetto piatto di catrame. Sopra di noi, il cielo era blu e freddo. I vetri degli edifici vicini riflettevano la luce. C'era solo il luminoso cielo blu sopra di noi. Mi venne una gran voglia di andarmene, di volare via dall'incubo. Ne avevo voglia, ma non i mezzi. Dove diavolo era finito? Non si vedeva più. Dov'era Emmanuel Perez? Dov'era l'assassino della Truth School? Una chimera.
11 «Vaffanculo, bell'agente», urlò a un tratto Perez. «Mi hai sentito, cocchino?» «Cocchino?» Sampson mi guardò e fece un smorfia. Scorsi in un lampo Chucky-taglialo-via, alla nostra estrema destra. Era già su un altro tetto e aveva guadagnato una trentina di metri. Si girò un attimo a fissarci, preoccupato. Aveva occhietti neri e duri, davvero diabolici, e una gran barba rossa. Forse era matto, o forse era soltanto il fattorino di una pizzeria. Ma fammi il piacere, mi dissi. Sul tetto c'erano quattro ragazzi e una ragazza intenti a fiutare qualcosa. Probabilmente crack; sperai che non fosse eroina. Guardarono assenti il folle mondo che girava intorno a loro. Questa volta la vera partita della città era arrivata sul loro tetto: guardie e ladri. O assassini di bambini: per quei ragazzi non faceva nessuna differenza. Sampson e io attraversammo di corsa altri tre tetti, guadagnando un poco di terreno. Il sudore mi scendeva dalla fronte, bruciandomi gli occhi. «Fermo o sparo!» gridai. «Fermati, Emmanuel Perez!» Perez si guardò di nuovo alle spalle. Questa volta fissò proprio me, con un gran ghigno. Poi sparì oltre il tetto della casa di mattoni su cui ci trovavamo. «La scala antincendio!» urlò Sampson. Qualche istante dopo ci precipitavamo giù per i gradini arrugginiti. Perez volava letteralmente davanti a noi: era la sua grande occasione di essere protagonista. Noi due eravamo troppo grossi e rallentavamo a ogni svolta ad angolo della scala di metallo, tanto che lui guadagnò almeno un piano e mezzo. Chucky aveva già studiato una via di fuga, pensavo. E aveva anche fatto pratica. Ne ero quasi sicuro. È furbo e colpevole. Che occhi assassini! Occhi da pazzo. Cosa aveva detto Alvin Jackson... che Emmanuel Perez si era sempre visto in giro? Ormai aveva raggiunto E Street. La barba rossa gli spuntava dal mento come un pezzo di legno. Si era già allontanato di un intero isolato, nel traffico dell'ora di punta. Stava prendendo un taxi, una vettura a strisce rossoarancione, con la scritta: CAPPY'S, ANDIAMO DAPPERTUTTO. «Fermati, pazzo fottuto!» urlò Sampson con tutto il fiato che aveva in gola. «Accidenti a te, Manny!»
Perez, inquadrato nel sudicio vetro del lunotto, alzò il medio. «Ciao, cocchini!» urlò poi, sporgendosi dal finestrino. 12 Ci precipitammo in E Street. Ormai il sudore m'inondava la fronte, la faccia, il collo, la schiena e le gambe. Sampson si piazzò davanti a un taxi, e l'autista dovette inchiodare: intelligente da parte sua non investire la Montagna Umana e distruggere così il suo taxi. «Polizia! Detective Alex Cross!» echeggiò la mia voce mentre spalancavamo contemporaneamente le portiere posteriori. «Segui quel taxi. Vai! Vai, dannazione!» «Non perderlo!» minacciò Sampson. «Non farti venire l'idea di perderlo.» Il povero autista era spaventato a morte. Non si voltò nemmeno a guardarci e non disse una parola; si limitò a puntare lo sguardo sulla scritta CAPPY'S, ANDIAMO DAPPERTUTTO. Vicino all'intersezione tra Ninth Street e Pennsylvania Avenue, ci trovammo intrappolati nel traffico. La fila di auto e camion era lunga almeno tre isolati e i clacson risuonavano furiosi ovunque. C'era perfino un autorimorchio con un aggeggio che emetteva lo stesso ululato della sirena di un transatlantico. «Forse faremmo meglio a scendere e corrergli dietro», proposi. «Stavo pensando la stessa cosa, andiamo.» Avevamo il cinquanta per cento di probabilità di perderlo nell'ingorgo. Il cuore mi batteva forte. Vedevo il cranio schiacciato della piccola Shanelle Green. Emmanuel si era sempre visto in giro, con i suoi occhi da pazzo! Volevo assolutamente prendere Chucky-taglialo-via. Sampson spalancò la portiera cigolante del taxi e io scattai per seguirlo. Chucky dovette sentire il nostro fiato caldo sul collo, perché saltò giù dall'auto e scappò via. Lo seguimmo fra le strette file d'auto che si muovevano appena, nel fragore dei clacson che faceva da sottofondo alla caccia all'uomo in Ninth Street. Chucky-taglialo-via scattò come un fulmine. A un tratto virò a destra, infilandosi in un luccicante edificio in vetro e acciaio, blu argenteo. Era una pura e semplice follia. Quando, poco dopo, entrammo anche noi, avevo già estratto il mio di-
stintivo. «Un tipo ispanico con la barba rossa. Da che parte?» urlai al guardiano dall'aria confusa che se ne stava in piedi nell'atrio lussuoso. Lui indicò gli ascensori di metallo: quello in mezzo si era già staccato da terra. Guardai l'indicatore dei piani: tre, quattro... saliva in fretta. Ci precipitammo nella cabina aperta più vicina all'ingresso. Con il palmo della mano schiacciai l'ultimo pulsante: TETTO: era una scommessa... la migliore che potessi fare. «Alvin ci ha detto che Perez fa il fattorino per la Famous Pizza», dissi a Sampson. «Ho visto una Famous a pianterreno qui.» «Pensi che Chucky sia un tipo abitudinario? Che gli piacciano i tetti? Che abbia già scelto quelli che preferisce?» «Credo che si sia studiato un paio di vie di fuga, giusto nel caso gli fosse capitato di doverle usare. E, sì, credo che sia un tipo abitudinario.» «È sicuramente un tipo.» La campanella dell'ascensore suonò e noi schizzammo fuori con le pistole in mano. In lontananza si vedeva il Campidoglio e si poteva addirittura scorgere la statua bronzea sulla facciata. In altre circostanze sarebbe stata una bella vista, ma in quel momento era bizzarra, quasi triste. Non riuscivo a smettere di pensare a Shanelle Green. Continuavo a vedere la sua faccia brutalizzata. Con che cosa l'aveva colpita? Quante volte? Perché? Volevo acciuffare quel bastardo, lo volevo così intensamente da star male. Male al corpo e ancora di più alla testa. Ci incamminammo sul tetto e finalmente scorsi la figura di Chucky stagliarsi contro il cielo. Il mio cuore sprofondò. Chucky aveva studiato la fuga, ci aveva pensato bene, in anticipo. Qualcuno prima o poi sarebbe arrivato a prenderlo. Si comportava da vero colpevole: doveva essere lui, il nostro assassino. «Vaffanculo!» urlò, sfidandoci di nuovo. Poi ripartì di corsa. Aveva una corsa potente, dalla lunga falcata. «No», gemetti. «No, no, no.» Sapevo cosa stava per fare. Perez voleva saltare da un tetto all'altro. «Fermati, figlio di puttana», urlò Sampson, «altrimenti sparo!» Ma lui non si fermò e noi lo vedemmo prendere il volo con un salto. Corremmo verso il bordo del tetto, urlando con tutto il fiato che avevamo in gola. C'era un secondo edificio oltre il nostro, con il tetto di un piano più basso.
Chucky-taglialo-via stava volando tra le due case, tra le due caverne di vetro e acciaio. «Dio mio!» ansimai guardando giù dal bordo: c'era un baratro di almeno sei metri tra un isolato e l'altro. «Cadi, bastardo, vai a sbattere contro il muro», urlò Sampson all'uomo volante. «Precipita, Chucky!» L'ha già fatto prima, ha fatto pratica, pensai, guardandolo. Non c'è da meravigliarsi che non l'abbiamo mai preso. Da quanti anni gira indisturbato a molestare o a uccidere bambini? E quanti ne ha uccisi? Tenevamo in mano le pistole, ma nessuno dei due sparò. Non avevamo nessuna prova che fosse lui il colpevole. Era semplicemente scappato nel vederci, ma non ci aveva nemmeno puntato contro un'arma. E adesso saltava come un idiota da un tetto all'altro. Chucky pareva sospeso in aria, a sedici piani di altezza. Un lungo, lungo baratro sotto di lui. Ma qualcosa non andava. A un tratto si mise ad agitare furiosamente le gambe, quasi stesse pedalando in bicicletta in mezzo al cielo. Agitò le lunghe braccia, i muscoli tesi, e distese una gamba fin quasi a strapparla dal corpo: sarebbe stato un bellissimo poster pubblicitario per le Nike. Rimase sospeso, immobile, come un corridore colto dall'obiettivo nell'attimo della vittoria. «Cristo», bisbigliò Sampson. Sentii il suo fiato caldo sulla guancia. Chucky aveva allungato il braccio, ma la mano non era arrivata ad afferrare il muretto del tetto dell'edificio di fronte, mentre le gambe continuavano a pedalare. Poi Chucky-taglialo-via urlò, un urlo da brivido, attutito solo dalle finestre e dai muri dei due grattacieli. Continuò a urlare mentre precipitava, agitando gambe e braccia, battendo l'aria in una lotta futile e furiosa. A un tratto vidi il suo corpo rigirarsi. Mi guardò, continuando a urlare in un lamento senza speranza, urlava con la bocca e con gli occhi e con la barba rossa e cespugliosa, urlava. Lo stavo vedendo morire. Parve una caduta infinita, quattro o cinque secondi che sembrarono un'eternità. Il mio stomaco precipitava con lui. Provai un senso di vertigine. Il vicolo stretto sotto di noi era una strisciolina grigia. I grattacieli formavano un
canyon ripido, buio e profondo. Poi lo sentii toccare terra, spiaccicarsi al suolo. Splat! Un rumore che sembrò giungere dall'altro mondo. Fissai il suo corpo sotto di noi, ma senza provare la minima gioia. Non c'era nulla di umano in quella morte. Emmanuel Perez era schiacciato come il lato destro della faccia di Shanelle Green. Le urla disumane di Chucky echeggiavano ancora nel mio cervello. «La fiamma si è spenta», disse al mio fianco Sampson. «Il caso è chiuso. Un punto ai due cocchini.» Riposi nella fondina la pistola. Emmanuel Perez si era esercitato a scappare, sì, ma non abbastanza. 13 Vi ho inculati tutti. Vi ho inculati davvero bene, no? L'ho fatta franca. Il vero killer della Truth School era vivo e vegeto. Anzi, non avrebbe potuto star meglio, grazie. Aveva commesso un delitto perfetto, no? L'aveva fatta franca dopo un omicidio. Già, proprio così. Ne usciva impunito. L'efficientissima polizia di Washington aveva beccato lo stronzo sbagliato. Un certo Emmanuel Perez aveva pagato per i suoi peccati. Pagato in pieno, con la vita. Sapeva che doveva lasciar raffreddare la situazione. Doveva concentrarsi in questo senso. Aveva già deciso di starsene per un poco nascosto... dentro la sua mente. Stava girando per il centro commerciale di Pentagon City, ad Arlington, in preda a una furia violenta mentre passava davanti al negozio Gap e poi a quello Victoria's Secret. Era ossessionato su come tornare da... tutti e da nessuno. Da tout le monde, perdonate il mio francese, s'il vous plaît. Non riusciva a togliersi dalla testa una vecchia canzone sentita al mattino su MTV. Da un paio d'ore, le parole gli risuonavano nella mente come palline da ping-pong. Sentiva la voce del cantante, Beck, un degenerato senza speranza di Los Angeles: Sono un perdente, bimba. Perché non mi uccidi? Sono un perdente, bimba. Perché non mi uccidi? continuava a ripetersi. Sono un perdente, bimba. Perché non mi uccidi? Gli piaceva il fatto che quegli stupidi versi lo riguardassero perché parlavano di lui e delle sue vittime potenziali. Era tutto un cerchio irritante, no? La vita era bella nella sua tortuosa semplicità, no?
Sbagliato! La vita non era bella. Per niente. Stava osservando un moccioso, una vittima potenziale troppo invitante per lasciarla perdere. L'assassino della Truth School bighellonava nel reparto giochi del centro commerciale che, essendo quasi Natale, era pieno di idioti. Dagli altoparlanti risuonava un'irritante canzoncina: Non voglio crescere, sono un bambino e voglio giocare. Il motivetto si ripeteva sempre uguale, come piace ai bambini. La profusione di stupidi giochi, i piccoli viziati, i padri e le madri dall'aria furba, tutto l'ambiente gli faceva ribollire la testa, gli dava quasi la nausea. Non voglio crescere nemmeno io, si disse. Sono un bambino assassino e voglio giocare. Osservò la vittima prescelta andare avanti e indietro lungo uno scaffale pieno di giocattoli tipo soldatini e uomini forzuti. Doveva avere cinque anni, un'età molto plasmabile. La rabbia gli scattò in testa come un potente allarme e si diffuse rapida e terribile fino al petto. Si sentiva teso, a disagio. Stringeva i pugni e lo stomaco, la nuca rigida. Anche il cervello si stava stringendo. Attento adesso, si disse. Non commettere errori. Ricordati che tu commetti solo delitti perfetti. 14 Non sarebbe stato facile agire nell'affollato reparto giochi. Se i genitori erano lì vicino? C'erano sicuramente! Se l'avessero preso? Non era possibile! Era incredibilmente importante per lui. Guardava quell'adorabile bimbo dal faccino rotondo e dai capelli color sabbia e intuiva come ne avrebbero sentito la mancanza in famiglia e, ancora di più, come l'avrebbero pianto. Aveva bisogno d'immaginare la serie di servizi con cui avrebbero bombardato gli schermi televisivi e l'eccitazione che avrebbe provato a guardarli, sapendo di essere l'artefice di tanto dolore, di tanta sofferenza e di tante frenetiche ricerche. Il bambino si stava agitando, cominciava a farsi prendere dal panico. Grosse lacrime gli facevano luccicare gli occhioni. Pareva che intorno a lui non ci fosse più niente di conosciuto. Povero piccolo bimbo perduto. Povero Piccolo Bimbo Triste. L'assassino si avvicinò lento e cauto alla preda. Non poteva più fermarsi.
Il cuore gli batteva come un tamburo di latta: era un'emozione potente, che gli piaceva. Sentiva gambe e braccia molli come gelatina; gli girava la testa per il senso d'anticipazione, di paura, di esaltazione. Fallo. Adesso! Si chinò a prendere in braccio il bambino e gli sorrise di slancio, mormorandogli qualche parolina tenera e infantile. «Ehi, ciao, io sono Roger il Volpone e lavoro qui al reparto giochi. Cosa ti piace di più, dimmi? Abbiamo tutti i giocattoli del mondo, perché il nostro è il più grosso e fantastico reparto giochi del mondo. Uau! Che ne dici? Andiamo a cercare i tuoi superpatetici mamma e papà, eh?» Il piccolo smise di piangere e gli rivolse un gran sorriso. I bambini erano capaci di quegli sconcertanti mutamenti d'umore. Gli occhi azzurri si illuminarono e accadde qualcosa di umido e meraviglioso. «Voglio Mighty Max», proclamò, come se fosse stato un principino anziché il Piccolo Bimbo Perduto. «Va bene, vieni con me. Mighty Max è in arrivo! Perché? Perché sei un ragazzino in gamba.» Lo cullò fra le braccia, affrettando il passo, diretto all'uscita del centro commerciale. Si era accorto a un tratto che poteva fare una cosa tanto audace come andarsene via così, con cento occhi addosso. Ehi, era il nuovo pifferaio magico, adorato dai bambini! «Cosa ne dici di X-Man o di un astronauta?» «Mighty Max», ripeté il bimbo, che si era impuntato. «Voglio solo Mighty Max.» Il maniaco arrivò in fondo allo scaffale, a una decina di metri dall'uscita. Il parcheggio del centro commerciale costeggiava Columbia Park, da dove aveva già pensato di scappare. Mosse rapido qualche passo, ma si bloccò di botto davanti all'uscita. Merda! Una coppia sulla trentina stava andando verso di lui e la donna era l'immagine speculare del Piccolo Bambino Perduto. L'avevano preso... era fatto! L'avevano inchiodato! L'avevano preso! Ma sapeva cosa doveva fare e non si lasciò cogliere dal panico nemmeno per un nanosecondo, a parte i due o tre infarti che sentiva dentro. Be', eccoci alla resa dei conti. È ora di batterli tutti. «Oh, salve.» Fece un gran sorriso, dando il meglio di sé. «Questo bambino è vostro? Si era perso fra i giocattoli. Non veniva nessuno a prenderlo, così pensavo di portarlo su in direzione. Piangeva come un matto. È lei
la sua mamma?» La donna prese subito fra le braccia il suo prezioso fagotto di gioia, lanciando un'occhiataccia al marito. Ah, ecco di chi era la colpa! Era stato paparino a perdere il bimbo. Ultimamente i papà non ne facevano una giusta! Il suo sicuramente aveva sbagliato tutto. «Grazie mille», disse la mamma, lanciando un'altra occhiata incredibilmente cattiva a papà. «Per fortuna abbiamo trovato una persona gentile», mormorò poi all'assassino. Lui continuò a sfoggiare il suo miglior sorriso. Era un attore nato. «Chiunque avrebbe fatto la stessa cosa, è un bellissimo bambino. Be', allora addio. Vuole Mighty Max, probabilmente è quello che stava cercando.» «Sì, vuole proprio Mighty Max. Addio e grazie di nuovo», disse la mamma. «Ciao», cinguettò il piccolo agitando la manina. «Ciao.» «Spero di rivedervi», rispose l'assassino della Truth School. «Addio.» Deficienti! Incredibili idioti, patetici bambocci. Si allontanò dalla famigliola senza guardarsi indietro nemmeno una volta. Si stava bagnando i pantaloni, ma stava anche scoppiando a ridere. Non poteva farne a meno. Un altro punto a suo favore: se mai un giorno l'avessero preso, quei tre non avrebbero mai creduto che fosse lui il killer della Truth School. Mai! 15 Ah, così andava molto meglio, la vita era di nuovo bella. Quando aprii gli occhi, vidi Jannie che mi fissava da un metro di distanza; in braccio teneva Rosie. A Jannie piace guardarmi dormire, ma anche a me piace guardare lei e dunque quel che è giusto è giusto. «Ciao, tesorino», dissi. «Conosci Someone to Watch Over Me? Te la ricordi?» Gliela accennai. Jannie annuì. Me l'aveva sentita suonare al pianoforte, in veranda. «Guarda che hai ospiti», annunciò. Mi tirai a sedere sul letto. «Quando sono arrivati?» «Adesso. Nana ha mandato me e Rosie a chiamarti. Sta preparando il caffè. Devi alzarti.» «Sono per caso Sampson e Rakeem Powell?» indagai. Jannie scosse la testa. Quel mattino pareva stranamente intimidita, cosa
che non le capitava spesso. «Sono bianchi.» Ormai ero sveglio del tutto. «Hai per caso sentito come si chiamano?» Pensai che forse lo sapevo. Avevo risolto il mistero da solo, o almeno credevo. «Mr Pittman e Mr Clouser», rispose Jannie. «Bravissima», mi complimentai. «Ospiti» del genere non portavano niente di buono, proprio niente di buono, pensai. Non avevo nessuna voglia di vedere il capo della omicidi e quello della polizia, soprattutto non in casa mia. E soprattutto non per il motivo per cui immaginavo che fossero venuti a trovarmi. Jannie si chinò a darmi il bacio del buongiorno. Poi me ne diede un altro. «Oh, quali bugie si nascondono dietro i baci?» feci io, strizzandole l'occhio. «Nessuna», ripose lei. «Non dietro i miei baci.» Impiegai meno di cinque minuti a prepararmi all'incontro. Nana stava intrattenendo gli ospiti in soggiorno. Clouser, il capo della polizia, era già stato due volte a casa mia, ma per il Jefe era la prima volta. Supposi che Clouser l'avesse costretto a venire. I due stavano sorseggiando il caffè fumante di Nana e sorridevano a quello che lei raccontava. Mi chiesi che cosa fosse. Quello era un brutto momento per Pittman e Clouser. «Stavo giusto rimproverando questi signori per aver lasciato girare libero tanto a lungo Emmanuel Perez», m'informò Nana non appena entrai in soggiorno. «Mi hanno promesso che una cosa del genere non si ripeterà più. Devo crederci, Alex?» Pittman e Clouser ridacchiarono, guardandomi. Nessuno dei due si rese conto che non c'era niente da ridere e che mia nonna non era certo una donna da prendere in giro e tantomeno da trattare con condiscendenza, soprattutto in casa sua. «No, non devi credere a una sola parola. Hai finito, adesso?» chiesi, sorridendo. Ma era un sorriso falso proprio come quello che lei aveva sulle labbra. «Sapevo già di non dovermi fidare di nessuno dei due, infatti volevo fargli mettere la promessa per iscritto», disse Nana. Annuii, sorridendo di nuovo come se avesse detto una battuta, ma sapevo che non era così. Nana era mortalmente seria. Il Jefe e il capo della po-
lizia ridevano, credendo che Nana Mama fosse soltanto una simpatica vecchietta un po' rimbambita. Ma non lo è affatto. «Noi tre possiamo parlare qui?» le domandai. «O dobbiamo uscire?» «Vado in cucina», rispose Nana, incenerendomi con lo sguardo. «Felicissima di avervi conosciuti. Non dimenticate la vostra promessa. Io non la scorderò.» Non appena fu uscita, Clouser disse: «Be', dobbiamo congratularci con te, Alex. A quanto ne so, hai trovato ogni tipo di materiale pornografico nell'appartamento di Emmanuel Perez... e tutto incentrato su bambini». «L'abbiamo trovato il detective Sampson e io», risposi, poi tacqui. Avevo deciso di non facilitargli le cose. In realtà ero d'accordo al cento per cento con il punto di vista di Nana. «Ti starai chiedendo come mai ci troviamo qui, quindi permettimi di spiegare», intervenne Pittman. Lui e io non ci vediamo molto di buon occhio... Per dirla senza mezzi termini, non ci siamo mai sopportati e non ci sopporteremo mai. Pittman è uno sbruffone e un razzista, e questi sono i suoi lati migliori. Pare non possa trattenersi dal colpire sempre sotto la cintola. «Fai pure», dissi al Jefe. «Credevo che foste passati di qui per caso e vi foste fermati a bere il caffè di mia nonna. Merita il viaggio.» Neppure l'ombra di un sorriso sul volto di Pittman. «Ieri sera abbiamo ricevuto una richiesta formale da parte dell'FBI: vogliono che ti occupi dell'omicidio del senatore Fitzpatrick. Secondo l'agente speciale Kyle Craig, la tua esperienza potrebbe essere molto utile alle indagini. Ovviamente è un caso importante, Alex.» Scossi la testa. «Ho ancora mezza dozzina di omicidi da risolvere qui, nel quartiere sud-est», dissi. «Il caso di cui mi sono appena occupato avrebbe dovuto essere risolto da mesi, così un'altra bambina non sarebbe morta per niente. La omicidi avrebbe dovuto beccare da un pezzo quell'assassino. E invece una bimba è morta. Aveva soltanto sei anni.» «Il caso Fitzpatrick ha la priorità, Alex», affermò Clouser. Aveva i capelli candidi come neve e il viso in fiamme, come gli capitava quand'era arrabbiato o infastidito. Di solito andavo abbastanza d'accordo con lui, ma forse questa volta era diversa. «Dite all'FBI che non posso occuparmi di Jack & Jill. Chiamerò io stesso Kyle e mi spiegherò con lui: capirà. Sto seguendo vari omicidi nel quartiere sud-est. Anche qui la gente muore ammazzata. Anche qui ci sono casi che hanno la priorità.»
«Lascia che ti chieda una cosa, Alex», disse il capo della polizia, sorridendo affabilmente. Sulla lunga fila dei suoi denti bianchi, incapsulati alla perfezione, avrei potuto suonare un po' di Gershwin, ma forse sarebbe stata più adatta la musica di Little Richard. «Vuoi rimanere nella polizia?» Il colpo arrivò a segno. E fu piuttosto doloroso. «Voglio essere un buon detective», risposi. «E fare le cose meglio che posso, come al solito. Non è cambiato niente.» «Ecco la risposta giusta», osservò soddisfatto Clouser, come se fossi un bambino che aveva bisogno di sentirsi dire quello che doveva fare. «Sei stato assegnato al caso Jack & Jill. Così è stato deciso in alto loco. Hai una certa esperienza con questo genere di omicidi, con matti e psicotici. Sei ufficialmente esonerato da tutti gli altri casi. Adesso cerca di essere un ottimo detective, Alex. L'FBI è quasi certa che Jack & Jill colpiranno ancora.» Se era per quello, ne ero certo anch'io. E pensavo esattamente la stessa cosa del killer della Truth School. 16 Resistetti al fascino del caso Jack & Jill per un altro giorno, o almeno per mezza giornata, mentre cercavo di sistemare ancora un paio di cose nel sud-est. Ero infuriato per quello che era successo con Clouser e Pittman. Shanelle Green era morta perché non erano stati messi più uomini sulle tracce di Chucky-taglialo-via e nessuno aveva dato retta ad Alvin Jackson. Tutta quella faccenda puzzava orrendamente di razzismo e la cosa mi faceva infuriare e mi rattristava. Tornai a casa presto e passai la serata con Nana e i bambini: volevo essere sicuro che si fossero ripresi dall'omicidio alla Sojourner Truth School. Almeno quell'orrore era stato risolto, ma io ero ancora furioso per la sorte toccata alla piccola Shanelle. Non riuscivo a lasciar perdere per un mucchio di motivi. Per una mezz'ora, nello scantinato, impartii a Damon e a Jannie la loro lezione settimanale di boxe. A credito di Damon, devo ammettere che non si è mai risentito del fatto che le lezioni includano la sorella. Lui si limita a indossare i guantoni. Stanno diventando due bravi piccoli pugili ma, ancor più importante, stanno imparando quando non è il caso di battersi. Non sono molti i bambini che attaccano briga con loro a scuola, ma questo accade soprattutto perché sono educati e sanno andare d'accordo con gli altri.
«Attento al gioco di gambe, Damon», dissi. «Non stai spegnendo un incendio con i piedi.» «Dovresti... ballare», lo colpì verbalmente la sorella. «Passo, destra, passo, indietro, passo, passo, sinistra.» «Fra un attimo ballerò su di te», l'ammonì Damon, ma poi scoppiarono a ridere tutti e due. Poco più tardi, eravamo tutti e tre davanti al televisore. Jannie, con le braccine incrociate e gli occhi scuri socchiusi, mi fissava con aria decisissima. Era scattata l'ora ufficiale di andare a letto, ma lei aveva deciso d'inscenare una protesta. «No, papà. Proprio no, no e no!» disse. «Il tuo orologio va avanti.» «Invece sì, Jannie. Sì, sì e sì», tenni duro, opponendomi alla mia nemesi primaria. «Il mio orologio va indietro.» «Nossignore, non mi muovo», ribadì lei. «Sì, che ti muovi, non si discute. Sei esausta.» E alla fine il lungo braccio della legge s'impadronì di un altro delinquente abituale. Strappai la mia Jannie dal divano e la portai a letto alle otto e mezzo in punto. L'ordine regnava in casa Cross. «Dove andiamo, papà?» ridacchiò Jannie appoggiandomi la testa sul collo. «Si va a prendere un gelato? Voglio quello alla crema con i pezzetti di cioccolato.» «Certo l'avrai sognato.» Stringendola forte fra le braccia, non potevo impedirmi di pensare alla piccola Shanelle Green. Quando avevo visto Shanelle nel cortile della scuola, mi ero spaventato pensando a Jannie: era un circolo vizioso che mi tormentava. Vivevo nel terrore che qualche mostro dall'aspetto umano arrivasse a casa nostra. Ce n'era già stato uno qualche anno prima: Gary Soneji. Ma quella volta eravamo stati fortunati, perché non aveva fatto del male a nessuno. Jannie e io recitammo una preghiera che avevamo inventato e che ci piaceva molto. Lei s'inginocchiò accanto al letto e prese a mormorare le parole in un delizioso bisbiglio. «Dio dei cieli», incominciò, «la nonna e il papà mi vogliono bene. Perfino Damon mi vuole bene. Ti ringrazio, Dio, per aver fatto di me un essere buono e carino, qualche volta perfino divertente. Cercherò sempre di comportarmi bene, se ci riesco. Buonanotte da Jannie Cross.» «Amen, Jannie Cross», sorrisi. L'amavo di più della mia stessa vita. Mi
ricordava la madre nel suo periodo più bello. «Ci vediamo domattina.» Jannie fece un gran sorriso, sgranando gli occhioni e saltando sul letto. «Potresti vedermi anche stasera, basta che mi lasci stare sveglia ancora per un po'», propose. «E il gelato non l'ho sognato e lo grido a perdifiato.» «Sei davvero divertente», dissi, dandole il bacio della buonanotte. «Carina e intelligente.» Dio, che bene volevo ai miei due marmocchi! Sapevo che era quello il motivo per cui l'omicidio della bambina mi era entrato sotto la pelle. Il killer aveva colpito troppo vicino a casa nostra. Forse per questo motivo, poco dopo, Damon e io uscimmo a fare una passeggiata. Gli posai un braccio sulle spalle: mio figlio pareva diventare ogni giorno più grande, più forte, più alto. Eravamo buoni amici e ne ero contento. Ci avviammo in direzione della scuola di Damon, passando davanti alla chiesa battista con il muro imbrattato di grosse scritte rosse e nere: NON M'IMPORTA DI GESÙ, PERCHÉ A GESÙ NON IMPORTA NIENTE DI ME. Era un sentimento diffuso da quelle parti, soprattutto fra i giovani. Una compagna di scuola di Damon era morta alla Sojourner Truth School. Un'orribile tragedia, e Damon era già stato testimone della violenza. Aveva visto la morte per strada, aveva visto un ragazzo sparare in un parcheggio quando aveva solo sei anni. «Non hai mai paura di andare a scuola? Dimmi la verità, Damon, qualunque cosa provi andrà bene per me», gli ricordai in tono gentile. «A volte ho paura anch'io. Il cartone di Beavis e Butt-head mi spaventa a morte. Anche Ren e Stimpy.» Damon sorrise, stringendosi nelle spalle. «Temo di sì, qualche volta. Quando siamo tornati dopo l'omicidio tremavo. La scuola non chiuderà, vero?» Sorrisi dentro di me, però mantenni un'espressione seria. «No, domani ci sarà lezione come al solito. E anche i compiti da fare a casa.» «Li ho già fatti», rispose, sulla difensiva. Nana l'aveva reso fin troppo sensibile ai voti che prendeva a scuola, ma probabilmente non aveva fatto male. «Sono quasi sempre ai massimi, proprio come te.» «Quasi sempre ai massimi», risi. «Che razza di espressione è questa?» «Precisa», ammiccò lui, come una giovane iena che avesse appena sentito una buona battuta nella pianura del Serengeti. Lo strinsi scherzosamente, battendogli le nocche sulla testa dai capelli corti. Per il momento andava bene: era bravo, e forte. Gli volevo bene da impazzire e volevo che lui ne avesse la certezza per sempre.
Damon sfuggì alla mia presa e si mise a saltellare come Sugar Ray Leonard: due passetti di lato e un rapido pugno nel mio stomaco. Mi stava dimostrando che ragazzino in gamba fosse, ma non ne avevo mai dubitato. In quel momento notai qualcuno uscire dalla scuola: la stessa donna che avevo visto all'alba sulla scena dell'omicidio di Shanelle Green, la donna che mi aveva tanto colpito. Si era fermata a osservare la nostra lotta scherzosa sul marciapiede. Era snella e alta quasi uno e ottanta. Nell'oscurità non scorgevo bene il suo viso, ma lo ricordavo dalla mattina dell'omicidio. Ricordavo la sua sicurezza e la sensazione di mistero che mi aveva dato. Lei fece un cenno di saluto e Damon le rispose, poi andò verso la Mercedes blu scuro parcheggiata davanti alla scuola. «Chi è?» chiesi. «La nuova direttrice», m'informò Damon. «Mrs Johnson.» Annuii: Mrs Johnson. «Lavora davvero fino a tardi. Ti piace Mrs Johnson?» chiesi, osservandola salire in auto. Mi ricordai che Nana ne aveva parlato come di una persona molto positiva, dicendo che era «ispirata» e affabile. A giudicare da come mi batteva il cuore, era anche sicuramente attraente. La verità era che mi pesava molto essere solo. Stavo superando la complicata amicizia avuta con Kate McTiernan. Mi ero sforzato parecchio a non pensarci per tutto l'autunno e, quella sera, mi stavo ancora sforzando. Damon non esitò a rispondere. «Mi piace. Mrs Johnson è simpatica a tutti, anche se è una dura. È perfino più dura di te, papà.» Non aveva un'aria tanto dura al volante della sua berlina, tuttavia non avevo motivo di non credere a mio figlio. Era decisamente coraggiosa a fermarsi a scuola da sola fino a quell'ora di sera. Forse fin troppo coraggiosa. «Torniamo a casa», proposi infine. «Mi sono ricordato che domattina tu hai scuola.» «Stiamo alzati a guardare la partita», fece lui prendendomi per un gomito. «Oh, certo! Anzi, svegliamo anche Jannie e stiamo tutti alzati fino a domattina», replicai, ridendo. Scoppiammo a ridere tutti e due, godendoci quel momento di serenità. Quella notte dormii con i bambini. Non avevo superato l'omicidio alla Truth School. A volte buttavamo cuscini e coperte sul pavimento e dormivamo per terra. Nana si infuriava, ma io ero convinto che ogni tanto le fa-
cesse bene alla pressione arrabbiarsi un po', così cercavamo di accontentarla almeno una volta alla settimana. Mentre me ne stavo sdraiato con gli occhi spalancati, e i bambini dormivano pacificamente accanto a me, continuavo a pensare a Shanelle Green. Era l'ultima cosa cui avevo bisogno di pensare. Perché qualcuno aveva riportato il cadavere nel cortile della scuola? mi chiedevo. In ogni caso c'è sempre qualcosa che non viene chiarito, però quel fatto non aveva davvero senso e mi tormentava. Era una tessera che non rientrava nel puzzle di un caso che ormai avrebbe dovuto essere chiuso. Poi pensai per qualche istante a Mrs Johnson: era più confortante. È ancora più dura di te, papà. Che ardente dichiarazione da parte del mio ometto, quasi una sfida. Mrs Johnson è simpatica a tutti, aveva detto Damon. Mi chiesi quale fosse il suo nome e azzardai una supposizione: Christine. Non mi venne in mente altro. Christine: suonava bene. Finalmente mi addormentai. Dormii con i bambini sulla pila di coperte e cuscini stesi sul pavimento della loro camera e quella notte non arrivò nessun mostro. Comunque non l'avrei lasciato entrare. Lo sbranamostri era all'erta. Stanco, assonnato e sentimentale, però mai così all'erta. 17 Era davvero una pazzia demenziale, ma era grande! Il killer voleva colpire ancora, subito. Subitissimo. Voleva andare al raddoppio. Che carica avrebbe dato al caso. Sarebbe diventato un vero eroe del male. Li aveva tenuti d'occhio da lontano, padre e figlio, pensando a quello stronzo buono a nulla di suo padre. Poi aveva visto la direttrice alta e bella fare un cenno di saluto e salire in macchina. Puttana nera da strapazzo, con il suo falso sorriso da maestrina che andava da un orecchio all'altro. Merda! Merda! Merda! Tre bersagli perfetti. Tre teste di melone pronte a esplodere. Ecco cosa si meritavano: un'esecuzione sommaria. Nella sua mente si formava un'idea brutale mentre osservava la scenetta davanti alla scuola. Sapeva già un mucchio di cose su Alex Cross. Cross lo stava cercando, no? Il caso era stato assegnato a lui, no? Quindi Cross
era il suo bersaglio. Un poliziotto, proprio com'era stato suo padre. La cosa più interessante era che nessuno aveva prestato molta attenzione al primo omicidio. Era passato quasi inosservato. I quotidiani di Washington l'avevano appena riferito e lo stesso valeva per la TV. A nessuno importava granché di una ragazzina nera della periferia sud-est. Perché mai avrebbe dovuto essere altrimenti? Tutto quello di cui si curavano erano Jack & Jill. I ricchi bianchi temevano per la propria vita. Avevano paura! Be', al diavolo Jack & Jill! Lui era più bravo di Jack & Jill e l'avrebbe dimostrato. L'auto dell'insegnante passò davanti al cespuglio dietro cui si nascondeva. Sapeva benissimo chi era anche lei: Mrs Johnson, direttrice della Truth School. La Whitney Houston del sud-est, no? 'Fanculo. Il suo sguardo tornò lentamente a posarsi su Alex Cross e su suo figlio. Sentiva la rabbia crescere dentro di sé, sino a farlo ribollire. Era come se il suo bottone segreto fosse stato premuto di nuovo. Aveva i brividi e cominciava a vederci rosso. Una nebbia rossa si diffondeva nel suo cervello. Era sangue, no? Il sangue di Cross o quello di suo figlio? Gli piaceva l'idea che morissero insieme. Avrebbe potuto pensarci lui. Li seguì infuriato fino a casa, ma mantenne una distanza di sicurezza. Stava pensando alla prossima mossa. Lui era più bravo di Jack & Jill: l'avrebbe provato a Cross e a tutti gli altri. 18 La serata di gala del Comitato di salute mentale si teneva presso il Pension Building, all'angolo tra F Street e Fourth Street, venerdì sera. Il grande salone era alto tre piani, con grosse colonne di marmo ovunque e oltre mille ospiti rumorosi seduti intorno alla fontana scintillante. I camerieri e le cameriere indossavano cappelli rossi da Babbo Natale. L'orchestra esplose in una bella versione swingata di Winter Wonderland. Un gran divertimento. Ospite d'onore della serata era nientemeno che la principessa di Galles. Era presente anche Sam Harrison. C'era Jack. Seguì attento con lo sguardo la principessa Di che faceva il suo ingresso nel salone scintillante. Il suo entourage includeva un finanziere che si diceva ne sarebbe diventato il prossimo marito, l'ambasciatore brasiliano con la moglie e vari altri personaggi dell'alta società americana. Per ironia della
sorte, nel gruppo c'erano due modelle che parevano soffrire di anoressia: l'altro lato della bulimia, il disturbo nervoso di cui aveva sofferto Diana negli ultimi dodici anni. Jack si avvicinò di qualche passo alla principessa Di. Era incuriosito e si poneva varie domande sull'efficienza del servizio di sicurezza. Osservò le guardie del corpo lasciarla passare discretamente e rimanere nelle vicinanze, pronti a comunicare con le loro radio. Un maestro di cerimonie era stato fatto venire fin dall'Inghilterra per salutare formalmente la principessa - che presiedeva il comitato - e accogliere Walter Annenberg. L'ambasciatore tenne un breve discorso, cui seguì una lauta cena, anche se scondita e troppo cotta: costolette d'agnello in salsa niçoise e haricots verts. Dopo che fu servito il dessert, una crostata alle mandorle con salsa all'arancia e crema al marsala, finalmente la principessa si alzò per parlare. Jack si trovava a meno di dieci metri da lei. Sua altezza era inguainata in un abito a lustrini d'oro, ma a lui pareva goffa, almeno per i suoi gusti. Aveva grandi piedi che gli fecero venire in mente un personaggio dei cartoni animati: Paperina. Così la soprannominò principessa Paperina. Il discorso di Diana al gala fu molto personale, quasi familiare, diretto a chi conosceva bene la sua vita. Un'infanzia e un'adolescenza turbate, una debilitante ricerca della perfezione, la sensazione di non piacersi e una bassa stima di se stessa... Tutto questo l'aveva condotta a quella che definiva la sua «vergognosa amica», la bulimia. Jack trovò il discorso bizzarramente fuori luogo, mieloso. Non si sentì affatto commosso dall'autocompassione di Diana e dall'isteria che pareva aleggiare sotto la sua superficie levigata... probabilmente sotto tutta la sua vita. Il pubblico ebbe una reazione diversa: perfino i gelidi agenti dei servizi segreti parvero reagire emotivamente alla popolare lady Di. Lo scrosciante applauso al termine del suo discorso pareva sentito e sincero. Poi tutta la sala si alzò, Jack compreso, continuando a renderle un tributo cordiale e fragoroso. Jack era così vicino a lady Di che avrebbe quasi potuto toccarla. Tante grazie alla bulimia, aveva una gran voglia di gridare. Tante grazie a ogni genere di buona causa. Era arrivato di nuovo il momento di entrare in azione. Era arrivato il momento della seconda mossa di Jack & Jill. Di cominciare un mucchio di cose. Quella sera toccava anche a lui fare la star, prodursi in un notevole asso-
lo. Quella sera aveva tenuto d'occhio anche un'altra nota personalità. Aveva già osservato e studiato le sue abitudini e la sua leziosaggine in altre occasioni. Natalie Sheehan era uno schianto... molto più bella di lady Di. La più ammirata giornalista televisiva era bionda e, con i tacchi, arrivava al metro e settanta. Indossava un abito di seta nero, semplice e classico. Diffondeva intorno a sé fascino, ma soprattutto classe, altissima classe. Natalie Sheehan era stata giustamente descritta come «sua altezza reale americana» o la «principessa americana». Jack entrò in azione poco dopo le nove e mezzo, quando gli ospiti stavano già ballando alla musica del complesso di otto elementi. Tutti chiacchieravano liberamente di tutto: i problemi commerciali con la Cina, i problemi quotidiani di John Major, le prossime vacanze sulla neve a Aspen, Whistler o Alta. Natalie Sheehan aveva già bevuto tre Margarita: tre bei bicchieroni con il bordo coperto di sale. Lui la teneva d'occhio. Non lo faceva vedere, ma doveva essere per forza un po' brilla. È un'ottima attrice, pensò Jack mentre le si avvicinava a uno dei bar. È bravissima a imbastire storie che durano una notte o un week-end. Jill si era data da fare, per scoprire tutto di lei. So tutto di te, Natalie. Due lunghe falcate e si trovarono di fronte. Anzi, quasi si scontrarono. Lui sentì il suo profumo floreale e speziato, molto buono. Ne conosceva perfino il nome evocativo: Escada, acte 2. Aveva letto che era il suo preferito. «Mi spiace, mi scusi», disse Jack, arrossendo. «No, no, sono io che non guardavo dove stavo andando. Che sbadata», ribatté sorridendo lei. Era lo stesso sorriso che sfoggiava nei primi piani televisivi: da vicino era davvero notevole. Jack sorrise a sua volta, facendole capire con lo sguardo che la conosceva. «Lei non dimentica mai un nome né una faccia, nemmeno dopo undici anni di trasmissioni», disse a Natalie Sheehan. «Credo abbia detto proprio così.» Natalie non perdeva un colpo. «Lei è Scott Cookson, ci siamo conosciuti al Meridian, ai primi di settembre. Fa l'avvocato... naturalmente in uno studio prestigioso.» Rise. Una risata simpatica. Belle labbra e denti perfettamente incapsulati. Era Natalie Sheehan in persona, la sua vittima della serata. «Ci siamo conosciuti veramente al Meridian?» fece, tanto per controllare
i fatti, da brava giornalista qual era. «Lei è veramente Scott Cookson?» «È tutto esatto, ma quella sera lei aveva un altro impegno all'ambasciata britannica.» «A quanto pare, nemmeno lei dimentica mai una faccia o una situazione», replicò Natalie, con quel suo famoso sorriso stampato in volto. Un sorriso perfetto, luminoso ed effervescente, da star televisiva nella vita reale, ammesso che quella fosse la vita reale. Jack si strinse nelle spalle fingendosi intimidito, cosa non troppo difficile con Natalie. «Certe facce e certe situazioni», ammise. Pensò che la sua era una bellezza classica, comunque molto attraente. Quel sorriso caloroso era il suo tratto distintivo e pareva funzionare sempre. L'aveva studiato per ore prima di quella sera e non si sentiva completamente immune al suo fascino, nemmeno in quelle circostanze. «Be'», fece Natalie. «Stasera non devo andare da nessuna parte. Anzi, sto cercando di limitare al minimo gli eventi mondani, che ci creda o no. Questo comunque era per una buona causa.» «Sono d'accordo. Credo nelle buone cause.» «Oh, e quale sarebbe la tua causa preferita, Scott?» «Quella dell'associazione per impedire le crudeltà sugli animali», rispose lui. «Amo gli animali.» Cercò di apparire piacevolmente sorpreso del fatto che lei si fosse fermata a parlare proprio con lui. Quando occorreva, e se ne aveva voglia, sapeva essere un perfetto animale da salotto. «Se posso osare», propose. «Cosa ne dici di tagliare la corda insieme?» Glielo chiese sfoggiando il suo sorriso naturale, da bravo ragazzo. Nei termini più semplici, senza vie traverse. La risposta di Natalie Sheehan era tremendamente importante per tutti e due. Lei lo fissò, un po' sorpresa. L'aveva lasciata senza parole, pensò, ma forse stava solo recitando. Poi Natalie Sheehan scoppiò a ridere. Una risata di cuore, quasi stridula. Lui si sentì certo che nessuno l'avesse mai sentita quando recitava il ruolo della grande giornalista televisiva. Povera Natalie, pensò Jack. Il numero due. 19 Prima di andar via, Natalie prese un altro Margarita. «Il bicchiere della staffa», disse, scoppiando di nuovo nella sua profonda e meravigliosa risa-
ta. «Ho imparato come ci si comporta alle feste alla St. Catherine's Academy di Cleveland, poi all'università dell'Ohio», confidò mentre scendevano nel garage sotto il Pension Building. Cercava di dimostrargli di essere diversa dal personaggio televisivo: più sciolta, più simpatica. Lui comprese. Gli piacque, addirittura. Notò che aveva quasi abbandonato il suo modo perfetto di scandire le parole. Probabilmente, così facendo, pensava di essere più sexy: aveva ragione. Era davvero molto bella, molto simpatica. Jack ne fu un poco sorpreso. Come aveva previsto Jill, presero la macchina di lei, una Dodge Stealth blu metallizzato che Natalie guidava un po' troppo veloce, parlando a raffica, ma in modo interessante: i problemi alcolici di Boris Eltsin, il mercato immobiliare nel Distretto di Columbia, la riforma per il finanziamento delle campagne elettorali. Si rivelava intelligente, informata, piena di spirito e non troppo coinvolta dall'onnipresente lotta fra i sessi. «Dove andiamo?» ritenne infine di potersi informare lui. Naturalmente conosceva già la risposta: al Jefferson Hotel, il nido d'amore di Natalie a Washington, la sua tana. «Oh, nel mio laboratorio», rispose lei. «Perché, sei nervoso?» «No. Be', forse un poco», ridacchiò Jack. Era la verità. Lo condusse nel suo ufficio privato, al sedicesimo piano del Jefferson Hotel: due belle stanze e una grande sala da bagno che davano sul centro cittadino. Jack sapeva che lei possedeva anche una casa nel vecchio quartiere Alexandria. Jill c'era stata, nel caso fosse servito, tanto per sapere tutto. Calcola tutto due volte. Cinque volte, se occorre. «È il mio nascondiglio, il mio angolo privato in pieno centro», gli disse. «Non c'è una vista mozzafiato? Ti fa sentire padrone di tutta la città. Almeno, questo è l'effetto che fa a me.» «Capisco cosa intendi, anch'io amo Washington», rispose Jack, sentendosi per un attimo perso mentre scrutava in lontananza. Amava davvero Washington e quello che avrebbe dovuto rappresentare... e che almeno un tempo rappresentava. Ricordava benissimo la prima volta che c'era stato, quand'era in marina, in libera uscita, vent'anni prima. «Il Soldato». Osservò in silenzio lo studio: il computer portatile, la stampante Canon a getto d'inchiostro, la statuetta dell'Emmy Award, i due videoregistratori, l'agendina elettronica. Fiori freschi in un vaso rosa accanto a una ciotola di ceramica nera piena di monetine straniere. Dunque questa è la tua vita, Natalie Sheehan: piuttosto sensazionale,
piuttosto triste, piuttosto finita. Natalie si fermò a guardarlo da vicino, quasi lo vedesse per la prima volta. «Sei un bravo ragazzo, vero? Mi hai colpito, ho capito subito che sei... autentico. Un tipo a posto, come si dice, o si diceva una volta. Sei un bravo ragazzo, vero, Scott Cookson?» «Non proprio», rispose lui, stringendosi nelle spalle e levando gli occhi azzurri al cielo, mentre sfoggiava il suo mezzo sorriso più accattivante. In una cosa era bravo davvero: conquistare le donne... ma lo faceva soltanto quando era necessario. In realtà, in circostanze normali, non era uno di quelli che si davano da fare. Nel profondo, si sentiva monogamo. «A Washington non si trovano più bravi ragazzi, eh? Almeno, se ci vivi per un po', finisci per non trovarne più», aggiunse, continuando a sorridere. «Credo sia vero, che la tua sia una descrizione accurata», fece lei, scoppiando di nuovo nella sua simpatica risata. Rideva di se stessa? Lui si rese conto che la sua risposta l'aveva un poco delusa. Natalie voleva qualcosa di autentico o forse ne aveva bisogno. Be', anche lui, e l'aveva trovato. Era un gioco raffinato. Ed era così importante: era la storia. La storia che si svolgeva proprio in quell'istante e in quella suite del Jefferson Hotel. Il gioco irresistibile e pericoloso che stava conducendo era la sua vita. Qualcosa che aveva un significato, che lo faceva sentire soddisfatto. Anzi, che, per la prima volta da anni, gli faceva sentire qualcosa. «Ehi, Scott Cookson, ti sei perso?» «No, no, sono qui. Sono il tipo di persona sempre presente. Stavo solo ammirando la tua meravigliosa vista: Washington by night.» «Per stanotte sarà tutta nostra: tua e mia.» E Natalie fece la prima mossa, cosa che lui aveva previsto e che lo rassicurò. Si piazzò alle sue spalle e gli cinse la vita con le braccia sottili, tintinnanti di braccialetti. Era bellissimo: Natalie era molto desiderabile; resisterle pareva quasi impossibile e lei lo sapeva benissimo. Lui si sentì eccitato; l'erezione durissima premeva sul lato sinistro dei pantaloni, ma non era nulla in confronto a tutte le altre sensazioni che provava in quel momento. Tuttavia poteva sfruttarla. Faglielo sentire, lasciati toccare. «Tutto bene?» chiese lei. Era davvero gentile, attenta, premurosa. Un vero peccato. Era troppo tardi per cambiare programma, per scegliere un'altra vittima. Sei davvero sfortunata, Natalie. «Sto molto bene con te, Natalie.» «Posso toglierti la cravatta, anche se è di ottimo gusto?» chiese lei.
«Sono per l'abolizione totale delle cravatte», rispose lui. «No, ogni tanto servono: prime comunioni, funerali, incoronazioni.» Natalie era in piedi, così vicina a lui, dolce e seducente... era una situazione davvero triste. Gli piaceva più di quanto avesse immaginato. Un tempo, probabilmente, era stata davvero la semplice bellezza del Midwest che adesso fingeva soltanto di essere. Jack aveva provato solo repulsione per Daniel Fitzpatrick, ma in quel momento sentiva rimorso, rimpianto, compassione: aveva quasi voglia di ripensarci. La cosa più difficile era uccidere una persona tanto vicina fisicamente. «E cosa pensi delle camicie bianche? Le porti spesso?» indagò Natalie. «Le odio: sono fatte soltanto per i funerali e le incoronazioni. Oltre che per i balli di beneficenza.» «Sono d'accordo al mille per mille», disse Natalie, sbottonandogli lentamente la camicia bianca. Lui lasciò fare, le dita provocanti ed esperte che scendevano fino alla cintura. La giornalista gli strofinò il palmo sull'inguine, poi ritrasse rapida la mano. «Che ne dici dei tacchi alti?» s'informò ancora. «Mi piacciono nelle occasioni giuste e sulla donna giusta», rispose lui. «Ma mi piacciono anche i piedi nudi.» «Ben detto: lascia scegliere alla ragazza. Mi piace, così.» E gettò via una scarpa nera dal tacco alto, poi rise della propria decisione scherzosa: una scarpa sì e una scarpa no. «Gli abiti di seta?» gli bisbigliò sul collo. Ormai lui l'aveva duro come roccia e ansimava. Pensò se non fosse il caso di fare prima l'amore. Rientrava nel gioco o sarebbe stato come uno stupro? Natalie gli aveva confuso le idee. «Posso farne a meno, ma naturalmente dipende dalle occasioni», bisbigliò a sua volta. «Mmm, pare che andiamo d'accordo in un mucchio di cose.» Natalie Sheehan scivolò fuori dal vestito e rimase solo con la biancheria di pizzo blu, una scarpa sì e una no. Al collo portava una catenina d'oro con la croce, che aveva tutta l'aria di venire direttamente dall'Ohio. Jack aveva ancora i pantaloni, ma era senza camicia e cravatta. «Andiamo di là?» mormorò lei, indicando la camera da letto. «La vista non cambia, e in più c'è il caminetto. Ed è un caminetto che funziona... qualcosa funziona anche a Washington, sai.» «Bene, allora accendiamo il fuoco.» Jack la prese tra le braccia e la sollevò come se non pesasse nulla; somi-
gliavano a due eleganti ballerini, e in un certo senso lo erano. Non voleva provare qualcosa per lei, eppure era così. Si costrinse a pensare ad altro. Non poteva sentirsi in quel modo, come uno studentello, come un normale essere umano. «Sei anche forte, mmm», sospirò lei, scalciando via l'altra scarpa. La finestra panoramica della camera da letto offriva una vista stupefacente. Dava a nord, su Sixteenth Street. Le strade e lo Scott Circle formavano una sorta d'incantevole e preziosa collana, un gioiello di Harry Winston o di Tiffany che non avrebbe sfigurato al collo di lady Di. Jack dovette ricordare a se stesso perché si trovava lì con Natalie. Ormai nulla poteva frenare gli eventi. La decisione finale era stata presa. Il dado era stato tratto, letteralmente. Di colpo smise di fare il sentimentale. Ecco, così! Era bravissimo a diventare gelido. Pensò di scagliare la bella giornalista piena di spirito fuori della finestra panoramica della camera da letto... ma non sapeva se il vetro si sarebbe rotto oppure avrebbe opposto resistenza, facendo rimbalzare il corpo all'interno. Allora posò Natalie sulla trapunta del letto ed estrasse le manette dalla tasca della giacca. Gliele fece vedere. Natalie Sheehan aggrottò la fronte, sgranando incredula gli occhi azzurri. Parve letteralmente sgonfiarsi. «È una specie di stupido scherzo?» gli chiese, infuriata ma anche offesa. Aveva intuito che lui era un po' strano, ma non immaginava fino a che punto. Jack abbassò di parecchio il tono di voce. «No, non è uno scherzo. Si tratta di una faccenda molto seria, Natalie... Roba da prima pagina, si potrebbe dire.» In quell'istante si udì bussare seccamente alla porta dell'appartamento. Lui levò un dito per far capire a Natalie di stare ferma, assolutamente ferma. Negli occhi della giornalista si leggevano confusione e paura; la donna aveva completamente perso il suo distaccato atteggiamento professionale. Gli occhi di Jack erano gelidi: non rivelavano nulla. «È Jill», annunciò a Natalie Sheehan. «Io sono Jack. Mi dispiace, veramente.»
20 Entrai al Jefferson Hotel poco prima delle otto. Qualche nota di Gershwin mi risuonava nella testa, quel tanto da placare la follia, da smussare gli angoli. A un tratto ero anch'io coinvolto in quel gioco bizzarro. Ero entrato nella partita aperta da Jack La fredda dignità dell'albergo veniva scrupolosamente mantenuta, almeno nella hall elegante, dove era difficile immaginare la bizzarra, inesplicabile tragedia che aveva avuto luogo qualche piano più su e perfino che tragedie del genere potessero avere luogo. Passai davanti a un ristorante di lusso e a un'elegante boutique alla moda. Un orologio centenario batté l'ora; per il resto la hall era silenziosa. Non si avvertiva affatto la sensazione che il Jefferson - e in realtà tutta Washington - fosse sconvolto, profondamente turbato da un paio di sinistri omicidi in alto loco e dalla minaccia di altri a venire. Resto sempre affascinato da ambienti come il Jefferson, e forse è per questo che Washington mi piace tanto. La hall dell'albergo mi ricordò che raramente le cose sono come sembrano. Era la perfetta rappresentazione di quasi tutto quello che accade nel Distretto di Columbia. Belle facciate che si specchiano in facciate ancora più belle. Jack & Jill hanno commesso il secondo omicidio in cinque giorni, all'interno di questo lussuosissimo e tranquillo albergo. Hanno minacciato di compiere molti altri omicidi e non c'è il minimo indizio sulle loro motivazioni o sul modo di fermare questo sterminio di celebrità. Era una escalation. Senza dubbio. Ma perché? Che volevano Jack & Jill? Qual era il loro sporco gioco? Quel mattino, molto presto, avevo già parlato al telefono con i miei strani amici del reparto psichiatrico, a Quantico. Ho il vantaggio di essermi laureato in psichiatria alla John Hopkins, così vogliono sempre parlare con me, se non altro per condividere teorie e punti di vista. Ma fino a quel momento non sapevano che pesci prendere. Avevo anche chiamato un mio contatto presso i laboratori di analisi dell'FBI, ma nemmeno lì c'erano novità, e l'avevano ammesso perfino con me. Jack & Jill ci avevano giocato, in tutti i sensi. A questo proposito, il capo della omicidi mi aveva ordinato di lavorare a uno dei miei famosi «profili psicologici» sulla coppia omicida, ammesso che lo fosse, una coppia. Mi pareva un compito futile a quel punto dell'in-
dagine, ma il Jefe non mi aveva dato scelta. Così, a casa, mi misi davanti al PC ed esaminai il database sulle caratteristiche comportamentali dei criminali. Come sospettavo, non emerse nulla di utile. L'indagine era ancora agli inizi e Jack & Jill erano troppo bravi. Per il momento, i passi da intraprendere erano: 1. raccogliere più dati e informazioni possibili; 2. fare le domande giuste e farne un mucchio; 3. cominciare a raccogliere gli indizi più strampalati e schedarli, per liberarsene solo alla chiusura del caso. Conoscevo parecchi casi del genere e li ripassai mentalmente. Era un dato di fatto che l'Agenzia avesse schedato - tra potenziali ed effettivi - oltre cinquantamila persecutori di celebrità. Negli anni '80 non arrivavano a mille. Tracciarne un profilo ideale non era pensabile, tuttavia si notavano alcuni tratti in comune: in primo luogo, e sopra ogni cosa, erano ossessionati dai media, ma anche dalla violenza e dalla religione; avevano bisogno di essere riconosciuti e incontravano difficoltà nei rapporti sentimentali. Pensai a Margaret Ray, la fan che aveva fatto più volte irruzione nella casa di David Letterman nel Connecticut. Aveva definito Letterman «la persona più importante della mia vita». Qualche volta guardo anch'io il talk-show di Letterman, ma lui non mi pare così in gamba. Poi c'erano le pugnalate a Monica Seles ad Amburgo. E Katarina Witt aveva quasi subito la stessa sorte per mano di un «fan». Sylvester Stallone, Madonna, Michael Jackson e Jodie Foster erano stati tutti seriamente molestati e aggrediti da individui che dichiaravano di adorarli. Ma chi erano Jack & Jill? Perché avevano scelto proprio Washington per i loro omicidi? Forse qualche rappresentante del governo aveva fatto loro del male? O loro pensavano di aver subito un torto da qualche politicante? Qual era il legame fra il senatore Daniel Fitzpatrick e la giornalista televisiva Natalie Sheehan? Cosa potevano mai avere in comune Fitzpatrick e la Sheehan? Erano entrambi liberali... poteva essere un indizio? Oppure gli omicidi erano casuali e quindi praticamente impossibili da prevedere? Casuale era una brutta parola e, mentre pensavo al caso, mi si piantava sempre di più nel cervello. Casuale era una bruttissima parola se veniva correlata a un omicidio. Gli omicidi casuali erano pressoché impossibili da risolvere. In genere, chi perseguitava i personaggi famosi non uccideva la sua preda, o almeno non ricorreva subito a un atto di violenza estrema. Era questo
che mi faceva impazzire, quando pensavo a Jack & Jill. Da quanto tempo avevano l'intenzione di colpire il senatore Fitzpatrick e Natalie Sheehan? Come avevano scelto le loro vittime? Dio mio, fa' che non sia stata una scelta del tutto casuale. Tutto, ma non questo. Ero anche incuriosito dal fatto che lavorassero in coppia, in perfetto accordo. Avevo appena risolto un difficile caso in cui due amici avevano rapito e ucciso donne per più di tredici anni di fila, agendo insieme, ma anche in competizione l'uno con l'altro. Il principio psicologico di un caso del genere era noto come «gemellaggio». Era così anche per Jack & Jill? Erano due maniaci? Si sentivano uniti da un legame sentimentale o da qualcos'altro? Si trattava di sesso? Pareva ragionevole. Volontà di dominio? E se si fosse trattato di un gioco bizzarro, di una fantasia sessuale spinta all'estremo? Erano marito e moglie, o una coppia di delinquenti stile Bonnie & Clyde? Era l'inizio di una serie di crimini orrendi? Una serie di omicidi a Washington? Avrebbero colpito anche altrove? In altre grandi città in cui vivevano personaggi famosi? New York? Los Angeles? Parigi? Londra? Uscii dall'ascensore al settimo piano del Jefferson Hotel e vidi il corridoio pieno di facce alterate e confuse. A giudicare dall'aspetto della scena del delitto, avrei fatto meglio a sbrigarmi a risolvere il caso. Jack e Jill sono venuti sulla Collina per fare una carneficina. 21 «Il buon dottor Cross, il signore della sventura. Be', sono qui, Alex. Ehi, Alex, da questa parte!» Ero perso nell'orrida giungla di pensieri e impressioni sugli omicidi quando sentii pronunciare il mio nome. Riconobbi subito la voce e sorrisi. Voltandomi, mi trovai davanti Kyle Craig dell'FBI. Era anche lui uno sbranamostri, originario di Lexington, nel Massachusetts. Kyle non era il tipico agente dell'FBI. Sparava sempre dritto al bersaglio. Non teneva le labbra sigillate e di solito se ne infischiava della burocrazia. Kyle e io avevamo già lavorato insieme a parecchi brutti casi; lui era specializzato nei delitti di alto livello, contrassegnati da un'estrema violenza, e negli omicidi
multipli. Insomma era esperto in tutta quella roba schifosa con cui tanti agenti dell'FBI non vogliono avere a che fare. In più, era un amico. «Hanno tirato fuori l'armamentario completo, per questo caso», esclamò mentre ci stringevamo la mano. Era alto e magro, con tratti decisi e occhi neri come il carbone. Aveva un lungo naso aquilino che pareva una lama. «Chi è arrivato finora, Kyle?» gli domandai. Ormai lui doveva sapere tutto: era intelligente, sapeva osservare e possedeva un ottimo istinto. Kyle conosceva anche tutti e sapeva che ruolo occupavano. Sporse le labbra come se avesse appena succhiato un limone particolarmente aspro. «Farei prima a dirti chi non è venuto, Alex. Tutti i tuoi colleghi detective del Distretto di Columbia. Naturalmente L'FBI e, che tu ci creda o no, la DEA. Quelli in blu sono della CIA. Il tuo amico Pittman è entrato a vedere il bel cadavere di Miss Sheehan. In questo momento si trova in camera da letto con lei.» «Spaventoso», osservai con un sorrisetto. «Più grottesco che mai.» Kyle indicò una porta chiusa, che doveva essere quella della camera da letto. «Non credo vogliano essere disturbati. A Quantico circola la voce che Pittman sia un necrofilo», disse con espressione impassibile. «Può essere vero?» «Crimini senza vittima...» risposi. «Su, dai, abbi un po' di rispetto per i morti...» fece Kyle, scrutandomi dall'alto del suo naso. «Sono sicuro che Miss Sheehan saprà mettere al suo posto il tuo capo anche da morta.» Non ero sorpreso che il Jefe in persona fosse venuto al Jefferson: quello stava diventando il caso più grosso del Distretto di Columbia da molti anni a questa parte. E lo sarebbe diventato sicuramente se Jack & Jill avessero colpito di nuovo, come avevano promesso di fare. Riluttante, lasciai la compagnia di Kyle e mi avviai verso la porta chiusa della camera da letto. La aprii lentamente, quasi fosse stata una trappola. L'unico e il solo capo George Pittman si trovava lì con un tizio vestito di grigio, probabilmente il medico legale. Si voltarono tutti e due a guardarmi. Pittman stava masticando un sigaro spento. Quando mi vide aggrottò la fronte e scosse la testa, ma non poteva farci niente: era stato il commissario Clouser a invitarmi/ordinarmi di occuparmi del caso. Però il Jefe non era affatto contento di vedermi. Borbottò «quello è Alex Cross» all'altro tizio: una bella presentazione formale. Poi tornarono entrambi a guardare il cadavere sul letto. Pittman era stato
scortese con me senza averne motivo, ma decisi di non badarci. Era sempre così con quello stronzo montato. Era un inutile bastardo, una spina nel fianco. Sapeva soltanto mettersi tra i piedi. Respirai lentamente un paio di volte, poi mi misi al lavoro, entrai nella scena dell'omicidio. Mi avvicinai al letto e cominciai a raccogliere le prime impressioni. Naso, mento e bocca di Natalie Sheehan erano coperti dalle mutandine, tirate sulla testa, con l'elastico che le stringeva la gola. Gli occhi azzurri erano spalancati a fissare il soffitto. Indossava ancora le calze nere e un reggiseno blu uguale alle mutandine. Era tutto - di nuovo - piuttosto bizzarro, ma io non riuscivo a dar credito a quella messinscena. Era anche tutto troppo ordinato, sistemato a dovere. Perché volevano farci credere che si trattasse di un delitto sessuale? Era davvero così? Jack & Jill erano due amanti frustrati? Jack era impotente? Dovevamo accertare se qualcuno avesse fatto l'amore con la vittima. La scena risultava particolarmente sconcertante. Secondo le informazioni raccolte da Kyle, Natalie Sheehan era morta da circa otto ore, e la sua bellezza pareva già svanita del tutto. Per ironia della sorte si era portata nella tomba la storia più raccapricciante su cui avesse mai messo le mani. Lei conosceva l'identità di Jack, e forse anche quella di Jill. Ricordavo i suoi servizi televisivi e avevo quasi la sensazione che fosse stato ucciso qualcuno che conoscevo personalmente. Forse è questo elemento a dare tanto fascino ai casi d'omicidio di personaggi celebri. Vediamo gente come Natalie Sheehan quasi tutti i giorni sul piccolo schermo e finiamo per pensare di conoscerli. Crediamo che conducano una vita estremamente interessante e perfino la loro morte ci appare interessante. Mi accorsi subito delle chiare e sorprendenti analogie con l'omicidio del senatore Fitzpatrick. Per prima cosa il sadismo. Natalie Sheehan era ammanettata alle colonnine del letto, seminuda; inoltre, proprio come era accaduto con il senatore, pareva che qualcuno l'avesse «giustiziata». Le avevano sparato da vicino, sul lato sinistro della testa, che era reclinata come se il lungo collo fosse stato spezzato. Forse lo era. Era quello il marchio distintivo di Jack & Jill? Erano assassini a sangue freddo, organizzati ed efficienti. Perversi, anche, ma per qualche motivo che soltanto loro conoscevano. Era una finta perversione? Si trattava di un'ossessione sessuale, un segno d'impotenza? Che cosa rivelava quel modo di procedere, che cosa comunicava? Stavo cominciando a formulare un profilo psicologico dei killer. A mio
parere, il metodo e lo stile degli omicidi sono più importanti di qualunque prova concreta. Era sempre così. Entrambi gli omicidi erano stati programmati con cura, con metodo, organizzazione, con tutto il tempo disponibile. Jack & Jill giocavano la loro partita a sangue freddo. Che io sapessi, fino a quel momento non avevano lasciato indizi. L'unica prova lasciata sulle scene dei delitti era intenzionale: i biglietti. La componente sessuale era palese: la donna pareva «esposta» sul letto mentre al senatore avevano addirittura tagliato gli attributi. Jack & Jill soffrivano di turbe sessuali? La mia impressione iniziale fu che gli assassini fossero bianchi, in un'età compresa fra i trenta e i quarantacinque, forse più vicino a quest'ultima, dato l'alto livello organizzativo. Più intelligenti della media, ma anche tipi dotati di un notevole ascendente sugli altri e fisicamente attraenti. Questo era l'elemento più singolare e importante, visto che erano riusciti a entrare tranquillamente in casa di personaggi famosi. Era il fatto più rilevante in nostro possesso. I dati da raccogliere erano molti e mi misi a scribacchiare furiosamente sul mio taccuino. Ogni tanto il Jefe mi guardava, fulminandomi con lo sguardo. Mi teneva sotto controllo. Avevo voglia di saltargli al collo: rappresentava tutto quello che non andava nel dipartimento di polizia di Washington. Era uno stronzo, un macho che si atteggiava a padrone della situazione e che invece non era intelligente nemmeno la metà di quello che pensava. «Trovato qualcosa, Cross?» si voltò finalmente a chiedermi nel suo solito modo iroso. «Finora no», risposi. Non era vero. Avevo capito con sicurezza che le vittime erano entrambe «promiscue», come si diceva un tempo. Forse Jack & Jill le «disapprovavano». I due corpi erano stati «esposti» in una posizione compromettente e molto imbarazzante. Sembrava che gli assassini fossero ossessionati dal sesso, o almeno dalla vita sessuale della gente famosa. Esposti o da esporre... mi chiedevo. Esposti per quale motivo? «Vorrei vedere il biglietto», dissi a Pittman, cercando di usare un tono civile e professionale. Pittman fece un cenno con la mano in direzione del tavolino ai piedi del letto. Lo fece villanamente, congedandomi. Io non mi sarei comportato così nemmeno con un poliziotto di strada appena assunto. Avevo mostrato maggiore rispetto a Chucky-taglialo-via.
Comunque andai a prendere il biglietto e lo lessi. Era un'altra poesia, in cinque versi. Jack & Jill sono venuti sulla Collina per riparare a un altro errore. A farla breve, il suo notiziario era pieno del suo terrore. Scossi più volte la testa, ma non dissi niente a Pittman, che il diavolo se lo portasse. Nemmeno quelle rime mi dicevano granché, ma speravo prima o poi di cavarci qualcosa. Erano versi studiati, eppure privi d'emozione. Cosa rendeva quei due assassini tanto freddi e intelligenti? Continuai a perquisire la camera da letto. Nella squadra omicidi la mia abitudine di passare un mucchio di tempo sulla scena del delitto era ben nota. A volte ci rimanevo un'intera giornata, intenzione che avevo anche quel mattino. Gran parte degli effetti della donna parevano collegati alla sua professione, come se nella vita non avesse altro: videocassette, carta da lettere con il logo della rete televisiva, una cucitrice rubata con inciso CBS. Osservai da ogni angolo possibile la scena del delitto e la morta, chiedendomi se gli assassini avessero portato via qualcosa. Ma non riuscivo a concentrarmi come avrei voluto: Pittman mi dava sui nervi, ne subivo l'influenza. Come mai le due vittime erano state «esposte»? Che cosa le collegava nella morte, almeno nella mente degli assassini? Questi ultimi si erano sentiti in dovere di sottolineare «graficamente» alcune cose. Anzi, avevano messo in mostra tutto di Fitzpatrick e della Sheehan. Grazie a Jack & Jill. È orribile, pensai, faticando a respirare. Ma la cosa peggiore era che ormai il caso mi aveva preso definitivamente. Poi, nella camera da letto, tutto volse al peggio; ci fu una brutta svolta inaspettata. Ero in piedi accanto a George Pittman quando questi mi rivolse di nuovo la parola, senza guardarmi: «Torna più tardi, Cross, quando abbiamo finito noi». Le parole del Jefe rimasero sospese nell'aria come fumo rancido. Non riuscivo a credere che le avesse veramente pronunciate. Ho sempre cercato di manifestare un certo rispetto nei suoi confronti. È stato duro, in genere
quasi impossibile, ma l'ho sempre fatto. «Parlo con te, Cross», aggiunse Pittman, alzando un poco la voce. «Hai sentito che cos'ho detto? Mi hai sentito?» Poi fece una cosa che non avrebbe dovuto fare, una cosa orribile, una cosa su cui non potevo passar sopra. Allungò una mano e mi diede una spinta. Una spinta forte, che mi fece indietreggiare, barcollando. Ripresi l'equilibrio e levai lentamente i pugni. Non mi fermai a pensare. Forse avevo incamerato troppo veleno e troppa antipatia nei suoi confronti. Lo afferrai con entrambe le mani. Le cose non dette, la sua mancanza di rispetto nei miei confronti erano cresciute gradualmente per un paio d'anni... almeno. Adesso esplodevano in modo orrendo. Esplodevano nella camera da letto della vittima. George Pittman e io abbiamo più o meno la stessa età. Lui non è alto come me, ma probabilmente pesa dieci chili in più. Ha il fisico squadrato di un giocatore di football americano dei primi anni '60. Fa male il suo lavoro e non dovrebbe avere la carica che ha. Ce l'ha a morte con me perché invece me la prendo a cuore. È uno stronzo! L'afferrai e lo tirai su, staccandolo da terra. Ho l'aria di essere piuttosto forte, ma in realtà sono molto più forte di quanto appaio. Pittman sgranò gli occhi, incredulo e d'un tratto intimorito. Lo sbattei una prima volta contro il muro, poi una seconda. Niente di potenzialmente pericoloso o di troppo violento, ma senza dubbio un buon colpo. Ogni volta che il suo corpo urtava la parete, tutto il Jefferson Hotel si scuoteva dalle fondamenta. Il Jefe non reagì, non lottò contro di me, non riusciva a credere a quello che avevo fatto. A essere onesto, non ci riuscivo nemmeno io. Poi lo mollai, lo lasciai andare di botto e lui ricadde per terra. Sapevo di non avergli fatto male fisicamente, però avevo ferito il suo orgoglio. E avevo anche commesso un grosso errore. Non dissi una parola. Nemmeno il tipo vestito di grigio aprì bocca. Provavo un poco di sollievo per il fatto che Pittman avesse levato le mani per primo. Era stato lui a cominciare e senza averne il minimo motivo. Mi chiesi se anche il medico legale l'avesse vista in quel modo, ma ne dubitavo. Lasciai la camera da letto senza che Pittman mi rivolgesse più la parola. Mi chiedevo se avessi anche appena lasciato il dipartimento di polizia di
Washington. 22 «Questa è un'emergenza! Sta capitando qualcosa da Crown. Tutti all'erta! Guai in vista da Crown. È una vera emergenza! Non è un'esercitazione!» Una mezza dozzina di agenti dei servizi segreti prese subito sul serio quell'allarme. Vedevano Jack attraverso i binocoli Rangemaster. Tre paia di binocoli. Jack era in pista. Non riuscivano a credere ai loro occhi, nessuno voleva credere alla scena cui stava assistendo, ma l'emergenza era reale. «È Jack, d'accordo. Che cosa fa... è impazzito?» «Lo vediamo benissimo. Dove cazzo va? Accidenti a lui. Cosa sta succedendo?» Tra i sei osservatori, tre erano professionisti al massimo livello, comunque anche gli altri erano uomini di prim'ordine, i migliori tra i duemila agenti dei servizi segreti che lavoravano in giro per il mondo. Erano seduti nella berlina Ford scura parcheggiata in Fifteenth Street Northwest. La faccenda si faceva all'improvviso molto grave e spaventosa. Bisognava muoversi. È una vera emergenza. Non è un'esercitazione. «Jack sta uscendo da Crown. Sono le ventitré e quaranta. In questo momento attraversa la strada davanti a noi», disse uno degli agenti nel microfono dell'auto. «Sì, a volte Jack tira begli scherzetti, ce l'ha già dimostrato. Non perdetelo di vista. Base, dov'è la bella Jill?» «Qui base», rispose pronta una voce femminile. «Jill se ne sta calda e comoda al terzo piano di Crown. Sta leggendo Barbara Bush vista da Barbara Bush. È a posto, non preoccupatevi di Jill.» «Ne siamo assolutamente certi?» «Base è certa per Jill. Jill è a letto e almeno per stasera fa la brava ragazza.» «Bene. Come diavolo ha fatto a uscire Jack?» «Ha usato il vecchio tunnel fra le cantine di Crown e l'edificio del Tesoro, ecco come è uscito!»
Questa è un'emergenza. Non è un'esercitazione. Jack è uscito. «Jack sta arrivando in Pennsylvania Avenue, è vicino al Willard Hotel. Si è appena guardato alle spalle. È un po' paranoico, ma fa bene. Non credo ci abbia visti. Oh, merda, qualcuno ha appena fatto lampeggiare gli abbaglianti davanti al Willard. Un veicolo si avvicina... accosta accanto a Jack! Una jeep rossa! Jack è salito su quella fottuta jeep rossa!» «Ricevuto. Meno male che dovevamo tenerlo d'occhio. Lo seguiamo subito. La jeep ha una targa della Virginia, numero due-tre-uno HCY. Cerchiamo di rintracciare il proprietario.» «Stiamo seguendo la jeep rossa, non la molliamo. Allarme per lo Sciacallo. Ripeto: allarme per lo Sciacallo. Non è un'esercitazione.» «Non perdetelo di vista, non perdetelo per nessun motivo!» «Ricevuto. Non lo molliamo: lo vediamo benissimo.» Tre berline nere si mossero dietro alla jeep. Jack era il nome in codice dato dai servizi segreti al presidente Thomas Byrnes. Jill era il nome in codice della first lady. Crown era da vent'anni il nome in codice dato alla Casa Bianca. La maggioranza degli agenti provava una schietta simpatia per il presidente Byrnes, che era un tipo alla mano e una persona molto metodica, come tutti gli ultimi presidenti. Non si dava troppe arie, però occasionalmente se la svignava con qualche amichetta senza dir niente a nessuno, a volte uscendo perfino dal Distretto di Columbia. In quei casi, i servizi segreti dicevano che il presidente aveva l'«influenza». Thomas Byrnes non era certo il primo a prenderla. John Kennedy, Franklin Delano Roosevelt e soprattutto Lyndon Johnson l'avevano patita molto di più. Pareva essere un tratto distintivo della carica più alta degli Stati Uniti. La coincidenza dei nomi scelti dai due killer psicopatici di personaggi famosi non era certo sfuggita ai servizi segreti, i quali non credevano affatto nelle coincidenze. Si erano già riuniti quattro volte per discuterne, quattro lunghe e difficoltose riunioni presso il comando d'emergenza nei sotterranei dell'ala ovest della Casa Bianca. Il nome in codice di qualunque potenziale assassino del presidente era Sciacallo e veniva usato da oltre trent'anni. La «coincidenza» dei nomi preoccupava parecchio la DPP - la Divisione per la protezione del presidente - soprattutto quando Byrnes decideva di andare a passeggio da solo senza portarsi dietro, per ovvie ragioni, nem-
meno una guardia del corpo. C'erano due Jack e due Jill. I servizi segreti non potevano e non volevano accettare il fatto che fosse una coincidenza. «Abbiamo perso la jeep rossa intorno a Tidal Basin. Abbiamo perso Jack», esplose all'improvviso la voce di un agente dagli altoparlanti dell'auto. Scoppiò il caos. Un caos da emergenza totale. Non era un'esercitazione. PARTE SECONDA LO SBRANAMOSTRI 23 Finalmente lunedì notte si aprì una breccia nel caso Jack & Jill. Era qualcosa di potenzialmente grosso. Sperai che non fosse un abbaglio. Ero appena tornato a casa per mangiare un boccone con i bambini, quando squillò il telefono e Kyle Craig mi comunicò che una videocassetta registrata da Jack & Jill era stata recapitata negli studi della CNN. Gli assassini avevano girato un filmino casalingo da mostrare a tutto il mondo. Avevano anche spedito lettere al Washington Post e al New York Times. Quella sera si sarebbero «spiegati». Dovetti precipitarmi fuori prima che il pollo arrosto di Nana arrivasse in tavola. Jannie e Damon mi lanciarono un'occhiata che significava «siamo alle solite» e avevano perfettamente ragione. Mi precipitai nella zona della Union Station, fra la H e la North Capitol. Non volevo arrivare tardi al party dato da Jack & Jill, che ci stavano offrendo un altro esempio della loro capacità di controllarci. Arrivai negli studi della CNN soltanto qualche momento prima che il video venisse mandato in onda durante la diretta del talk-show di Larry King. I più importanti agenti dell'FBI e dei servizi segreti gremivano una saletta privata, piena anche di tecnici, amministratori e avvocati della rete televisiva. Avevano tutti un'aria incredibilmente tesa e apprensiva. Quando partì il messaggio video di Jack & Jill calò un silenzio totale. Avevo paura perfino di battere le palpebre. Ce l'avevamo tutti. «Cazzo», borbottò infine qualcuno. Jack & Jill ci avevano filmati! Fu la prima, sconvolgente scoperta della
serata. Avevano filmato la polizia fuori dell'appartamento del senatore Fitzpatrick qualche giorno prima. Si erano mescolati alla folla di curiosi, di guardoni delle disgrazie altrui. Il video era uno sconvolgente montaggio di spezzoni, molti in bianco e nero, alcuni a colori. Lo stile era quello di un documentario. Si apriva con le riprese, da vari punti di vista, della casa del senatore Fitzpatrick. Pareva girato da un bravo studente di cinema con pretese artistiche. Poi sullo schermo apparve un'immagine del tutto inattesa, potente. Gli assassini avevano eternato gli ultimi momenti di vita del senatore Fitzpatrick, gli istanti precedenti il suo omicidio, o così mi parve. Erano immagini scioccanti, in una escalation di orrore. Vedemmo Daniel Fitzpatrick ammanettato nudo al suo letto e udimmo la sua voce. «Per favore, non fatelo», implorava. Poi si udì lo scatto di un grilletto e un colpo esplose a pochi centimetri dell'orecchio destro del senatore. Poi giunse un secondo sparo, e la testa esplose. Sussultammo davanti a quell'immagine e a quel suono che avevano accompagnato il senatore nell'eternità. «Oh, Dio mio!» urlò una donna, mentre vari spettatori distoglievano lo sguardo dallo schermo e altri ancora si coprivano gli occhi. Io li tenni spalancati: non dovevo lasciarmi sfuggire niente. Erano tutte informazioni vitali per il caso che stavo cercando di comprendere. Era un elemento più valido di qualunque test del DNA o sierologico o di tutte le impronte digitali del mondo. Dopo il sadico omicidio di Fitzpatrick, il tono del video mutò bruscamente. Immagini di gente normale per le strade di anonime città e cittadine seguirono l'agghiacciante sequenza di morte. Qualcuna delle persone inquadrate agitava la mano a salutare o faceva un gran sorriso, ma per la maggioranza erano indifferenti mentre venivano filmati da Jack & Jill. Il video proseguì alternando il bianco e nero al colore, ma non in modo incongruo. Chiunque l'avesse montato possedeva un discreto occhio. Uno dei due è un artista, o ha almeno qualche forte tendenza artistica, presi mentalmente nota. Ma che razza d'artista si lascerebbe coinvolgere in un fatto del genere? Conoscevo le numerose teorie sui legami fra creatività e psicopatologia: Ted Bundy, Jeffrey Dahmer e perfino Charles Manson potevano essere considerati killer «creativi». D'altro lato Richard Wagner, Edgar Degas, Jean Genet e tanti altri artisti avevano effettivamente esibito comportamenti psicopatici nel corso della loro vita, ma senza uccidere nessuno.
Poi, a poco più di un minuto dall'inizio del video, arrivò il parlato. Le voci erano due: un uomo e una donna. Stava accadendo qualcosa di drammatico, che ci colse tutti di sorpresa. Jack & Jill avevano deciso di parlarci. Pareva quasi che i killer fossero stati presenti nello studio. Si alternavano a parlare, mentre il video proseguiva, ma le loro voci erano filtrate elettronicamente per non essere riconosciute. Mi sarei dato da fare con quelle voci non appena finito lo spettacolo. Il quale, però, non era affatto finito. JACK Per tanto tempo la gente come noi se n'è stata seduta a subire le ingiustizie propinate dai pochi potenti di questo Paese. Abbiamo sofferto e abbiamo avuto pazienza e, di solito, ce ne siamo stati in silenzio. C'è un detto piuttosto cinico che afferma: Se devi fare tanto per fare, è meglio che tu stia fermo. Ebbene abbiamo atteso che il sistema americano dell'alternanza e dell'equilibrio lavorasse per noi. Ma questo non è accaduto per molto, molto tempo. Sembra che nulla funzioni più... Qualcuno potrebbe controbattere in modo sensato a questa affermazione? JILL Gente senza scrupoli, come avvocati e uomini d'affari, ha saputo trarre vantaggio dalla nostra innocenza e buona volontà ma, soprattutto, dalla nostra generosità di spirito. Ripetiamo questo concetto importante: gente assolutamente senza scrupoli ha saputo trarre vantaggio dalla nostra innocenza e buona volontà e dal nostro meraviglioso spirito americano. Molti di costoro si trovano al governo o lavorano a stretto contatto con i nostri cosiddetti leader. JACK Guardate le facce davanti a voi. Appartengono a individui senza più diritto di cittadinanza. A persone disperate, che non credono più nel nostro Paese. Sono le vittime della violenza che ha origine a Washington, New York e Los Angeles. Le riconoscete? Siete anche voi una vittima? Noi lo siamo. Siamo due Jack & Jill tra la folla. JILL Osservate quello che ci hanno fatto i nostri cosiddetti leader, osservate la disperazione e la sofferenza di cui sono responsabili, osservate il nauseante cinismo che hanno creato, i sogni e le speranze che hanno sventatamente distrutto. I nostri leader stanno sistematicamente distruggendo l'America. JACK Guardate le facce della gente. JILL Guardate le facce della gente. JACK Guardate le facce della gente. Ora capite perché ce l'abbiamo con voi? Vedete? Guardate le facce, guardate quello che avete fatto, guar-
date gli indicibili crimini che avete commesso. JILL Jack & Jill sono venuti sulla Collina. Ecco perché siamo qui. Attenti a tutti coloro che lavorano e vivono nella capitale e cercate di tenere a bada gli altri come noi. Avete giocato con tutte le nostre vite, adesso siamo noi a giocare con le vostre. Questa volta tocca a noi. Tocca a Jack & Jill. Il film terminava con l'immagine di un gruppo di senzatetto in Lafayette Square, di fronte alla Casa Bianca. Seguiva un'altra poesia, un altro avviso in rima. Jack & Jill sono venuti sulla Collina per una grave, cupa missione. Ormai li avete irritati e sarà sempre più critico essere un uomo politico. JACK È arrivato il momento del giudizio per gli uomini senz'anima. Voi sapete chi siete. Lo sappiamo anche noi. «Quanto dura ancora questo piccolo capolavoro?» Uno dei produttori del talk-show voleva una risposta a questa domanda pratica. La CNN avrebbe dovuto trasmettere «in diretta» il film entro dieci minuti. «Ancora tre minuti. Sembra eterno, lo so», rispose un tecnico armato di cronometro. «Se stai pensando di tagliare qualcosa, dimmelo subito.» Sebbene nella saletta facesse caldo, la «poesia» mi fece venire i brividi. Nessuno se n'era ancora andato. Quelli della CNN parlavano tra loro, discutendo del video a livello tecnico, come se noi non esistessimo. L'ospite del talk-show aveva un'aria pensosa e turbata: forse aveva capito dove stava puntando la comunicazione di massa e si era reso conto di non poterci fare niente. «In onda fra otto minuti», annunciò un regista ai tecnici. «Ci serve questa sala, gente. Faremo copie per tutti voi.» «Un bel souvenir», fece ironico un tecnico. «Ho visto Jack & Jill alla CNN.» «Non sono serial killer», borbottai, più a me stesso che agli altri. Volevo sentire come suonava quel concetto, quel vago appiglio. Ero in minoranza, però ne ero fortemente convinto. Non sono killer che agiscono secondo uno schema, non nel senso ordinario. Ma erano estre-
mamente attenti e organizzati. Erano abbastanza scaltri o influenti da avvicinare facilmente le celebrità. Avevano un debole per le perversioni sessuali, o volevano farcelo credere. Servivano una specie di contorta causa. Sentivo ancora le loro parole, le loro voci artificiali sul nastro: «Per una grave, cupa missione.» Forse per loro non era un gioco: era la guerra. 24 Era il momento peggiore, il momento peggiore. Mercoledì mattina, solo due giorni dopo l'omicidio di Shanelle Green, un secondo bambino fu trovato a Garfield Park, non lontano dalla Sojourner Truth School. Questa volta la vittima era un maschietto di sette anni. La dinamica del crimine era analoga: il viso del bambino era stato massacrato, probabilmente con una mazza o un tubo di metallo. Da casa mia, in Fifth Street, potevo raggiungere a piedi la scena di quell'orrendo delitto. Lo feci, ma muovendomi con una lentezza ipnotica. Era il quattro dicembre e i bambini pensavano già a Natale. Una cosa del genere non sarebbe dovuta succedere mai, ma soprattutto non in quel periodo dell'anno. Oltre all'omicidio del secondo bambino, un'altra ragione contribuiva al mio malessere. A meno che qualcuno non avesse fotocopiato il primo assassinio, cosa che mi pareva altamente improbabile, il killer non poteva essere Emmanuel Perez, non poteva essere Chucky-taglialo-via. Sampson e io avevamo commesso un errore. Avevamo braccato il molestatore di bambini sbagliato ed eravamo in parte responsabili della sua morte. Quando arrivai nel piccolo parco, costeggiando il negozio che vendeva caramelle, il vento fischiava e ululava. Era una mattina deprimente, terribilmente fredda e buia. Due ambulanze e mezza dozzina di auto della polizia erano parcheggiate ai limiti del parco e almeno un centinaio di curiosi era già arrivato sulla scena del delitto. Era tutto strano, agghiacciante, del tutto innaturale. Le sirene delle ambulanze e della polizia urlavano in lontananza, in un terrificante lamento funebre per il piccolo morto. Rabbrividii, e non solo per il freddo. L'orribile scena del delitto mi ricordò la volta in cui, qualche anno fa, alla vigilia di Natale, trovammo il cadavere di un bambino. L'immagine di quel delitto si era impressa per sempre nella mia mente. Michael Goldberg era il nome del piccolo, ma tutti lo chiamavano Tappo. Aveva solo nove
anni. L'assassino era Gary Sonejí: l'avevano preso, ma lui era scappato di prigione. Era scappato e svanito dalla faccia della terra. Ormai pensavo a Soneji come al dottor Moriarty, l'incarnazione del demonio, se mai esisteva una cosa del genere, e cominciavo a credere che esistesse. Non potevo fare a meno di continuare a pormi domande su Soneji. Gary Soneji aveva un movente ideale per commettere omicidi vicino a casa mia. Aveva giurato che mi avrebbe fatto pagare il tempo passato in prigione: ogni giorno, ogni ora, ogni minuto. È ora di saldare il conto, dottor Cross. Mentre mi chinavo per passare sotto il nastro giallo che delimitava la scena del delitto, una donna con un poncho impermeabile bianco mi gridò: «Dovresti essere un poliziotto, no? Allora perché non fai qualcosa? Fai qualcosa contro chi uccide i nostri bambini! Fallo, e poi goditi pure il tuo Natale!» Che cosa potevo dirle? Che il vero lavoro della polizia non somigliava ai telefilm? Fino a quel momento non avevamo il minimo indizio sugli omicidi dei due bambini. Non potevamo più affibbiarli a Chucky-taglialo-via. Non c'era modo di aggirare un semplice fatto: Sampson e io avevamo commesso un errore. Un hombre cattivo era morto, ma probabilmente per il motivo sbagliato. Il numero di giornalisti presenti era ancora molto limitato, ma riconobbi qualche reporter: Inez Gomez di El Diario e Fern Galperin della CNN, che parevano seguire tutto quello che accadeva a Washington, occasionalmente perfino i delitti nel quartiere sud-est. «Non ha niente a che vedere con l'omicidio della settimana scorsa, detective? Avete preso il vero killer? Non sarà un serial killer di bambini?» Inez Gomez sparò il suo fuoco di fila di domande. Era molto brava nel suo lavoro, acuta, intelligente e quasi sempre gentile. Non dissi niente alla stampa, nemmeno alla Gomez. Non guardai nemmeno verso di loro. Provavo un dolore al centro del petto che non accennava neppure a smorzarsi. È un serial killer di bambini? Non lo so, Inez. Credo che potrebbe esserlo, ma prego che non lo sia. Emmanuel Perez era innocente? Non credo, Inez, prego che non lo fosse. Potrebbe essere stato Gary Soneji a uccidere questi due bambini? Spero di no. Prego che non sia così, Inez. Un sacco di preghiere in quella gelida e deprimente mattina. Faceva troppo freddo per i primi di dicembre, c'era troppa neve. Qualcuno per radio disse che gli spalatori erano all'opera in forze nel Distretto di
Columbia. E non c'erano neppure elezioni in vista. Mi feci strada tra la folla sino al bambino morto: era sdraiato come una bambola rotta sull'erba gelata. Il fotografo della polizia lo stava riprendendo da ogni lato. Il piccolo aveva i capelli corti come Damon, lo stesso taglio che mio figlio chiamava «pelata». Sapevo naturalmente che non era Damon, ma mi faceva lo stesso un effetto devastante. Era come se mi fossi preso un cazzotto nello stomaco. La vista del cadaverino mi tolse il fiato, mi lasciò ansante. Le lacrime non servono ad alleviare la crudeltà: avevo già avuto modo di imparare questa lezione. Mi era stata impartita molte volte. M'inginocchiai accanto al bambino: pareva addormentato, ma in preda a un incubo terribile. Qualcuno gli aveva chiuso gli occhi e mi chiesi se non fosse stato il killer, però ne dubitavo. Era più probabile che quel gesto fosse opera di qualche buon samaritano, o forse di un poliziotto molto sbadato ma dal cuore tenero. Il bambino indossava un paio di calzoni grigi da tuta, consunti, con le ginocchia bucate, e un paio di Nike tutte smangiate. Il lato destro del faccino era stato praticamente distrutto dai colpi dell'assassino, proprio com'era accaduto a Shanelle. La faccia era schiacciata, ma anche butterata e segnata dalle lacrime. Sotto la testa c'era una gran chiazza di sangue rosso. All'assassino piace distruggere le cose belle. Mi venne un'idea. Il killer è in qualche modo sfigurato? Fisicamente o emotivamente? Forse tutti e due. Perché odia tanto i bambini? Perché li uccide vicino alla Sojourner Truth School? Aprii gli occhi del bambino, che mi fissarono. Non so perché lo feci: dovevo vederli. 25 «Dottor Cross... dottor Cross... io lo conosco», disse una voce tremante. «Viene nella nostra scuola, si chiama Vernon Wheatley.» Levai lo sguardo su Mrs Johnson, la direttrice della scuola di Damon, che tratteneva i singhiozzi con tutte le proprie forze. È ancora più dura di te, papà, ecco cosa mi aveva detto Damon. Forse aveva ragione: quella donna non si sarebbe permessa di piangere. In piedi accanto a Mrs Johnson c'era il medico legale. Conoscevo anche lei: era una bianca di nome Janine Prestegard, che doveva avere più o me-
no la stessa età di Mrs Johnson, trentacinque anni circa. Parlavano tra loro, probabilmente si consolavano. Che cosa aveva la Sojourner Truth School? Perché proprio quella scuola? Perché la scuola di Damon? Prima Shanelle Green e adesso Vernon Wheatley. Che cosa sapeva la direttrice, ammesso che sapesse qualcosa? Credeva di poter aiutare a risolvere quei terribili omicidi? Aveva conosciuto le due vittime. Il medico legale stava organizzando l'autopsia per determinare la causa della morte. Pareva scossa dalla selvaggia aggressione subita dal piccolo. L'autopsia di un bambino ucciso è la cosa peggiore che possa capitare. Due detective del commissariato di zona aspettavano nelle vicinanze, insieme agli uomini dell'obitorio. Era tutto così tranquillo, così triste, così orribile. Non c'è niente di peggio dell'omicidio di un bambino. Niente che io abbia visto, comunque. Ricordo tutte le scene del delitto su cui sono stato. A volte Sampson afferma che sono troppo sensibile per lavorare nella omicidi e io ribatto che ogni detective dovrebbe essere più sensibile e umano possibile. Mi levai in tutta la mia altezza. Con il mio metro e novanta, superavo di poco Mrs Johnson. «Lei ha visto entrambe le scene del delitto», le dissi. «Abita da queste parti?» La donna scosse la testa, fissandomi dritto negli occhi. I suoi erano molto intensi, molto grandi. Trattennero il mio sguardo senza mollarlo. «Conosco molta gente nel quartiere e qualcuna mi ha telefonato a casa, pensando che dovessi essere informata dell'accaduto. Sono cresciuta qui vicino, nella zona dell'Eastern Market... È lo stesso assassino, vero?» Non le risposi. «Forse più tardi avrò bisogno di parlare con lei», dissi invece. «Forse dovremo parlare di nuovo anche con qualche bambino, ma lo faremo solo se necessario. Hanno già patito abbastanza. Grazie per il suo interessamento. Mi dispiace per Vernon Wheatley.» Mrs Johnson annuì, continuando a fissarmi con occhi incredibilmente penetranti. Chi sei esattamente? pareva chiedermi. Sei stato anche tu su entrambe le scene del delitto. «Come può fare un lavoro del genere?» sbottò allora. Era una domanda strana e inaspettata. Pareva quasi villana, ma non lo era. Sembrava appartenere al mio mantra personale. Come puoi fare questo lavoro, Alex? Perché sei tu lo sbranamostri? Chi sei esattamente? Cosa sei diventato?
«Veramente non lo so», risposi. Ero sincero. Perché avevo ammesso la mia debolezza con lei? Non mi capitava mai, nemmeno con Sampson. Ma negli occhi di quella donna c'era qualcosa che esigeva la verità. Abbassai lo sguardo e mi allontanai da lei. Dovevo farlo. Tornai a prendere appunti, la mente affollata di domande, cattive domande, cattivi pensieri e sensazioni anche peggiori sull'omicidio. I due omicidi. Due casi. Perché odia tanto i bambini? continuavo a chiedermi. Chi può mai odiare fino a questo punto i bambini? Doveva esser stato trattato molto male lui stesso. Probabilmente era un maschio sui vent'anni, non troppo attento né organizzato. Chissà perché mi feci l'idea che l'avremmo preso... ma l'avremmo preso in tempo? 26 Mi aspettavo un'azione disciplinare da parte del dipartimento, aspettavo di sentir calare la mannaia sulla mia testa, invece non arrivò niente. Pittman teneva la sua lama affilata sospesa sulla mia testa. Il Jefe giocava con me al gatto col topo. Forse poteri più alti gli impedivano di agire... in nome di Jack & Jill. Era così, doveva essere così. Ritenevano di aver bisogno di me per trovare gli assassini delle celebrità. Mentre aspettavo nel limbo, c'era un mucchio di lavoro da svolgere. Passai ore a controllare e ricontrollare i dati dell'unità scientifica comportamentale dell'FBI, a caccia di qualunque possibile legame fra gli omicidi dei due bambini e qualunque altro avvenuto a Washington... o anche da qualunque altra parte. Poi ripetei la stessa operazione con Jack & Jill. Se vuoi capire l'assassino, studia il suo lavoro. Jack & Jill erano organizzati, mentre il killer di bambini era incoerente e sbadato. I casi non avrebbero potuto essere più diversi l'uno dall'altro. Avevo la sensazione di non poter lavorare contemporaneamente a due casi tanto complessi. Era ora che il mio cosiddetto legame con il dipartimento cominciasse a operare in entrambi i sensi. Nel tardo pomeriggio feci qualche telefonata a certi tizi che mi dovevano qualche favore. Che avevo da perdere? Quella sera quattro detective della omicidi del primo distretto si incontrarono con me nel parcheggio deserto dietro la Sojourner Truth School.
Ognuno di loro era una spina nel fianco del dipartimento. Erano tutti e quattro dei piantagrane, ma anche ottimi poliziotti, probabilmente i migliori che conoscevo a Washington. Inoltre vivevano tutti nel quartiere sud-est e avevano preso a livello personale l'omicidio dei bambini. Volevano risolvere in fretta quell'orribile caso... indipendentemente dal compito che era stato loro assegnato. Sampson arrivò per ultimo, qualche minuto prima dell'ora stabilita per la riunione: le dieci. Quell'incontro segreto ci sarebbe stato assolutamente proibito dal capo della omicidi. Intendevo formare un'unità che aiutasse a trovare l'assassino di Shanelle Green e di Vernon Wheatley al di fuori delle ore di lavoro. Non eravamo vigilantes, ma qualcosa di simile. «John Sampson il ritardatario», esclamò Jerome Thurman, scoppiando in una gran risata quando finalmente la Montagna Umana si unì a noi. Thurman era vicino ai centoquaranta chili, tutti sodi. Sampson e lui si divertivano a provocarsi, ma erano buoni amici. Era così da quando giocavamo tutti a pallone con la squadra del liceo, circa mille anni prima. «Il mio orologio dice che sono le dieci in punto», annunciò Sampson, senza nemmeno dare un'occhiata al suo antiquato Bulova. «Le dieci in punto», gli diede manforte Shawn Moore. Era un tipo giovane e deciso, padre di tre bambini. La sua famiglia viveva a meno di un chilometro dalla Truth School. Uno dei suoi figli è nella classe di Damon. «Sono felice che siate potuti venire tutti in questa gelida notte», dissi quando smisero di parlottare tra loro. Sapevo che i quattro andavano d'accordo e si rispettavano l'un l'altro. Sapevo anche che nessuno di loro avrebbe mai parlato di quella riunione con il Jefe. «Mi spiace avervi fatti uscire così tardi, ma è meglio che non ci vedano insieme. Grazie per essere venuti, comunque. Il cortile della scuola mi pareva il posto giusto per quello di cui dobbiamo parlare. Sarò il più breve possibile», dissi, guardandoli in faccia a uno a uno. «Sarà meglio, Alex», consigliò Jerome. «Mi sto gelando il culo.» «Avete saputo tutti del ragazzino di sette anni trovato stamattina a Garfield Park?» chiesi. «Un bambino di nome Vernon Wheatley.» Annuirono cupamente: le brutte notizie viaggiano sempre veloci. «Be', ho pensato parecchio a questi omicidi di bambini e ho consultato tutti i database che raccolgono le caratteristiche comportamentali dei criminali, però non è emerso nulla. Ho steso un profilo preliminare. Spero di sbagliarmi, ma temo che nel quartiere operi un serial killer di bambini. Ne sono quasi sicuro.»
«Quanto scotta la situazione, Alex?» indagò Rakeem Powell, facendosi più vicino a me. Sapevo che cosa intendeva: avevamo lavorato a un caso simile qualche anno prima. «Credo sia già rovente, Rakeem. I due omicidi si sono verificati nel giro di pochi giorni, e denotano un alto livello di violenza. Quel killer pare infuriato, come se fosse posseduto dall'ira. Potrebbe anche essere una donna, comunque.» «Troppa violenza per una femmina», osservò Sampson, schiarendosi la gola. «Troppo... sangue... bambini col cranio schiacciato.» Scosse la testa. «A me non pare opera di una donna.» «Tendenzialmente sono d'accordo», dissi, «ma di questi tempi non si sa mai. Pensa a Jill...» «Quanti detective sono stati assegnati a questo caso?» chiese Jerome Thurman. «Due squadre.» Avevo dato la cattiva notizia. «Ma solo una a tempo pieno. Ecco il motivo per cui ho voluto questo incontro. Il capo si oppone alla teoria che si tratti di un unico assassino. Emmanuel Perez è ancora considerato il killer della bambina.» «Quello stronzo figlio di puttana», borbottò infuriato Jerome Thurman. «Quel bastardo è utile tanto quanto due paia di tette a un toro.» Gli altri si misero a imprecare e borbottare: mi ero aspettato una reazione negativa a qualunque cosa avesse fatto o detto il Jefe. Non intendevo però colpire sotto la cinta, per quanto ne fossi tentato. «Sei davvero sicuro che si tratti dello stesso killer, Alex?» chiese Rakeem. «Hai detto di aver steso solo un profilo preliminare. So che questa merda richiede tempo.» Respirai a fondo l'aria gelida, poi proseguii. «Il secondo bambino, il maschietto, aveva la faccia distrutta, Rakeem, ma solo da una parte, esattamente come è successo alla bambina uccisa. Stesso lato, il destro, non ho trovato nessuna variante significativa. Il medico legale ha confermato l'analisi. Il 'subnormale' ritiene probabilmente di avere un lato buono e uno cattivo e quello cattivo va punito, o direi piuttosto distrutto... Ah, un'ultima cosa, e finora è la migliore supposizione che possa fare: credo sia un principiante in fatto di omicidi, anche se perverso e intelligente... gli piace rischiare. Penso che, lavorando insieme, possiamo beccarlo in fretta, ma deve essere in fretta. Dobbiamo inchiodarlo!» Sampson si decise finalmente a parlare. «Intendi parlare tu di quello che sta capitando veramente in questo quartiere, Alex, o vuoi che lo faccia io?»
Sorrisi del suo modo contorto di dire le cose. «No, ho pensato di lasciare lo sporco lavoro a te.» «Come al solito», fece lui. «Ecco cosa non vi ha detto Alex, ora ve lo spiattello. Il vero motivo per cui a questi omicidi sono stati assegnati così pochi agenti. Prima di tutto si sono verificati nel ghetto, dove sappiamo che finisce tutta la merda del Distretto di Columbia. In secondo luogo, Jack & Jill si stanno prendendo tutto il tempo del dipartimento. Ammazzano i ricchi bianchi e dalle parti del Campidoglio sono spaventati a morte. Quindi naturalmente si lascia perdere tutto il resto. Due bimbi neri non hanno molta importanza, non nel quadro generale.» «Sampson e io abbiamo lavorato agli omicidi della Truth School», ripresi il filo, ma abbassando il tono di voce. «Faremo la nostra sorveglianza fuori orario», aggiunsi per chiarire il patto. «C'è bisogno di tutto l'aiuto possibile. Purtroppo in questo momento a Washington ci sono due grossi casi di omicidio.» «Io ne ho in mente soltanto uno», fece sapere Rakeem Powell. «Indovinate qual è.» «Considera arruolato il Ciccione.» Jerome Thurman levò la voce e il braccio muscoloso in aria. «Ci sto. Mettimi nel libro nonpaga con tutti i nonbenefici e il rischio di essere costretto a dimissioni forzate. Mi pare splendido.» «I miei figli vanno alla Sojourner Truth School, Alex», disse Shawn Moore. «Troverò il tempo necessario per indagare e, con il mio corpo di riserva, mi occuperò di Jack & Jill.» Scoppiammo a ridere per allentare la tensione. Ci stavamo tutti e cinque, ma nessuno aveva idea della situazione in cui si era cacciato. C'erano proprio due grossi casi d'omicidio a Washington e adesso c'erano anche due task force che avrebbero tentato di risolverli. O almeno una task force e mezzo. «Qualcuno vuole un cocktail?» propose Jerome Thurman nel suo tono più sofisticato. Mentre faceva girare la sua consunta fiaschetta, sulla quale campeggiava il logo dei Redskins, si sarebbe detto che ci trovavamo nel vecchio Cotton Club di Harlem. Bevemmo tutti una sorsata, o anche due o tre. Eravamo fratelli di sangue. 27
Lavorai al caso Jack & Jill dalle cinque del mattino alle tre del pomeriggio. Io e altri diecimila affannati poliziotti del Distretto di Columbia cercavamo un possibile legame fra il senatore Fitzpatrick e Natalie Sheehan. Studiavamo perfino le loro fotografie comparse sui giornali negli ultimi mesi: forse sullo sfondo di uno scatto ci poteva essere qualcosa di interessante. Ancor meglio se lo si fosse trovato sullo sfondo di due scatti. Mandai un agente a visitare tutti i sexy shop del Distretto di Columbia. Lui definì l'incarico «peggio che perquisire la fogna». Alle tre e mezzo mi incontrai con Sampson al ristorante del Boston Market, in Pennsylvania Avenue. Era ora di cominciare il secondo lavoro, l'altro caso di omicidio, il caso «sul retro». Era comunque una soluzione, un miglioramento non grande ma significativo rispetto alla frustrazione e alla paranoia in cui ero caduto negli ultimi giorni. «Credo che su una cosa potresti aver ragione, Alex», mi disse Sampson mentre mangiava l'arrosto con puré. «Il killer della Truth School è un dilettante. È disattento, probabilmente è la prima volta che ci prova: ha lasciato impronte dappertutto, anche sulla scena del secondo delitto. La scientifica ha trovato anche qualche capello e qualche filo dei suoi vestiti. A giudicare dalle impronte, è un tipo piccolo, o forse una donna. Se non sta più attento, lo acciuffiamo in fretta.» «Forse è quello che vuole», osservai mordendo il mio panino arricchito da una notevole dose di salsa al pomodoro. «O forse vuole solo farci credere di essere un dilettante. Potrebbe trattarsi di una commedia: Soneji sarebbe tipo da recitarla.» La faccia di Sampson si aprì in un ghigno: era il suo miglior sorriso assassino. «Devi sempre fare doppie e triple supposizioni, eh?» «Naturale, è la mia regola, il marchio di Alex», ribattei, offrendogli il mio sorriso assassino. «Oh, no!» esclamò la Montagna Umana, ammiccando di nuovo. Mi piaceva stare con lui e mi piaceva farlo ridere. «Notizie dal resto della squadra?» chiesi. «Jerome? Rakeem?» «Stanno lavorando tutti, ma senza risultati tangibili. Finora non è emerso niente.» «Occorre sorveglianza al funerale del ragazzo e sulla tomba di Shanelle. Il killer potrebbe dimostrarsi incapace di starne lontano. Capita spesso.» Sampson levò lo sguardo al cielo. «Faremo il possibile, faremo del nostro meglio. Sorveglianza sulla tomba della bambina, merda!» Ci separammo alle quattro meno un quarto. Andai dritto alla Sojourner
Truth School. L'auto della direttrice si trovava nel piccolo posteggio cintato. Mi ricordai che a volte Mrs Johnson lavorava anche dopo la fine delle lezioni. Buon per me: volevo parlarle di Shanelle Green e di Vernon Wheatley. Che rapporto c'era tra la Truth School e il killer? Che rapporto poteva mai esserci? Sapevo che la direzione si trovava nell'edificio annesso alla scuola e m'incamminai da quella parte. La Sojourner Truth School sarebbe stata una scuola molto bella in qualunque zona della città. Fuori, lungo la strada, era cintata da filo spinato, ma l'interno era allegro, festoso, molto luminoso. Passando, lessi un mucchio di cartelli e di manifesti scritti a mano. PRIMA REGOLA DEL BAMBINO: CRESCI DOVE SEI STATO PIANTATO SE VUOI AVERE SUCCESSO. Una palla, però era carino, poteva ispirare i piccoli e perfino me. Quella settimana i corridoi erano pieni di disegni che illustravano gli animali e il loro habitat. Mi colpì l'idea che la scuola stessa fosse un habitat particolare. In circostanze normali, era un bel posto per crescere e imparare. Purtroppo, invece, due bambini della Truth School erano stati uccisi nell'ultima settimana. La cosa mi faceva arrabbiare e mi spaventava più di quanto volessi ammettere. Quand'ero piccolo io, per quanto il Distretto di Columbia godesse già di una pessima fama, i bambini non venivano uccisi a scuola. Adesso invece accadeva di continuo, per un mucchio di motivi. Non solo nelle scuole di Washington, ma anche in quelle di Los Angeles, New York, Chicago e forse perfino di Sioux City. Cosa cazzo stava capitando da un oceano all'altro? La pesante porta di legno degli uffici amministrativi era aperta, ma la segretaria se n'era già andata. Sulla sua scrivania c'era una collezione di bamboline bianche, afroamericane e asiatiche. Un cartello diceva: BARBARA BRECKENRIDGE, SO BALLARE IL TIP-TAP. Mi pareva di fare irruzione, di essere una specie di tipaccio che entrava di soppiatto. A un tratto mi preoccupai per la direttrice che si fermava a scuola fino a tardi, da sola. Poteva entrare chiunque, proprio come avevo fatto io. Una sera sarebbe potuto entrare anche il killer della Truth School. Gli sarebbe stato facile, facilissimo!
Girai l'angolo dell'ufficio principale con l'intenzione di annunciare la mia presenza, poi la vidi e pensai al nome che avevo coniato per lei: Christine. Lavorava a un vecchio scrittoio con l'alzata avvolgibile che pareva avere almeno cento anni. In realtà era persa nel suo lavoro. La osservai per qualche secondo. Portava un paio di occhiali cerchiati d'oro per leggere e canticchiava Shoop Shoop, un motivetto del film Donne. Aveva una voce gradevole. C'era qualcosa di enormemente giusto e perfino di toccante in quella scenetta: l'educatrice consacrata al proprio lavoro. Un sorriso mi sfiorò le labbra. È perfino più dura di te, papà. Nutrivo qualche dubbio: al momento non pareva affatto dura. Appariva però serena e appagata nel suo lavoro. Una persona in pace con se stessa: la invidiavo. Alla fine mi sentii un po' strano a rimanermene lì in piedi sulla soglia senza manifestare la mia presenza. «Salve, sono il detective Alex Cross», dissi. «Buongiorno, Mrs Johnson.» Lei smise di canticchiare e levò la testa con occhi vagamente intimoriti, poi mi sorrise calorosamente. Era molto bello essere oggetto di uno dei suoi sorrisi. «Oh, il detective Cross», esclamò. «Che cosa la porta in direzione?» chiese poi in tono improvvisamente autoritario. «Credo di aver bisogno di un po' d'aiuto per finire i compiti.» Era abbastanza vero. «Dovrei parlarle di Vemon Wheatley, se è possibile. Volevo anche il suo permesso per interrogare di nuovo gli insegnanti, scoprire se qualcuno di loro ha sentito qualcosa dai bambini dopo l'omicidio di Vernon. Qualcuno potrebbe aver visto qualcosa di utile e forse non lo sa. Magari i bambini hanno sentito dire qualcosa a casa.» «Sì, lo pensavo anch'io», ammise Mrs Johnson. «Qualcuno qui a scuola potrebbe essere in possesso di un indizio utile e ignorarlo.» Mi piaceva tutto quello che vedevo di Mrs Johnson, ma decisi di non pensarci. Erano il momento sbagliato, il posto sbagliato e la donna sbagliata. Avevo fatto cose riprovevoli nella mia vita, non sono un angelo, però non intendevo aggiungere alla lista una relazione con una donna sposata. «Temo di non avere grandi novità», disse lei. «Ho svolto un po' di lavoro per conto suo, parlando a colazione con gli insegnanti. Anzi, direi che li ho interrogati. Ho pregato di riferirmi se avessero visto o sentito qualunque
cosa sospetta. Parliamo di tutto: il nostro è un ambiente molto solidale.» «Se c'è ancora qualche insegnante a scuola potrei interrogarlo adesso. Non ne ho la sicurezza, ma sospetto che il killer abbia tenuto d'occhio a lungo la Truth School», spiegai. Non intendevo spaventare né Mrs Johnson né gli altri insegnanti, ma volevo che si comportassero tutti in modo cauto. Ritenevo che il killer avesse girato piuttosto a lungo dalle parti della scuola. Lei scosse lentamente la testa, poi la piegò di lato e parve guardarmi in un modo diverso. «Alle quattro se ne sono andati tutti da un pezzo. Preferiscono uscire in gruppo, si sentono più sicuri.» «Direi che è una cosa sensata, questo non è un gran quartiere. Be', a volte lo è anche.» «Invece stare qui fino alle cinque con tutte le porte aperte non è una cosa sensata», mormorò lei. Era quello che pensavo da quando ero arrivato sulla soglia del suo ufficio. Non ribattei, non feci commenti sulle sue porte aperte. Mrs Johnson era libera di vivere come preferiva. «Grazie per aver parlato con gli insegnanti», dissi. «Per aver perso tempo per noi.» «No, grazie a lei per essere venuto», ribatté Mrs Johnson. «Dev'essere molto dura per lei e per Damon, per tutta la sua famiglia. Lo è per tutti noi a scuola.» Si tolse gli occhiali cerchiati d'oro e li infilò nella tasca del grembiule. Era bella con e senza occhiali. Bella, intelligente, gentile. Off-limits, inavvicinabile, fuori portata, ricordai a me stesso, sentendo quasi fisicamente una bacchetta battermi sulle dita. E, più rapida di quanto avrei creduto possibile, lei estrasse da un cassetto aperto sulla destra della scrivania una 38 Special. Non me la puntò addosso, ma avrebbe potuto benissimo farlo. «Ho vissuto per molti anni in questo quartiere», spiegò, poi sorrise, riponendo la pistola. «Cerco di essere pronta per qualunque eventualità», aggiunse, calma. «E qui intorno ne capitano di ogni tipo. Sapevo che lei era sulla soglia, detective. I bambini dicono che ho un altro paio d'occhi dietro la testa: è vero.» Rise di nuovo. Mi piaceva la sua risata, sarebbe piaciuta a chiunque. Dai la buonasera, Alex. Non sapevo bene cosa pensare dei civili che tenevano una pistola, ma ero certo che la sua fosse registrata e legale. «Ha imparato a usare quel re-
volver nel quartiere?» «Veramente no, ho imparato al Remington Gun Club di Fairfax. Mio marito era, anzi è, preoccupato per il fatto che vengo a lavorare qui. Voi uomini sembrate pensarla tutti allo stesso modo. Oh, mi scusi», fece sorridendo. «Perfino io dico queste cose oltraggiosamente sessiste. Non mi piace. Non si fa proprio. Mi scusi.» Si alzò e chiuse l'alzata della scrivania. «L'accompagno all'uscita», disse. «Tanto per assicurarmi che se ne vada sano e salvo, visto che le quattro sono passate da un pezzo.» «Buona idea», stetti al gioco. Mi aveva comunque strappato un altro sorriso cosa che, date le circostanze degli ultimi giorni, non era male. «È sempre così simpatica e disinvolta?» Lei piegò di nuovo la testa di lato: lo faceva spesso. Poi annuì sicura. «Sempre. Amo l'ironia. Avevo due vocazioni: fare l'attrice comica o l'insegnante. Ovviamente ho scelto la prima: si rideva di più e soprattutto più spesso.» Attraversammo insieme la scuola deserta e i nostri passi riecheggiavano forte. Nella mia testa continuava a risuonare Shoop Shoop, il motivetto che lei stava canticchiando in ufficio. C'erano ancora un mucchio di domande che avrei voluto farle, ma sapevo che, almeno in parte, non avrei dovuto. Non avevano niente a che vedere con il caso. Quando arrivammo all'ingresso della Truth School, ci venne incontro una guardia di mezza età, ben piantata. Mi meravigliai, perché entrando non l'avevo vista. Aveva un pesante manganello di legno e un walkie-talkie. Era un'immagine che conoscevo bene e fin dalla mia infanzia: guardiani, metal detector, finestre schermate da una lastra di metallo. Non c'era da stupirsi che la gente del quartiere odiasse e temesse ogni istituzione, perfino le sue scuole. «Buonanotte», disse il guardiano con un sorriso cordiale. «Stasera torna a casa presto, Mrs Johnson?» «Fra poco», rispose lei. «Tu puoi andare se vuoi, Lionel, sai che sono armata.» Lionel rise. Quella donna sapeva come dire certe cose e aveva un tempismo perfetto. C'era da scommettere che avrebbe saputo affrontare perfino una sparatoria. «Buonanotte, Mrs Johnson», dissi. Poi non potei impedirmi di aggiungere: «Per favore, stia attenta finché il caso non sarà chiuso».
Lei era in piedi sulla soglia del portone di legno con un'aria terribilmente saggia e attraente, secondo il mio modo di vedere le cose. «Mi chiamo Christine», disse, «e starò attenta, promesso. Grazie per essere venuto.» Christine! Era lo stesso nome che le avevo dato io. Probabilmente l'avevo sentito da Damon o da Nana, ma pareva così strano... Sembrava una specie di magia, ecco. Avrebbe fatto la felicità di chi credeva nel paranormale. Quella sera tornai a casa pensando ai due bambini uccisi e a Jack & Jill, ma anche alla direttrice della Sojourner Truth School. Era saggia, simpatica e bella. Sapeva badare a se stessa e perfino usare la pistola. Mrs Johnson. Christine. Shoop. Shoop. Shoop. Shoop. 28 In quest'epoca pericolosa, tutti hanno bisogno di pensare: a me non capiterà mai. Non a me. Quali probabilità ho che capiti veramente a me? L'attore cinematografico Michael Robinson pensò che era assurdo e un po' troppo egocentrico preoccuparsi o lasciarsi spaventare dai maniaci in giro per Washington. Che cosa avevano a che fare con lui le minacce di Jack & Jill? Gli parve chiaro che la risposta era: assolutamente niente. Ma si sentiva comunque agitato e alla fine decise di godersi quel flusso d'adrenalina, il brivido della terribile epoca in cui viviamo. Poco prima di mezzanotte, la star hollywoodiana si fece finalmente coraggio e telefonò a una società che procurava compagnia ai VIP. Solo uno «spuntino» prima di andare a letto. Si era rivolto a quel servizio molte altre volte, mentre si trovava a Washington. Era molto discreto, molto costoso e conosceva bene i suoi gusti: grazie al suo agente a Los Angeles, possedeva un bel dossier su Michael Robinson. Dopo la telefonata, l'attore quarantanovenne provò a leggere l'avventurosa sceneggiatura che aveva commissionato, ma non ci riuscì. Allora si alzò e andò alla finestra dell'appartamento nell'attico del Willard Hotel, in Pennsylvania Avenue. Sapeva che i suoi fan si sarebbero scandalizzati all'idea che lui pagasse per fare l'amore, ma il problema era loro, non suo. La verità era che lo trovava meno complicato, meno pesante psicologicamente: pagare mille, millecinquecento dollari era più semplice che farsi coinvolgere e alla fine ci si separava senza soffrire, proprio come due a-
manti incontrati per strada. Quella sera si sentiva di buonumore, veramente a posto, pensò guardando la strada. Aveva solo bisogno di un po' di compagnia, di un po' di sesso senza complicazioni. Sperava di venire accontentato in fretta. In un certo senso era rimasto identico al ragazzo che, nei primi anni '60, frequentava il liceo a Wichita. Le fantasie e i desideri di allora non si erano realizzati, gli davano la stessa ansia, ma c'era una differenza: quella notte lui sapeva che cosa voleva e l'avrebbe avuta senza cacciarsi nei guai o provare sensi di colpa. Si guardò intorno e decise di mettere un po' d'ordine nella suite prima dell'arrivo dell'ospite. Quell'idea nevrotica lo fece sorridere: era ancora incredibilmente borghese. Non riesco proprio a far sparire il ragazzo del Kansas, pensò Michael Robinson. Poi sentì battere due rapidi colpi alla porta. Ne fu sorpreso. Il servizio gli aveva detto che avrebbe dovuto aspettare un'ora, e di solito passava anche più tempo. «Un attimo», gridò. «Arrivo subito, solo un momento.» Michael Robinson diede un'occhiata all'orologio: era trascorsa mezz'ora dalla telefonata. Be', meglio così: lui era pronto a un rapido incontro e poi a una notte di buon sonno. Il mattino seguente doveva incontrarsi presto a colazione con il presidente del Comitato nazionale del partito democratico. Gli avevano chiesto se sarebbe stato disposto a dare una mano per raccogliere fondi. Anche il presidente del comitato fotteva le star... ma quelle di un altro tipo. Veramente lo facevano tutti. Tutti desideravano quello che credevano di non poter avere e nessuno poteva avere Michael Robinson. Be', quasi nessuno. Andò a sbirciare dallo spioncino. Bene, bene, bene. Quello che vide in corridoio gli piacque. Anche se portava lenti piuttosto spesse, non pareva niente male. Sentì scorrere l'adrenalina. Aprì la porta sfoggiando automaticamente il suo sorriso da quindici milioni di dollari a film. «Ciao, sono Jasper», disse il tipo affascinante. «È bello conoscerti.» Michael Robinson dubitava che si chiamasse Jasper: Jake o Cliff parevano nomi più adatti. Il ragazzo era più vecchio di quello che si era aspettato, doveva avere almeno trent'anni, ma era più che accettabile. Era quasi perfetto, veramente. Michael Robinson ce l'aveva già duro e gli era venuto un mucchio di simpatiche idee. Quando era in quello stato si definiva armato e pericoloso. «Come va stasera?» chiese l'attore sfiorando il braccio dell'uomo. Vole-
va far capire a «Jasper» che lui era un tipo semplice, senza pose e, soprattutto, cordiale. Lo era veramente. USA Today aveva appena pubblicato l'elenco delle star più affabili di Hollywood. C'era anche lui, ancora una volta per le belle parole sul suo conto pronunciate del suo agente e avvocato. Jack sfoggiò il suo miglior sorriso mentre entrava nella suite di Michael Robinson. Si chiuse la porta alle spalle, immaginando di avere una mezz'ora prima dell'arrivo della vera «compagnia». Sarebbe bastata. Jill comunque sorvegliava la hall del Willard, nel caso il ragazzo fosse arrivato in anticipo. L'avrebbe sistemato lei, di sotto. Jill era bravissima nei dettagli, non lasciava nulla al caso. Jill era bravissima e basta. «Sono davvero un tuo ammiratore», annunciò Jack al grande divo del cinema. «Seguo da sempre la tua carriera.» Michael Robinson rispose con una vocetta che avrebbe scioccato tutti gli ammiratori, maschi e femmine, dei suoi film d'azione. «Oh, davvero, Jasper? È sempre così carino sentirselo dire. Sei davvero gentile, sai.» «Lo giuro su Dio, è la verità», continuò a recitare Sam Harrison. «Comunque il mio nome è Jack. Jill è giù nell'atrio. Forse hai sentito parlare di noi.» Jack estrasse una Beretta con silenziatore e la puntò in mezzo agli sbalorditi occhi blu dell'attore. Fece subito fuoco. Stava seguendo il codice di Jack & Jill: solo gente altolocata. Omicidio in stile esecuzione con qualche tocco perverso e poesiola finale. Jack & Jill sono venuti sulla Collina per fare una carneficina. 29 In quegli omicidi c'era un particolare specifico, affascinante, che mi ossessionava, anzi mi faceva impazzire. Ci pensavo svoltando in Pennsylvania Avenue e parcheggiando in doppia fila davanti al Willard Hotel, dove mi aspettava l'ultimo, fulmineo delitto di Jack & Jill. Continuai a pensare a quel dettaglio mentre entravo nell'albergo e salivo verso la suite di Michael Robinson. Ci pensavo ancora mentre il silenzioso ascensore si apriva al settimo piano, dove stazionava una mezza dozzina di uomini in uniforme e il nastro giallo della polizia in corridoio pareva una decorazione natalizia di pessimo gusto.
Non c'era traccia di passionalità nei primi due delitti, pensavo. Soprattutto nel secondo. Erano stati compiuti con efficienza, a sangue freddo. La sistemazione dei corpi delle vittime pareva opera di un attento regista. Il sadismo era... esplicito, quasi sfacciato. Quegli omicidi erano l'esatto opposto dei delitti alla Truth School, violente esplosioni di furia estrema e di pura rabbia. Non ne avevo ancora colto il pieno significato, né ci erano riusciti tutti gli altri con cui ne avevo discusso alla polizia del Distretto di Columbia e agli uffici dell'FBI, a Quantico. Come detective, la mia unica regola sugli omicidi premeditati era che si basavano quasi sempre sull'emotività. Di solito derivavano da un amore estremo, assoluto, da un odio altrettanto violento oppure da una bramosia impossibile da soddisfare... Invece da quei delitti sembrava assente anche la più vaga traccia di emotività. Non facevo che rimuginarci sopra. Perché Michael Robinson? mi chiedevo, incamminandomi verso la stanza in cui era stato ucciso. Cosa stanno combinando questi due psicopatici, qui a Washington? Che gioco crudele e nauseante stanno giocando? Perché vogliono che milioni di spettatori partecipino al loro sport sanguinario? Avvistai subito Kyle Craig e parlai con lui per qualche minuto fuori della suite. Intorno a noi, i poliziotti di Washington, solitamente impassibili, parevano sconvolti. Parecchi di loro erano probabilmente fan di Michael Robinson. «Secondo il medico legale, il cadavere famoso è tale da circa sette ore, quindi dev'essere successo intorno alla mezzanotte», m'informò rapido Kyle. «Due colpi di pistola alla testa, Alex. Da distanza ravvicinata, come con gli altri. Dai un'occhiata al foro d'entrata del proiettile: chiunque sia stato è un vero bastardo senza cuore.» Ero d'accordo con lui. Senza cuore. Senza emozione. Senza rabbia. «Chi l'ha trovato?» «Oh, anche questa è bella, Alex! Un nuovo risvolto: hanno telefonato loro al Post, dicendo dove passare a raccogliere la spazzatura stamattina.» «Hanno detto così?» «Ignoro se sia la frase esatta, ma l'espressione 'raccogliere la spazzatura' c'era», rispose Kyle.
Ero incuriosito dall'irriverenza e dal cinismo dimostrati da Jack & Jill nella descrizione dei delitti. Era chiaro che si sentivano due grandi interpreti, due artisti. Mi chiedevo anche se in quel momento ci stessero tenendo di nuovo d'occhio da Pennsylvania Avenue, se ci stessero filmando mentre entravamo e uscivamo dal Willard, se stessero preparando un secondo documentario da diffondere su scala nazionale. Naturalmente in strada era stato predisposto un cordone di sorveglianza; se ci fossero stati, li avremmo sicuramente presi. Entrai nel salotto della suite e tirai un sospiro di sollievo, perché Pittman era assente. C'era però l'attore cinematografico Michael Robinson e, come si dice, pareva nato per il ruolo che stava interpretando... forse il più incisivo della sua vita. Il suo corpo nudo era stato messo a sedere sul pavimento, con la testa appoggiata al divano; da quella posizione sembrava osservare tutti quelli che entravano nella stanza: forse era proprio stata quella l'idea dei killer. I suoi occhi mi fissavano. Per vedere o per essere visto? mi domandai. Non era una bella scena. Presi nota dei suoi lividi. Il sangue si era già raccolto negli arti inferiori del corpo, che avevano un colore rossastro. Un altro personaggio famoso era stato esposto, riportato sulla terra. Punito per qualche peccato reale o immaginario? Che rapporto aveva con Fitzpatrick e la Sheehan? Come mai un senatore, una giornalista e un attore? Tre omicidi in così pochi giorni. La gente famosa dovrebbe essere la più sicura e protetta da simili eventi. Ci pensavo, guardando Michael Robinson morto e violentato. C'era qualcosa di viscerale, che attaccava il sistema, in quei crimini. Qual era lo strano e complesso messaggio di Jack & Jill? Che nessuno poteva più ritenersi al sicuro? Rimuginai su questo singolare pensiero. Era un buon punto d'inizio, un concetto su cui lavorare. Nessuno era più al sicuro? Jack & Jill ci stavano dicendo che potevano colpire chiunque, in qualunque momento. Sapevano come entrare. Nella suite c'era un altro biglietto, un'altra poesia di Jack & Jill. L'avevano lasciato sul comodino. Jack & Jill sono venuti sulla Collina con un compito mortale. Non sbagliavano molto nel giudicare quanto a lungo sanguina
un sanguinario liberale. Nella stanza c'era l'agente di Michael Robinson, arrivato da New York. Era un bell'uomo dai capelli biondo argentei, con un lungo soprabito di cachemire sul completo di Armani. Notai che aveva gli occhi rossi e gonfi: doveva aver pianto. Due medici legali stavano lavorando sul cadavere dell'attore, cui era evidentemente dovuto il doppio delle normali attenzioni. Solo il meglio per Michael Robinson. Le analogie con i delitti Fitzpatrick e Sheehan erano evidenti: l'aspetto perverso, la modalità che ricordava quella di un'esecuzione... Ma forse l'elemento più importante era la classificazione politica: non erano stati tutti e tre «sanguinali liberali»? Ed erano stati tutti esposti per quel motivo. «Dottor Alex Cross? Mi scusi, è lei il dottor Cross, vero?» Mi voltai verso l'uomo alto e dinoccolato che aveva pronunciato il mio nome. Aveva un portamento perfetto, quasi da militare. Doveva essere sulla quarantina. Indossava un impermeabile nero su un vestito grigio scuro, un look dimesso. Immaginai fosse un agente di qualche servizio. «Sì, sono io», risposi. «Sono Jay Grayer dei servizi segreti», si presentò formalmente lui. Si teneva eretto in modo insolito, eccessivo. Era troppo sicuro di sé oppure possedeva un suo inattaccabile codice morale, un'etica adamantina? «Mi occupo della First Family:» «Cosa posso fare per lei?» domandai. L'allarme aveva già cominciato a risuonare nella mia testa. Temevo di aver capito perché mi era stato assegnato il caso Jack & Jill. E chi me l'aveva assegnato. «Deve venire alla Casa Bianca», mi disse. «Temo sia un ordine, dottor Cross. Si tratta delle indagini su Jack & Jill, c'è un problema di cui dobbiamo metterla a parte.» «Scommetto che si tratta di un problema grosso», osservai. «Sì, temo di sì, dottor Cross. Abbiamo cose gravi da comunicarle.» Lo sospettavo da un pezzo, ma fino ad allora era stato solo un quieto timore. Adesso ce l'avevo davanti. Venivo convocato alla Casa Bianca. Volevano lo sbranamostri. Capivano che cosa significava? 30 A quanto pare, l'unica cosa che abbiamo tutti in comune a Washington
di questi tempi è un mare di problemi. Non potevo certo discutere un simile ordine, dunque, com'era mio dovere, seguii Jay Grayer lungo Pennsylvania Avenue, fino al numero 1600. Domandati che cosa puoi fare per il tuo Paese, aveva detto John F. Kennedy. La Casa Bianca si trovava a un passo dal Willard Hotel e, nonostante le misere prestazioni di alcuni dei suoi recenti occupanti, continuava ad affascinare un mucchio di gente, me compreso. C'ero stato solo due volte per accompagnare i bambini in visite guidate, ma perfino in quei casi mi ero emozionato moltissimo. Mi scoprii quasi a desiderare che Damon e Jannie fossero con me. Passammo rapidi davanti alla guardiola dal tettuccio blu lungo la West Executive Drive. L'agente Grayer aveva il permesso di parcheggiare nel garage sotterraneo della Casa Bianca e ne pareva quietamente orgoglioso. Mi spiegò che il garage era ancora considerato il primo rifugio cui dirigersi in caso di bombardamento, ma anche una via di fuga in caso di attacco. «Buono a sapersi», osservai sorridendo. Grayer sorrise a sua volta sebbene in modo un po' forzato. Se non altro cercavamo entrambi di essere cordiali. «Sono certo che sarà curioso di scoprire perché le hanno chiesto di venire. Io lo sarei.» «Non credo di essere stato invitato a prendere il tè», risposi seccamente. «Ma devo ammettere di essere molto curioso.» «È per via dei casi Soneji e Casanova», spiegò Grayer mentre prendevamo l'ascensore. «La sua reputazione l'ha preceduta. Come saprà, l'FBI non è mai riuscita, nonostante tutta la sua esperienza, a catturare un solo serial killer. La vogliamo nella nostra squadra.» «Di che squadra si tratta?» «Lo capirà fra pochi istanti, ma si tratta sicuramente di una squadra di serie A. Sia pronto a sentirne di tutti i colori. L'FBI piantona la camera d'albergo in cui stava John Hinckley, nel caso i killer decidessero di farci un salto. Sa, qualcosa del tipo: rendiamo omaggio a chi ha tentato di far fuori Reagan.» «Non è un'idea tanto malvagia», dissi. Lui mi guardò come se fossi stato pazzo a mia volta. «E nemmeno tanto buona», aggiunsi. Lui ammiccò. Una mezza dozzina di uomini e donne era riunita nell'ufficio del capo della sicurezza nell'ala ovest. Entrando, avvertii una notevole tensione, anche se tutti si sforzavano di mascherarla. Venni presentato come rappre-
sentante della polizia di Washington. Benvenuto nella nostra squadra, i nostri omaggi allo sbranamostri. Si presentarono tutti cordialmente: altri due agenti dei servizi segreti, una donna di nome Ann Roper e un bel giovane di nome Michael Fescoe; il direttore dell'FBI, Robert Hatfield; il generale dell'esercito Aiden Cornwall; il consigliere per la sicurezza nazionale Michael Kane e il capo dello staff della Casa Bianca, Don Hamerman. L'altra donna presente risultò essere l'ispettore generale della CIA: si chiamava Jeanne Sterling. La sua presenza significava che nel caso Jack & Jill veniva preso in considerazione anche l'intervento di una potenza straniera: non ci avevo pensato fino a quel momento. Era una compagnia notevole per un semplice detective della omicidi del quartiere sud-est, anche per un vicecapo; tuttavia immaginavo di essere anch'io... «notevole» per loro. Ero stato testimone di cose orribili, cui nessuno di loro avrebbe mai voluto assistere. Bene, scambiamoci le nostre esperienze. Per quella inusuale prima colazione erano state preparate tartine, rotolini di burro e caffettiere d'argento. Era evidente che alcuni dei presenti avevano già lavorato insieme. Sapevo da un pezzo che quando non capisci chi è il pollo a un tavolo da poker, probabilmente il pollo sei tu. Il consigliere per la sicurezza nazionale aprì la riunione un minuto dopo le dieci. Don Hamerman era un puntiglioso biondo sulla trentina, teso come un violino, che corrispondeva benissimo all'immagine dell'agente addetto alla Casa Bianca: giovane ed efficiente. Pronto, attento, vai. «Farò ricorso alla lavagna luminosa per presentare il caso... qui nella Grande Casa usiamo così», annunciò con un sorrisetto nervoso. Era carico di un'energia sconcertante: mi ricordava certi iperattivi addetti alle PR, ma anche l'agente di Michael Robinson, quello che avevo visto al Willard. Da quell'esordio, intuii che le riunioni alla Casa Bianca avessero sempre un tono formale e burocratico. La battutina di Hamerman, comunque, pareva aver divertito tutti. In realtà quella cordialità forzata mi disturbava. Avevo ancora davanti agli occhi la maschera di morte di Michael Robinson e non era un'immagine che mi piaceva portare dentro le mura della Casa Bianca. Il cadavere nudo di Michael Robinson si trovava probabilmente ancora al Willard Hotel, pronto per essere chiuso in una custodia di plastica nera. «Per esaminare il materiale che abbiamo a disposizione ci vorrà circa un'ora...» continuò Hamerman. «Se ne aggiungiamo un'altra per la discus-
sione arriveremmo circa a mezzogiorno, ma ritengo che le disgraziate circostanze in cui ci troviamo c'impongano di essere concisi.» Quali disgraziate circostanze, esattamente? avrei voluto chiedere, ma rimasi zitto. Non era il caso d'interromperlo. Il tavolo da lavoro era già stato coperto di tazze da caffè e pacchetti di sigarette, pronto a un lungo assedio. Immaginai che così si usasse nella Grande Casa. Hamerman mise il primo lucido sulla lavagna luminosa e tutti leggemmo: INDAGINE SU JACK & JILL. Fin lì niente da dire. «Come sapete, nell'ultima settimana abbiamo avuto tre brutali omicidi di personaggi famosi, qui a Washington. L'ultimo è stato quello dell'attore Michael Robinson ieri notte al Willard. Gli assassini si fanno chiamare Jack & Jill e lasciano biglietti in versi sulla scena del delitto. Si divertono a giocare con i media e paiono godersi parecchio le luci della ribalta. «Sembrano anche a conoscenza di quello che facciamo noi: sono riusciti a commettere tre delitti di quella portata senza lasciarci un solo indizio. Hanno tutta l'aria di serial killer di altissimo livello. Mi pare di capire che la cosa sia discutibile, ma è una delle teorie. «Ma eccovi la prima chicca», proseguì Hamerman, arcuando le sottili sopracciglia bionde. «Quello che alcuni di voi non sanno è che 'Jack & Jill' è anche il nome in codice scelto dai servizi segreti per indicare il presidente e sua moglie. Lo usiamo da quando è salito in carica e non riusciamo a digerire l'idea che si tratti di una semplice coincidenza.» La bionda della CIA si accese una sigaretta. Rammentai il suo nome: Jeanne Sterling. Soffiò una nuvoletta di fumo, borbottando «merda». La pensavo esattamente allo stesso modo. Era la notizia peggiore che avessi avuto fino a quel momento. Inoltre non mi andava giù il fatto di esserne stato tenuto all'oscuro. «Secondo noi esiste una concreta possibilità che venga compiuto un attentato contro il presidente o la first lady. Magari contro entrambi», disse Hamerman. Erano parole raggelanti. Lanciai un'occhiata alle facce intorno al tavolo: definirle preoccupate sarebbe stato un eufemismo. «Abbiamo preso e stiamo prendendo ogni possibile precauzione. Per il momento limiteremo al massimo le uscite del presidente dalla Casa Bianca. Lui e la first lady sono stati messi al corrente della situazione e l'hanno presa bene: sono molto forti e intelligenti. Non cederanno al panico, posso
garantirvelo. Mi assumerò personalmente l'incarico di controllare il panico. «Lasciate che v'illustri alcuni fatti che non sappiamo sui cosiddetti 'cacciatori di celebrità' Jack & Jill. La dura verità è che, sebbene migliaia di investigatori stiano lavorando al caso, i risultati sono scarsi. Il prossimo attacco di Jack & Jill potrebbe essere diretto alla Casa Bianca e noi non abbiamo la minima idea del motivo che muove i due, né di chi siano, né di chi agisca alle loro spalle.» Don Hamerman scrutò le facce intorno al tavolo. Era molto teso. L'altro aggettivo per descriverlo, l'unico che mi venne in mente, avrebbe potuto essere arrogante. «Per favore, sentitevi liberi di correggere qualunque mia affermazione, nonché di aggiungere qualunque informazione aggiornata di cui siate in possesso», disse, piegando sardonico le labbra. Si udì qualche sospiro, ma nessuno aprì bocca. Nessuno pareva saperne più di me. Nessuno aveva fino a quel momento un indizio utile. Era la cosa più spaventosa. Esisteva la possibilità che il presidente e la first lady fossero gli obiettivi finali di Jack & Jill... o forse nemmeno gli obiettivi finali... Jack & Jill sono venuti sulla Collina. A far che, in nome di Dio? A spazzare via tutti i sanguinari liberali? A punire i peccatori? Nella loro mente era un peccatore anche il presidente? «Jay, vuoi dire qualcosa?» chiese Hamerman all'agente Grayer. Grayer annuì, alzandosi in piedi e appoggiandosi con le mani al tavolo. Era impallidito. «La situazione è gravissima», affermò. «Si tratta di un pericolo reale, credetemi. È l'evento più spaventoso che abbia mai visto accadere alla Casa Bianca. Sapete, sono stato il primo a entrare nell'appartamento del senatore Fitzpatrick dopo l'omicidio, da solo, alle sei del mattino. Sono stato io a chiamare la polizia... E lo stesso è accaduto nel caso della Sheehan e di Michael Robinson. Ogni volta, Jack & Jill hanno chiamato subito i servizi segreti. Si sono messi in contatto direttamente con noi, qui alla Casa Bianca. Ci hanno detto che... stanno facendo pratica per il colpo grosso.» 31 Venerdì notte Jack & Jill presero una costosa suite al Four Seasons Hotel, uno degli alberghi migliori di Washington. Non avevano comunque l'intenzione di uccidere nessuno in quel residence esclusivo. In realtà i
killer si stavano prendendo un week-end di vacanza, mentre tutta Washington, e soprattutto i cervelloni della polizia, impazziva a cercarli. Che piacere favoloso era quel week-end, che idea fantastica! La suite da seicento dollari a notte si affacciava su un angolo di Georgetown e loro non ne uscirono nemmeno per un istante. Il venerdì sera arrivò una massaggiatrice per una doppia sessione di shiatsu e il sabato mattina Sara chiamò il visagista e la manicure. Il sabato sera giunse uno chef personale e preparò la cena nel loro appartamento. Sam aveva fatto consegnare quattro dozzine di rose bianche prima del loro arrivo. Era il paradiso ritrovato: sentivano di meritarlo dopo tutto quello che avevano fatto. «È incredibilmente decadente. È una favola postmoderna, davvero scorretta dal punto di vista sociale», osservò Sara sabato notte, mentre se la spassavano a letto. «Me ne sto godendo ogni istante.» «E anche ogni centimetro?» mormorò Sam. Solo lui poteva fare una domanda così volgare senza tuttavia risultare scurrile. Sara arrossì, il calore che si diffondeva nel suo corpo. Gli lanciò un'occhiata intensa e indagatrice. «Sì, devo ammetterlo.» Sam era dentro di lei, la stava penetrando lentamente, con delicatezza. Sara si chiedeva se l'amasse veramente. Lo desiderava con tutto il proprio essere, ma non ci credeva, non poteva crederci. In fondo lei era Sara la zoppa, Sara la sgobbona, Sara la noiosa. Come poteva essersi innamorato di lei? Eppure a volte aveva la sensazione che lo fosse. Fa anche questo parte del gioco? si chiedeva. Gli passò le dita sul petto, giocherellando con i peli ricci che lo ricoprivano. Lo toccò ovunque: sul bel viso, sviila gola, sullo stomaco, sulle natiche, sui testicoli ballonzolanti che parevano grossi come quelli di un toro. Si arcuò verso di lui, desiderando stargli più vicina possibile, desiderando ogni centimetro della sua pelle, volendo tutto di lui. Perfino il suo vero nome, quello che non le avrebbe mai rivelato. «Ci siamo guadagnati questo week-end», disse Sam. «È anche necessario, Sara. Sapere quando riposarsi fa parte della guerra, ne è un aspetto importante. D'ora in poi il gioco di Jack & Jill si farà sempre più duro, sarà tutto in salita.» Sara lo guardò e non poté impedirsi di sorridere. Dio, come le piaceva stare con lui! Sotto di lui, sopra di lui, al suo fianco. Le piaceva quando la toccava, a volte in modo brutale, altre volte in modo incredibilmente dolce. Le piaceva veramente ogni centimetro di lui. Non si era mai sentita così in vita sua e non aveva mai immaginato che
le sarebbe successo. Anzi, sarebbe stata pronta a scommettere sul contrario. In un certo senso, aveva messo in gioco tutta la sua vita. Per la causa, certo, ma anche per Sam, per quei momenti. Sam sapeva essere così romantico... Ed era una cosa talmente inaspettata da parte del Soldato, di qualunque uomo avesse conosciuto in vita sua! La suite al Four Seasons era stata una sua idea, solo perché lei una volta - una soltanto - aveva accennato al fatto che quello era il suo albergo preferito a Washington. «Senti», gli bisbigliò mentre facevano l'amore, «vuoi sapere qual è il mio albergo preferito al mondo?» Lui decise di stare al gioco: ormai conosceva bene il suo senso dell'umorismo e la sua ironia distorta. Sgranò gli occhioni azzurri e sorrise nel suo modo timido e disarmante, mostrando i denti candidi. Lei pensò che era molto più bello di Michael Robinson. Sam era un vero eroe, era il Soldato. Sam lottava veramente per la sopravvivenza, si batteva nella guerra più importante del secolo. Ci credevano entrambi. «Per favore, non dirmelo», rispose ridendo lui. «Non osare dirmi qual è il tuo albergo preferito al mondo. Altrimenti prima o poi dovrei portartici. Non farlo, Sara!» «L'Hotel Cipriani, a Venezia», disse lei con un sorriso. Non c'era mai stata, ma aveva letto tutto sul Cipriani. Aveva letto tutto su tutto, ma provato così poco! Sara il topo di biblioteca senza speranza, Sara la bibliofilia, Sara la nullità. Be', ora non più. Adesso viveva come quasi nessuno aveva mai vissuto. Sara la zoppa viveva! «D'accordo, allora. Quando sarà tutto finito - e ti garantisco che finirà andremo in vacanza a Venezia, te lo prometto. Vada per il Cipriani.» «E il brunch domenicale al Danieli», gli bisbigliò lei. «Promesso?» «Certo, dove altro se non al Danieli? Garantito, non appena sarà finita.» «Sarà sempre più dura, vero?» chiese lei, stringendolo più forte tra le braccia. «Temo di sì, ma non stanotte, Jill. Non stanotte, amore mio. Non roviniamo questa notte pensando troppo al domani. Non trasformare un weekend di sogno in un orrido lunedì.» Naturalmente Sam aveva ragione. Era anche saggio. Riprese a muoversi sopra di lei, era come un fiume in piena. Era un amante bello e generoso, sapeva essere scolaro e maestro, sapeva dare e prendere a letto. Ma, soprattutto, Sam sapeva distrarla da se stessa. Dio, ne aveva un tale bisogno da sempre... Uscire da se stessa, non essere più Sara la zoppa, mai più. Se lo
ripromise. Poi Sara strinse forte le labbra. Per il piacere o per il dolore? Non lo sapeva. Chiuse gli occhi, ma li riaprì subito: voleva guardare. Lui si era fermato un attimo mentre usciva da lei. «Dunque non sei mai stata al Cipriani, musetto di scimmia?» chiese. Non era neppure arrossito. Senza sforzo, si reggeva sulle braccia e la guardava dall'alto. Aveva un fisico bellissimo, agile e forte, solido come una roccia. Anche Sara era in forma, però Sam era superbo. La chiamava «musetto di scimmia», come nel Sospetto di Hitchcock. In realtà non era un gran film, ma aveva colpito il loro punto debole. Da quando l'avevano visto, lei era diventata il personaggio interpretato da Joan Fontaine, Lena. E lui era suo marito Johnny, interpretato da Cary Grant. E Johnny chiamava Lena «musetto di scimmia». Alla fine del film, Lena e Johnny si allontanavano in macchina sullo sfondo di un tramonto in Riviera, e s'intuiva che sarebbero vissuti per sempre felici e contenti. Il film di Hitchcock tratteggiava un gioco elegante, intelligente e misterioso, proprio come il loro. Il loro gioco, la partita più raffinata che due persone avessero mai giocato. Ci allontaneremo anche noi nel tramonto dopo tutto questo? si chiedeva Sara Rosen. Oh, credo di no, non penso che lo faremo. E allora cosa sarà di noi? Cosa ci accadrà? Cosa diventeranno Jack & Jill? «Sono stata da Cipriani solo in sogno», confessò in un bisbiglio. «Soltanto nei miei sogni, è vero, ma ci sono stata tante, tante volte.» «E sei convinta che tutto questo sia un sogno, musetto di scimmia?» indagò Sam, facendosi per un attimo serio. Lei pensò com'era prezioso quell'istante, prezioso e fugace. Per tutta la vita aveva coltivato il desiderio di un amore veramente romantico. «Credo che sia un sogno, sì. Comunque è come un sogno. Ma per favore non svegliarmi, Sam.» «Non è un sogno», bisbigliò lui. «Ti amo. Sei la donna più adorabile che abbia mai conosciuto. Davvero, Sara. Mi sembra di stare ogni giorno da Cipriani con te. Per favore credimi, musetto di scimmia. Credi in noi due. Io ci credo.» Fece scivolare le mani sotto le natiche di lei e l'attirò a sé. Sara sentì il suo respiro profumato, l'odore della sua colonia, il suo odore. Lui riprese a muoversi e a lei parve di sciogliersi, di diventare un'incontenibile forza liquida. Lo amava... lo amava, lo amava, lo amava. Lo acca-
rezzò ovunque, possessiva. Non aveva mai avuto niente del genere in vita sua, niente che nemmeno gli assomigliasse. Si lasciò andare su e giù sul suo sesso possente, sulla sua forza, sulla sua perfetta virilità. Non poteva più fermarsi e non lo voleva. Soffocava nella propria passione. Si udì urlare e quasi non riconobbe la propria voce. Era unita a lui da quel semplice ritmo che si faceva sempre più incalzante, mentre si avvicinavano a diventare un unico essere... Jack & Jill, Jack & Jill, Jack & Jill, Jack & Jill! 32 La bella fiaba terminò con un pacato e quasi straziante tud, mentre Sara ricadeva di nuovo sulla terra, rotolando nella potente ondata che la trascinava. Lunedì mattina significava il ritorno all'arido mondo del lavoro, alla vita reale. Sara Rosen aveva avuto «normali» impieghi noiosi a Washington per quattordici anni, da quando si era laureata nel suo college in Virginia. L'aspettava un'altra giornata di lavoro, un lavoro perfetto per i loro scopi, il più arido e vuoto dei lavori. Quel mattino si alzò presto. Lei e Sam si erano separati la domenica notte al Four Seasons. Le mancava già: le mancavano il suo animo, le sue mani, tutto di lui. Ogni centimetro. Si era persa in quella riflessione. Centimetri, millimetri, l'essenza di Sam, la sua tremenda forza interiore. Lanciò un'occhiata al quadrante luminoso della sveglia sul comodino e gemette forte. Un quarto alle cinque: accidenti, era già in ritardo. Nella sua stanza da bagno c'era un materassino di pelle, destinato allo yoga, ma non ne aveva il tempo, anche se il corpo e la mente agognavano il rilassamento che derivava da quella disciplina. Fece una rapida doccia, lavandosi i capelli con il suo shampoo Salon Selectives. Poi indossò un completo di Brooks Brothers e l'orologio Raymond Weil dal cinturino di pelle. Quel mattino doveva apparire sveglia e fresca. Era comunque così che finiva sempre per apparire: Sara inamidata di fresco. Si precipitò fuori, dove un taxi l'aspettava già sotto il portone, esalando la sua coda di fumo di scappamento. Il vento batteva tutta K Street.
Alle cinque e venti, il taxi si fermò davanti al suo posto di lavoro e l'autista osservò sorridendo: «È un indirizzo famoso, signora. È famosa anche lei?» Sara pagò e ritirò il resto del biglietto da cinque dollari. «Forse un giorno potrei diventarlo», rispose. «Non si sa mai.» «Già, magari un giorno diventerò qualcuno anch'io», ribatté l'autista con un sorriso stiracchiato. «Non si sa mai.» Sara Rosen scese dal taxi e sentì sulla faccia il vento decembrino. L'antico edificio davanti a lei era stranamente bello e imponente nella luce dell'alba: pareva brillare dall'interno. Mostrò il suo documento d'identità alla guardia, che la lasciò passare. Scambiò perfino una risatina con l'uomo in divisa, che l'aveva chiamata «drogata-da-lavoro». Perché no? Sara Rosen lavorava alla Casa Bianca da nove anni. PARTE TERZA IL FOTOREPORTER 33 Il fotoreporter era l'ultima tessera del complesso puzzle, l'ultimo protagonista. L'8 dicembre doveva svolgere un compito a San Francisco. In effetti doveva cominciare la sua partita a San Francisco o, piuttosto, occuparsi dei dettagli marginali del gioco. Kevin Hawkins sedeva in una poltroncina di plastica grigia davanti al cancello d'imbarco numero 31, giocando soddisfatto a scacchi contro se stesso sul PowerBook. Vinceva, perdeva, gli andava bene comunque. A Hawkins piaceva giocare, piacevano gli scacchi e si riteneva forse uno dei migliori giocatori al mondo. Era così da quand'era ragazzo a Hudson, New York: un tipo solitario, brillante ma poco impegnato. Alle undici meno un quarto si alzò per avviarsi a un altro genere di partita, quella che gli piaceva di più: si trovava a San Francisco per compiere una strage. Attraversando l'aeroporto gremito, Kevin Hawkins non fece che scattare una foto dopo l'altra... mentalmente. Il fotoreporter, che aveva vinto premi prestigiosi, quel giorno vestiva in modo casual come al solito: jeans e T-shirt neri, le braccia coperte dai braccialetti etnici acquistati nei suoi numerosi viaggi nello Zambia, un orecchino con diamante, la Leica appesa al collo con una cinghia di pelle
decorata da incisioni. Il fotoreporter entrò in un bagno affollato del corridoio C e osservò la fila d'uomini in piedi davanti agli orinatoi. Maiali, pensò. Sono come bufali o buoi, anche se si tengono ritti sulle zampe posteriori. Il suo occhio inquadrò l'immagine e scattò. Il popolo in riga: tutti pronti per l'ultima partita di campionato. Quella scena gli ricordò il furbo borsaiolo che aveva visto operare una volta a Bangkok. Il ladruncolo aveva studiato con attenzione la natura umana e sfilava portafogli ai signori intenti a orinare e quindi riluttanti o impossibilitati a inseguirlo. Ricordava quell'immagine comica ogni volta che entrava nel bagno di un aeroporto. Infatti dimenticava raramente uno scatto: la sua niente era come un archivio ben ordinato, in grado di rivaleggiare con quello della Kodak a Rochester. Scrutò il proprio viso pallido e sconvolto in uno specchio appannato, trovandolo del tutto anonimo. Gli occhi azzurro pallido parevano così stanchi che guardarli lo deprimeva. Emise un involontario sospiro. Lo specchio non gli fece venire in mente altre immagini. Non aveva mai scattato una foto a se stesso, non l'avrebbe mai fatto. Si mise a tossire, senza riuscire a smettere, e alla fine sputò un viscido malloppo giallastro. La sua vera anima, pensò, la sua anima che emergeva lentamente. Kevin Hawkins aveva solo quarantatré anni, ma se ne sentiva cento. La sua vita era stata troppo dura, soprattutto negli ultimi quattordici anni. Aveva vissuto in modo troppo intenso, spesso esagerato e talvolta assurdo. Si era bruciato, pensava spesso, sotto ogni punto di vista. Aveva giocato la partita della vita e della morte troppo duramente, con troppo impegno e troppo spesso. Riprese a tossire e si mise in bocca una Halls, poi controllò l'ora sul suo Seiko Kinetic. Si passò rapido le dita nei radi capelli biondo-grigiastri e uscì dal bagno. Percorse con calma il corridoio affollato del piano in cui avrebbe avuto luogo la strage. Era quasi l'ora e lui sentiva un simpatico ronzio, mentre canticchiava un vecchio motivo assolutamente ridicolo, intitolato Rock in the Casbah. Si tirava dietro una valigia scura montata su rotelle, di tipo molto popolare, che lo rendeva simile a un qualunque turista, a un assoluto nessuno. Le cifre rosse su fondo nero dell'orologio digitale dell'aeroporto indica-
vano le 11.40. Un jet della Northwest Airlines proveniente da Tokyo era atterrato da pochi minuti, mentre lui arrivava con tempismo perfetto davanti al cancello 41. C'è chi sa come si vola, non era quello lo slogan della Northwest? Gli dèi gli sorridevano e anche Kevin Hawkins si mise a sfoggiare un sorrisetto cupo. Anche agli dèi piaceva giocare. Il loro gioco era veramente quello della vita e della morte. Sentì una certa rumorosa agitazione provenire dal corridoio B, ma continuò a camminare diritto, fino a superare l'intersezione fra i due ampi corridoi. Fu allora che scorse la falange delle guardie del corpo e di addetti al ricevimento dell'ospite. Scattò mentalmente una foto. Poi scorse Mr Tanaka della Nipray Corporation e archiviò un'altra immagine. L'adrenalina gli scorreva nelle vene come la lava del vulcano Kilauea alle Hawaii, dov'era stato una volta per Newsweek. Niente batteva l'adrenalina. Ormai era un vero drogato da adrenalina. Ormai ogni momento era quello giusto. Ancora un secondo. Un nanosecondo, che lui sapeva stare a un secondo come un secondo a trent'anni. Non c'era nessuna X a segnare il punto giusto sul pavimento del terminal, ma Kevin Hawkins lo conosceva. Aveva visualizzato tutto, ogni angolo brillava vivido nella sua mente. Tutti i punti d'intersezione gli erano chiari. Ancora un secondo per il gioco della vita e della morte. Avrebbe potuto benissimo esserci una grossa X nera dipinta sul pavimento dell'aeroporto. Kevin Hawkins si sentiva un dio. Eccoci, la macchina è carica e pronta. Punta e scattai Qualcuno sta per morire. 34 Quando l'entourage dell'uomo d'affari giapponese si trovava a soli tre o quattro metri dall'incrocio fra i corridoi, la piccola bomba esplose, riempiendo di una nube di fumo nero il corridoio A. Le urla forarono l'aria come sirene d'ambulanza. La bomba era stata collocata all'interno di un'anonima valigia blu, lascia-
ta accanto al chiosco dei giornali. Kevin Hawkins aveva posato l'innocente valigia proprio sotto il cartello che avvisava i viaggiatori di tenere sempre d'occhio il bagaglio. L'assordante esplosione e il caos che ne seguì colsero di sorpresa le guardie del corpo di Mr Tanaka, che presero ad agire in modo esitante e quindi prevedibile. Perfino i migliori agenti di sicurezza, quando vengono costretti a improvvisare, si smarriscono. Viaggiatori e personale dell'aeroporto urlavano, cercando un inesistente riparo. Uomini, donne e bambini si gettarono a terra, premendo il viso sul marmo gelido. La gente non conosce veramente il panico finché non lo vive di persona in un grosso aeroporto, dove i timori più atavici sono già pronti a manifestarsi. Due guardie del corpo si gettarono a coprire il presidente della Nipray Corporation con una certa professionalità, notò Hawkins. Scattò mentalmente un'altra foto e la ripose in archivio per qualunque necessità futura. Era un ottimo servizio, validissimo: la reazione dei migliori agenti di sicurezza durante un vero attacco. Poi le efficienti, e poco intuitive, guardie del corpo si riscossero, cercando di allontanare precipitosamente il loro «protetto» dal pericolo, dalla minaccia fisica, ma evidentemente non potevano entrare nel corridoio pieno di fumo e devastato dall'esplosione. Così decisero di tornare indietro: era la loro unica possibilità. E Kevin Hawkins lo sapeva. Spinsero Mr Tanaka neanche fosse un enorme e goffo bambolotto... e, in effetti, quello era un modo adeguato per descriverlo. Praticamente trasportarono di peso l'importante uomo d'affari, prendendolo sotto le ascelle e sollevandolo da terra. Altro scatto mentale: costosi mocassini neri che volano sul pavimento di marmo. Gli esperti agenti avevano un unico scopo: portar fuori la «persona protetta». Il fotoreporter li lasciò avanzare di una decina di metri prima di premere il detonatore nel borsone degli obiettivi che portava in spalla. Facile. I piani migliori si basavano su un semplice pulsante. Come il pulsante di una macchina fotografica, una macchinetta adatta a un bambino. Una seconda valigia, che aveva lasciato lungo il corridoio vicino all'uscita dai servizi maschili, esplose con un fragore doppio a quello della prima, causando ben più del doppio di danni. Fu come se un missile invisibile fosse stato teleguidato direttamente al centro dell'aeroporto.
Il fotoreporter si trovò intrappolato nella ressa di uomini e donne che cercava un'uscita dal terminal; era un'anonima faccia terrorizzata nella marea umana. Aveva veramente un'aria terrorizzata. Conosceva più di chiunque altro l'aspetto della paura, l'aveva letto su troppi visi. Aveva visto spesso l'orribile volto del terrore e ne aveva udito le urla silenziose nei suoi sogni. Trattenne un cupo sorriso di soddisfazione mentre svoltava nel corridoio D, diretto verso il proprio aereo. Quella sera doveva recarsi a Washington, e sperava che il ritardo causato dalla strage non sarebbe stato eccessivo. Assumere quel rischio era stato in realtà necessario: l'ultima prova, la prova generale prima dello spettacolo. Ormai l'attendevano cose ben più importanti. Un grosso lavoro lo aspettava nel Distretto di Columbia. Il nome in codice era facile da ricordare. Jack & Jill. 35 «Sui diciotto acri di terreno intorno alla Casa Bianca sorgono una sala cinematografica, una palestra, le cantine, una sala da bowling, una serra e un campo da golf dal lato sud. Attualmente il Distretto di Columbia valuta la casa e il terreno trecentoquaranta milioni di dollari.» Avrei potuto tenere io stesso questo discorsetto. Mostrai il mio pass, poi scesi nel garage sotterraneo della Casa Bianca. Entrando, avevo notato qualche ritocco all'edificio principale e al parco, tuttavia a me pareva che la Casa Bianca andasse benissimo com'era. La mia testa invece non andava affatto bene. Era disordinata, piena di pensieri caòtici. Avevo dormito solo un paio d'ore quella notte, ma a quanto pareva stava diventando un'abitudine. Il Washington Post e il New York Times del mattino giacevano ripiegati sul sedile accanto al mio. A caratteri di scatola, il Post chiedeva: CHI SARÀ LA PROSSIMA VITTIMA DI JACK & JILL? Sembrava una domanda diretta proprio a me. CHI SARÀ IL PROSSIMO? Avviandomi dal parcheggio all'ascensore, pensavo alla possibilità di un attentato alla vita del presidente Thomas Byrnes. Era sottoposto a una notevole pressione, senza dubbio. Gli americani chiedevano da un pezzo cambiamenti radicali e il presidente Byrnes gliene stava dando a dosi massicce. Naturalmente, per molti, il «cambiamento» significava solo più soldi in tasca, subito e senza sacrifici.
Quindi chi poteva essere tanto infuriato contro il presidente da volerlo morto? Sapevo di trovarmi alla Casa Bianca proprio per scoprirlo. Ero lì per condurre l'indagine sugli omicidi. Nella Casa Bianca. Dovevo cercare una coppia di killer che si era forse messa in testa di uccidere il presidente. Incontrai Don Hamerman nel salone d'ingresso dell'ala ovest. Pareva ancora molto teso e nervoso, ma doveva far parte del suo carattere e si adattava comunque a quel difficile momento. Il capo dello staff e io parlammo per qualche minuto e lui si spinse a dirmi che ero stato scelto in virtù della mia esperienza con i serial killer, soprattutto con gli psicopatici. Aveva l'aria di sapere parecchio su di me. Mentre parlava, pensai che probabilmente nell'ultimo anno a Yale o a Harvard si era guadagnato il distintivo di ficcanaso professionista, oltre ad aver imparato a biascicare le parole come un aristocratico. Non avevo la minima idea di cosa mi aspettasse quel mattino. Hamerman mi spiegò che mi avrebbe organizzato qualche «intervista». Intuii tutta la sua frustrazione nell'organizzare un'indagine del genere all'interno della Casa Bianca. Un'indagine su un caso d'omicidio. Mi lasciò da solo nella Map Room al pianterreno. Mi misi a girovagare per quel salone famoso, osservando assente l'elaborato arredo Chippendale, un ritratto a olio di Ben Franklin e un paesaggio agreste intitolato Sorvegliando le mucche e le pecore. Avevo già la giornata piena: dovevo recarmi all'obitorio e incontrare Benjamin Levitsky, il numero due dell'FBI. E continuavo a ripensare agli omicidi della Truth School, dei quali al momento si occupava Sampson insieme agli altri detective part-time. Io però non riuscivo a scacciarli dalla mente. A un tratto qualcuno entrò nella Map Room in compagnia del capo dello staff, cogliendomi di sorpresa. Anzi, annichilendomi: non ci sono parole per descrivere quello che provai. Don Hamerman annunciò in tono solenne: «Il presidente Byrnes la riceve subito». 36 «Buongiorno. Devo chiamarla dottor Cross o detective?» mi chiese il presidente Byrnes. Nutrivo il vago sospetto che alla Casa Bianca suonasse meglio «dottor Cross». Era come dottor Kissinger o perfino Doc Savage. «Credo di preferire Alex», risposi.
Il volto del presidente si aprì in un gran sorriso, lo stesso sorriso carismatico che gli avevo visto sfoggiare tante volte in televisione o sulle prime pagine dei giornali. «E io preferisco Tom», mi disse, tendendomi la mano. Aveva una stretta ferma e sicura. Trattenne il mio sguardo per qualche istante. Il presidente degli Stati Uniti riusciva a essere contemporaneamente cordiale e serissimo. Era alto circa un metro e ottanta e pareva in ottima forma per i suoi cinquant'anni. Aveva i capelli castano chiaro, con una spruzzatina d'argento e un aspetto che faceva pensare a un pilota d'aereo da combattimento. Il suo sguardo era caloroso e intelligente. Infatti era noto come il presidente più affascinante e dinamico che avessimo avuto da molti anni. Avevo letto e sentito parecchio su di lui. Aveva diretto con grande successo la Ford Motor Company di Detroit prima di decidersi a passare a incarichi più elevati. Si era candidato alla presidenza da indipendente e, rispecchiando i risultati elettorali degli ultimi anni, la gente aveva votato per ciò che di nuovo esprimevano i suoi programmi o forse, come ritenevano i cervelloni, aveva semplicemente votato sia contro il partito repubblicano sia contro quello democratico. Fino a quel momento aveva dimostrato di saper rispecchiare il pensiero contemporaneo, sia pure con un certo spirito contraddittorio: era un anticonformista salito alla più alta carica della nazione. In conseguenza di ciò, si era conquistato ben pochi amici a Washington, facendosi, invece, schiere di nemici. «Il direttore dell'FBI ha un'altissima stima di lei», mi fece sapere. «Considero Stephen Bowen un'ottima persona. Lei che ne pensa? Ha qualche opinione su di lui?» «Sono d'accordo. Il Bureau è molto cambiato negli ultimi due anni, da quando c'è Bowen. Adesso collaboriamo bene, cosa che non accadeva un tempo.» Il presidente annuì. «Si tratta di un'autentica minaccia, Alex, o stiamo solo prendendo qualche saggia precauzione?» mi chiese. Era una domanda diretta, inequivocabile. Pensai anche che fosse la domanda giusta. «Credo che la preoccupazione dei servizi segreti sia giustificata, che ci sia bisogno di prendere qualche saggia precauzione», risposi. «Crea molta ansia la coincidenza dei nomi Jack & Jill, che corrispondono a quelli in codice dei servizi. Inoltre c'è il fatto che i killer colpiscono personaggi famosi qui a Washington.» «Suppongo di corrispondere alla descrizione. Triste ma vero», ammise il presidente Byrnes, aggrottando la fronte. Avevo letto che era un uomo
molto chiuso, ma anche semplice e diretto e mi pareva proprio così. Un uomo del Midwest nel miglior senso della parola. Ma ero soprattutto sorpreso dalla sua cordialità. «Come ha dichiarato lei stesso, il suo modo di agire ha dato 'un bello scossone alla scatola dei giochi'. Un mucchio di gente è stata... disturbata, per così dire.» «E stia tranquillo che ne disturberò molta di più. Questo governo ha un gran bisogno di essere riassestato: è stato concepito per il XVIII secolo. Comunque coopererò in ogni modo possibile con la polizia, Alex. Non voglio che altri vengano feriti e tantomeno che muoiano. Ci ho pensato parecchio, ma non sono ancora pronto a morire. Considero Sally, mia moglie, e me persone oneste, e spero che, conoscendoci, la penserà anche lei in questo modo. Intendiamoci: non ci consideriamo perfetti, certo, però siamo gente per bene. Cerchiamo di comportarci come si deve.» La pensavo già a quel modo sul presidente. L'impressione che mi aveva dato era positiva, senza dubbio. Al contempo, tuttavia, mi chiedevo se potevo credere a quello che aveva detto: dopotutto era un politico, il migliore del Paese. «Ogni anno sono tantissimi quelli che tentano d'intrufolarsi nella Casa Bianca, Alex. Una volta un tizio c'è riuscito mescolandosi alla banda dei marines. Parecchi hanno tentato di abbattere il cancello principale con le loro auto. Nel '94, Frank Eugene Corder è atterrato nel parco con un Cessna monomotore.» «Ma non era mai successo niente del genere», osservai. Il presidente allora mi pose la vera domanda, quella che aveva in testa da un pezzo. «Che ne pensa veramente di Jack & Jill?» «Per il momento mi baso sugli indizi», risposi, «ma non sono d'accordo con L'FBI. Non si tratta di serial killer. Sono troppo organizzati e il loro modo di colpire mi pare deliberato, costruito. Scommetto che si tratta di due individui di razza bianca, piuttosto avvenenti, con un alto quoziente intellettivo. Devono sapersi muovere ed essere convincenti per riuscire a entrare in tutti i posti in cui sono entrati, ma vogliono compiere qualcosa di ancora più spettacolare. Finora si sono limitati a preparare il terreno e si stanno godendo l'effetto che hanno esercitato su di noi e sui media. Per il momento non ho altri elementi, però sono pronto a lavorare su questa ipotesi.» Il presidente annuì con aria solenne. «Lei mi fa un'ottima impressione, Alex», disse. «Sono felice che abbiamo potuto incontrarci per un paio di
minuti. Mi è stato detto che ha due bambini», aggiunse, prendendo dalla tasca della giacca un fermacravatta e una spillina presidenziale. «Credo che un ricordino faccia sempre piacere. Vede, Alex, sono un convinto assertore della tradizione oltre che del cambiamento.» Il presidente Byrnes mi strinse di nuovo la mano, mi fissò per un istante negli occhi, poi uscì dalla sala. Compresi che mi era appena stato dato il benvenuto in un team esclusivo, che aveva l'unico scopo di proteggere la sua vita, e scoprii anche di avere una forte motivazione a farlo. Abbassai lo sguardo sul fermacravatta e sulla spillina destinati a Damon e Jannie, stranamente commosso. 37 «Così hai conosciuto la coppia reale?» mi chiese Nana Mama quando entrai in cucina, verso le quattro del pomeriggio. Stava preparando qualcosa in un pentolone grigio che profumava come la proverbiale ambrosia: era zuppa di fagioli, la mia preferita. Rosie girava per la cucina facendo soddisfatta le fusa. Rosie in cucina. Mentre cucinava, Nana risolveva le parole crociate del Washington Post. C'erano anche in giro una rivista di rebus e La vita e l'epoca di Maggie Kuhn. Una donna piuttosto complicata, mia nonna. «Avrei conosciuto chi?» chiesi, fingendo di non aver inteso la sua domanda diretta. Era il gioco che facevo da anni con lei e che probabilmente smetterà solo quando la morte - in qualche modo, prima o poi - ci dividerà. «Dottor Cross, si dice: 'chi avrei conosciuto?'» mi corresse la nonna. «Il presidente e la first lady, naturalmente, quei bianchi per bene che vivono alla Casa Bianca e badano a tutti noi. Tom e Sally nella Camelot degli anni '90.» Sorrisi al suo solito spirito agrodolce mentre aprivo il frigo. «Non sono venuto a casa per subire il terzo e il quarto grado, sai? Voglio solo farmi un panino con questo petto di pollo, che ha un'aria tenerissima. O il suo aspetto inganna?» «Certo, l'aspetto inganna sempre, ma quel petto di pollo è effettivamente tenerissimo, potresti tagliarlo con un cucchiaio. A quanto pare si lavora ben poche ore al giorno alla Casa Bianca, considerato tutto quello che c'è da fare. In qualche modo lo sospettavo, ma solo adesso sono in grado di provarlo. Allora, chi hai conosciuto?» Non potei più resistere: prima o poi glielo avrei comunque detto. «Sta-
mattina ho conosciuto il presidente e gli ho parlato.» «Hai conosciuto Tom?» Nana finse di prendersi un diretto dal peso massimo George Foreman. Indietreggiò barcollando dal bancone della cucina e fece un sorrisetto. «Be', raccontami tutto, per amor di Dio. Voglio sapere anche di Sally. È vero che porta sempre un cappellino nero all'interno della Casa Bianca?» «Credo che quella fosse Jacqueline Kennedy. Comunque il presidente Byrnes mi è piaciuto», annunciai, preparandomi un gran panino con il petto tenerissimo, la lattuga, il pomodoro, la maionese, il pepe e un pizzico di sale. «Naturale, ti piacciono tutti finché non ammazzano qualcuno», osservò Nana, tagliando qualche altra fetta di pomodoro. «Adesso che hai incontrato il presidente, puoi tornare a occuparti degli omicidi della Truth School: è molto più importante per la gente di questa casa, la Casa Grigia. Non sono tanti i neri a cui importa granché del presidente e dei suoi problemi ed è giusto così.» «Ne sei convinta? Parli come Mrs Farrakhan, la moglie del capo dei musulmani neri», feci io, addentando il panino, che era delizioso come promesso: si scioglieva in bocca. «Ne sono convinta, e in ogni caso così dovrebbe essere. È una stima molto vicina alla realtà. Ammetto che sia una realtà triste, ma è anche quella in cui viviamo. Non sei d'accordo con me? Devi esserlo.» «Hai mai sentito dire che certa gente con l'età si ammorbidisce?» chiesi. «Comunque il pollo è fantastico.» «E tu hai mai sentito dire che c'è chi, invecchiando, migliora? Hai mai sentito parlare di gente che si prende cura dei propri simili? Hai mai sentito parlare dei bei bambini neri uccisi nel nostro quartiere, Alex, e di cui non si occupa nessuno? Certo che il pollo è ottimo. Io miglioro con il tempo, non lo vedi?» Presi di tasca il fermacravatta e la spillina che mi aveva dato Thomas Byrnes. «Il presidente sapeva che ho due bambini e me li ha regalati per loro.» Li mostrai a Nana, che li prese in mano e, per una volta in vita sua, rimase senza parole. «Dalli ai bambini e racconta pure loro che Tom è un'ottima persona, una di quelle che tenta di fare le cose per bene.» Reggendo il mezzo panino rimasto, feci per uscire dalla cucina, non sopportandone più il calore e tutto il resto. «Grazie per la deliziosa merenda e per il consiglio. In quest'ordine.»
«E adesso dove vai?» mi chiamò Nana, ormai ritornata in sé. «Stavamo parlando di una questione importante: la morte dei neri qui a Washington, la nostra capitale. Non importa niente a nessuno di ciò che succede in questo quartiere, Alex. E dicendo 'nessuno' mi riferisco ai bianchi: tu collabori con il nemico.» «Veramente stavo per dedicare qualche ora al caso della Truth School», gridai, avviandomi verso la porta, che mi offriva una via di fuga da quella filippica. Non vedevo più Nana Mama, ma la sua voce mi seguiva come l'urlo di un fantasma, o forse come il gracchiare di un corvo. «Alex ha finalmente ripreso i sensi!» stava esclamando in tono acuto. «C'è ancora speranza. Abbiamo ritrovato la speranza! Oh, grazie, Nero Signore dei Cieli!» La nonna riusciva ancora a darmi sui nervi e io le volevo bene proprio per questo, solo che a volte non sopportavo le sue invettive. Uscendo dal vialetto suonai il clacson della mia vecchia Porsche: è il nostro segnale che va tutto bene. Da dentro casa Nana mi gridò: «Bip bip anche da parte mia!» 38 Tornavo a percorrere la Washington più segreta, il sottobosco della capitale. Ero di nuovo un detective della omicidi. Nutrivo una strana passione per quel lavoro, anche se a volte lo odiavo con tutto il mio cuore. Stavamo facendo tutto quello che era umanamente possibile in entrambi i casi. Avevo fatto in modo che la Truth School venisse sorvegliata per tutto il giorno e avevo anche messo qualcuno di guardia, giorno e notte, sulla tomba di Shanelle Green. I killer psicopatici si facevano vedere spesso sulla tomba delle loro vittime: dopotutto erano vampiri. Il circo era definitivamente arrivato in città. Due casi di omicidio. Due casi completamente differenti. Non avevo mai visto niente del genere, niente di così prossimo al caos. Non avevo bisogno che Nana Mama mi ricordasse di rimettermi in pista: come aveva detto lei, qualcuno stava uccidendo i nostri bambini. Ero certo che quell'orribile mostro avrebbe ucciso ancora. Al contrario di Jack & Jill, il suo modo di agire era segnato dalla furia e dall'emotività. Nei suoi omicidi si coglieva - quasi si poteva toccare con mano - una sorta di spaventosa follia primitiva. Non mi rassicurava nemmeno il fatto che il
killer fosse probabilmente un dilettante. Pensa come l'assassino, mettiti nei suoi panni, ricordai a me stesso. Si comincia sempre così, ma è molto più arduo di quanto sembri. Stavo raccogliendo tutti i dati e le informazioni possibili. Trascorsi parte del pomeriggio a tallonare i bighelloni locali, che potevano aver sentito dire qualcosa sugli omicidi: gente che passava il tempo a chiacchierare per strada, informatori occasionali della polizia, giovani spacciatori, fumatori di marijuana, negozianti, ladruncoli, musulmani che vendevano giornali. Ne torchiai qualcuno, ma non ne emerse nulla di utile. Continuai comunque a lavorare. È così che va di solito. Si procede a testa bassa, cercando di colpire. Alle cinque meno un quarto mi ritrovai a parlare con un diciassettenne senzatetto che conoscevo perché talvolta veniva a mangiare alla mensa di St. Anthony, dove lavoravo ogni tanto. Si chiamava Loy McCoy e si era ridotto a spacciare crack. Mi aveva già aiutato un paio di volte in passato. Loy aveva smesso di venire alla mensa di St. Anthony da quando i soldi avevano cominciato a girargli in tasca per via del crack. Per quanto lo desiderassi, mi era difficile biasimare un tipo come lui: aveva vissuto in modo incredibilmente brutale, senza speranza, finché un giorno qualcuno non gli aveva offerto la possibilità di guadagnare venti bigliettoni in un'ora per fare quello che gli sarebbe comunque prima o poi capitato di fare. I boss della droga hanno una potente presa emotiva su questi ragazzi perché credono in loro: in molti casi nessuno ha mai riposto fiducia in questi bambini perduti. Chiamai Loy, che si staccò dal gruppetto con cui stava, in L Street. Erano tutti vestiti di nero, con i berretti di lana calati sugli occhi e le orecchie. La divisa includeva capsule d'oro sui denti, cerchi alle orecchie e pantaloni larghi. La banda stava parlando del film tratto dal disegno animato dei Flintstone, o forse dello stesso disegno animato. Yabba Dabba, il grido tipico di Fred Flinstone, era uno dei nomi in gergo che usavano per gli agenti di polizia. Arriva uno stronzo Yabba Dabba figlio di puttana. Di recente avevo letto una triste statistica secondo la quale il settanta per cento degli americani ricava tutte le proprie conoscenze dal cinema e dalla televisione. Vedendomi all'angolo della strada, Loy si avvicinò con fare indolente e con un sorrisetto idiota sulle labbra. Era alto ben più di un metro e ottanta, ma non doveva pesare più di settanta chili. Quel giorno indossava abiti pesanti e strappati ad arte. E quel sorriso, lo sapevo, era un modo per sbeffeggiarmi, per farmi stare al mio posto.
«Così non appena spunti fuori dovrei venire a parlare con te?» chiese in un tono di sfida che trovai irritante e incredibilmente triste al contempo. «Perché mai? Io pago le tasse», aggiunse. «Non nascondo niente, nessuno di noi nasconde niente.» «Smettila di spandere merda, non funziona», gli feci sapere. «Ti garantisco che faresti meglio a lasciar perdere.» Sapevo che sua madre era eroinomane e che aveva tre sorelline, che vivevano tutte presso il Greater Southeast Community Hospital: come avere per indirizzo una stazione della metropolitana. «Dimmi in fretta cosa vuoi che c'ho da fare», disse Loy, sempre in tono di sfida. «Il mio tempo è denaro, capito? Chiedimi quello che vuoi e fila.» «Ho solo una domanda, Loy, poi potrai tornare ai tuoi grandi affari.» Continuava a ghignare, a tenere un atteggiamento strafottente. In quel quartiere si poteva finire impallinati per molto meno. «Perché dovrei rispondere alla tua domanda? Cosa avrò in cambio? Cosa proponi?» Finalmente sorrisi anch'io alle sue capsule d'oro. «Tu rispondi e magari in futuro me ne ricorderò, forse poi ti dovrò qualcosa», dissi. «Oh-oh», fece lui, sprezzante. «Vuoi sapere un bel segreto, agente? Non ho bisogno dei tuoi favori e non me ne frega un cazzo delle tue indagini su quei bambini.» Si strinse nelle spalle. Sapevo già che per gente come lui fatti del genere non erano molto importanti. Attesi che finisse il suo discorsetto, senza fargli proposte. La cosa triste era che quel ragazzo era furbo, davvero in gamba. Per questo il boss del crack si serviva di lui. Loy era astuto e probabilmente si atteneva anche a una specie di etica professionale. «Non ho niente da dirti e non devo dirti niente!» esclamò alla fine, esasperato, levando al cielo le braccia scheletriche. «Tu credi che ti debba qualcosa perché una volta mi hai dato la minestra gratis? Credi che sia in debito con te? Non ti devo un cazzo!» Fece per girare sui tacchi, ma mi lanciò un'ultima occhiata, quasi avesse un ultimo insulto da urlarmi addosso. Poi strinse gli occhi neri fissandoli per un attimo nei miei: contatto. Decollo. «Qualcuno ha visto un vecchio dove è stata ammazzata la ragazzina», sbottò: era l'informazione più consistente ottenuta fino a quel momento. Era l'unica informazione, quella che cercavo da giorni girando per le strade. Loy non aveva idea di quanto fossi forte e scattante. Lo raggiunsi e lo tirai verso di me, molto vicino. Tanto vicino da sentire l'odore di menta del
suo fiato, la brillantina sui suoi capelli e la puzza d'umidità dei suoi stracci invernali. Me lo strinsi al petto come fosse stato mio figlio, il figliol prodigo, lo sciocco cui bisognava insegnare che non poteva comportarsi in quel modo. Lo strinsi forte, quasi desiderando di salvarlo. Volevo salvarli tutti, ma non potevo ed era una delle frustrazioni più grosse della mia vita. «Non mi sto divertendo, Loy. Chi te l'ha detto? Non scherzare con questa storia. Dimmelo subito.» Aveva la faccia a pochi centimetri dalla mia, gli sfioravo quasi la guancia con la bocca. Tutto il suo atteggiamento da bulletto di strada era svanito. Non mi piaceva fare il duro con lui, però la faccenda era troppo grave. Le mie mani sono grosse e segnate, come quelle di un pugile. Gliele mostrai. «Aspetto la risposta», bisbigliai. «Altrimenti ti porto dentro e ti rovino.» «Non so chi», disse ansimando lui. «L'ho sentito dire al ricovero da qualcuno, sai. Un vecchio barbone. Qualcuno l'ha visto girare dalle parti di Garfield Park. Un bianco.» «Un bianco? Nella parte sud-est del parco? Ne sei sicuro?» «Esatto, è quello che ho detto, che ho sentito dire. E adesso lasciami andare. Dai, amico, mollami!» Lasciai che si allontanasse di qualche passo. Non appena ebbe compreso che non intendevo menarlo e nemmeno portarlo dentro per interrogarlo, Loy riprese il suo atteggiamento da bullo. «Eccoti servito, adesso sei tu in debito con me», affermò. «Passerò a riscuotere, sappilo.» Non credo si rendesse conto dell'ironia delle proprie parole. «Già», feci. «Grazie, Loy.» Spero che tu non debba mai riscuotere qualcosa da me. Lui mi strizzò l'occhio. «Vai per la tua strada, amico!» esclamò ridendo e tornò verso gli altri spacciatori di crack. 39 Un vecchio vagabondo vicino alla scena del delitto, a Garfield Park. Era finalmente qualcosa di concreto su cui lavorare. Avevo versato il dovuto e il mio investimento si era dimostrato fruttifero. Un barbone di razza bianca. Era ancora più promettente. Non erano molti i bianchi che giravano dalle
parti di Garfield Park, questo era certo. Chiamai Sampson e gli comunicai quello che avevo scoperto. Lui aveva appena iniziato il turno di notte. Gli chiesi come stava andando. Rispose che non andava affatto, ma che forse ora sarebbe andata meglio; avrebbe dato la notizia al resto del gruppo. Poco dopo le cinque passai di nuovo alla Sojourner Truth School. C'erano parecchie calamite che mi attiravano in quella direzione. La novità del vagabondo e la costante sensazione che la mia nemesi, Gary Soneji, potesse essere coinvolta nel caso. Questa era una parte della verità. L'altra si chiamava Christine Johnson. Mrs Johnson. Ancora una volta la segretaria se n'era già andata e le bamboline multirazziali sulla sua scrivania parevano abbandonate, come le «faccine» che aveva disegnato su qualche foglio e un paio di romanzetti rosa. La pesante porta di legno dell'ufficio principale era invece chiusa. Non sentii nessun rumore provenire dall'interno, ma bussai ugualmente. Udii chiudere di scatto un cassetto e alcuni passi che si avvicinavano, poi la porta si aprì: non era chiusa a chiave. Christine Johnson indossava un cardigan di cachemire e una gonna lunga di lana. Aveva i capelli tirati all'indietro, legati da un nastro giallo, e portava gli occhiali. Si era messa a proprio agio per lavorare. Mi vennero in mente due versi, credo di Dorothy Parker: Gli uomini non sono mai attenti / alle ragazze con le lenti. Vederla mi risollevò lo spirito, mi riscosse immediatamente. Non sapevo esattamente perché, ma andò così. Pensai che le capitava spesso di lavorare fino a tardi e me ne domandai il motivo. «Sì, sto di nuovo facendo tardi, mi ha colta sul fatto. Con le mani nel sacco, colpevole. Stamattina è passato a scuola un suo amico», disse. «Un certo detective John Sampson.» «È lui a occuparsi del caso», confermai. «Pare averlo preso molto a cuore. È un tipo sorprendente da molti punti di vista. Legge Camus», osservò lei. Mi chiesi con quale scusa Sampson fosse riuscito a inserire Camus nella conversazione. Fra gli altri suoi nobili scopi, il mio amico si dedica alla conoscenza di donne attraenti e interessanti come Christine Johnson, e non è certo il tipo da badare al fatto che siano sposate, se non ci pensano loro. Sampson sa essere galante fino alla nausea, ma solo quando viene apprezzato.
«Sampson legge parecchio. È così da quando lo conosco. In realtà l'ha conosciuto prima mia nonna, che era la sua maestra. Comunque John è il classico topo di biblioteca, un autentico Pagemaster.» Christine Johnson sorrise, mostrandomi tutti i suoi bei denti bianchi. «Conosce il film Pagemaster? Lo immaginavo che vedesse tutti i film per ragazzi.» «Infatti non ne perdo uno. Dobbiamo vederlo assolutamente, mi dicono i bambini. Pagemaster l'abbiamo visto sei volte, ma non siamo innamorati di Macauley Culkin come tanta altra gente.» Lei continuò a sorridere. Sembrava proprio estremamente disponibile e molto in gamba. Abbastanza paziente e attenta da svolgere un lavoro così difficile in una città come Washington. Invidiavo i suoi scolari. Andai dritto al motivo della mia visita. «In realtà sono passato di qui perché abbiamo forse un'idea di chi possa essere l'assassino... è quantomeno qualcosa da cui cominciare, me ne hanno parlato poco fa.» Christine Johnson mi ascoltò, attenta, corrugando la fronte e fissandomi intensamente con gli occhi castani. Sapeva ascoltare: e, per esperienza, sapevo che quella era una dote rara in un direttore scolastico. «Un uomo anziano, di razza bianca, è stato visto vicino al luogo in cui è stata uccisa Shanelle Green. Me l'hanno descritto come un barbone, non molto alto, con una gran barba bianca e un poncho marrone o nero.» «Devo parlarne agli insegnanti o ai bambini?» chiese lei. «Domattina passerà qualcuno a parlare di nuovo con gli insegnanti», risposi. «Non sappiamo se questa traccia ci porterà da qualche parte, ma potrebbe essere importante.» «Un grammo di prevenzione», osservò sorridendo lei. In realtà rise fra sé. «È una delle espressioni che gli insegnanti usano con i bambini. Eh, sì, si sentono parecchi cliché da queste parti. A volte ci si ritrova a parlare con gli adulti come se fossero bimbetti di cinque o sei anni. È una cosa che fa impazzire mio marito.» «Anche suo marito insegna?» Ecco, gliel'avevo chiesto. Merda. Lei scosse la testa: pareva divertita, chissà perché. «No, no, George è avvocato. In realtà lavora al Campidoglio, dove cura gli interessi di certe grosse compagnie: Occidental Petroleum, Pepco Energy Company, Edison Electric Institute... Riesco a sopportarlo.» Rise. «Be', in genere ce la faccio.» Aveva un'aria innocente, ma non ingenua. Forse un poco cospiratrice. «Be', volevo semplicemente metterla al corrente di questo probabile indiziato», dissi. «Ora devo scappare.»
«Non lo faccia», mormorò Christine Johnson. Mi fermai, un po' sorpreso. Poi lei aprì le labbra in quel suo sorriso vagamente misterioso e affascinante. «Non voglio sentir correre nei corridoi», mi ammonì, strizzandomi l'occhio. «Ora vada pure.» Simpatica. Sorrisi anch'io e mi allontanai per tornare al lavoro dopo quella pausa dolce e luminosa. Mrs Johnson mi piaceva molto, ma a chi non sarebbe piaciuta? Forse saremmo potuti diventare amici. O forse no. Non c'era niente che girasse giusto, che funzionasse come doveva. Un barbone di razza bianca... Non era poco, ma non bastava. Non mi ero nemmeno avvicinato alla soluzione. Due casi impossibili, Dio mio! Mi allontanai un poco in macchina lungo la strada e tenni d'occhio la Truth School per un paio d'ore. Era la scuola di mio figlio. Magari sarebbe sbucato un barbone di razza bianca... ma non venne nessuno. Rimisi in moto mezz'ora dopo che Christine Johnson si fu allontanata. 40 «Che voto dai al nostro volo sul tappeto magico, in una scala da uno a undici?» chiese Jack a Jill, o Sam a Sara. Sotto di loro si stendeva la campagna del Maryland. «È assolutamente fantastico. Più che mai eccitante. Incredibile. È la semplice gioia di volare come un uccello.» «Difficile immaginare che si tratti di lavoro, ma lo è, musetto di scimmia. Potrebbe essere importante per noi, per tutto quello che stiamo facendo, per la grande partita finale.» «Lo so, Sam. Sto attenta.» «Lo so, tu sei sempre diligente.» Erano stretti l'uno all'altra nel piccolo abitacolo dell'aliante, un Blanik L23, che avevano preso a noleggio all'aeroporto di Frederick, nel Maryland, a un'ora di distanza da Washington. Quel volo le dava un piacere assoluto, pensò Sara. Rappresentava una metafora perfetta: la zoppa che volava. Era incredibile, ma ormai tutta la sua vita lo era. Sotto di loro si estendeva Frederick. Riusciva addirittura a individuare alcune botteghe sulla Antique Walk del villaggio. Il cielo era pieno di grosse nuvole, simili a enormi batuffoli di cotone che galleggiavano lievi su un mare calmo. Sara aveva raccontato a Sam di essere stata una volta su un aliante e che era stata «la cosa più bella che avesse mai fatto». Lui ave-
va risposto: «Ci andremo domani pomeriggio. So io dove prenderlo, musetto di scimmia. È un'idea perfetta! Così potrò sorvolare Camp David, dove va a riposarsi il presidente. Voglio dare un'occhiata alla casa di campagna del presidente Byrnes e lanciargli una bomba immaginaria». Sam Harrison sapeva già molto su Camp David, ma un'occhiata dall'alto poteva comunque risultare utile. Un attacco al ritiro presidenziale era una possibilità molto reale per il futuro... soprattutto se i servizi segreti continuavano a tenere saldamente il presidente Byrnes sotto la propria ala, come facevano da giorni. Tutto si era fatto molto più difficile per Jack & Jill, proprio come si era aspettato: per quel motivo erano stati definiti vari piani strategici invece di uno soltanto. Il presidente degli Stati Uniti doveva morire... ma bisognava ancora decidere quando e dove. Il come era già stato stabilito. Presto sarebbero stati chiari anche il quando e il dove. «Non è rischioso volare tanto vicino a Camp David?» indagò Sara. Sam le sorrise: sapeva che lei avrebbe voluto porgli quella domanda da quando si erano allontanati in volo da Frederick diretti a nord, avvicinandosi sempre più al ritiro presidenziale, al pericolo e forse al disastro. «Finora non è troppo rischioso: alianti e mongolfiere lo fanno di continuo, tanto per dare una sbirciatina da lontano alla casa di campagna del presidente. In questo momento lui non c'è, quindi a terra non saranno paranoici, ma non possiamo avvicinarci troppo. Da quando quel folle è atterrato alla Casa Bianca, lo spazio aereo viene protetto da missili. Dubito che abbatterebbero un aliante, ma chi può mai dirlo?» Vedevano gli edifici di Fort David sotto di loro, un poco a nord-est del Catoctin Mountain Park. Scorgevano tre jeep dell'esercito, ma pareva che quel giorno non ci fosse in giro nessuno. Camp David aveva un'aria strana: un bizzarro incrocio fra una caserma e una casetta rustica. Non rappresentava un ostacolo insormontabile se il piano finale avesse richiesto di attaccarlo. «Camp David ha preso nome dal nipotino di Eisenhower», disse Sam. «Un buon presidente, Ike. Di solito i generali lo sono.» Jack toccò la fondina della Beretta legata alla sua caviglia: era rassicurante. Ma per il momento non sarebbe accaduto nulla né al presidente né a Jack & Jill. No, la partita si sarebbe spostata in un'altra direzione. Era quello il bello: nessuno poteva predire dove sarebbe andata. Era stata concepita come una partita e in quanto tale sarebbe stata giocata. Sentì la mano di Sara sfiorargli una guancia. «Quanto abbiamo ancora?»
gli chiese. Lui sospettò che non si riferisse al volo in aliante. «Non ci prenderanno mai», affermò sorridendo. «No, parlo del volo, sciocco», rise lei battendogli una pacca affettuosa sul braccio. «Per quanto resteremo quassù?» «Sei già stanca? Non ci stiamo nemmeno avvicinando al record d'altitudine in aliante... mi pare siano quindicimila metri. Ci vorrebbe una bella spinta per raggiungerlo.» A un tratto pareva preoccupato che lei non si divertisse: era proprio da Sam. «No, no», rise Sara cingendogli il collo con un braccio e stringendolo forte. «Mi piace stare quassù, mi piace volare, mi piace stare con te. Grazie... di tutto.» «Prego, musetto di scimmia», le bisbigliò lui. Due killer incredibili. Jack & Jill. Che volavano sul famoso ritiro del presidente a Camp David. Ci vediamo presto, presidente, non puoi far nulla per impedirlo. Non c'è posto al mondo dove puoi nasconderti, credimi. Finora non abbiamo forse mantenuto tutte le nostre promesse? 41 Lungo il tragitto in auto per tornare a Washington, Sam sembrava distratto e lontano. Sara lo scrutava con la coda dell'occhio. Era come se lui fosse rimasto sull'aliante: aveva la fronte aggrottata e i profondi occhi azzurri parevano inchiodati sulla strada. Talvolta gli capitava di essere di quell'umore, ma d'altronde a volte capitava anche a lei. Sara la guerriera, Sara la sgobbona. In genere si comprendevano e si accettavano reciprocamente, nel bene e nel male. La partita giocata da Jack & Jill si stava facendo sempre più dura per entrambi. Ogni mossa era incerta e carica di pericolo. C'era il rischio che venissero individuati prima di portare a termine la missione. Gli uomini che davano loro la caccia erano praticamente ovunque. Non solo a Washington, ma in tutto il mondo. «Stavo riflettendo sull'andamento del gioco, cercando di valutarlo obiettivamente. Pensavo che è come... una partita dentro la partita», disse infine Sam. «Qualcosa di più sofisticato, qualcosa di completamente inatteso da parte di chi ci sta dando la caccia.» Sara lo osservò riemergere dai propri sogni a occhi aperti, tornare da lei.
«Sì, avevo capito che non ti trovavi sulla tangenziale insieme agli altri pendolari. Era piuttosto ovvio.» Sam ammiccò. «Scusami, probabilmente anche tu stavi valutando qualche aspetto della faccenda.» Era incredibilmente modesto, un'altra cosa che a lei piaceva molto. Pareva non rendersi conto di essere speciale o, se se ne rendeva conto, lo teneva per sé. Dio mio, si sentiva così bene accanto a lui... ed era sempre difficile lasciarlo. Sara si chiedeva come avesse potuto vivere prima di conoscerlo. La risposta era che effettivamente non aveva vissuto. Era stata viva, ma non aveva avuto una vita. Adesso l'aveva. «Stai pensando a come andrà il gioco d'ora in poi, alla sua sequenza esatta», osservò. «Hai la fronte aggrottata, povero caro. Qual è la tua idea?» Lui sorrise, scuotendo la testa. Le aveva detto spesso che era molto sensibile e intelligente e non erano tanti gli uomini che avevano detto una cosa del genere a Sara Rosen... praticamente nessuno, anzi. In genere la sua intelligenza li spaventava, o anche peggio. Così di solito tendevano a sminuirla, a farla stare al suo posto, a trascurare qualunque cosa dicesse che li mettesse a disagio. Sam non era così, lui pareva capire benissimo quello che le serviva. Si chiedeva se facesse anche questo parte del gioco. Faceva parte del gioco di Sam? «Presto sentiremo sul collo il fiato rovente della polizia e dell'FBI», disse lui, tenendo gli occhi puntati sul nastro grigio della strada. «Tutto quello che è capitato finora non è niente, Sara, assolutamente niente. D'ora in poi la caccia all'uomo crescerà in modo esponenziale. Hanno una voglia pazza di prenderci. L'FBI sta riunendo i suoi uomini migliori. Prima o poi scopriranno qualcosa su di noi, è inevitabile.» Sara annuì, ma non era spaventata. «Lo so e sono pronta. Almeno credo. Hai un'idea di come trattarli?» «Sì, credo di sì. È un problema che rimugino da un po' e credo di averlo risolto. Dimmi piuttosto cosa ne pensi tu.» Visto? Voleva sempre la sua opinione. Era così diverso dagli altri uomini. La fissò, cercando il suo sguardo. «È semplicissimo: ci occorre un alibi perfetto, ma non ho idea di come ottenerlo. Comporta un lieve cambiamento di programma, ma credo ne valga la pena.» Lei cercò di non apparire preoccupata. «Che tipo di cambiamento? Vuoi cambiare il nostro prossimo obiettivo?» «Sì, è quello che voglio fare, ma intendo cambiare anche qualcos'altro.
Voglio che sia un altro a occuparsi del prossimo omicidio, così avremo due alibi a prova di bomba. Credo sia una mossa astuta, decisiva per noi. Se avessimo qualcuno alle calcagna, ne sarebbe completamente disorientato.» Stavano entrando a Washington. Sara pensò che la capitale, quando era avvolta in quella luce nebbiosa, somigliava a un dipinto di Turner. «Approvo, è una buona idea. Hai in mente qualcuno?» chiese. «Ho già preso un contatto», confermò Sam. «Credo di avere la persona adatta per la prossima mossa. La pensa come noi ed è totalmente dedito alla causa. E al momento si trova proprio qui a Washington.» 42 Un agente dei servizi segreti di nome James McLean, uno dei luogotenenti di Jay Grayer, mi fece fare il giro della Casa Bianca. Più di un milione di persone la visita ogni anno, ma io vidi quello che contava davvero. Anziché compiere il solito tour della biblioteca e dei saloni Est, Blu, Verde e Rosso, visitai gli appartamenti privati al secondo e terzo piano. Chiesi di vedere gli uffici del presidente nell'ala ovest e quelli del vicepresidente Mahoney nell'Executive Office Building. Mentre giravamo per l'impressionante Center Hall, con le sue pareti gialle, luminose, mi aspettavo quasi di sentirmi mettere all'improvviso sull'attenti per l'arrivo del «capo». L'agente McLean mi forniva tutti i dettagli sull'impianto di sicurezza della Casa Bianca: i pavimenti erano pieni di sensori audio e a pressione; i muri, di occhi elettronici e a infrarossi. Un corpo speciale sorvegliava costantemente il tetto, e gli elicotteri potevano raggiungere la residenza in due minuti. Ma in un certo senso tutto questo non mi dava una grande sicurezza. «Che ne pensa?» mi chiese McLean conducendomi nella Sala del Gabinetto, dominata da austere poltrone di pelle, ognuna delle quali recava una targhetta di ottone con il titolo di ogni membro. Era davvero solenne. «Stavo pensando che bisognerà controllare tutte le persone che lavorano qui», risposi. «L'abbiamo già fatto, Alex.» «Lo so, ma non l'ho ancora fatto io. Occorre ricontrollarle tutte. Vorrei scoprire chi di loro nutre interesse per la poesia o la letteratura, si è magari laureato in lettere; chiunque abbia un qualche tipo di esperienza cinemato-
grafica; se c'è chi dipinge, scolpisce o svolge comunque un'attività creativa; voglio scoprire a quali riviste sono abbonati e quali opere di carità sottoscrivono.» Se McLean aveva una qualche opinione in proposito, la tenne per sé. «C'è altro?» chiese. Guardai fuori della finestra. Davanti a me c'era il giardino delle rose. In lontananza scorsi i palazzi degli uffici. Immaginai che da là potessero vedere noi e la cosa non mi piacque per nulla. «Sì, temo di sì», proseguii. «Mentre effettuiamo questi controlli, dobbiamo esaminare a uno a uno anche tutti i membri del gruppo addetto alla crisi. Potete cominciare con me.» L'agente James McLean mi fissò per un lungo istante. «Mi sta prendendo in giro, vero?» sbottò infine. «No, stiamo investigando su vari casi di omicidio: è così che si fa.» Lo sbranamostri era entrato alla Casa Bianca. 43 Il fotoreporter aveva scelto un classico abito grigio scuro e una cravatta a righe per assistere a una replica di Miss Saigon, presso il Kennedy Center. Si era tagliato i capelli a spazzola e la coda di cavallo era sparita. Non portava più l'orecchino con diamante. Dubitava che qualcuno potesse riconoscerlo e così doveva andare, sino alla fine del gioco. «Proprio come ai vecchi tempi», canticchiò fra sé mentre attraversava il parcheggio davanti agli uffici di USA Today dall'altra parte del fiume, a Rosslyn. «Continuate a far girare quelle grosse rotative», borbottò tra sé. «Più tardi potrei aver qualcosa per voi. Stasera potrebbe succedere qualcosa di grosso al Kennedy Center. Quien sabe?» Era davvero felice di essere tornato a Washington, dove aveva vissuto varie volte in passato. Era anche felice di essere tornato in gioco. Il supergioco, continuava a ripetersi, e ci credeva con tutto se stesso. Nome in codice: Jack & Jill. Non esisteva intrigo migliore. Da un punto di vista psicologico, per quella difficile serata, due erano le cose da fare: in primo luogo comportarsi in modo cauto, essere sospettoso fino alla paranoia; in secondo luogo caricarsi di una megadose di sicurezza che gli consentisse di non fallire.
Non poteva fallire e non avrebbe fallito, si disse. Doveva uccidere una persona, non una persona qualunque, e doveva farlo sotto gli occhi di tutti, senza farsi prendere. Sotto gli occhi di tutti. Senza farsi prendere. Fino a quel momento non l'avevano mai colto sul fatto. Non provare il minimo senso di colpa quando uccideva era un fatto che lui riteneva singolare, anche se ormai non lo turbava più; tuttavia, rifletté, in tanti altri aspetti della sua vita si comportava in modo del tutto normale. Sua sorella Eileen, per esempio, lo chiamava «l'ultimo credente» o «l'ultimo patriota». Per i figli di sua sorella era lo zio Kevin più buono e gentile dell'universo. I genitori, a Hudson, lo adoravano. Era pieno di amici intimi, simpatici e normali in tutto il mondo. Eppure eccolo lì, pronto a uccidere di nuovo a sangue freddo. Anzi, non ne vedeva l'ora. Impazziva dalla voglia. L'adrenalina gli scorreva nelle vene, ma non provava assolutamente niente per la sua vittima di quella sera. C'erano miliardi di persone sulla terra, troppe. Che differenza avrebbe fatto un essere umano di meno? Non molto, da qualunque parte si considerasse la faccenda. Sempre che si avesse una visione logica del mondo. Entrò così con grande cautela nello scintillante Kennedy Center, con i suoi lampadari di cristallo e la tappezzeria Matisse. Levò lo sguardo sui lampadari del Grand Foyer, con le loro centinaia di gocce di cristallo e di lampadine: probabilmente pesavano ognuno una tonnellata. Stava per uccidere sotto gli occhi di tutti, sotto quelle luci, sotto tutte quelle gocce di cristallo e lampadine. Senza farsi prendere! Che magia! Com'era bravo in quel genere di cose. Chi gli aveva acquistato il biglietto glielo aveva lasciato in un armadietto della Union Station. Il suo posto si trovava dietro l'orchestra, quasi sotto il palco del presidente. Molto carino. Quasi perfetto. Si sedette proprio mentre le luci si spegnevano. L'arrivo dell'intervallo lo colse di sorpresa: troppo presto! Il tempo era veramente volato, il musical era trascinante. Diede un'occhiata all'orologio: le 21.15. L'intervallo era arrivato puntuale. Le luci si riaccesero e Hawkins osservò indifferente il pubblico. Bene: eccitazione autentica, entusiasmo, un sacco di chiacchiere intorno. Si alzò lentamente dal suo sedile imbottito, pensando: E adesso comincia il
vero spettacolo della serata. Entrò nel Grand Foyer con i grossi lampadari che somigliavano a stalattiti. La moquette era un morbido mare rosso sotto i suoi piedi. Su di lui torreggiava l'orgoglioso busto di bronzo di John Kennedy. Molto appropriato, perfetto. Proprio così, l'atmosfera esatta. Jack & Jill sarebbero stati l'evento più grosso dopo l'omicidio Kennedy, che ormai risaliva a oltre trent'anni prima. Era felice di partecipare all'impresa, addirittura eccitato. Se ne sentiva onorato. Nella replica di stasera, la parte di Jack & Jill verrà interpretata da Kevin Hawkins. State attenti adesso, amanti del teatro. Sarà uno spettacolo indimenticabile. 44 Il Grand Foyer del Kennedy Center era gremito da tutti gli snob più snob di Washington. Dio mio, che razza di gente va a teatro! La maggioranza erano persone anziane, abbonati a tutta la stagione. C'erano banchi per la vendita di T-shirt e di programmi costosi. Una donna con un vistoso ombrello rosso guidava un gruppo di liceali. Kevin Hawkins sapeva che quell'omicidio richiedeva grande astuzia, che era una sfida. Doveva avvicinarsi alla vittima, starle accanto fisicamente, prima di commetterlo. La cosa lo disturbava molto, ma non aveva scelta. Doveva arrivare addosso al bersaglio e non poteva fallire. Il fotoreporter pensò soddisfatto che, fra quel pubblico rumoroso, lui non sembrava altro che l'ennesimo volto tra la folla. Finalmente individuò Thomas Henry Franklin, il giudice della Corte Suprema. Ne era il membro più giovane, un afroamericano. Aveva un'aria altezzosa che corrispondeva alla reputazione che si era fatto a Washington. Non era simpatico, ma la cosa non aveva la minima importanza. Scatto! Kevin Hawkins prese mentalmente una foto di Thomas Henry Franklin. Appoggiata al braccio sinistro del giudice c'era una ventitreenne. Scatto. Scatto. Hawkins aveva studiato a dovere anche Charlotte Kinsey. Naturalmente
conosceva il suo nome e sapeva che frequentava il secondo anno di legge a Georgetown. Conosceva anche altri oscuri segreti su Charlotte Kinsey e il giudice Franklin. Li aveva perfino osservati insieme a letto. Si prese qualche momento per studiare Thomas Franklin e l'universitaria che parlavano nel Grand Foyer: erano animati e scoppiettanti, come tutte le altre coppie. Anche di più. Che gran divertimento poteva essere il teatro! Prese mentalmente una serie di foto. Non li avrebbe mai dimenticati mentre parlavano in quel modo. Scatto. Si voltarono. Scatto. Ridevano in modo molto naturale e spontaneo e sembravano gradire la reciproca compagnia. Hawkins aggrottò la fronte: aveva due nipoti a Silver Spring. Il pensiero della giovane studentessa in legge con quel tizio fasullo di mezza età lo irritava a morte! L'ironia di quel suo duro giudizio lo fece improvvisamente sorridere. Un killer a sangue freddo che faceva la morale... Che assurdità! Che follia, che autentica follia! Li osservò uscire sull'ampia terrazza e li seguì, tenendosi a distanza. Il Potomac scorreva nero come la notte, mentre sulle sue acque avanzava un battello da crociera proveniente da Alexandria, il Dandy. La brezza che si levava dal fiume agitava le tende delle porte-finestre che davano sulla terrazza. Kevin Hawkins si avvicinò cauto al giudice della Corte Suprema e alla sua bella ragazza, continuando a scattare mentalmente fotografie. Notò che la camicia bianca del giudice Franklin era troppo piccola, gli stringeva il collo, mentre la cravatta di seta gialla risultava troppo sgargiante sull'abito grigio. Il sorriso di Charlotte Kinsey era simpatico e irresistibile. Aveva un bel seno e la brezza agitava i suoi lunghi capelli neri. Kevin arrivò a sfiorare fisicamente la coppia. Si avvicinò ai due fino a quel punto. Toccò la lunga ala di capelli della studentessa e ne sentì il profumo: Opium o Shalimar. Scatto. Era lì, vicinissimo, praticamente stava loro addosso. L'occhio della sua mente continuava a scattare una foto dopo l'altra. Non avrebbe mai dimenticato niente di quella sera, neppure un'immagine di quella scena. Vedeva, sentiva, toccava, ma non provava nulla. Kevin Hawkins resisteva a qualunque impulso umano. Nessuna comprensione. Nessun senso di colpa. Nessuna vergogna. E nessuna pietà. La studentessa in legge teneva sulla spalla sinistra una borsetta di pelle, appena dischiusa, quel tanto che bastava. Oh, com'è sbadata la gioventù!
Il fotoreporter era bravo con le mani. Era ancora molto bravo, fermo, rapido, uno dei migliori. Infilò qualcosa nella borsa. C'est ça. Eccoci, successo completo! Il primo della serata. Né la ragazza né il giudice Franklin si accorsero di nulla, non lo notarono nemmeno passare tra la folla. Era come la brezza che saliva dal fiume, come la notte, come la luce della luna. In quel momento provò un'estasi speciale. Non c'era niente di simile al mondo. Il potere di prendere, di sottrarre una vita umana non era simile a nessun'altra esperienza. Sapeva che la parte più difficile, quella in cui doveva avvicinarsi fisicamente alla vittima, era passata. Mancava soltanto il semplice atto dell'omicidio. Uccidere sotto gli occhi di tutti. Senza farsi prendere. A un tratto il suo cuore sobbalzò in modo orribile. Qualcosa stava andando storto, stortissimo, più storto che mai. Non andava, non andava, non andava proprio! Cristo, Charlotte Kinsey stava frugando nella borsa. Scatto. Aveva trovato il biglietto che ci aveva infilato lui... il biglietto di Jack & Jill! Così non andava! Scatto. La ragazza lo guardò incuriosita, chiedendosi cosa fosse e come mai fosse finito nella sua borsa. Cominciò a spiegarlo, mentre Kevin sentiva le tempie pulsare orribilmente. Anche il giudice abbassò lo sguardo sul foglietto. Nooooo! Cristo, no, avrebbe voluto urlare. Kevin Hawkins reagì d'istinto. Non c'era tempo per pensare. Avanzò rapidissimo e sicuro. Aveva estratto la Luger e la teneva poggiata davanti a sé, mascherata dalla folla, dalla foresta di gambe, di braccia, di pantaloni e di gonne rigonfie. Alzò la Luger e sparò una sola volta, da un angolo rischioso, da una posizione ben lungi dall'essere quella ideale. Vide schiudersi all'improvviso i petali di un fiore di sangue color cremisi. Vide il corpo sussultare per poi ripiegarsi a terra, sul marmo della terrazza. Un unico sparo! Era sicuramente un miracolo, o ci andava molto vicino.
Dio stava dalla sua parte, no? Scatto! Scatto! Il suo cuore quasi non ce la fece: non era abituato a improvvisare in quel modo. Pensò che dopo tutti quegli anni poteva anche essere catturato e per di più mentre svolgeva un lavoro così importante. Intravide il fallimento totale. Sentì... sentì qualcosa. Lasciò cadere la Luger nella foresta di gambe, pantaloni, abiti di raso e taffetà, scarpe dal tacco alto, mocassini scuri lucidissimi. «È stato uno sparo?» urlò una donna. «Oh, Dio mio, Phillip, hanno sparato a qualcuno!» Indietreggiò con gli altri. Il Grand Foyer sembrava aver preso fuoco. Lui era parte della folla che correva terrorizzata. Non aveva niente a che fare con il terribile evento, con l'omicidio, con lo sparo. La sua faccia era una maschera convincente di shock e d'incredulità. Dio mio, conosceva così bene quel tipo di faccia! L'aveva vista tante di quelle volte in vita sua! Ancora qualche istante di tensione e poi uscì dal Kennedy Center, dirigendosi a passo fermo verso New Hampshire Avenue. Un'anonima presenza tra la folla anonima. «Proprio come ai vecchi tempi», ripeteva a un ritmo folle la sua testa. Si ricordò di aver canticchiato lo stesso motivo mentre si recava a teatro. E il fotoreporter sapeva bene che i vecchi tempi erano in assoluto i migliori. I vecchi tempi stavano tornando, no? Jack & Jill sono venuti sulla Collina. Era una partita talmente bella, avvincente, raffinata. Stava per arrivare la mossa più emozionante di tutte. 45 L'agente Jay Grayer mi chiamò a casa dalla sua auto mentre stavo leggendo i circa duecento rapporti dei servizi segreti sul personale addetto alla Casa Bianca. Il vicedirettore stava volando al Kennedy Center a centoventi chilometri all'ora sulla tangenziale: sentivo la sirena della sua auto ululare. «Hanno colpito di nuovo. Dio mio, stasera hanno ucciso qualcuno al Kennedy Center, proprio sotto il nostro naso. È davvero un incubo, Alex. Devi venire.» Sembrava aver perso la testa.
Devi venire. «Hanno colpito durante l'intervallo di Miss Saigon. Ci vediamo lì, Alex. Io arriverò fra dieci minuti.» «Chi hanno ucciso questa volta?» Avevo fatto la domanda, ma quasi non volevo sentire la risposta. No, non quasi: non volevo proprio. «Questo è parte del problema. Questa storia è tutta una follia. Non era una persona importante, Alex.» «Cosa intendi? Non ha senso, Jay.» «Era una studentessa in legge della Georgetown University. Una ragazza di nome Charlotte Kinsey, di soli ventitré anni. Hanno lasciato il solito biglietto: sono loro di sicuro.» «Non ci arrivo, non capisco», borbottai. «Maledizione.» «Nemmeno io. Può darsi che la ragazza si sia presa un proiettile destinato a qualcun altro. Era in compagnia di un giudice della Corte Suprema, Alex, Thomas Henry Franklin. Forse il proiettile era destinato a lui, a un'altra celebrità. Forse hanno finalmente commesso un errore.» «Arrivo subito», dissi a Jay Grayer. «Ci vediamo al Kennedy Center.» Forse hanno finalmente commesso un errore. Non ci credevo. 46 Non era una persona importante, Alex. Ma come poteva essere? Una studentessa in legge della Georgetown era morta, cristo. Non aveva senso, non corrispondeva a nessuno schema. Cambiava tutto, faceva saltare per aria qualunque ipotesi. Andai da casa al Kennedy Center in un tempo da record. Jay Grayer non era l'unico ad aver perso la testa. Piazzai un bel lampeggiante sul tetto della mia auto e guidai come se avessi avuto il diavolo alle calcagna. Il secondo tempo di Miss Saigon era stato annullato. Erano le dieci e un quarto, l'omicidio era dunque avvenuto meno di un'ora prima, e c'erano ancora centinaia di curiosi sulla scena del delitto. Sentii ripetere più volte «Jack & Jill». Mentre mi facevo largo nel Grand Foyer, avvertii la paura come una presenza tangibile, quasi fisica, nella folla. Continuavo a pormi domande. C'erano alcune somiglianze con gli altri omicidi di Jack & Jill. Era stata lasciata una poesiola in rima. Il lavoro era stato svolto in modo freddo e professionale. Un unico sparo. Ma c'era anche una differenza radicale: l'omicidio usciva dallo schema.
Che fosse un delitto su emulazione? Forse, ma non ci credevo. Tuttavia non si poteva trascurare nessuna eventualità. Non potevamo farlo né io né nessun altro coinvolto nel caso. Quella nuova svolta mi tormentava mentre mi facevo largo tra la folla orripilata e attonita di curiosi che gremiva New Hampshire Avenue. La studentessa in legge non era un personaggio di rilevanza nazionale, quindi perché era stata uccisa? Jay Grayer l'aveva definita nessuno e aveva aggiunto che non era nemmeno figlia di qualcuno. Era andata a teatro in compagnia del giudice della Corte Suprema Thomas Henry Franklin, ma non pareva un fatto sufficiente a farla rientrare in un elenco di celebrità. Charlotte Kinsey non era nessuno. Sì, quell'omicidio era fuori schema. Jack & Jill avevano corso un grosso rischio nel commettere l'omicidio in un luogo pubblico. Negli altri casi avevano colpito in privato, in situazioni più sicure e controllabili. Merda, merda, merda, cosa stavano combinando adesso? Perché mai un simile cambiamento? Era un'escalation? Perché avevano mutato schema? Stavano entrando in una fase differente, ancora più casuale? Non avevo compreso il loro scopo primario? Nessuno di noi aveva capito il loro piano? Oppure lì, al Kennedy Center, avevano finalmente commesso un errore? Sì, forse avevano finalmente commesso un errore. Era la nostra speranza, quella che avrebbe dimostrato che non erano invincibili. Fai che sia un dannato errore! Per favore, fai che sia il loro primo errore. A ogni buon conto, chiunque fosse stato si era allontanato tranquillo come al solito. L'atrio, lungo duecento metri, era stato completamente sgombrato. C'erano solo i funzionari di polizia, i medici legali e il personale dell'obitorio. Vidi Grayer e andai subito da lui. Jay aveva l'aria di non dormire da settimane, di non essere più capace di dormire. «Grazie per essere venuto subito, Alex», mi disse. Fino a quel momento mi era piaciuto lavorare con lui. Era un tipo brillante, che sapeva mantenere la calma e che non si dava mai arie di superiorità. Era un uomo all'antica, dedito al proprio lavoro e soprattutto al presidente, sia in quanto uomo sia in quanto massima carica del Paese. «Non è saltato fuori niente di utile?» chiesi. «A parte il cadavere e i soliti versi.» Grayer levò lo sguardo sui lampadari scintillanti. «Oh, sì che è saltato fuori, Alex. Abbiamo scoperto qualcos'altro sulla studentessa uccisa.
Charlotte Kinsey era solo all'inizio del secondo anno di legge alla Georgetown, apparentemente intelligentissima, e aveva già frequentato la New York University. Tuttavia i suoi voti non erano altissimi.» «Come rientra nello schema una studentessa in legge? A meno che in realtà non intendessero colpire il giudice Franklin. Venendo qui, ho cercato di pensare a qualche connessione, ma non ne ho trovate. Tranne il fatto che forse Jack & Jill ci stanno prendendo in giro.» Grayer annuì. «Ci stanno sicuramente prendendo in giro. Per prima cosa, la tua teoria sul sesso illecito è ancora intatta. Sappiamo perché Charlotte Kinsey non era una studentessa modello: trascorreva parecchio tempo con un uomo molto importante di questa città. Era una ragazza bellissima, come potrai vedere: capelli neri e lucidi, lunghi fino alla vita, un fisico da schianto. Una condotta morale opinabile. Sarebbe diventata un fantastico avvocato.» Ci avvicinammo al cadavere della donna, che giaceva a faccia in su. Accanto al corpo c'era la sua borsetta. Non vedevo il foro del proiettile e Charlotte Kinsey non pareva nemmeno ferita. Aveva semplicemente l'aria di aver deciso di schiacciare un pisolino sdraiandosi sulla terrazza del Kennedy Center. Le sue labbra erano socchiuse, quasi avessi voluto respirare un'ultima boccata d'aria del Potomac. «Vai avanti, dimmi tutto», spronai Jay Grayer. Sapevo che c'era ben altro dietro quell'omicidio. «Chi è?» «Oh, dopo tutto anche lei era qualcuno: l'amante del presidente Byrnes», mi rispose. «Lo vedeva spesso. L'altra sera il presidente è scappato dalla Casa Bianca per incontrarla, ecco perché l'hanno uccisa. Tombola, Alex, proprio sotto il nostro naso.» Mentre mi chinavo sulla morta sentii una stretta al cuore. Era molto bella. Ventitré anni, nel fiore della giovinezza. Poi un proiettile nel cuore ed era finita. Lessi il biglietto lasciato nella borsa della donna. Jack & Jill sono venuti sulla Collina per eliminare la tua amante, signore. Non era che una comparsa e adesso è scomparsa. E presto colpiremo te, signore. I versi parevano meglio del solito, sicuramente più audaci. Anche Jack
& Jill si erano fatti più audaci. Che Dio ci aiutasse tutti, ma soprattutto il presidente Thomas Byrnes. E presto colpiremo te, signore. 47 Il mattino dopo l'omicidio, raggiunsi in auto Langley, in Virginia. Volevo passare un po' di tempo con Jeanne Sterling, l'ispettore generale della CIA nonché membro della nostra unità di crisi. Don Hamerman mi aveva detto a chiare lettere che la CIA era coinvolta perché esisteva la reale possibilità che, dietro Jack & Jill, ci fosse una potenza straniera. Anche se si trattava di un azzardo, andava controllato. Sospettavo però che dietro quel coinvolgimento ci fossero ben altre cose e quella era un'opportunità per scoprirle. Probabilmente la CIA era in possesso di qualche indizio che valeva la pena controllare. Dall'epoca dello scandalo Aldrich Ames essa era stata obbligata per decreto a condividere le sue informazioni con tutti noi: lo diceva ormai la legge. Ricordavo molto bene l'ispettore generale dal nostro primo incontro alla Casa Bianca. In quell'occasione Jeanne Sterling aveva soprattutto ascoltato, ma quando le era toccato parlare l'aveva fatto in modo brillante e disinvolto. Don Hamerman mi aveva detto che, prima di entrare nella CIA, Jeanne aveva insegnato legge all'università della Virginia. Il suo compito attuale era di ripulire l'Agenzia dall'interno e a me suonava impossibile, un'autentica sfida. Hamerman mi aveva anche spiegato che era entrata nell'unità di crisi per un unico motivo: era la mente migliore della CIA. Il suo ufficio si trovava al settimo piano del moderno edificio grigio che rappresentava il fulcro del quartier generale dell'Agenzia. Esaminai con cura l'interno: numerose salette anguste, luci verdi fluorescenti ovunque, serrature cifrate in quasi tutti gli uffici. Era l'Agenzia in tutta la sua gloria: l'angelo vendicatore della politica estera degli Stati Uniti. Jeanne Sterling mi venne incontro nell'ingresso dalla moquette grigia fuori del suo ufficio. «Grazie per essere venuto fin qui, dottor Cross. La prossima volta le prometto che verremo noi a Washington, ma oggi ho creduto meglio incontrarci qui. Credo ne comprenderà il motivo entro la fine della mattinata.»
«In realtà mi sono goduto la passeggiata, avevo bisogno di un po' d'aria», ammisi. «Una mezz'ora tutta per me, con Cassandra Wilson nel mangianastri che cantava Blue Light 'Til Dawn. Non è stato tanto male.» «Capisco. Comunque vedrà che la sua passeggiata sarà anche utile. Ho qualcosa d'interessante da discutere con lei. La CIA è stata chiamata in causa per un ottimo motivo, dottor Cross. Fra un istante lo vedrà lei stesso.» Jeanne Sterling era sicuramente molto lontana dallo stereotipo del 'capo carismatico' in voga negli anni '50 e '60. Parlava in modo familiare ed entusiasta, con un accento del centro-sud, eppure sedeva alla direzione della CIA ed era considerata un elemento vitale per l'andamento dell'Agenzia, addirittura per la sua sopravvivenza. Entrammo nel suo ampio ufficio, che aveva una vista magnifica sui boschi e sul giardino. Sedemmo a un lungo tavolo di cristallo ricoperto di libri e di documenti dall'aria ufficiale. Alle pareti erano appese le foto della sua famiglia: bei bambini e un bel marito, alto e asciutto. Quanto a Jeanne, era bionda e alta anche lei, anche se un po' sovrappeso. Aveva un sorriso amichevole, sebbene i denti fossero sporgenti, e una vaga aria da ragazza di campagna. «È saltato fuori qualcosa di importante», annunciò, «ma, prima di entrare in argomento, le do un'informazione che ho appena avuto: la pistola usata al Kennedy Center non è la stessa degli altri omicidi. Questo solleva un paio di questioni, almeno così la vedo io. Al Kennedy Center potrebbe aver agito un semplice emulatore?» «Non credo proprio», risposi. «A meno che l'emulatore e Jack & Jill non abbiano la stessa calligrafia. No, quella poesia era decisamente loro e mi pare anche che rientri nella loro 'caccia alle celebrità'.» «Ancora una domanda», proseguì Jeanne Sterling. «L'ultimo omicidio ha seguito tutt'altro schema, Alex. I nostri esperti hanno svolto ricerche, ma senza trovare studi psicologici utili sugli assassini professionisti. Parlo di analisi dei killer sotto contratto usati dall'esercito, dall'antidroga o dalla CIA. Lei ne sa qualcosa?» Avevo la sensazione che fosse proprio quello l'argomento di cui voleva discutere Jeanne Sterling. Forse era quello il motivo per cui era stata inclusa nell'unità di crisi: i killer sotto contratto dell'esercito e della CIA. Sapevo che esistevano e che alcuni di loro vivevano nella zona di Washington. Sapevo anche che erano registrati da qualche parte, ma non certo negli schedari della polizia. Forse era quello il motivo per cui a volte venivano
chiamati «fantasmi». «Non si parla molto di omicidi nelle riviste di psichiatria», risposi. «Qualche anno fa, un professore di Georgetown di mia conoscenza svolse un'interessante ricerca: scoprì, nelle riviste specializzate, migliaia di riferimenti al suicidio, ma meno di cinquanta all'omicidio. Ho letto un paio di tesi svolte da studenti a Quantico, ma non ho trovato granché sui sicari, a meno che non mi sia sfuggito qualcosa. Suppongo sia difficile trovare soggetti da intervistare.» «Potrei fornirgliene uno», disse Jeanne Sterling. «Credo sarebbe importante per Jack & Jill.» «Dove intende arrivare?» D'un tratto avevo un mucchio di domande da porle, e un allarme familiare cominciava a trillarmi in testa. Per un istante assunse un'espressione triste, poi respirò a fondo prima di rispondermi. «Abbiamo svolto profondi test psicologici sui nostri killer, Alex. Mi è stato assicurato che l'esercito ha fatto altrettanto. Ho letto io stessa alcuni dei loro rapporti.» Il mio stomaco si stringeva sempre più. Ma ero assolutamente soddisfatto di quella visita a Langley. «Da quando ho assunto questo incarico, circa undici mesi fa, ho dovuto aprire tanti strani armadi qui a Langley e altrove... Può immaginare come in questi anni sia stato tenuto tutto segreto. Be', forse non può. Non avrei potuto nemmeno io, se non fossi finita qui.» Non ero ancora sicuro di quale fosse il suo obiettivo, ma era certamente riuscita a catturare tutta la mia attenzione. «Pensiamo che uno dei nostri ex killer sotto contratto potrebbe essere diventato... ingovernabile. In realtà ne siamo quasi sicuri, Alex. Ecco perché la CIA è entrata nell'unità di crisi. Pensiamo che uno dei nostri potrebbe essere Jack.» 48 Jeanne Sterling e io andammo a fare un giro in macchina nei dintorni. L'ispettore generale della CIA aveva una Volvo station wagon blu scuro, che guidava come un'auto da corsa. Dalla radio arrivavano le note di Brahms mentre ci dirigevamo a Chevy Chase, piccolo quartiere dormitorio, ma di lusso, della capitale. Stavo per conoscere un «fantasma», un killer professionista, uno dei nostri. Accidenti, che situazione di merda!
«Complotto e anticomplotto, stratagemmi e tradimenti, vere spie, doppie spie, false spie... Churchill non ha descritto più o meno in questi termini il vostro lavoro?» Jeanne Sterling fece un gran sorriso, mostrando i suoi grandi denti sporgenti. Era una persona molto seria, ma aveva anche senso dell'umorismo. «Stiamo cercando di cambiare rispetto al passato, di modificare sia il modo di percepire le cose sia la realtà. Se la CIA non fa così, prima o poi qualcuno staccherà la spina. Ecco perché questa volta ho invitato a collaborare L'FBI e la polizia di Washington. Non voglio la solita indagine interna, per poi venir accusati di aver coperto qualcuno», mi disse spingendo al massimo l'auto. «La CIA non è più un 'mito', come è stata definita per lungo tempo da molti deputati. Stiamo cambiando tutto e in fretta, forse troppo in fretta.» «Ma lei è d'accordo, no?» «Certo, doveva succedere, tuttavia non mi piacciono le chiacchiere che si stanno facendo in giro e non apprezzo sicuramente le attenzioni dei media. Che incredibile massa di stronzi.» Avevamo passato il cavalcavia sulla tangenziale e stavamo entrando in Chevy Chase, dove dovevamo incontrare un certo Andrew Klauk, ex killer sotto contratto della CIA. Il «fantasma» apparteneva alla cosiddetta élite dei sicari. Jeanne Sterling parlava e guidava rapida, senza il minimo sforzo. Pareva fare tutto in quel modo. Era una persona davvero notevole. Suppongo che non potesse essere altrimenti: dirigere gli affari interni della CIA era un lavoro che richiedeva un polso di ferro. «Allora, cos'ha sentito su di noi, Alex?» mi domandò infine. «Quali sono gli ultimi pettegolezzi sull'Agenzia?» «Secondo Don Hamerman, lei non conosce mezzi termini e al momento io ho bisogno proprio di questo; mi ha detto, per esempio, che a suo parere Aldrich Ames ha nuociuto alla CIA ancor più di quanto si sia detto. Afferma che qui a Langley lei viene chiamata Jeanne la Pura. È un suo grande fan.» Jeanne Sterling sorrise, ma in modo controllato. Possedeva una estrema capacità di controllo: intellettuale, emotivo e perfino fisico. Era una persona concreta, solida, con occhi color ambra che parevano sempre scrutarti a fondo. Non si accontentava della superficie: il segno distintivo del buon investigatore. «Non sono poi così brava», ribatté. «Sono stata un'assistente sociale
piuttosto in gamba nei miei primi due anni a Budapest. Per assistente sociale noi intendiamo spia, Alex. Ho fatto la spia in Europa, ma raccoglievo più che altro innocue informazioni. Dopo sono entrata nel War College, a Fort McBain. Mio padre è un militare di carriera e vive con mia madre ad Arlington. Hanno votato tutti e due per Oliver North. Credo fermamente nella nostra forma di governo e cerco anche di impegnarmi a farla funzionare meglio. Credo sia possibile, ne sono convinta.» «Suona bene», le dissi. Tutto, tranne la parte su Oliver North. Ci fermammo davanti a una casa vicinissima a Connecticut Avenue e al Circle. Era in stile coloniale, a due piani, molto bella e accogliente. Il muschio ne ricopriva il tetto e la parete nord. «Vive qui?» chiesi sorridendo a Jeanne. «Ma lei non è Jeanne la Pura?» «Fa tutto parte della facciata, Alex, come a Disneyland o alla Casa Bianca. Tanto per provarglielo, c'è un killer professionista che ci aspetta dentro», rispose lei, ammiccando. «Ce n'è uno anche sulla sua auto», replicai io, ammiccando a mia volta. 49 Il pomeriggio di fine dicembre era insolitamente luminoso e la temperatura superava i dieci gradi, così Andrew Klauk e io ci mettemmo a sedere nel giardino sul retro della bella casa di Jeanne Sterling a Chevy Chase. La proprietà era chiusa da un semplice recinto di ferro. Il cancello era stato appena dipinto di verde ed era socchiuso: alla faccia della sicurezza. I tiratori scelti della CIA, l'élite dei sicari, i «fantasmi» esistevano davvero. Secondo Jeanne Sterling erano più di duecento. Era un elenco di liberi professionisti. Una notizia piuttosto spaventosa per l'America degli anni '90, ma anche per qualunque altro posto, in qualunque altra epoca. E io mi trovavo in compagnia di uno di loro. Cominciammo il nostro colloquio poco dopo le tre. Uno scuolabus giallo si fermò e i bambini scesero nel tranquillo viale suburbano. Un ragazzino biondo sui dieci-undici anni risalì il vialetto ed entrò in casa. Credetti di riconoscerlo dalle foto viste nell'ufficio di Jeanne Sterling, che aveva un maschio e una femmina, proprio come me. E si portava a casa il lavoro, proprio come me: spaventoso. Andrew Klauk era una specie di balena, ma aveva l'aria di sapersi muovere con agilità. Doveva avere circa quarantacinque anni. Era calmo e sicuro di sé, con occhi castani che afferravano il tuo sguardo e non lo molla-
vano più, ti penetravano quasi. Portava un completo grigio sformato con una camicia bianca stropicciata, dal colletto aperto, e scarpe di cuoio marrone, italiane. Un altro tipo di killer, ma pur sempre un killer, pensai. Jeanne Sterling mi aveva posto un paio di domande molto provocatorie durante il breve tragitto in auto: qual era la differenza fra i serial killer cui avevo dato la caccia e gli assassini sotto contratto usati dalla CIA e dall'esercito? Era plausibile che uno di quei sicari ufficiali fosse il Jack di Jack & Jill? Lei pensava di sì. Era certa che fosse un'eventualità da verificare, e non solo dai suoi agenti. Studiai Klauk mentre parlavamo in tono rilassato, perfino lieve, del più e del meno. Non era la prima volta che conversavo con un uomo che aveva ucciso per vivere, con un assassino di massa, per così dire. Solo che a quel killer era concesso tornarsene la sera a casa in famiglia a Falls Church e condurre quella che descriveva come una vita «normale, libera da sensi di colpa». A un certo punto mi disse: «Non ho mai commesso un crimine in vita mia, dottor Cross. Non ho mai preso nemmeno una multa per eccesso di velocità». Poi rise, in modo piuttosto inopportuno, a mio parere. Rideva anche un po' troppo forte. «Cosa c'è di tanto divertente?» chiesi. «Mi sono perso qualcosa?» «Lei è alto uno e novanta e pesa un centinaio di chili?» «All'incirca», ammisi. «Qualcosa di meno sia nell'altezza sia nel peso, ma che importanza ha?» «Per me è importante, detective. Io sono sovrappeso di parecchio e ho l'aria di essere molto fuori forma, ma potrei distruggerla in un momento», rispose. Era un'osservazione antipatica da parte sua, una provocazione. Che potesse farlo o no, aveva comunque sentito il bisogno di dirmelo: era così che funzionava la sua mente. Buono a sapersi. Era comunque riuscito a scuotermi, a rendermi più che cauto. «Si sorprenderà», dissi, «ma non ho capito dove vuole arrivare.» Lui scoppiò di nuovo in una risatina secca e sgradevole. «Ecco il punto. Lo farei sicuramente, se mi venisse chiesto dal nostro Paese. Ecco cosa lei non afferra della CIA e in particolare degli uomini e delle donne nella mia posizione», spiegò. «Mi aiuti ad arrivarci», replicai. «Non dimostrandomi che può uccidermi qui, nel giardino degli Sterling, ma continuando a parlare.» Lui allargò le labbra in un sorriso. «Non mi chieda dimostrazioni, si fidi
di me.» Era un uomo che incuteva un autentico timore e mi ricordava un poco Gary Soneji, il killer psicopatico. Avevo parlato con Soneji proprio in quei termini. Avevano tutti e due facce inespressive, che ti fissavano freddamente per poi scoppiare all'improvviso a ridere. Mi si accapponò la pelle: avevo voglia di alzarmi e andarmene. Klauk mi fissò per un lungo istante prima di proseguire. Sentivo i bambini di Jeanne Sterling in casa: lo sportello del frigo aprirsi e richiudersi, cubetti del ghiaccio che tintinnavano. Gli uccellini cinguettavano sugli alberi. Era una situazione stranissima, incredibilmente assurda. «C'è una regola base nel nostro lavoro: nella sovversione, nel sabotaggio, bisogna essere più bravi del nemico. E noi possiamo fare tutto quello che vogliamo.» Avevo parlato molto lentamente, scandendo ogni parola. «Spesso lo facciamo. Lei è uno psichiatra e un detective della omicidi, giusto? Che cosa crede di scoprire da questo colloquio? Che vuole sentirsi dire da me?» «Niente regole», mormorai. «È questo che mi sta dicendo. Voi vivete e operate in un mondo a parte. Si potrebbe dire che il vostro è un mondo del tutto antisociale.» Lui rise di nuovo. Forse avevo fatto quasi centro. «Nemmeno una. Una volta che ci viene affidato un lavoro, non ci sono più regole. Nemmeno una. Ci pensi.» Ci avrei sicuramente pensato. Anzi, cominciai subito. Ripensai al fatto che Klauk avrebbe cercato di uccidermi, se glielo avesse chiesto la patria. Niente regole, un mondo popolato da fantasmi. La cosa più spaventosa era che lui credeva in ogni parola che pronunciava. Terminata la conversazione con Klauk, almeno per quel pomeriggio, parlai ancora un poco con Jeanne Sterling, seduti nella sua idilliaca veranda che dava sul suo idilliaco giardino. L'argomento della conversazione era sempre l'omicidio. Non mi ero ancora chiarito le idee su quello che mi aveva detto il «fantasma». «Allora, che ne pensa di Mr Klauk?» indagò Jeanne. «Mi ha disturbato, irritato, spaventato a morte», ammisi. «È veramente un essere sgradevole e antipatico. È anche uno stronzo.» «È un incredibile stronzo», annuì lei, poi tacque per un paio di secondi. «Alex, qualcuno all'interno della CIA ha ucciso almeno tre dei nostri agenti. Ecco uno degli scheletri che ho tirato fuori dall'armadio da quando sono ispettore. È un 'crimine irrisolto', ma l'assassino non è Klauk. Andrew è
sotto controllo, non è pericoloso. Si tratta di qualcun altro. A dirti tutta la verità, è stata la Direzione delle operazioni a chiedere che sul caso indagasse un esterno. Siamo convinti che uno dei nostri killer sotto contratto possa essere Jack. Chissà, magari anche Jill è dei nostri.» Rimasi in silenzio. Jack & Jill sono venuti sulla Collina. Jack poteva essere un assassino professionista? E Jill? In questo caso, perché mai colpivano personaggi celebri a Washington? Perché avevano minacciato il presidente Byrnes? La mia mente ribolliva. Pensavo a tutte le possibilità, alle connessioni e anche alle sconnessioni. Due killer sotto contratto rinnegati, liberi. Aveva più senso di qualunque altra cosa avessi sentito fino a quel momento. Secondo me spiegava molte cose su Jack & Jill, soprattutto sull'assenza di emotività o di rabbia nei loro omicidi. Ma perché uccidevano politici e personaggi famosi? Avevano ricevuto un incarico? In questo caso, da chi? A quale scopo? Quale causa servivano? «Posso porle una domanda che mi frulla per la testa da quando siamo arrivati qui?» «Certo. Tenterò di rispondere a tutte le sue domande. Se posso, naturalmente.» «Come mai l'ha fatto venire qui per parlare? Perché portare Andrew Klauk proprio a casa sua?» «È un posto sicuro», rispose lei senza esitare. Ne pareva incredibilmente certa e io mi sentii percorrere da un brivido. Poi emise un profondo sospiro. Intuì che cosa stavo pensando e che cosa provavo stando lì, seduto in casa sua. «Alex, lui sa dove vivo. Andrew Klauk potrebbe venire qui se volesse. Chiunque di loro potrebbe.» Annuii senza ribattere. Conoscevo benissimo quella sensazione, ci vivevo costantemente accanto. Era la mia unica, grande paura. Il mio incubo peggiore. Loro sanno dove viviamo. Se vogliono, possono venire nelle nostre case... quando vogliono. Nessuno poteva più considerarsi protetto. Non ci sono regole. Ci sono «fantasmi» e mostri umani e fanno parte della realtà che ci circonda. Soprattutto della mia. C'erano Jack & Jill. C'era il killer della Truth School.
50 Poco dopo le sette del mattino seguente, sedetti di fronte ad Adele Finaly e le gettai addosso tutto quello che potevo. Mi scaricai. La dottoressa Finaly è la mia analista da una mezza dozzina d'anni, ma vado da lei solo quando ne ho bisogno, e in quel momento ne avevo un gran bisogno. Per di più Adele è anche una mia buona amica. Parlavo in tono concitato e farneticante, ma con lei potevo permettermelo. «Forse ho voglia di mollare la polizia, non voglio più partecipare a nessuna volgare indagine su un caso d'omicidio. Forse voglio andarmene da Washington, o almeno dal sud-est, o andare a trovare Kate McTiernan giù nel West Virginia. Prendermi un anno sabbatico nel bel mezzo della faccenda più scottante che mi sia mai capitata.» «Lo vuoi davvero?» chiese Adele quando ebbi finito. «O sono solo ipotesi?» «Non lo so, Adele, probabilmente sì, sono solo ipotesi. Ho anche conosciuto una donna che potrebbe interessarmi, ma è sposata», aggiunsi sorridendo. «Non farei mai niente con una donna sposata, quindi lei non corre nessun rischio. Non potrebbe essere più al sicuro di così. Forse sto regredendo.» «Vuoi la mia opinione, Alex? Be', non so dartela, ma tu hai sicuramente altra carne sul fuoco.» «Mi trovo nel bel mezzo di un orribile caso di omicidio. Anzi, di due. Sono appena emerso da un altro che mi ha particolarmente turbato, ma credo di poterne uscire da solo. Sai che ti dico? È buffo ma ho il sospetto di voler ancora compiacere mio padre e mia madre, e di non riuscirci. Non riesco a superare il senso di abbandono, a distaccarmene mentalmente. A volte ho la sensazione che i miei genitori siano morti a causa di una specie di tristezza terminale, una sofferenza di cui i miei fratelli e io facevamo parte. Temo di avere la stessa malattia. Credo che mia madre e mio padre fossero intelligenti quanto me e che debbano aver sofferto proprio per questo.» I miei genitori erano morti giovani, nella Carolina del nord. Era stato l'alcol a uccidere mio padre e io non avevo mai veramente superato questo fatto. Mia madre era morta di cancro al polmone un anno prima di lui. Nana Mama mi aveva preso con sé quando avevo nove anni. «Pensi che la tristezza sia una componente genetica, Alex? Bah, non lo so. Hai per caso letto quell'articolo sui gemelli, pubblicato dal New Yor-
ker? Fornisce qualche prova alla teoria dei geni: è spaventoso per la nostra professione.» «Quella di detective?» Adele non commentò la mia battuta. «Scusami», dissi. «Mi dispiace.» «Non devi scusarti. Sai come mi fai contenta ogni volta che vieni a sfogarti qui.» Scoppiammo a ridere. Mi piace parlare con lei perché uniamo sempre il riso alle lacrime, gli aspetti seri a quelli assurdi, la verità alla menzogna, facendo emergere qualunque cosa mi disturbi. Adele Finaly ha tre anni meno di me, ma è più saggia della sua età e forse anche della mia. Una seduta con lei funziona meglio del blues in veranda. Parlai ancora un poco liberamente e dopo mi sentii meglio. È meraviglioso avere qualcuno cui si può dire assolutamente tutto. Non averlo mi farebbe impazzire. «Ultimamente mi sono reso conto di una cosa», proseguii. «Maria è stata uccisa e io non ho ancora superato il suo lutto, proprio come non ho mai superato la perdita di mio padre e mia madre.» Adele annuì, comprensiva. «È incredibilmente difficile trovare un'anima gemella.» Lei lo sa bene, perché purtroppo non c'è mai riuscita. «Ed è difficile perdere un'anima gemella. Quindi, naturalmente, adesso, l'idea di perdere qualunque altra persona cui dovessi affezionarmi mi atterrisce. Sfuggo qualunque rapporto perché potrebbe finire con una perdita. Non mollo il mio lavoro nella polizia perché sarebbe a sua volta una specie di perdita.» «Ma ci pensi parecchio.» «Di continuo, Adele, sta per capitare qualcosa.» «È già capitato, l'ora è finita», annunciò. «Bene», dissi sorridendo. C'è chi va a teatro per farsi una buona risata, io vado dalla mia strizzacervelli. «Sei simpaticamente carico d'ostilità, Alex, e non credo che tu stia regredendo. Credo anzi che te la cavi benissimo.» «Dio, come mi piace parlare con te», esclamai. «Rivediamoci fra un mesetto, quando ne avrò di nuovo le palle piene.» «Non ne vedo l'ora», fece lei strofinando le piccole mani. «Nel frattempo, come dice Bart Simpson: 'Non prendertela troppo, amico'.» 51
Il detective John Sampson non ricordava di aver mai lavorato in modo così duro per tanti giorni di fila. Non ricordava di essersi mai sentito così di merda in vita sua. Aveva un mucchio di orribili omicidi da risolvere, oltre al caso della Sojourner Truth School, che non pareva portare da nessuna parte. Il mattino dopo l'assassinio al Kennedy Center, Sampson percorse il lato occidentale di Garfield Park, tenendo gli occhi ben aperti. Cercava il vagabondo sospetto di Alex, che era stato visto il pomeriggio dell'omicidio di Shanelle Green e poi mai più. Anche quella dunque stava diventando una pista morta. In casi tanto complessi, Alex usava una formula semplice. Per prima cosa bisognava rispondere alle domande che si facevano tutti: Che tipo di persona farebbe mai una cosa del genere? Davanti a quale pazzo ci troviamo? Sampson aveva deciso di far rientrare nel suo giro una visita alla Theodore Roosevelt Academy School, l'esclusiva accademia militare che usava Garfield Park per i suoi allenamenti di atletica e le sue manovre paramilitari. C'era la vaga possibilità che qualche cadetto dall'occhio sveglio avesse notato qualcosa. Un figlio di puttana di barbone bianco, si ripeteva Sampson salendo i gradini d'ingresso della Roosevelt Academy. Un killer disorganizzato e sbadato, che lascia impronte ovunque, eppure non riusciamo a inchiodarlo. Ogni singolo indizio conduce solo a un punto morto. Come mai? Stiamo sbagliando tutto? In che pantano ci siamo ficcati? Lui, Alex e tutto il resto della squadra. Sampson voleva parlare con il comandante della scuola, con il Gran Capo in persona. Aveva servito quattro anni nell'esercito, due dei quali in Vietnam. L'accademia immacolata gli fece venire in mente l'ufficio di reclutamento nel campus universitario, pieno di ufficiali quasi tutti di razza bianca. Molti erano morti inutilmente, secondo la sua opinione, e un paio di loro erano stati suoi amici. La Roosevelt Academy era composta da quattro edifici di mattoni rossi molto ben tenuti. In quel luogo tutto pareva urlargli addosso «ordine», «precisione» e «soldatini bianchi morti». Prova a immaginare qualcosa del genere fra le case popolari del sudest, pensò, continuando la sua passeggiata solitaria all'interno dell'accademia. L'idea lo fece sorridere. Riusciva quasi a vedere cinquecento soldatini risplendenti nelle loro uniformi blu, con gli stivali scintillanti e la piuma
sul cappello. Davvero un'immagine da contemplare, che poteva perfino far bene. «Posso aiutarla, signore?» gli chiese un cadetto biondo e magro quando Sampson entrò in uno degli edifici. «Sei di guardia?» chiese Sampson con il suo accento lento e biascicato, ultima vestigia della madre cresciuta in Alabama. Il soldatino scosse la testa. «Nossignore, ma posso fare qualcosa per lei?» «Sono della polizia di Washington», rispose Sampson. «Devo parlare con chi dirige la baracca. Ci pensi tu, soldato?» «Sissignore!» Il cadetto levò la mano in un saluto, strappandogli il primo, e forse unico, sorriso della giornata. 52 Oltre trecento cadetti lucidi e strigliati affollavano la Lee Hall alle nove del mattino. Indossavano l'uniforme regolamentare: pantaloni grigi, camicia e cravatta nere, giacca grigia che arrivava alla vita. Dal suo rigido sedile di legno nell'auditorium della Roosevelt Academy, il killer della Truth School vide il gigante nero entrare nella Lee Hall. Lo riconobbe subito. Quel coglione era il detective John Sampson, amico e collega di Alex Cross. Non era una buona cosa, anzi era pessima. Il killer si fece prendere immediatamente dal panico, sentì un'autentica paura. Si chiese se la polizia l'avesse già individuato. Sapevano chi era? Gli venne voglia di scappare... ma in quel momento non c'era modo di farlo. Doveva starsene seduto e ingoiare la paura. All'inizio provò vergogna e pensò di essere sul punto di vomitare. Voleva nascondere la testa fra le gambe. Si sentiva un vero idiota a farsi beccare in quel modo. Si trovava a una ventina di metri dal punto in cui il colonnello Wilson e il detective stavano parlando. Confabulavano come se stesse per capitare qualcosa di incredibilmente importante. Ogni cadetto che passava loro davanti li salutava, da bravo robot qual era, mentre nell'intera sala si diffondeva un mormorio d'apprensione. Sta per scatenarsi il pandemonio? Questo pensiero riecheggiava nella testa dell'assassino. La polizia stava per arrestarlo davanti a tutta l'acca-
demia? Era stato individuato? Ma come avevano potuto trovare qualcosa che portasse a lui? Non aveva senso. Questo pensiero riuscì un poco a calmarlo. Era una calma falsa? Un falso senso di sicurezza? si chiese abbassandosi un poco nel rigido sedile di legno e desiderando in qualche modo scomparire. Poi tornò a sedersi diritto. Oh, merda, eccoli! Osservò attento il detective della omicidi che s'incamminava lentamente verso il podio in compagnia del colonnello Wilson. Il cuore dell'assassino pulsava come la sezione ritmica di una canzone dei White Zombie. L'assemblea iniziò come al solito, enunciando le doti dei cadetti, «onestà e integrità nel pensiero e nell'azione», e tutte le altre stronzate. Poi il colonnello Wilson si mise a parlare dei «vili omicidi di due bambini a Garfield Park» e proseguì dicendo: «La polizia ha passato al setaccio il parco e i suoi dintorni. Forse un cadetto della Theodore Roosevelt ha involontariamente visto qualcosa che potrebbe risultare utile alle indagini. Magari uno di voi può aiutare in qualche modo la polizia». Ecco spiegato il motivo della presenza dell'imponente detective: andava semplicemente a pesca, continuava a indagare sui due omicidi. Ma il killer tratteneva ugualmente il fiato, gli occhi sgranati e puntati sul palco dove Sampson aveva preso il microfono. L'omone nero era come un pugno nell'occhio tra le uniformi, i capelli corti e le facce quasi tutte rosa. Era veramente grande e grosso. Pareva anche del tutto padrone di sé nel giubbotto di pelle nera, la camicia grigia e la cravatta nera. Torreggiava sul microfono del podio, sistemato all'altezza del colonnello Wilson. «Ho servito in Vietnam, sotto un paio di tenenti che avevano circa la vostra età», disse il detective con voce calma e profonda. Poi scoppiò in una risatina alla quale i cadetti fecero eco. Aveva un certo carisma, anzi ne aveva un sacco. Pareva veramente qualcuno. Il killer pensò che Sampson stesse ridendo dei cadetti, ma non ne era sicuro. «La ragione per cui sono venuto qui stamattina», proseguì il detective, «è che stiamo passando al setaccio Garfield Park e i suoi dintorni. Due bambini sono stati uccisi selvaggiamente la settimana scorsa. Qualcuno ha fracassato loro il cranio. Per dirla senza mezzi termini quell'assassino è una vera belva.» Al killer venne voglia di fargli un gestaccio. L'assassino non è una belva. È molto più freddo e controllato di quanto pensi. «Il colonnello Wilson mi dice che molti di voi tornano a casa attraver-
sando il parco, dove vi recate anche a fare sport e giocare a pallone. Lascerò il mio numero nella segreteria della scuola. Se pensate di aver visto qualcosa di utile, potete chiamarmi a qualunque ora, di giorno o di notte.» Il killer della Truth School non riusciva a staccare gli occhi di dosso al torreggiante detective, dall'aria così calma e sicura. Si chiedeva se potesse rappresentare una sfida. Per non parlare di quel figlio di puttana di Alex Cross, che gli ricordava il suo vero padre... poliziotto. Pensò che in realtà era lui la sfida per loro. «Ci sono domande?» chiese Sampson dal palco. «Qualunque domanda? È il momento giusto per porla. Parlate pure, ragazzi.» Al killer venne voglia di urlare, il terribile impulso di levare in alto il braccio e offrire al detective un autentico aiuto. Così si mise le mani sotto il sedere, a scanso di equivoci. Ho involontariamente visto qualcosa a Garfield Park, signore. Forse so chi ha ucciso quei due ragazzini con una mazza da baseball. Veramente, a essere sincero, li ho uccisi io, signore. Sono io l'assassino, stupido stronzo! Prendimi, se ci riesci. Sei più grosso di me, molto più grosso. Ma io sono molto più furbo di quanto tu riuscirai mai a essere. Ho solo tredici anni e sono già così bravo! Aspetta che diventi un poco più grande. Pensaci su, stupido bastardo. PARTE QUARTA LA CACCIA È APERTA 53 Mi sdraiai sul divano con la micia Rosie e il mio sacco pieno di incubi. Rosie è una bella gatta abissina dal pelo marrone rossastro, incredibilmente agile e molto indipendente. In fatto di fusa, però, è una campionessa. Si muove in un modo che mi ricorda i felini africani molto più grossi di lei. È arrivata la mattina di un giorno festivo, la casa le è piaciuta e si è fermata. «Non sarà che un giorno o l'altro ci lascerai, vero, Rosie? Che te ne andrai come sei venuta?» Rosie scosse tutto il corpo. «Che domanda stupida», mi stava dicendo. «Non ci penso neanche, ormai faccio parte della famiglia.» Non riuscivo a dormire e neanche le fusa di Rosie mi rilassavano. Non ero semplicemente stanco, ero confuso, la mente sconvolta da mille pen-
sieri. Contavo omicidi al posto delle pecore. Verso le dieci decisi di fare un giro in macchina per snebbiarmi il cervello, forse avrei recuperato il contatto con il mio chi. Forse avrei capito qualcosa di più almeno su uno dei due casi. Tenni il finestrino aperto, anche se fuori c'erano tre gradi sotto zero. Non sapevo esattamente dove andare, ma il mio inconscio lo sapeva benissimo. L'analista analizza l'analista. Continuavo a rimuginare sui due casi, che sembravano seguire tracce pericolosamente parallele. Riesaminavo ogni parola del colloquio avuto con il killer della CIA, Andrew Klauk, cercando di collegare quello che mi aveva detto ai delitti di Jack & Jill. Era possibile che Jack fosse un «fantasma»? Mi ritrovai su New York Avenue, che non è altro che la Route 50 che poi diventa la John Hanson Highway. Christine Johnson stava da quelle parti, in fondo al raccordo, in Prince Georges County. Sapevo dove abitava: avevo dato un'occhiata al taccuino del primo detective che l'aveva interrogata dopo l'omicidio di Shanelle Green. È una follia, pensavo, puntando verso il suo sobborgo: Mitchellville. Quella sera avevo parlato con Damon della sua scuola e dei suoi insegnanti. Alla fine ero arrivato alla direttrice. Damon, da quel dritto che è, aveva capito subito tutto. «Ti piace, eh?» mi aveva chiesto con un lampo di furbizia negli occhi. «Ti piace, vero, papà? Piace a tutti, perfino a Nana. Dice che Mrs Johnson è il tuo tipo. Ti piace, vero?» «Non c'è niente che non vada in Mrs Johnson», ammisi. «Però è sposata, non dimenticarlo.» «Non dimenticarlo tu», ribatté lui, scoppiando in una risata alla Bart Simpson. Ed eccomi lì a girovagare in macchina in quel sobborgo, a un'ora relativamente tarda. Che diavolo stavo facendo? A che cosa pensavo? Avevo passato una tale quantità di tempo con i pazzi da esserne infine rimasto contagiato? O stavo piuttosto seguendo il mio istinto più saggio? Vidi Summer Street e svoltai rapido a destra, facendo stridere un poco le gomme e spezzando così la quiete perfetta della zona residenziale. Dovevo ammettere che era un bel quartiere, perfino di notte. Le strade erano tutte illuminate e le case e i giardini erano addobbati da una gran quantità di luminarie natalizie, elaborate e sicuramente costose. I marciapiedi erano bianchi e a ogni angolo c'era un lampioncino in stile coloniale.
Mi chiesi quanto costasse a Christine Johnson lasciare ogni giorno un ambiente tanto bello e rassicurante per venire a lavorare nel sud-est. Mi chiesi quali fossero i suoi demoni personali. Mi chiesi perché lavorasse sempre fino a tardi la sera e che tipo fosse suo marito. Poi vidi la sua auto blu scuro parcheggiata nel vialetto di una grande casa, con la facciata di mattoni, e il cuore mi balzò in gola. All'improvviso tutto diventò reale. Proseguii fino a superare la casa, poi accostai al marciapiede e spensi i fari, cercando di spegnere anche il rombo che avevo nel cervello. Fissai il retro della Ford Explorer bianca parcheggiata davanti a me. Lo fissai almeno per un paio di minuti, giusto il tempo che sarebbe resistita in una strada di periferia prima di essere rubata. Non era stata una buona idea. Il dottor Cross non approvava completamente le azioni del dottor Cross. Mi stavo comportando veramente male. Stare lì, in macchina, al buio, in quel quartiere non era un atteggiamento molto saggio. Mi venne in mente qualche massima da strizzacervelli. Impara ad affrontare un giorno alla volta. Ti porti ancora dietro l'infanzia. Se sei davvero felice, stai attraversando una fase negativa. «Vattene a casa», dissi ad alta voce nell'auto buia. «Devi soltanto importi a te stesso.» Ma non feci altro che rimanere seduto, al buio, ascoltando i miei sospiri e il patetico conflitto interiore che si stava svolgendo nella mia testa. Dal finestrino aperto mi arrivavano il profumo dei pini e della legna che stava bruciando in qualche camino. Il motore, che si stava raffreddando, emetteva ogni tanto un cigolio. Conoscevo abbastanza quel quartiere: avvocati e medici di successo, architetti, professori dell'università del Maryland e qualche ufficiale in pensione della base aeronautica di Andrews. Molto bello e molto sicuro, senza nessun bisogno di essere controllato da uno sbranamostri. Benissimo, pensai, andiamo a trovarla. Andiamo a trovarli tutti e due, Christine e suo marito. Ero sicuro che avrei trovato una scusa per quella visita improvvisa. Avevo una certa parlantina quando occorreva. Rimisi in moto la vecchia Porsche, senza sapere esattamente quello che stavo per fare. Staccai il piede dal freno e l'automobile si mosse da sola, scivolando lentamente. Continuai in quel modo per un intero isolato, sentendo le gomme che
schiacciavano le foglie secche e qualche sasso. Tutti i rumori mi parevano amplificati. Finalmente mi fermai davanti a casa Johnson. Osservai il prato immacolato e le siepi tagliate a regola d'arte. Il momento della verità. Il momento della decisione. Il momento della crisi. Vidi qualche luce dentro casa, piccoli focherelli accesi. Qualcuno era ancora alzato. La Mercedes blu scuro se ne stava pacifica davanti alla porta chiusa del garage. Ha una bella macchina e una bella casa. Christine Johnson non ha nessun bisogno di un guaio come te. Porta via da qui i tuoi mostri. Lei ha un marito avvocato e se la cava benissimo anche senza di te. Come aveva detto che si chiamava suo marito... George? George il procuratore. George il ricco procuratore. C'era solo un'auto nel vialetto: quella di Christine. Immaginai che dentro il garage ce ne fosse un'altra, magari una Lexus. Magari c'erano anche la griglia per il barbecue, il tosaerba, l'aspiratore per le foglie e forse un paio di mountain bike per il week-end. Spensi il motore e scesi dall'auto. Lo sbranamostri è arrivato a Mitchellville. 54 Ero molto curioso nei confronti di Christine Johnson, ma probabilmente la faccenda era anche più complicata. Ti piace, vero, papà? Sì, mi piaceva... molto. Sentivo il bisogno di vederla, per quanto stupido potesse sembrare. Scendendo dall'auto, tuttavia, fui colpito da un pensiero positivo: sarebbe molto più stupido andarsene. Inoltre Christine Johnson rientrava a pieno titolo nel caso a cui stavo lavorando. C'era un motivo abbastanza logico per volerle parlare: erano stati uccisi due suoi scolari, due bambini della sua scuola. Perché proprio la Truth School? Perché un assassino era arrivato tanto vicino a casa mia? Arrivato davanti alla porta, notai soddisfatto che le luci esterne erano accese: non volevo che il marito o qualche vicino mi vedesse avvicinarmi furtivo alla casa, avvolto dalle tenebre. Suonai il campanello, che emise un paio di note melodiose, e attesi, immobile come una scultura, nel portico. Dentro casa un cane si mise ad abbaiare forte, poi Christine Johnson comparve sulla soglia.
Indossava un paio di jeans sdruciti, un maglione giallo girocollo, calzini bianchi ed era senza scarpe. Un pettinino di tartaruga le tratteneva i capelli da un lato e portava gli occhiali. Aveva tutta l'aria di essersi portata a casa un po' di lavoro. Eravamo simili come due gocce d'acqua, no? Be', non esattamente. In realtà io ero molto lontano dalla mia solita acqua. «Detective Cross?» disse lei, comprensibilmente sorpresa. Io stesso ero sorpreso di trovarmi lì. «Non è successo niente di nuovo», la rassicurai subito. «Avrei solo qualche altra domanda da farle.» Era vero. Non mentirle, Alex, non osare mentirle. Nemmeno una volta. Mai. Sorrise, anche con gli occhi, che erano grandi e castani. Dovetti smettere subito di fissarli. «Lavora fino a tardi, è troppo perfino in queste tragiche circostanze», osservò. «Non riuscivo a non pensarci, stasera. In realtà sto curando due casi, così eccomi qui a quest'ora, ma se è un brutto momento passerò domani a scuola. Non c'è problema.» «No, entri pure», disse lei. «So quanto è occupato, posso immaginarlo. Entri, la prego. Non faccia caso al disordine: la mia casa è come il governo, niente è mai al suo posto.» Attraversammo l'ingresso, dal pavimento di marmo color crema, e il soggiorno; i divani, color ocra e ambra bruciata, avevano un'aria molto comoda. Non disse nulla, né mi chiese ulteriori spiegazioni per la mia visita. Il silenzio che ci circondava era palpabile. Il mio chi stava sgusciando via. Mi portò in cucina e si diresse verso il grosso frigo a due ante, che si aprì con un lungo sibilo. «Mi faccia vedere... ci sono birra, Diet-Coke, tè freddo. Se vuole posso preparare un caffè o un tè caldo. Lei lavora troppo, questo è sicuro.» Aveva usato un tono da insegnante. Era comprensibile, ma mi ricordò che probabilmente avevo ancora qualcosa da imparare. «La birra mi sembra un'ottima idea», risposi, guardandomi intorno in quella cucina che era il doppio della mia, con le pareti ricoperte di armadietti bianchi e i faretti inseriti nel soffitto. Al frigo era attaccato un adesivo con la scritta MARCIA PER I SENZATETTO. Aveva una bellissima casa... lei e George avevano una bellissima casa. Notai una scritta ricamata, incorniciata e appesa alla parete. Era in swahili: Kwenda mzuri. È un augurio che significa «stai bene». Un pensiero gentile? Una massima di saggezza?
«Sono contenta che lei voglia una birra», mi disse sorridendo. «Significa che almeno è vicino a finire la sua giornata. Sono quasi le dieci e mezzo, lo sa? Che ora fa il suo orologio?» «È così tardi? Le faccio davvero le mie scuse», replicai. «Possiamo parlarne domani.» Christine mi diede una Heineken e si versò un tè freddo, poi mi sedette di fronte, al bancone in mezzo alla cucina. La casa non appariva affatto in disordine come mi aveva detto, aveva solo un'aria vissuta. A una parete erano appesi i disegni dei bambini della Truth School. Il mio sguardo si soffermò anche su un bel ricamo antico teso su un telaio. «Allora, cosa succede, dottore?» chiese lei. «Cosa l'ha portata a Mitchellville?» «Se devo essere sincero, non riuscivo a dormire, così mi sono messo al volante e sono arrivato fin qui. Poi mi è venuta la brillante idea che magari insieme avremmo scoperto qualcosa sul caso... o forse avevo solo bisogno di parlare con qualcuno.» Terminata la confessione, mi sentii molto meglio, o quantomeno meglio con la mia coscienza. «Quand'è così, va bene, anzi benissimo. Anch'io non riuscivo a dormire», mi disse. «La morte di Shanelle è stata un gran brutto colpo, e poi il povero Vernon Wheatley. Così mi sono messa a curare le piante tenendo in sottofondo E.R. alla televisione. Piuttosto patetico, non trova?» «Nient'affatto, non credo sia così strano. E.R. non è poi tanto male. Mi lasci dire che ha una gran bella casa, dottoressa Johnson.» Scorgevo il televisore in soggiorno, un Sony enorme sul quale scorrevano ancora le immagini del telefilm sugli eroici medici. Un cagnolino nero sbucò dallo stretto corridoio da cui salivano i gradini coperti da una moquette beige. «È Meg», la presentò Christine. «Stava guardando anche lei E.R. Le piacciono i drammi umani.» Il cane strofinò il muso contro la mia gamba, poi mi leccò una mano. Non so perché mi venne voglia di dirglielo, ma non seppi trattenermi. «A volte di notte mi metto a suonare il pianoforte che sta in veranda, così non disturbo troppo i bambini. O forse loro hanno semplicemente imparato a dormire anche con la mia musica», dissi. «Un po' di Gershwin, qualche nota di Brahms o di Jelly Roll Morton all'una del mattino non ha mai fatto male a nessuno.» Christine Johnson sorrise, apparentemente a proprio agio. Pareva una persona molto sicura di sé, convinta di quello che faceva, l'avevo notato fin dalla prima sera.
«Qualche volta, a scuola, Damon ha accennato ai suoi concerti notturni. Sa, capita che parli di lei agli insegnanti. È un ragazzo simpatico, oltre a essere molto intelligente. Piace a tutti.» «Grazie, piace molto anche a me. È fortunato ad avere la Sojourner Truth School vicino a casa.» «Sì, credo di sì», annuì Christine. «Purtroppo molte scuole del Distretto di Columbia sono in condizioni disperate. La Truth è un piccolo miracolo per i bambini che la frequentano.» «Un suo miracolo?» «Oh, no! Molta gente ha dato il suo contributo, e io, forse, meno di tutti gli altri. Lo studio legale di mio marito ha contribuito con un'offerta e io mi limito a tenere in vita il miracolo. Però credo davvero nei miracoli. Da quanto tempo è morta sua moglie, Alex?» mi chiese infine, cambiando d'improvviso discorso. Anche se la domanda non era innocua, Christine me la pose in un tono molto naturale. Mi colse però ugualmente di sorpresa: intuii di dover rispondere anche se non ne avevo voglia. «Tra non molto saranno cinque anni», dissi, trattenendo un poco il fiato. «In marzo, per essere esatti. Jannie aveva meno di un anno. Mi ricordo che quella sera andai a casa e la tenni stretta per tutta la notte: in realtà fu lei a consolare me.» Era piacevole chiacchierare seduti al bancone della cucina: ci stavamo aprendo l'un l'altra. All'inizio soltanto piccole cose, poi, via via, argomenti più importanti. Parlammo degli omicidi alla Truth School, nella speranza che saltasse fuori qualcosa di utile. Andammo avanti fin quasi a mezzanotte. Finalmente le dissi che dovevo tornare a casa e lei annuì. I suoi occhi mi dicevano che aveva capito tutto quello che era successo quella sera e che ne era contenta. Sulla porta mi sorprese di nuovo: si alzò in punta dei piedi e mi diede un bacio sulla guancia. «Torni pure, Alex», disse, «se ha voglia di parlare. Mi troverà a curare le piante nella mia lussuosa casetta. Kwenda mzuri», mi salutò infine. Ci lasciammo così: stai bene. Era una situazione strana, un momento particolare delle nostre vite. Non avevo idea se il marito fosse in casa. Era a letto a dormire? Si chiamava veramente George? Stavano ancora insieme? Era un altro mistero da risolvere, ma ci avrei pensato un altro giorno, non quella sera.
Tornando a casa, mi chiedevo se avrei dovuto sentirmi a disagio per quella visita fuori della norma. Decisi di no, che non mi avrebbe messo in imbarazzo nemmeno il giorno seguente. Era merito suo, era stata lei a mettermi incredibilmente a mio agio. Avevo passato due ore molto piacevoli, ma anche dolorose, in un certo senso. Arrivato a casa suonai il piano ancora per un'oretta: prima Beethoven poi Mozart. Quella sera mi faceva bene la musica classica. Poi salii a dare un bacio a Damon e Jannie. Fu un bacio lieve, come quello che mi aveva dato Christine Johnson. Alla fine mi addormentai sul divano in soggiorno. Mi sentivo solo, ma non al punto da commiserarmi. Lo squillo del telefono mi svegliò bruscamente, sparandomi l'adrenalina in corpo come una scarica di corrente elettrica. Erano di nuovo Jack & Jill. 55 La Tysons Gallery in Tysons Corner era, con il vicino Tysons Corner Mall, uno dei centri commerciali più grossi degli Stati Uniti e forse del mondo. Sam Harrison spense il motore dell'auto nell'enorme parcheggio della Gallery poco dopo le sei del mattino. C'erano già un centinaio d'auto, anche se le boutique di Versace, Neiman Marcus e Tiljengrist avrebbero aperto solo alle dieci. Il negozio Maryland Bagels, invece, diffondeva già nell'aria il profumo di dolci e focaccine appena sfornati, ma Jack non era andato al Tysons Corner per fare colazione. Dal parcheggio raggiunse di corsa Chain Bridge Road nel McLean Village. Indossava una tuta Fila bianca e blu con i calzoncini corti e sembrava in tutto e per tutto un abitante di quel quartiere da un milione di dollari a casa. Quella era una delle regole più importanti del gioco: avere sempre l'aria di uno del posto. Con i capelli biondi tagliati corti e il fisico asciutto sembrava un pilota dell'USAIR o della Delta. O forse un professionista della zona, un medico o un avvocato. Era comunque perfettamente calato nell'ambiente: un pesce nell'acqua. Aveva saputo fin dall'inizio che quell'omicidio sarebbe stato compito suo: Jill non poteva permettersi di farsi vedere al McLean Village. Era il colpo più pericoloso, eccessivo persino per Jack & Jill, per il gioco dei giochi. Quell'omicidio era un azzardo, una sfida impossibile: forse la vittima
stava aspettando il suo carnefice. Il numero quattro era il più difficile e andava colpito nel modo più difficile. Continuava a pensarci mentre correva verso il proprio obiettivo nel pacifico quartiere suburbano di Washington. Attraversò Livingston Road cercando di liberare la mente da qualsiasi pensiero, tranne quello del compito che lo aspettava. Era di nuovo Jack, il brutale assassino, il massacratore di personaggi famosi: entro pochi minuti l'avrebbe provato. Sarebbe stata dura, la missione più dura di tutte. L'uomo che stava per uccidere era stato uno dei suoi migliori amici. Ma nel gioco della vita e della morte l'amicizia non contava nulla. Lui non aveva più migliori amici. Non aveva più amici. 56 Sono Sam, Sam sono io, pensava correndo. Ma non era veramente Sam Harrison. In realtà non era biondo e non portava mai tute di marca. Chi diavolo sono? Cosa sto diventando? si chiedeva mentre i suoi passi risuonavano sul terreno. Sapeva che la casa al 31 di Livingston Road aveva un sofisticato sistema d'allarme. Non si sarebbe mai aspettato niente di meno. Affrettò il passo. Alla fine lasciò la strada e sparì tra i pini e gli arbusti, continuando a correre. Era in ottima forma e non sudava nemmeno. Si sentiva concentrato, forte, pronto a riprendere il gioco, pronto a uccidere di nuovo. Immaginò di potersi avvicinare a un centinaio di metri dalla casa senza essere visto, poi avrebbe fatto uno scatto per portarsi fino al garage. Sarebbe stato allo scoperto per poco, tuttavia completamente esposto. Non c'era altro modo, però; Dio sapeva quanto ci avesse pensato. Stava per penetrare in una villa del McLean Village, era incredibile! Gli sembrava di essere in guerra. Una guerra combattuta casa per casa, una guerra rivoluzionaria. Dal bosco vedeva altre due grandi case in stile coloniale. Le luci erano tutte spente e pareva che nessuno si fosse ancora svegliato in Livingston Road. Fino a quel momento la fortuna era stata dalla sua. La fortuna o l'abilità, o piuttosto l'unione delle due. A quanto pareva, al numero 31 dormivano ancora tutti. Ma non poteva esserne certo finché non fosse entrato in casa e allora sarebbe stato troppo
tardi per tornare indietro. L'FBI poteva aspettarlo dentro casa o tenerlo d'occhio anche lì nel bosco. Era pronto a qualsiasi evenienza. Tutto poteva accadere, in qualunque momento, a lui o a Jill. Decise di uscire allo scoperto, con aria disinvolta e tranquilla, come se fosse stato a casa sua. Non fece molto rumore nel sollevare la porta del garage. La socchiuse appena, si chinò ed entrò. Andò dritto alla cassetta con i comandi del sistema d'allarme e lo disattivò digitando il codice. Un apparecchio tanto sofisticato quanto inefficace, che non offriva alcuna protezione, soprattutto da gente come lui. Entrò nella parte principale della casa. Il cuore gli batteva violentemente e sentiva il sudore scendergli lungo il collo. Immaginava la faccia di Aiden, la vedeva come se fosse stato in piedi accanto a lui. La casa era tranquilla e silenziosa. Il frigo ronzava appena. I disegni dei bambini e un menu della mensa scolastica erano attaccati alla porta della cucina con dei magneti. Questo gli fece sprofondare il cuore. I bambini di Aiden. Aiden Junior aveva nove anni e Charise sei. La moglie Merrill, con i suoi trentaquattro, ne aveva quindici meno del marito. Per lei era il secondo matrimonio, il terzo per lui. Sembravano molto innamorati l'ultima volta che li aveva visti insieme. Jack attraversò rapido il soggiorno e trattenne il respiro. C'era qualcuno in quella stanza! Jack si girò di scatto a sinistra, puntando la pistola. Cazzo, era solo un maledetto specchio! Si ritrovò a fissare la propria immagine. Riprese fiato e proseguì, il cuore continuava a martellargli in petto. Attraversò rapidamente il soggiorno, pieno di ricordi che gli si affollavano nella coscienza. Ricordi dolorosi: li respinse. Prese a salire i gradini coperti da una folta moquette e si fermò per un attimo, colto per la prima volta dal dubbio. Non puoi aver dubbi! Dubbi e incertezze non sono permessi! Non questa volta. Non nella partita giocata da Jack & Jill. Si ricordava il corridoio al piano di sopra, conosceva molto bene la casa. C'era già stato... da «amico». La camera matrimoniale era l'ultima a destra. In quella stanza dovevano esserci delle armi: una 357 nel cassetto del comodino e un'automatica attaccata con l'adesivo alla rete del letto. Lui lo sapeva, sapeva tutto.
Se Aiden l'aveva già sentito, era finita. Il gioco sarebbe terminato in pochi istanti. Sarebbe stato l'epilogo di Jack & Jill. Non era il momento adatto per pensieri del genere. Anzi, non era proprio il momento di pensare. La sera prima era andato a vedere Pulp Fiction, ma non si era divertito anche se aveva riso un paio di volte. La storia era nauseante, ma la nausea di Jack era molto più grande, e più grande ancora quella degli Stati Uniti d'America. Smettila di pensare, si disse. Smettila. Agisci! Colpisci, subito! E vattene! Jack uccide i personaggi più famosi d'America! Toglie di mezzo i pezzi grossi di ogni campo, ecco cosa fa. Diventa Jack! Ma lui non era Jack. In realtà non era nemmeno Sam Harrison! Non pensare, si ordinò di nuovo, avviandosi rapido verso la porta della camera da letto. Sii Jack. Uccidi. 57 Jack - chiunque egli fosse - si trovava a tre o quattro passi dalla camera quando la porta di legno laccato improvvisamente si spalancò. Un uomo alto e calvo uscì nel corridoio. Aveva le gambe e le braccia molto pelose e i piedi ossuti erano scalzi, con le dita aperte. Era ancora semiaddormentato e stava sbadigliando. Indossava solo un paio di boxer scozzesi blu. Il fisico atletico era appesantito soltanto da un filo di grasso che si notava sopra l'elastico in vita. Era ancora in piena forma nonostante tutti quegli anni di pranzi ufficiali nella capitale. Era il generale Aiden Cornwall! «Sei tu, figlio di puttana!» esclamò, vedendosi a un tratto davanti Jack. «Lo sapevo che potevi essere tu.» Il generale comprese tutto in un istante. Aveva risolto il mistero: più di un mistero, in realtà. Aveva capito tutto di Jack & Jill: qual era il loro obiettivo, come mai Jack si trovava lì e perché non poteva più tornare indietro. Jack premette due volte il grilletto della sua Beretta munita di silenziatore e, prima che il generale Cornwall crollasse a terra, avanzò rapido per so-
stenerne il corpo senza vita. Lo tenne fra le braccia e lo lasciò scivolare lentamente sul tappeto. Era stato un amico, qualunque cosa significasse quella parola. Rimase inginocchiato al suo fianco per un lungo istante, con il cuore che sembrava impazzito. Non si era reso conto fino a quel momento di quanto sarebbe stata dura e lo capì soltanto in quell'istante. Fissò gli occhi grigi, ancora colmi di stupore, dell'ex capo di stato maggiore, membro dell'unità di crisi organizzata dalla Casa Bianca per combattere Jack & Jill. Aveva abbattuto un segugio, proprio così. Jack & Jill avevano audacemente fatto fuori proprio uno degli uomini che davano loro la caccia! Avevano dimostrato di nuovo la loro forza. Prese un biglietto dalla tasca e lo posò sul petto di Aiden Cornwall. Jack & Jill son venuti stamattina a farvi visita sulla Collina. La vostra misera difesa pareva salda e sicura, ma Jack & Jill, che non han paura, anche oggi vi han colto di sorpresa, e un varco han trovato nella vostra Difesa. Un rumore in corridoio! Jack levò lo sguardo: il figlio di Aiden! «Oh, Dio mio, no», bisbigliò. «Oh, cristo, no!» Era quasi sopraffatto dalla nausea e aveva soltanto voglia di scappare da quella casa. Il bambino l'aveva riconosciuto, naturalmente. Aiden junior conosceva persino i suoi figli. Sapeva troppo. Buon Dio, abbi pietà di me. Ti prego, abbi pietà. Jack premette di nuovo il grilletto della Beretta. La guerra è guerra. 58 Venni convocato alla Casa Bianca per una riunione d'emergenza alle otto di mattina del 10 dicembre. Negli ultimi giorni le mie indagini avevano causato un certo subbuglio, sollevato onde di scontento e scompigliato il pollaio. Alle tigri in cima alla Collina non piaceva essere sospettate... ma
lo erano tutte, almeno sul mio taccuino personale. Jay Grayer mi venne incontro non appena entrai nell'ala ovest. Aveva uno sguardo indecifrabile, freddo e duro, mentre mi teneva saldamente per un braccio. «Alex, devo parlarti un minuto», disse. «È importante.» «Che c'è ancora?» gli chiesi. L'agente Grayer aveva una gran brutta faccia, con due grosse occhiaie scure in cui leggevo che era capitato qualcosa. «Aiden Cornwall è stato ucciso stamani, all'alba, in casa sua, al McLean Village. Sono stati Jack & Jill. Hanno di nuovo voluto attirare la nostra attenzione.» Scosse tristemente la testa. «Hanno ucciso anche il figlio di Aiden: aveva soltanto nove anni, Alex.» Barcollai. Quella notizia non aveva senso, non corrispondeva allo stile di Jack & Jill. Continuavano a cambiare le regole del gioco ed era chiaro che lo facevano di proposito. «Voglio andarci subito», dissi. «Devo vedere la casa. Dovrei essere là, non qui.» «Sì, d'accordo, ma aspetta un attimo, Alex», ribatté lui. «Aspetta un attimo, devo dirti il resto: c'è di peggio.» «Cosa può esserci di peggio, Jay?» «Purtroppo qualcosa c'è. Ascoltami solo un momento.» L'agente Grayer continuò a parlarmi, quasi sussurrando, nel corridoio della Casa Bianca, mentre ci avviavamo verso la sala dell'unità di crisi, dove erano riuniti gli altri. Mi trattenne qualche secondo fuori della porta, continuando a bisbigliare in tono concitato. «Il presidente viene svegliato ogni mattina da un agente alle cinque meno un quarto. Oggi si è vestito ed è sceso in biblioteca a leggere i giornali e la relazione che gli viene preparata prima della sveglia.» «Che cos'è successo stamattina?» domandai, cominciando a sudare freddo. «Che è successo, Jay?» L'agente preferiva seguire la procedura. «Alle cinque in punto il telefono della biblioteca è squillato: Jill chiamava sulla linea privata per parlare con il presidente. C'è riuscita, capisci Alex? Questo è semplicemente impossibile.» Scossi involontariamente la testa. Ero d'accordo con Grayer: era impossibile. L'idea che il presidente potesse essere il bersaglio di un attentato era quasi insostenibile. Il fatto che fino a quel momento ci fossimo dimostrati incapaci di impedirlo lo era ancora di più. «Credo di capire perché una telefonata del genere è impossibile, ma spiegamelo ugualmente», replicai: dovevo sentirmelo dire da lui.
«Ogni singola telefonata che arriva alla Casa Bianca viene filtrata da un centralino privato e monitorizzata da un secondo operatore, che fa parte della CIA. Ogni telefonata tranne questa, che è riuscita a oltrepassare il sistema di controllo. Nessuno sa come cazzo sia potuto succedere, ma è successo.» «Questa telefonata che non poteva arrivare... è stata almeno registrata?» chiesi a Grayer. «Sì, naturalmente, e L'FBI la sta già esaminando alla sede della Bell Atlantic di White Oak. Jill ha usato un filtro particolare per modificare la voce, ma dovremmo riuscire a identificarla lo stesso. Ci stanno lavorando i tecnici migliori del mondo.» Scossi di nuovo la testa. L'avevo sentito, ma non riuscivo a crederci. «Cos'ha detto Jill?» «Prima di tutto si è presentata. Ha detto: 'Salve, sono Jill', tirando letteralmente giù dal letto il presidente. Poi gli ha chiesto se era pronto a morire.» 59 Dovevo vedere la casa, entrare nel posto in cui erano stati uccisi il generale Cornwall e suo figlio: il luogo del delitto mi avrebbe svelato qualcosa sui killer, sul loro modo di agire. Raggiunsi il McLean Village alle nove del mattino di quella grigia giornata di dicembre. Casa Comwall aveva un'aria surreale e fredda mentre mi avvicinavo. Quando entrai, scoprii che era fredda anche all'interno: o la famiglia Comwall negava l'esistenza dell'inverno o intendeva risparmiare sul riscaldamento. Il doppio omicidio era stato commesso al primo piano. Il corpo del generale Aiden Comwall e quello del figlio di nove anni giacevano ancora nel corridoio in cima alle scale. Era stato un omicidio eseguito a freddo, calcolato nei dettagli, molto professionale. La macabra scena del delitto pareva uscita da un archivio della polizia scientifica, oppure da uno dei miei taccuini. Era roba da manuale, fin troppo. La casa pullulava di tecnici dell'FBI e di medici legali: dovevano essere in tutto una ventina. Poco dopo il mio arrivo prese a diluviare. Le auto e i furgoncini delle televisioni arrivati dopo di me avevano i fari accesi. L'atmosfera era irreale.
Jeanne Sterling mi raggiunse nel corridoio in cima alle scale e per la prima volta la vidi turbata: la pressione spaventosa del momento ci condizionava tutti. C'è gente pronta a uccidere il presidente degli Stati Uniti ed è gente maledettamente in gamba. Oltre che estremamente brutale. «Che cosa le dice l'istinto, dottor Cross?» mi chiese Jeanne. «La mia reazione non facilita il nostro compito», risposi. «L'unica cosa che ho accertato finora è che Jack & Jill non seguono nessuno schema. A parte i biglietti in versi. In questi due ultimi omicidi si può escludere qualsiasi sfumatura sessuale. Inoltre, per quanto ne so, Aiden Comwall era un conservatore e non un liberale come le altre vittime, un fatto che mi pare possa distruggere una lunga serie di teorie su Jack & Jill.» Parlando con Jeanne Sterling, intuii qualcos'altro sui biglietti lasciati da Jack & Jill. I versi potrebbero dirci qualcosa di importante. Gli esperti linguistici dell'FBI non hanno ancora trovato niente, ma questo non conta. Chiunque abbia scritto quei versi, probabilmente Jill, voleva farci sapere qualcosa... C'era un ordine prestabilito in quello che facevano. Il desiderio di creare, anziché di distruggere? Ero quasi certo che quelle poesie avessero un significato preciso. «E lei che ne pensa, Mrs Sterling? Ha qualche idea?» Jeanne scosse la testa e si morse il labbro. «Nemmeno una.» 60 Era stata una giornata molto lunga e pesante, e pareva non dovesse mai finire. Alle dieci di sera arrivai negli uffici dell'FBI in Pennsylvania Avenue. Mentre l'ascensore mi portava al dodicesimo piano, mi accorsi che non riuscivo a mettere ordine nei miei pensieri. Le luci accese nell'edificio parevano piccoli fuochi da campo. Jack & Jill quella notte avrebbero tenuto sveglie molte persone. Me compreso. Mi ero recato negli uffici dell'FBI per ascoltare la telefonata di Jill al presidente. Mi era stata messa a disposizione ogni prova che potesse avere anche il minimo valore. Mi era stato consentito di lavorare da dentro. Mi era stato perfino concesso di ficcare il naso all'interno della Casa Bianca. Ero un esperto di serial killer, ne avevo studiati decine di casi, mentre gran parte dei miei collaboratori non aveva avuto lo stesso piacere. Nessuna regola. Nel laboratorio di fonologia mi aspettava un registratore, in cui era già inserita una copia del nastro con la voce di Jill. Il registratore era acceso.
«È una copia, dottor Cross, ma è sufficiente per i nostri scopi», mi disse un tecnico con i capelli lunghi, avvisandomi anche che la voce registrata era stata alterata e filtrata elettronicamente. Gli esperti erano convinti che non fosse possibile identificarla. Jack & Jill erano maestri nell'occultare ogni loro traccia. «Mi sono messo in contatto con la sede della Bell Atlantic», lo informai. «Mi hanno detto la stessa cosa. A questo punto comincio a crederci.» Il tecnico, finalmente, mi lasciò solo con la registrazione. Era quello che volevo. Per un poco rimasi seduto a guardare fuori dalla finestra il Dipartimento di giustizia dall'altra parte di Pennsylvania Avenue. Jill era lì con me. Aveva qualcosa da rivelare su se stessa, qualcosa che voleva dirci: il suo nero e profondo segreto. Il nastro era stato riavvolto e la sua voce mi colpì nell'ufficio silenzioso e desetto. Stava parlando Jill. «Buongiorno, signor presidente. Sono esattamente le cinque del mattino del 10 dicembre. Per favore, non riattacchi. Sono Jill. Sì, proprio Jill. Volevo parlarle per farle comprendere quanto la situazione la riguardi personalmente. Finora ci siamo?» «Molto di più che 'personalmente'», rispose con calma il presidente Byrnes. «Perché uccidete degli innocenti? Perché volete uccidermi, Jill?» «Oh, abbiamo un ottimo motivo, una spiegazione del tutto soddisfacente per ogni nostra azione. Forse ci piace assaporare il potere che ci viene dal terrorizzare la cosiddetta gente più potente del mondo. Forse ci piace spedire un messaggio inequivocabile ai potenti da parte di tutta la piccola gente che finora è stata dominata e spaventata dall'alto. Comunque nessuna delle persone uccise era innocente, signor presidente. Meritavano tutte di morire per un motivo o per l'altro.» A questo punto Jill aveva riso e la sua voce alterata elettronicamente sembrava quella di una bambina. Pensai al figlio di Aiden Cornwall. Come poteva meritare di morire un bambino di nove anni? In quel momento odiai Jill, chiunque fosse e qualunque motivazioni avesse. Il presidente Byrnes mantenne la calma e parlò in tono misurato. «Mi permetta di chiarire una cosa: non mi fate paura. Forse dovresti aver paura tu, Jill. Tu e Jack. Vi stiamo braccando. Non c'è un angolo della terra in cui possiate nascondervi, un angolo sicuro su tutto il globo. Non più.»
«Ne terremo sicuramente conto, grazie mille per l'avviso. È molto sportivo da parte sua. Lei, per favore, si ricordi... che è un uomo morto, signor presidente. Il suo omicidio è già stato deciso.» La registrazione terminava lì, con queste parole pronunciate in tono gelido, di sfida. Jill, la DJ delle cinque del mattino. Jill, la poetessa. Chi sei veramente, Jill? Il suo omicidio è già stato deciso. Avevo bisogno di parlare di nuovo con il presidente Byrnes, subito. Dovevo ascoltare insieme a lui quella minacciosa registrazione. Forse il presidente sapeva cose che non aveva detto a nessuno. Qualcuno doveva pur sapere qualcosa. Ascoltai ancora molte volte lo spaventoso messaggio. Non so per quanto tempo rimasi seduto nell'ufficio dell'FBI a osservare le pacifiche luci di Washington, Jack & Jill erano da qualche parte là fuori e probabilmente stavano programmando un altro omicidio. Ma forse no. Forse non era affatto così. Lei è un uomo morto, signor presidente. Il suo assassinio è già stato deciso. Perché ci avvisavano? Perché avvisarci sulla loro prossima mossa? 61 Erano passate le dieci e mezzo, ma dovevo ancora fare una visita importante. Chiamai Jay Grayer e gli dissi che stavo arrivando alla Casa Bianca e che volevo parlare di nuovo con il presidente. Era possibile? «Puoi aspettare domattina, Alex. Devi aspettare», rispose in tono fermo. «Non posso, Jay. Ho un paio di idee che mi stanno scavando un buco nel cervello. Devo conoscere l'opinione del presidente. Se sarà lui a dirmi di aspettare domattina, aspetterò, ma parla con Don Hamerman o con chiunque altro se ne occupi. Si tratta di un caso di omicidio e stiamo cercando di impedirne altri. In ogni caso, sto arrivando lì.» Arrivato alla Casa Bianca trovai Don Hamerman ad aspettarmi insieme a John Fahey, consigliere capo, e a James Dowd, ministro della Giustizia e amico personale del presidente Byrnes. Avevano tutti un'aria perplessa e apparivano molto tesi. Era evidente che di solito alla Casa Bianca si seguivano procedure differenti.
«Di che diavolo si tratta?» mi affrontò infuriato Hamerman. Aspettavo da un po' di vedere come mordesse, ma in realtà avevo visto di peggio. «Se vuoi, aspetterò domani, ma l'istinto mi dice di non farlo», risposi, in tono pacato ma fermo. «Riferisca a noi», intervenne James Dowd. «Poi decideremo.» «Temo di poter riferire solo al presidente. Ho bisogno di parlargli da solo, come nel primo incontro che ho avuto con lui.» Hamerman esplose. «Cristo santo, che arrogante figlio di puttana! Siamo stati noi a farti entrare qui dentro.» «Allora è tutta colpa vostra, suppongo. Vi avevo avvisati che avrei condotto l'indagine a modo mio e che parte dei miei metodi non vi sarebbero piaciuti. L'ho detto anche al presidente.» Hamerman si allontanò, infuriato, ma tornò dopo un paio di minuti. «Ti riceverà al terzo piano. Non devi portargli via più di qualche minuto, assolutamente.» «Vedremo, dipende da quello che ha da dirmi il presidente.» 62 Ci incontrammo nel solarium annesso agli appartamenti privati del terzo piano. Sapeva che quella era una delle stanze preferite da Reagan. Fuori delle finestre, le luci di Washington brillavano. Mi pareva di rivivere una scena di Tutti gli uomini del presidente. «Buonasera, Alex, aveva bisogno di vedermi?» disse Thomas Byrnes in tono pacato e abbastanza cordiale. Naturalmente non potevo conoscere i suoi veri sentimenti. Era in tenuta casual, con una camicia sportiva azzurra. «Signor presidente, mi scuso per aver causato tanto scompiglio con il mio arrivo», dissi subito. Il presidente levò una mano per impedirmi di andare oltre. «Alex, lei si trova qui perché volevamo che facesse esattamente quello che sta facendo. Pensavamo che nessuno all'interno della Casa Bianca ne avrebbe avuto il fegato. Adesso che cos'ha in mente? Come posso aiutarla?» Mi rilassai un poco: come poteva aiutarmi il presidente? Era la domanda che tanti cittadini hanno sempre desiderato sentirsi porre. «Ho passato la giornata a pensare alla telefonata di stamattina e ai due omicidi al McLean Village. Signor presidente, non credo che ci resti molto tempo. Jack & Jill sono stati chiari. Non hanno più freni, stanno affrontando rischi sempre
maggiori. Non possono resistere all'impulso di dimostrarcelo ogni volta che possono.» «Non staranno semplicemente adulando il loro ego, Alex?» «Può darsi. Forse intendono invece minare il suo potere. Signor presidente, volevo vederla da solo per parlarle in via del tutto confidenziale. Come sa, abbiamo controllato chiunque lavori alla Casa Bianca. I servizi segreti e Don Hamerman hanno collaborato attivamente.» Il presidente sorrise. «Avrei scommesso su Don.» «Già, a modo suo l'ha fatto, ma un cane da guardia resta un cane da guardia. In base a quello che abbiamo scoperto, abbiamo posto sotto sorveglianza tre membri del suo staff: preferiamo tenerli d'occhio piuttosto che allontanarli. Sono stati aggiunti all'elenco di altre settantasei persone sotto sorveglianza nella sola zona di Washington.» «I servizi segreti tengono sempre sotto sorveglianza un certo numero di potenziali minacce al presidente», osservò Thomas Byrnes. «Sì, signore, stiamo semplicemente prendendo qualche precauzione. Non nutro grandi sospetti su quei tre membri dello staff. Sono tutti maschi. Speravo in qualche modo di trovare Jill, ma non ci siamo riusciti.» Il presidente si adombrò. «Mi sarebbe piaciuto incontrare Jill e parlarle in privato. Mi sarebbe piaciuto davvero.» Annuii: stava per arrivare la parte più difficile del colloquio. «Ora devo affrontare un argomento scabroso, signore. Dobbiamo parlare di altra gente che la circonda, delle persone che le sono più vicine.» Thomas Byrnes si spostò in avanti sulla poltrona: la cosa non gli piaceva affatto. «Signor presidente, abbiamo ragione di sospettare che qualcuno con libero accesso alla Casa Bianca, e anche con un certo potere, sia coinvolto in questa vicenda. È certo che Jack & Jill si infilano con grande facilità in luoghi molto sorvegliati. Dobbiamo controllare con estrema cura chi le è più vicino.» A un tratto calò il silenzio. Riuscivo quasi a vedere Don Hamerman che aspettava fuori della porta, tormentando il nodo della cravatta di seta. Fui io a rompere quel silenzio tesissimo. «So che le sto parlando di cose che preferirebbe non sentire», dissi. Il presidente sospirò. «È per questo che si trova qui, solo per questo.» «Grazie», dissi. «Signore, non ha nessun motivo di non fidarsi di me. Come diceva prima, sono un estraneo e non ho niente da guadagnare.» Thomas Byrnes sospirò una seconda volta. Intuii che almeno per il mo-
mento l'avevo convinto. «Affiderei la mia vita a quasi tutti coloro che mi circondano. Don Hamerman è fra questi: ha detto bene prima, chiamandolo cane da guardia. Di chi non mi fido? Non mi sento del tutto a mio agio con Sullivan o Thompson dello stato maggiore. Non sono nemmeno sicuro di Bowen dell'FBI. Mi sono già creato numerosi nemici a Wall Street, tutta gente con una grande influenza qui a Washington. So anche che il crimine organizzato non gradisce affatto i miei programmi e che oggi è più organizzato che mai. Sto sfidando il vecchio, fottuto sistema di potere e... al vecchio, fottuto sistema non piace affatto. È quello che hanno fatto i Kennedy... soprattutto Robert.» A un tratto faticavo a respirare. «Chi altri, signor presidente? Devo conoscere tutti i suoi nemici.» «Al Senato c'è Helene Glass... Alcuni conservatori reazionari del Senato e della Casa Bianca sono miei nemici... Credo che... il vicepresidente Mahoney sia un nemico, o quasi. Sono sceso a compromessi prima della convention quando l'ho messo in lista. Lui avrebbe dovuto conquistare la Florida e altri Stati del sud e l'ha fatto. Io avrei dovuto appoggiare certe sue iniziative, ma non l'ho fatto. Non aderisco al sistema e la cosa non va, Alex.» Ascoltai Thomas Byrnes senza muovere un muscolo. Parlare in quel modo con il presidente mi confondeva e mi turbava. Gli leggevo in faccia quanto gli costasse fare quelle ammissioni. «Terremo sotto sorveglianza tutta questa gente», dissi. Il presidente scosse la testa. «No, non posso permetterlo, non in questo momento. Non posso farlo, Alex.» Si alzò dalla poltrona. «Sono piaciuti i miei regali ai suoi bambini?» mi chiese. Scossi la testa a mia volta: non mi sarei lasciato sviare tanto facilmente. «Pensi al vicepresidente e anche alla senatrice Glass. Stiamo investigando su un caso di omicidio plurimo. Per favore, non protegga qualcuno che potrebbe essere coinvolto. Per favore, ci aiuti, signor presidente... di chiunque si tratti.» «Buonanotte, Alex», disse il presidente in tono forte e chiaro, senza battere ciglio. «Buonanotte, signor presidente.» «Tenga duro», aggiunse Thomas Byrnes, prima di voltarsi e lasciare il solarium. Don Hamerman entrò subito. «Ti accompagno fuori», disse in tono per nulla amichevole.
Forse mi ero fatto anch'io un nemico alla Casa Bianca. 63 Non poteva essere! Una cosa del genere semplicemente non poteva capitare. Benvenuti all'incontro tra X-Files e Ai confini della realtà sull'Autostrada dell'Informazione. Con i suoi cinquantun anni e i suoi centocinque chili di peso, Maryann Maggio era una specie di centrale elettrica e riteneva di avere l'autorità di censurare ogni tipo di oscenità e violenze su Prodigy: suo compito era proteggere chi viaggiava sull'Autostrada dell'Informazione. In quel momento stava nascendo un'emergenza proprio sotto i suoi occhi: un intruso si era inserito nella rete. Non era possibile. Maryann non riusciva a staccare gli occhi dallo schermo del suo portatile IBM. «Siamo nell'era interattiva, d'accordo. Be', gente, preparatevi», borbottò, rivolta al computer. «Stiamo per assistere a uno scontro micidiale.» Maryann Maggio era il censore di Prodigy, società appartenente all'IBM, da quasi sei anni. Fino a quel momento il servizio più popolare offerto da Prodigy erano state le pagine sulle quali gli abbonati potevano scegliere ristoranti, alberghi e roba del genere. Di solito in rete circolavano messaggi innocui, chiacchiere sull'argomento del giorno, domande e risposte sulla riforma dell'assistenza sociale piuttosto che sullo scandalo del momento. Di certo non messaggi come quello che stava fissando, che richiedeva l'intervento del censore a protezione dell'infanzia e delle giovani menti impressionabili. Suo marito, Terry «il Pirata», un barbuto di centocinquanta chili di peso, era solito chiamarla la «Grande Sorella». Quella sera Maryann stava controllando i messaggi provenienti da un abbonato di Washington. All'inizio le era parso un tipo spiritoso, che si divertiva a spararle grosse. Era il caso di censurarlo? Dopo tutto ormai Prodigy doveva competere con Internet, in cui si poteva trovare di tutto. Si chiese se l'abbonato si rendesse conto di quello che trasmetteva. A volte i pazzi conoscevano le regole e si divertivano semplicemente a romperle. A volte sembrava che avessero solo bisogno di un contatto umano, anche con lei, eventualmente, col censore dei loro pensieri e delle loro azioni. La Grande Sorella ti guarda. Il primo messaggio chiedeva agli altri abbonati il loro «sincero» punto di
vista su un argomento controverso, descrivendo una serie di omicidi di bambini avvenuti a Washington. La domanda era se la polizia e la stampa dovessero prestare maggiore attenzione a quel maniaco o al caso di Jack & Jill. Qual era più importante, da un punta di vista etico? Maryann Maggio era stata costretta a cancellare i due messaggi seguenti, non a causa del contenuto, ma in quanto non facevano che ripetere una parola di cinque lettere che cominciava per c e una più lunga che cominciava per v. Respingendoli, aveva causato una crisi emotiva da parte dell'abbonato di Washington, che si era abbandonato a una lunga filippica «sull'assoluta inutilità della censura su Prodigy», invitando tutti a sottoscrivere i servizi di CompuServe e di altre reti rivali. Naturalmente anche CompuServe e AmericaOnline avevano i loro censori. I messaggi provenienti da Washington si susseguivano rapidissimi. Maryann Maggio censurò quello che consigliava alla Prodigy di «licenziare il suo censore assurdo e incompetente». Un altro faceva uso della parola che cominciava per v undici volte in due paragrafi e lei censurò anche quello. Poi l'abbonato si trasformò in qualcosa di più di un pazzo irritante e logorroico. All'1.17 dichiarò di essere lui l'autore dei due brutali omicidi di bambini. Disse di essere l'assassino e di poterlo provare, in diretta su Prodigy. La «Grande Sorella» respinse immediatamente il messaggio e chiamò il direttore della centrale di Prodigy a White Plains. Tutta la sua ciccia tremava come gelatina all'arrivo del boss, armato di due tazze di caffè nero. Caffè nero? Maryann aveva bisogno piuttosto di un paio di pizze per affrontare quell'emergenza. Improvvisamente un nuovo messaggio dell'abbonato di Washington illuminò lo schermo: era abbastanza articolato e dotato di senso, ma era anche incredibilmente feroce e del tutto folle. Elencava i macabri dettagli dell'omicidio di un bambino nero: «dettagli a conoscenza solo della polizia del Distretto di Columbia», precisava. «Cristo santo, Maryann, che tipo del cazzo», disse il direttore di Prodigy dietro le spalle di Maryann Maggio. «I messaggi sono tutti così?» «Più o meno, Joanie. Ha moderato un po' il linguaggio, ma la violenza sembra la sua specialità. Roba da vampiri. È così da quando gli ho messo la museruola.» L'ultimo messaggio da Washington continuava a scorrere sotto i loro oc-
chi ed era senza ombra di dubbio la descrizione dell'omicidio di un bambino nero a Garfield Park. Il killer proclamava di aver usato una mazza da baseball mozzata e avvolta da nastro isolante e di aver colpito il bambino ventitré volte, contando ogni singolo colpo. «Fallo smettere subito. Staccagli la spina!» decise senza esitazione il direttore. Poi prese una decisione ancor più importante: avvisare il Dipartimento di polizia di Washington dei messaggi di quell'abbonato sospetto. Né lui né Maryann Maggio sapevano se si trattasse di omicidi veri, ma le descrizioni erano troppo verosimili per poterle ignorare. All'1.30 del mattino il direttore di Prodigy raggiunse un agente del primo distretto della capitale. Si prese un appunto con il nome e il grado del poliziotto: era il detective John Sampson. 64 Ero andato a letto poco dopo l'una. Nana venne a svegliarmi alle cinque meno un quarto. Sentii le sue pantofole scivolare sul parquet della mia camera, poi la sua voce dolce all'orecchio, che mi dava la sensazione di avere ancora sei anni. «Alex? Alex? Sei sveglio?» «Uhm, certo. Adesso sono sveglio.» «C'è giù il tuo amico in cucina. Sta divorando la colazione come se non ci fosse un domani e lui ne avesse la certezza. Mangia più in fretta di quanto io riesca a cucinare.» Trattenni un gemito di dolore e sbattei le palpebre un paio di volte. Avevo gli occhi gonfi e non riuscivo quasi ad aprirli. La gola era secca e mi bruciava. «C'è qui Sampson?» riuscii finalmente a chiedere. «Sì, e dice che forse ha trovato una traccia sul killer della Truth School. Non è una buona notizia per cominciare la giornata?» Come al solito mi provocava: non erano nemmeno le cinque e Nana mi dava già sui nervi. «Mi alzo», bisbigliai. «Non ne ho nessuna voglia, ma mi alzo.» Meno di venti minuti dopo, Sampson e io ci fermavamo davanti a una casa di mattoni in Seward Square. Lui aveva ammesso di aver bisogno di me nell'operazione. Rakeem Powell e un detective bianco di nome Chester Mullins, che portava un antiquato cappello con la tesa, ci aspettavano fuori
della loro auto, palesemente tesi e a disagio. La strada si trovava sul lato meno elegante di Seward Square Park, a meno di due chilometri dalla Sojourner Truth School. Probabilmente era la zona di Mullins. «È quella casa bianca all'angolo», disse Rakeem indicando una grossa villa a un isolato di distanza. «Mi piace lavorare in questi quartieri di lusso, amici. Lo sentite il profumo delle rose?» «È detergente per i vetri», puntualizzai. «Ecco dove finisce la mia carriera di segugio», scoppiò a ridere Rakeem Powell, imitato dal suo socio Chester. «Il quartiere è signorile e la strada tranquilla, ma magari dentro quella bella villa ci aspetta un maniaco omicida. Afferrato il concetto?» disse Sampson, poi si rivolse a me. «Tu che ne pensi, bello? Hai la solita brutta sensazione? Senti odore di sangue?» Sampson mi aveva riferito quello che sapeva nel breve tragitto. Un abbonato di Prodigy, un militare, il colonnello Frank Moore, aveva inviato messaggi sull'omicidio dei due bambini e pareva a conoscenza di dettagli noti solo alla polizia, oltre che all'assassino, naturalmente. Pareva davvero il nostro uomo. «Non mi piace quello che mi hai detto finora. A giudicare dagli omicidi si direbbe che è furioso, eppure sta piuttosto attento. E adesso che fa, ci chiede aiuto? Ci invita a casa sua? Non so se capisco bene e comunque non mi piace. Ecco che ne penso.» «Non piace neanche a me», annuì Sampson, continuando a fissare la casa. «Comunque ci siamo. Tanto vale controllare quello che il colonnello vuole farci vedere.» «Non corpi mutilati, spero», osservò Rakeem Powell, aggrottando la fronte. «Non alle cinque di lunedì mattina. Non voglio trovare bambini dal cranio fracassato all'inizio della settimana.» «Alex e io passeremo dal retro», disse Sampson a Rakeem. «Tu e Bracciodiferro coprite l'ingresso principale, tenendo d'occhio il garage. Se è la casa dell'assassino, ci possiamo aspettare qualche sorpresa. Siete tutti svegli? Pronti!» Rakeem e il bianco con il cappello annuirono. «Occhi aperti e pronti a un'imboscata», disse con falso entusiasmo Rakeem. «Vi copriamo, detective», borbottò finalmente qualcosa anche Mullins. Sampson sembrava calmo. «Allora andiamo. Non è ancora giorno, magari il vampiro riposa nella sua bara.»
Erano le cinque e venti del mattino e sentivo scorrere selvaggiamente l'adrenalina. Avevo già conosciuto una quantità di mostri umani sufficienti a riempirmi la vita: non avevo bisogno di altre esperienze del genere. «Devo guardarti il culo?» chiesi alla Montagna Umana mentre avanzavamo verso la casa d'angolo. «Ci sei arrivato, bello. Ho bisogno di te in questa faccenda. Sei tu ad avere il tocco magico con i killer psicopatici», disse Sampson senza voltarsi verso di me. «Dovrei ringraziarti, suppongo», borbottai. Sentivo un gran rombo nelle orecchie, come se un dentista mi avesse appena praticato l'anestesia. Non ho nessuna voglia di conoscere un altro psicopatico; non voglio conoscere il colonnello Franklin Moore. Attraversammo il prato che portava al lungo porticato coperto da un rampicante. Vidi che in cucina c'erano un uomo e una donna: due persone si erano già alzate nella casa. «Devono essere Frank e la moglie», mormorò Sampson. L'uomo stava mangiando qualcosa, chino sul bancone della cucina, su cui vidi una scatola di crostatine, un cartone di latte scremato e il Washington Post. «È proprio una famigliola da spot pubblicitario», bisbigliai a John. «Non mi piace affatto. Ci sta portando dritti alla porta di casa sua.» «Maniaco omicida», disse Sampson, mostrando tutti i suoi denti candidi. «Non lasciarti ingannare dalle crostatine: solo gli psicopatici mangiano quella merda.» «Non mi si inganna facilmente», gli feci sapere. «L'ho sentito dire. Andiamo, bello, è di nuovo ora di fare gli eroi.» Ci accucciammo sotto il davanzale della finestra della cucina, ma non fu facile. Ora potevamo vedere l'uomo e la donna senza essere visti. Sampson afferrò la maniglia della porta e la girò lentamente. 65 La porta sul retro di casa Moore non era chiusa a chiave e Sampson la spinse, poi balzammo insieme nella cucina invasa dal profumo di caffè appena fatto. Ci trovavamo nella zona di Capitol Hill: casa e cucina parevano tipici del quartiere, proprio come i Moore. Ma né Sampson né io ci lasciammo ingannare da quell'apparenza di normalità. L'avevamo già vista
nelle case di altri psicopatici. «Mani sulla testa! Tutti e due, mani sulla testa, forza!» urlò Sampson all'uomo e alla donna che avevamo colto di sorpresa. Tenevamo le Glock puntate sul colonnello Moore: non aveva un'aria particolarmente pericolosa: era basso di statura, magro, calvo, di mezza età e portava gli occhiali. Nemmeno l'uniforme regolamentare riusciva a dargli un aspetto più imponente. «Siamo agenti di polizia», spiegò Sampson. I Moore parevano sconvolti e non potevo certo biasimarli. Sampson e io possiamo incutere un certo timore quando le circostanze sono sbagliate e quelle erano decisamente sbagliate. «Ci dev'essere un equivoco», scandì il colonnello Moore. «Sono il colonnello Franklin Moore e questa è mia moglie, Connie Moore. L'indirizzo della casa è 418 Seward Square North», enunciò lentamente. «Per favore abbassate le armi, signori. Vi trovate nel posto sbagliato.» «L'indirizzo è esatto, signore», dissi io. E tu sei il maniaco della rete con cui vogliamo parlare. O sei un maniaco, o sei un killer. «E stiamo cercando il colonnello Frank Moore», aggiunse Sampson, senza abbassare la pistola di un millimetro. Nemmeno io. Il colonnello Moore mantenne la sua freddezza e la cosa mi preoccupò, fece suonare forte tutti i miei allarmi interiori. «Be', potete almeno dirci di cosa si tratta, per favore. Nessuno di noi due è mai stato arrestato, non ho mai violato nemmeno una regola del codice stradale», disse rivolto a entrambi, non sapendo bene chi fosse il capo. «Lei ha sottoscritto un abbonamento a Prodigy, colonnello?» chiese Sampson. La domanda suonò un po' folle, come tutto quello che capitava ultimamente. Il colonnello Moore fissò la moglie, poi si voltò di nuovo verso noi due. «L'abbiamo fatto, ma per nostro figlio, Sumner. Noi non abbiamo tempo di giocare con il computer; comunque è un arnese che non capisco e con cui non voglio aver nulla a che fare.» «Quanti anni ha suo figlio?» chiesi io. «Che differenza fa? Sumner ha tredici anni. Frequenta la prima classe alla Roosevelt Academy ed è un ottimo studente. È un ragazzo molto brillante. Di cosa si tratta, agenti? Volete per favore dirci perché siete qui?» «Dov'è Sumner adesso?» chiese minacciosamente Sampson. Forse il giovane Sumner stava ascoltando da qualche parte della casa. Forse il killer della Truth School stava sentendo tutto quello che diceva-
mo. «Si alza circa tre quarti d'ora dopo di noi. Il suo autobus passa alle sei e mezzo. Per favore, di cosa si tratta?» «Dobbiamo parlare con suo figlio, colonnello Moore», dissi io, senza offrire per il momento altre spiegazioni. «Dovete dirmi qualcosa di più...» cominciò il colonnello Moore. «No, non dobbiamo dire niente di più», lo interruppe Sampson. «Dobbiamo vedere subito suo figlio. Stiamo investigando su un caso d'omicidio plurimo, colonnello. Sono già stati uccisi due bambini piccoli e suo figlio potrebbe essere coinvolto nei delitti. Dobbiamo vederlo.» «Mio Dio, Frank.» Mrs Moore aprì bocca per la prima volta. Connie, se ricordavo il suo nome. «Non può essere. Sumner non può aver fatto niente di male.» Il colonnello Moore pareva ancora più sconvolto di prima, ma ormai non accennava più a protestare. «Vi accompagno di sopra, in camera di Sumner. Potete riporre almeno le armi?» «Temo di no», risposi. Il suo sguardo mi diceva che era terrorizzato. Non guardai più la moglie. «Per favore, ci porti subito in camera del ragazzo», ripeté Sampson. «Dobbiamo salire in silenzio, per il bene stesso di Sumner. Capisce quello che dico?» Il colonnello Moore annuì lentamente, la faccia vuota e triste. «Frank?» implorò la moglie, pallidissima. Salimmo tutti e tre, procedendo in fila indiana. Io per primo, poi il colonnello Moore seguito da Sampson. Non avevo ancora escluso Franklin Moore dalla lista dei sospetti, degli psicopatici potenziali, dei killer. «Qual è la camera di suo figlio?» chiese Sampson, con voce appena udibile. «La seconda a sinistra. Vi giuro che Sumner non ha fatto niente. Ha tredici anni, è il primo della classe.» «È chiusa a chiave?» chiesi io. «No... non credo... forse c'è un gancetto. Non ne sono sicuro. È un bravo ragazzo, detective.» Sampson e io ci piazzammo ai lati della porta chiusa. Sapevamo che dietro quella porta poteva aspettarci un assassino. Il loro bravo ragazzo poteva essere un massacratore di bambini. Il colonnello Moore e la moglie non avevano la minima idea di chi fosse loro figlio. Tredici anni. Ne ero ancora sbalordito. Un tredicenne poteva commette-
re due crimini tanto brutali? L'età avrebbe spiegato il suo «dilettantismo», ma tutta quella rabbia e quella violenza? Tutto quell'odio? È un bravo ragazzo, detective. La porta non era chiusa a chiave e nemmeno da un gancetto. Ecco, ci siamo. Sampson e io facemmo irruzione nella camera, ad armi spianate. Era la classica tana di un ragazzino, soltanto il computer e lo stereo erano un po' fuori della norma. L'uniforme grigia da cadetto era appesa all'anta aperta dell'armadio, ma qualcuno l'aveva ridotta a brandelli! Sumner Moore non era in camera sua, quel mattino non si stava concedendo un'altra mezz'ora di sonno. La stanza era deserta. Sulle lenzuola spiegazzate era posato in bella evidenza un biglietto scritto a macchina. Diceva semplicemente: Nessuno se n'è andato. «Che cos'è?» borbottò il colonnello Moore, leggendolo. «Che succede? Che cosa sta succedendo? Qualcuno può spiegarmi per favore che cosa sta succedendo qui?» Pensai di esserci arrivato, di aver capito il messaggio del ragazzo. Sumner Moore era Nessuno... così mi sembrava. E adesso Nessuno se n'era andato. Un capo di abbigliamento steso accanto al biglietto era la seconda parte del messaggio diretto a chiunque fosse entrato in camera per primo. Era la felpa di Shanelle Green: il piccolo indumento blu era coperto di sangue. Il killer della Truth School, quella furia scatenata, era un tredicenne. E girava libero per Washington. Nessuno se n'era andato. 66 Il killer della Truth School percorse stancamente M Street leggendo il Washington Post dalla prima all'ultima pagina, per vedere se era già diventato famoso. Aveva chiesto l'elemosina per tutta la mattina e raccolto dieci dollari. Che bella vita! Teneva il giornale aperto davanti a sé e non guardava dove stava andando, così finì addosso a numerosi passanti. Il Post era pieno di pezzi su quegli stronzi di Jack & Jill, ma non c'era niente su di lui. Non un paragrafo, non una parola su quello che aveva fatto. Che razza di stronzata erano i giornali. Erano pieni di balle e tutti ci credevano.
A un tratto si sentì molto triste e confuso. Aveva solo voglia di sedersi sul marciapiede e piangere. Non avrebbe dovuto uccidere quei bambini e probabilmente non l'avrebbe fatto se avesse continuato a prendere la sua medicina, ma il Depakote gli annebbiava il cervello e lui lo odiava. La sua vita ormai era completamente rovinata. Era un fuggiasco. Tutta la sua vita era finita prima ancora di cominciare. Si trovava per strada e cominciava a pensare di doverci vivere per sempre. Nessuno gira libero per la città e nessuno può fermare Nessuno. Era stato di nuovo alla Sojourner Truth School, dove andava il figlio di Alex Cross. Ce l'aveva a morte con Cross. Quel detective non aveva grande stima di lui, vero? Non era nemmeno andato alla Roosevelt Academy con Sampson. Cross lo sottovalutava. Verso mezzogiorno decise di passare dalla Truth School, magari di avvicinarsi al recinto del cortile doveva avevano trovato Shanelle Green. Dove lui aveva portato il cadavere. Forse era il momento di sfidare la sorte, di vedere se c'era un Dio in cielo o da qualche altra parte. Continuava a spararsi nelle orecchie musica pesante: Nine Inch Nails, Green Day, Offspring. Ascoltò Black Hole Sun e Like Suicide dei Soundgarden. Poi Chump e Basket Case dei Green Day. A un tratto si riscosse e indietreggiò. Aveva davvero perso la testa per un paio di minuti, aveva varcato il recinto. Si chiese da quanto tempo si trovasse lì. Si stava mettendo davvero male, o forse invece molto bene? Forse avrebbe dovuto riprendere almeno ogni tanto il vecchio Depakote, per vedere se riusciva a riportarlo nelle vicinanze del sistema solare. A un tratto scorse l'amazzone nera venire verso di lui: ormai era troppo tardi per sfuggire al ciclone. La riconobbe subito: era Sua Eminenza la direttrice della Truth School. Puntava proprio verso di lui, l'aveva visto. Quella donna avrebbe dovuto portare una maglietta con la scritta NIENTE PAURA per affrontare una situazione del genere! Tu punti me e poi io punto te, signora. Non voglio che te la prendi con me, sia chiaro. La donna stava urlando, o comunque aveva alzato la voce. «Dove stai andando? Perché non sei in classe? Non puoi rimanere qui», disse forte, andando verso di lui. Vaffanculo, troia nera. Pensa agli affari tuoi. Con chi cazzo credi di parlare? Stai parlando... con me?
«Mi hai sentito, ragazzo? Sei sordo o cosa? Qui droga non ce n'è, quindi vattene! È vietato girare qui intorno. Ehi, dico a te con quel giubbotto! Vattene, fuori di qui!» Vaffanculo, OK? Me ne andrò quando mi farà comodo. Gli fu addosso, ed era alta. Molto più alta di lui. «Vattene o sputa il rospo, ma non raccontarmi balle. Non ne accetto. Altrimenti gira al largo, capito?» Be', al diavolo. Si allontanò senza dire una parola, per non darle soddisfazione. A un isolato di distanza si voltò e vide i ragazzini uscire nel cortile chiuso dall'alto recinto, una protezione del tutto inutile. Non potete tenermi fuori, pensò. Cercò con lo sguardo il figlio di Cross e lo trovò. Un tipo tranquillo, sicuro di sé, alto per la sua età. Anche bello, giusto? Davvero carino. Si chiamava Damon. La direttrice era ancora fuori e continuava a tenerlo d'occhio, cupa in volto. Si chiamava Mrs Johnson. Be', ormai era una direttrice morta, era già storia antica. Proprio come la vecchia Sojourner Truth, ex schiava, ex abolizionista. Sono tutti morti, pensò allontanandosi definitivamente. Aveva di meglio da fare che starsene lì, sprecando il suo tempo prezioso. Ormai era una grossa star. Era diventato importante, era qualcuno. Gioia e felicità. «Puoi ben crederci», disse senza rivolgersi a nessuno che non fosse una di quelle voci indistinte che gli ronzavano in testa, «quindi devi essere più pazzo di me. Io non sono felice e non provo la minima gioia.» Voltato l'angolo, vide un'auto della polizia andare verso la scuola. Era ora di togliersi dai piedi, ma sarebbe tornato. 67 Il pomeriggio seguente raccolsi tutte le informazioni e i miei appunti su Jack & Jill, poi partii di nuovo per Langley, in Virginia. Quel mattino non ascoltai musica in auto, solo il brusio costante delle gomme sulla strada. Jeanne Sterling mi aveva chiesto di vedere che cosa avevo scoperto fino a quel momento. Aveva chiamato una mezza dozzina di volte, promettendo di rendermi il favore. Tu mi fai vedere le tue deduzioni e io ti mostro le mie, d'accordo? Perché no? Pareva del tutto ragionevole. Una giovane segretaria dell'Agenzia, in uniforme militare, mi scortò in
una sala delle conferenze al settimo piano. Era piena di luci e molto diversa dal cubo nello scantinato della Casa Bianca. Mi sentivo come un topo fuori della sua tana. Quanto alla Casa Bianca, i servizi segreti non mi avevano comunicato l'intenzione di investigare sui possibili nemici del presidente nelle alte sfere. L'avrei nuovamente sollecitato in proposito al rientro a Washington. «Una volta da qui nelle giornate limpide si vedeva la cupola del Campidoglio», disse Jeanne Sterling, arrivandomi alle spalle. «Oggi non più. La qualità dell'aria nella contea di Fairfax è pessima. Cosa pensa delle relazioni sui nostri killer sotto contratto? Ne è rimasto sconvolto, sorpreso, annoiato? Che impressione le hanno fatto, Alex?» Cominciavo ad abituarmi al suo modo di parlare a mitraglia. La immaginavo benissimo insegnare alla facoltà di legge. «La mia prima sensazione è che occorrerebbero settimane per analizzare la possibilità che uno di loro possa essere un killer psicopatico. O che uno di loro possa essere Jack», risposi. «Sono d'accordo con lei», annuì. «Ma supponiamo di dover comprimere la nostra ricerca in ventiquattro ore piene, che è più o meno il tempo che abbiamo a disposizione. Non le è venuto in mente nessun sospetto? Lei ha scoperto qualcosa, Alex... che cos'è?» Levai tre dita: avevo scoperto tre «qualcosa». Lei fece un gran sorriso. Sorrisi anch'io. Bisogna saper ridere della follia, altrimenti ti fa sprofondare al punto di non riemergere mai più. «Bene, bene, è quello che mi piace sentire. Mi faccia indovinare», disse subito lei. «Jeffrey Daly, Howard Kamens, Kevin Hawkins.» «Be', interessante», ribattei. «Questo potrebbe dirci almeno qualcosa. Forse faremmo meglio a cominciare con il nome in fondo alla nostra breve lista. Mi parli di Kevin Hawkins.» 68 Jeanne Sterling impiegò un quarto d'ora a informarmi su Kevin Hawkins. «Sarà soddisfatto di sapere che Hawkins è già stato posto sotto sorveglianza», disse mentre scendevamo con un rapido e silenzioso ascensore nel garage dell'edificio, dove si trovavano le nostre auto. «Vede, in fondo non avete bisogno del mio aiuto», osservai io, esaltato dalla prospettiva di un minimo progresso nella soluzione del caso. In realtà mi sentivo ottimista per la prima volta da giorni.
«Oh, invece sì, Alex. Non l'abbiamo portato qui per interrogarlo perché non abbiamo niente di concreto su di lui, solo atroci sospetti. Oltre alla necessità di beccare qualcuno, non dimentichiamocelo. D'altronde anche lei ha solo indiziati.» «Fino a questo punto», le ricordai. «Semplici indiziati.» «A volte sono sufficienti e lei lo sa. A volte devono essere sufficienti.» Arrivammo nel piccolo garage privato sotto il complesso della CIA di Langley, che era pieno di auto familiari, tipo station wagon Taurus, anche se c'era pure qualche squillante macchina sportiva: Mustang, Bimmer, Viper. Tutti quei veicoli parevano adatti al personale che avevo visto di sopra. «Suppongo sia meglio prendere due macchine», suggerì Jeanne. «Io tornerò qui quando avremo finito e lei potrà rientrare in città. Hawkins si trova dalla sorella, a Silver Spring. In questo momento è in casa, ci arriveremo in mezz'ora con la tangenziale.» «Intende arrestarlo subito?» domandai. Mi pareva la cosa giusta da fare. «Credo che dovremmo, no? Tanto per fare una bella chiacchierata...» Avevo raggiunto la mia auto e lei si avviò verso la sua station wagon. «Stiamo andando a trovare un killer professionista», le gridai attraverso il garage. La voce di lei echeggiò sul cemento e sull'acciaio. «Per quanto ne so, è uno dei migliori. Non è buffo?» «Ha un alibi per gli omicidi di Jack & Jill?» «Per quanto ne sappiamo, no. Dovremo interrogarlo... a fondo.» Salimmo sulle rispettive automobili e mettemmo in moto. Cominciavo a notare che l'ispettore generale della CIA non era un burocrate: non aveva certo paura di sporcarsi le mani. E nemmeno di sporcare le mie. Stavamo per conoscere un altro «fantasma». Era Jack? Poteva essere così facile? Erano successe cose molto strane. Impiegammo una buona mezz'ora per arrivare alla casa della sorella di Hawkins a Silver Spring, nel Maryland. I prezzi delle abitazioni della zona erano eccessivamente alti, però il quartiere era ancora considerato «borghese». Non la mia borghesia, intendiamoci, bensì quella dei bianchi. Jeanne fermò la sua Volvo accanto a una Lincoln nera parcheggiata poco lontano dalla casa della sorella di Hawkins, abbassò il finestrino dalla parte del passeggero e parlò con i due agenti dentro la Lincoln. Supposi che li avesse messi di guardia lei, altrimenti stava chiedendo informazioni sull'indirizzo dell'assassino: l'idea mi fece ridere. Una delle rare risate degli
ultimi tempi. A un tratto vidi un uomo uscire di casa. Riconobbi Kevin Hawkins dalla foto d'archivio: non c'era il minimo dubbio. Lanciò rapidamente un'occhiata in strada e ci vide, perché si mise a correre. Poi saltò su una Harley-Davidson parcheggiata nel vialetto. Io gridai «Jeanne!» dal mio finestrino aperto, mettendo contemporaneamente in moto. E partii all'inseguimento... di Jack? 69 Inforcata la moto, Kevin Hawkins tagliò per prima cosa attraverso il prato coperto di brina fra due case. Passò anche davanti a una villa con la piscina coperta da un telone celeste. Io diressi la vecchia Porsche verso la stessa stradina interna presa da Hawkins. Per fortuna gli ultimi giorni erano stati freddi e il terreno era solido. Mi chiesi se dalle case qualcuno avesse visto la moto e l'auto che, come impazzite, passavano zigzagando sul retro. Poi la moto girò bruscamente a destra nella strada in fondo alla fila di case e io la tallonai. La mia auto sobbalzò forte: l'atterraggio sul marciapiede mi fece battere la testa contro il tettuccio. Mentre ci avvicinavamo all'incrocio, la Volvo e la Lincoln si accodarono all'inseguimento. Qualche ragazzino che, nonostante il tempo inclemente, giocava a pallone sgranò gli occhi nel vedere un autentico inseguimento della polizia nelle strade del suo quartiere. Tenevo la Glock puntata fuori del finestrino aperto, ma non avrei sparato se non l'avesse fatto prima lui. Kevin Hawkins non era ancora accusato di nessun crimine, non era stato spiccato nessun mandato, dunque perché scappava? Si stava comportando da colpevole. La moto di Hawkins affrontò, inclinandosi, una curva stretta. Mi ricordai di quando, secoli prima, guidavo anch'io una moto da corsa. Ne ricordai la stupefacente manovrabilità, la velocità, la sensazione che la pelle del viso si tendesse fino allo spasimo. Mi venne in mente Jezzie Flanagan, l'agente dei servizi segreti che mi era stato accanto in un altro caso, e rammentai come sapeva guidare bene la sua moto. Quella di Hawkins emise un profondo suono gutturale mentre risaliva la collina come un missile terra-terra.
Cercai di tenere il passo e ci riuscii, stupito che anche la Volvo e la berlina ci seguissero ancora. Quell'inseguimento era una totale follia... la tranquillità suburbana che veniva sconvolta. C'era Jack davanti a me? Hawkins era Jack? Lo vidi appiattirsi sul manubrio della moto. Sapeva guidare. Cos'altro sapeva fare quel killer professionista? Aveva accelerato, mettendo la quinta e andando a oltre centoventi chilometri all'ora in una stradina i cui cartelli dicevano ripetutamente di non superare i cinquanta. Poi ci trovammo bloccati dal traffico. In quel momento, il simbolo della nostra epoca fu, per me, la vista più bella del mondo. Un bell'ingorgo stradale! Varie auto e furgoncini nella nostra fila stavano già tornando indietro. Uno scuolabus arancione brillante era fermo nella corsia opposta e stava scaricando una fila di ragazzini, come faceva probabilmente ogni giorno a quell'ora. Ma Hawkins non pareva aver rallentato granché. A un tratto si mise a percorrere la linea spartitraffico: non aveva rallentato affatto! Capii che cosa stava per fare. Sarebbe passato fra le macchine, sfuggendoci. Frenai, imprecando: sapevo che cosa dovevo fare io. Sterzai, uscendo di strada e passando sui prati. Una donna in jeans e giubbotto nero mi urlò addosso un insulto dalla sua veranda, agitando una pala da neve. Puntai verso l'incrocio con la strada principale, poco più avanti. Jeanne Sterling mi seguì con la sua station wagon e così fece pure la Lincoln. Il caos e la follia erano scoppiati a Silver Spring. C'era Jack davanti a noi? Stavamo per prendere il maniaco omicida di personaggi famosi? Lo speravo intensamente, eravamo così vicini a lui! Meno di cento metri. Tenevo gli occhi puntati sulla veloce motocicletta, che improvvisamente cadde. Scivolò lateralmente, sollevando una scia di scintille dall'asfalto nero. Qualche bambino camminava ancora nello spazio fra lo scuolabus e la fila immobile delle auto.
Poi cadde anche Hawkins. Per evitare di investire un bambino. Era scivolato per non fare del male a un bambino! Hawkins era a terra. Poteva essere davvero Jack? Altrimenti chi era, in nome di Dio? Scesi dall'auto stringendo in pugno la mia Glock e correndo come un pazzo verso il punto del bizzarro incidente. Scivolavo sul ghiaccio e sulla neve, ma non rallentai. Anche Jeanne Sterling e i due agenti erano scesi dalle loro macchine, ma non se la cavavano altrettanto bene sul terreno ghiacciato: stavo perdendo la copertura alle spalle. Kevin Hawkins riuscì ad alzarsi e guardò indietro. Ci vide, armati fino ai denti. Aveva la pistola anche lui, ma non sparò. Si trovava a pochi passi dallo scuolabus e dai bambini. Lasciò in pace i piccoli. Corse invece verso la Camaro nera in testa alla fila di auto. Che cosa diavolo pensava di fare? Lo vidi urlare qualcosa dentro il finestrino del passeggero dell'auto sportiva. Poi, bang, sparò direttamente dentro la macchina. Spalancò lo sportello e cadde un corpo. Cristo, aveva ammazzato il guidatore! Senza battere ciglio. L'avevo visto, ma non riuscivo a crederci. Il killer professionista si allontanò sulla Camaro. Aveva ucciso una persona per prenderle la macchina, ma per poco non si era ammazzato lui stesso per evitare di investire una fila di bambini innocenti. Niente regole... o, piuttosto, fatti tu le tue regole. Smisi di correre e rimasi immobile in mezzo alla strada di Silver Spring, sopraffatto da un senso d'impotenza. Eravamo davvero stati sul punto di prendere Jack? Avevamo quasi risolto quell'orribile caso? 70 Quando tornai a casa, verso le undici e mezzo, Nana Mama era ancora alzata e con lei c'era Sampson. L'adrenalina prese a scorrermi nelle vene non appena li vidi: avevano l'aria di stare anche peggio di come mi sentivo io dopo quella giornata d'in-
ferno. Era successo qualcosa, stava capitando qualcosa di molto grave in casa nostra, lo intuii con certezza: Sampson non andava a trovare Nana dopo le undici di sera tanto per fare due chiacchiere. «Che c'è? Che cos'è successo?» domandai varcando la soglia della cucina. Nana e Sampson, seduti al tavolino, stavano parlottando con fare cospiratorio. «Che c'è?» chiesi di nuovo. «Che cosa diavolo sta capitando?» «Stasera qualcuno ha continuato a telefonare, Alex, ma riappendeva ogni volta che rispondevo», mi disse la nonna mentre sedevo in mezzo a loro. «Perché non mi hai chiamato subito?» domandai in tono fermo, ma gentile. «Hai il numero del mio cercapersone. È per questo che lo porto, Nana.» «Ho chiamato John», rispose lei. «Sapevo che tu eri occupato a proteggere il presidente e la sua famiglia.» Ignorai il suo abituale risentimento: non era il momento di mettersi a discutere. «Non ha mai detto niente?» domandai. «Non ha mai parlato?» «No, sono arrivate dodici telefonate fra le otto e mezzo e le dieci circa, poi più nulla. Lo sentivo respirare, Alex. Mi è venuta quasi voglia di suonargli il mio fischietto.» Nana Mama tiene un fischietto d'argento da arbitro accanto al telefono: è la sua risposta alle chiamate oscene. Questa volta desiderai quasi che l'avesse. «Adesso me ne vado a letto», disse lei con un lieve sospiro, quasi inudibile. Per una volta, dimostrava tutti i suoi anni. «Ormai ci siete tutti e due.» Si alzò faticosamente dalla sedia scricchiolante della cucina e andò prima da Sampson, chinandosi a baciarlo su una guancia. «Buonanotte, Nana», bisbigliò lui. «Non c'è niente di cui preoccuparsi. Risolveremo tutto noi, per quanto tutto sembri brutto, in questo momento.» «John, John», lo sgridò dolcemente lei. «C'è molto di cui preoccuparsi e lo sappiamo tutti e due, no?» Poi venne a baciare me. «Buonanotte, Alex, sono contenta che tu sia finalmente tornato a casa; questo maniaco in giro per il quartiere mi fa stare in una terribile ansia. È davvero orribile, orribile...» Strinsi per qualche secondo il suo corpo fragile, sentendo la rabbia crescermi dentro. La tenni stretta pensando a com'era terribile che lei venisse intimidita: il diavolo in persona era entrato in casa mia. Nessuno con la mente a posto avrebbe mai minacciato la famiglia di un poliziotto... ma non credevo che il killer avesse la mente a posto.
«Buonanotte, Nana, grazie di starci vicino», le mormorai, inalando il profumo floreale del suo borotalco. «Ho sentito quello che hai detto e sono d'accordo con te.» Quando se ne fu andata, Sampson scosse la testa, poi finalmente sorrise. «Dura come al solito, la nonna, è davvero speciale. Però mi piace, le voglio bene.» «Anch'io... di solito.» Fissai il lampadario appeso al soffitto, cercando di mettere a fuoco qualcosa che capivo: l'elettricità, le lampadine, le stuccature sopra la mia testa. Nessuno poteva invece veramente capire un maniaco omicida. Sono come visitors di altri pianeti, letteralmente. Per una volta in vita mia mi ritrovai senza parole. Mi sentivo in preda a una cupa rabbia. Avevo anche paura per la mia famiglia. Forse quelle telefonate non significavano nulla, ma non potevo saperlo con certezza. Presi un paio di birre dal frigo e le stappai. Avevo comunque bisogno di parlare con Sampson: non avevo avuto un momento libero per tutta la giornata. «Ha paura per i bambini, è questo che le arruffa il pelo e le fa snudare gli artigli», osservò lui prima di trangugiare una lunga sorsata di birra. «Artigli affilati, amico.» Riuscii finalmente a fare un mezzo sorriso, nonostante la stanchezza e il senso d'impotenza che avvertivo. Rimanemmo ad ascoltare per un lungo istante il silenzio della vecchia casa in Fifth Street, sottolineato dal tintinnio familiare dei tubi del riscaldamento. Continuammo a sorseggiare la birra, ma il telefono non squillava più. Forse il fischietto di Nana non era un'idea malvagia. «Come sta andando la caccia al giovane Moore?» chiesi a Sampson. «Niente di nuovo oggi? So che non abbiamo abbastanza uomini.» Sampson si strinse nelle grosse spalle e si spostò sulla sedia, mentre il suo sguardo s'incupiva. «Abbiamo trovato tracce di trucco nella sua camera. Magari si travestiva da vecchio. Lo troveremo, Alex. Pensi sia stato lui a chiamare qui stasera?» Aprii le mani, poi annuii. «Avrebbe senso. È certo che vuole un'attenzione speciale. Vuole essere considerato importante, John. Forse ha la sensazione che Jack & Jill distolgano l'attenzione da lui, spostino su di sé le luci della ribalta. Forse sa che mi occupo di Jack & Jill ed è arrabbiato con me.» «Non ci resta che chiederlo al giovane cadetto», disse Sampson, sfoggiando uno dei suoi peggiori sorrisi maligni. «Mi piacerebbe proprio esse-
re popolare come te, bello. Nessun matto mi chiama di notte o mi lascia bigliettini a casa. Niente del genere.» «Non oserebbe», ribattei. «Nessuno è così matto, nemmeno il killer della Truth School.» Scoppiammo a ridere, un po' troppo forte. Di solito il riso è la migliore nonché l'unica difesa nelle indagini più complicate e spaventose. Magari erano stati Jack & Jill a telefonarmi a casa. Oppure Kevin Hawkins. O magari perfino Gary Soneji, che era ancora in libertà e aspettava di saldare un vecchio conto con me. «I tecnici arriveranno domattina presto e monteranno un dispositivo d'ascolto all'apparecchio. Metteremo anche un uomo di guardia, almeno finché non avremo trovato Moore. Ho parlato con Rakeem Powell: sarà felice di venire lui.» Annuii. «Bene. Grazie per essere venuto e per aver fatto compagnia a Nana.» Le cose viravano al peggio, minacciando me, la mia casa e la mia famiglia. Il killer era sulla soglia. Non riuscii ad andare a letto quando Sampson se ne fu andato via. Non avevo nemmeno voglia di suonare il piano: niente musica per il momento. Non osavo chiamare Christine Johnson. Salii a guardare i bambini, seguito da Rosie, che si stiracchiava e sbadigliava. Li guardai proprio come Jannie aveva guardato me dormire qualche mattino prima. Avevo paura per loro. Alla fine mi appisolai verso le tre: grazie a Dio non c'erano state altre telefonate. Dormii in veranda, tenendomi la Glock in grembo. Casa, dolce casa. 71 Il mattino seguente sentii per prima cosa i bambini che giravano per casa ridendo e la cosa mi sollevò lo spirito e mi depresse al contempo. Mi ricordai subito della situazione in cui ci trovavamo: il mostro era arrivato sulla soglia di casa. Sapeva dove abitavamo. Non c'erano più regole. Nessuno, nemmeno la mia famiglia, era al sicuro. Sdraiato sul vecchio divano della veranda, pensai per qualche istante al giovane Moore. Era strano che niente del suo passato corrispondesse ai due omicidi. Pensai all'idea mostruosa di un tredicenne che commette delitti senza un motivo apparente. Nella mia testa era immagazzinato un sac-
co di materiale sull'argomento. Avevo un vago ricordo scolastico di Lafcadio, il personaggio dei Sotterranei del Vaticano di André Gide, che compiva l'«atto gratuito» di spingere un estraneo giù dal treno solo per provare di essere vivo. Lanciai un'occhiata alla sveglia portatile vicina alla mia testa: erano già le sette e dieci. Il profumo del caffè forte di Nana aveva riempito tutta la casa. Mi rifiutavo di lasciarmi abbattere dalla mancanza di progressi. C'era un detto che tenevo a mente per simili occasioni: Fallire non significa cadere... ma volare bassi. Mi alzai e andai in camera mia a farmi la barba e cambiarmi i vestiti, poi scesi rumorosamente le scale. Io non avrei volato basso. Trovai i miei due marziani preferiti che giravano vorticosamente per la cucina, giocando a rincorrersi. Spalancai la bocca nella mia imitazione del Grido silenzioso di Edvard Munch. Jannie scoppiò a ridere e Damon m'imitò. Erano contenti di vedermi. Eravamo ancora gli amici e i compagni migliori. Ieri sera qualcuno ha telefonato a casa. Sumner Moore? Kevin Hawkins? «Buongiorno, Nana», dissi versandomi una tazza di caffè, una delle cose più belle della mattina. Poi sorseggiai il caffè, il cui sapore era ancora più squisito del profumo. La nonna sa cucinare. Sa anche parlare, pensare, illuminare, irritare. «Buongiorno, Alex», disse lei, come se la sera prima non fosse capitato niente. Dura come il ferro. Non voleva agitare i bambini, allarmarli in nessun modo. Nemmeno io. «Verrà qualcuno a mettere a posto il telefono», annunciai riferendole quello che mi aveva detto Sampson. «E qualcuno monterà anche di guardia vicino alla casa, per qualche giorno. Un detective, probabilmente Rakeem Powell, lo conosci, no?» La notizia non piacque affatto a Nana. «Certo che conosco Rakeem, sono stata la sua maestra, per l'amor di Dio! Ma Rakeem non ha niente da fare qui. Questa è casa nostra, Alex. È così terribile, non credo proprio di poterlo sopportare... Capita proprio qui.» «Cos'ha che non va il nostro telefono?» domandò Jannie. «Funziona benissimo», le risposi. 72
I due casi d'omicidio stavano diventando un unico incubo infinito. Sembrava che non potessi più riprender fiato. Il mio stomaco annodato aveva l'aria di voler rimanere così per tutta la durata delle indagini. Era una situazione kafkiana, che estenuava le forze di polizia. Nessuno ricordava niente del genere. Decisi di tenere Damon a casa per qualche giorno con Nana e il detective Rakeem Powell, tanto per essere sicuri. Speravo che avremmo trovato in fretta Sumner Moore e che almeno una metà di quella storia dell'orrore sarebbe finita. Continuavo a sospettare che Sumner volesse essere preso in fretta, come indicavano gli indizi lasciati sulle scene dei due delitti. E speravo che, prima della cattura, non uccidesse un altro bambino. Pensai di mandare Nana e i bambini da una delle mie zie, ma lasciai perdere. Rakeem Powell sarebbe rimasto in casa con loro. Non potevo sconvolgere oltre la vita dei piccoli, almeno per il momento. Inoltre ero quasi sicuro che mandare Nana a casa di una delle sue sorelle mi sarebbe costato una durissima battaglia. La sua casa era lì, a Washington Si sarebbe battuta con tutte le proprie forze per non andarsene: l'aveva già fatto altre volte. Quel mattino arrivai molto presto alla Casa Bianca. Sedetti in un ufficio dello scantinato con un tazzone di caffè e un malloppo alto mezzo metro di documenti riservati da leggere e ponderare. Si trattava di centinaia di rapporti interni della CIA su Kevin Hawkins e altri «fantasmi». Poco dopo le nove incontrai Don Hamerman, il procuratore generale James Dowd e Jay Grayer in un'elegante sala riunioni vicino alla Sala Ovale, nell'ala ovest. Mi ricordai che in origine la Casa Bianca era stata edificata per intimidire i visitatori, soprattutto i dignitari stranieri. Faceva ancora quell'effetto, soprattutto in determinate circostanze. La «residenza americana» era enorme e ogni stanza aveva un aspetto formale e imponente. Quel giorno Hamerman sembrava incredibilmente docile. «Hai fatto una certa impressione sul presidente», mi disse. «Gli hai anche spiegato bene come la vedi.» «E adesso che succede?» chiesi. «Che si fa? Ovviamente mi piacerebbe partecipare.» «Abbiamo dato inizio a indagini estremamente caute», rispose Hamerman. «Se ne occupa L'FBI.» Si guardò intorno e a me parve che, con quell'occhiata, intendesse riaffermare il proprio potere.
«Tutto qui quello che volevi dirmi?» sbottai dopo qualche istante di silenzio. «Per il momento. Sei stato tu a far partire tutto, è già qualcosa. Anzi, è una faccenda maledettamente grossa.» «Maledettamente grossa», ripetei. «Stiamo investigando su probabili killer all'interno della Casa Bianca!» Mi alzai e tornai nel mio ufficio: avevo del lavoro da fare. Intanto continuavo a ricordare a me stesso che facevo parte del «team». Hamerman fece capolino nel mio ufficio verso le undici e mezzo, con occhi sgranati e più folli che mai. Pensai che forse aveva cambiato idea sul modo di svolgere le ultime indagini... o che qualcuno gliel'avesse fatta cambiare. Non sembrava neppure Don Hamerman. «Il presidente vuole vederci subito.» 73 Il presidente Byrnes ci venne incontro nella Sala Ovale, che era effettivamente ovale. «Grazie per essere venuti. Salve, Jay, Ann, Jeanne, Alex. So quanto siete occupati e la tremenda pressione sotto cui state lavorando», disse mentre entravamo e andavamo a sederci. L'unità di crisi era tutta riunita, ma il presidente Byrnes dominava chiaramente la sala e l'incontro fuori programma. Indossava un elegante completo blu scuro e i suoi capelli color sabbia parevano tagliati di fresco. Mi chiesi se se li fosse fatti tagliare quel mattino e, in quel caso, come avesse trovato il tempo. Che cos'era successo ancora? Jack & Jill si erano di nuovo messi in contatto con la Casa Bianca? Lanciai un'occhiata a Jeanne Sterling, dall'altra parte della sala: si strinse nelle spalle e spalancò gli occhi. Non lo sapeva nemmeno lei. Pareva che nessuno, nemmeno Hamerman, conoscesse le intenzioni del presidente. Quando fummo tutti seduti, Thomas Byrnes cominciò a parlare, in piedi davanti alle bandiere dell'esercito e dell'aeronautica. Controllava benissimo le proprie emozioni, il che, date le circostanze, era davvero encomiabile. «Harry Truman diceva spesso: se vuoi farti un amico a Washington ti conviene comprare un cane. Credo di aver provato esattamente la stessa sensazione che ha ispirato le sue parole. Ne sono quasi certo.» Il presidente era un oratore insolitamente accattivante, come avevo già
scoperto ascoltandolo in televisione durante la convention e il discorso sullo stato del Paese. Ed era evidente che sapeva usare lo stesso talento anche con un pubblico più ristretto, cinico e smaliziato, come quello che si trovava davanti. «Che mal di testa riesce a far venire talvolta questo lavoro! Chiunque abbia coniato la frase: 'Se mi nominano non partecipo e se mi eleggono non servirò il Paese', aveva perfettamente ragione. Credetemi.» Il presidente sorrise. Aveva la capacità di dare un tocco personale a qualunque cosa dicesse. Mi chiesi se lo facesse apposta. Fino a che punto era un ottimo attore? Poi i suoi occhi azzurri fecero il giro della sala, soffermandosi per un istante su ogni volto. «Ho pensato parecchio alla triste situazione in cui ci troviamo. Sally e io ne abbiamo discusso fino a tarda notte, per parecchie notti di fila. Credo anzi di aver pensato troppo a Jack & Jill. Negli ultimi giorni il loro squallido circo è stato al centro dell'attenzione generale e ha distratto il governo. Molte riunioni di gabinetto sono saltate e tutti hanno dovuto cambiare i loro programmi. Questa situazione non può continuare. Nuoce al paese, alla gente e a chiunque abbia una mente sana, inclusi Sally e me stesso. Ci fa apparire deboli e instabili agli occhi del mondo. Le minacce di una coppia di maniaci non possono far saltare gli impegni del governo degli Stati Uniti. È un fatto inammissibile. «Di conseguenza, ho preso una grave decisione, una decisione che solo io potevo prendere. Ora ve la comunicherò perché influirà su tutti voi, oltre che su Sally e me.» Il presidente Byrnes percorse di nuovo rapidamente la sala con lo sguardo. Non sapevo a quali conclusioni sarebbe arrivato, ma il processo con cui ci si stava avvicinando era interessante. Era evidente che seguiva un ordine prestabilito, ma voleva dare l'impressione di cercare il nostro assenso. «La Casa Bianca deve tornare alla sua solita routine. È necessario. Gli Stati Uniti non possono cadere in ostaggio di pericoli o minacce reali o immaginari. Ecco la decisione che ho preso e che entrerà in vigore da stasera. Dobbiamo riprendere a seguire i normali programmi.» Nella sala, il disagio era palpabile. Ann Roper gemette forte. Don Hamerman abbassò il capo. Io tenni gli occhi puntati sul presidente. «Capisco benissimo che questo renderà molto più difficoltoso il lavoro di tutti voi. Come potete proteggermi se non collaboro e non seguo le vostre raccomandazioni? Be', io non posso più collaborare. Non posso farlo se in questo modo si fa sapere al mondo che una coppia di psicopatici può
far saltare tutti i nostri impegni di governo, il che è esattamente quello che sta capitando. Che è capitato. «A cominciare da domani riprenderò tutti i normali impegni. Non intendo discuterne più. Ho anche deciso di effettuare la visita a New York in programma per martedì. Faccio a tutti i migliori auguri per i compiti che ci aspettano. Fate il vostro lavoro, per favore, e io cercherò di fare il mio. Qualunque cosa accada d'ora in poi, in futuro non avremo assolutamente nessun rimpianto. Sono stato chiaro?» «Chiarissimo, signore.» Tutti annuirono. Tutti gli occhi erano puntati sul presidente, che aveva parlato in termini decisi, senza mostrare la minima emozione. Assolutamente nessun rimpianto, ripetei fra me. Ero certo che l'avrei ricordato per il resto della vita, qualunque cosa fosse successa, qualunque azione avessero ancora intrapreso Jack & Jill. Thomas Byrnes aveva appena deciso di rischiare la propria vita, di andare in prima linea. Il presidente aveva posto la propria vita nelle nostre mani. «A proposito, Don», disse il presidente Byrnes a Hamerman poco prima di sciogliere la riunione. «Manda qualcuno a comprarmi un cane. Ho un dannato bisogno di un amico.» Scoppiammo tutti a ridere, anche se non ci sentivamo certo allegri. 74 Quella notte a Washington cadde qualche centimetro di neve e la temperatura precipitò di parecchio sotto lo zero. Il killer della Truth School si svegliò spaventato, sentendosi molto solo, in trappola. Sentendosi in realtà molto triste. Niente gioia né felicità. Era completamente coperto da un sudore freddo e appiccicoso. Ricordò di aver sognato di uccidere molta gente e di seppellirla sotto il caminetto di pietra nella casa di campagna dei nonni, a Leesburg. Faceva lo stesso sogno da anni, da quando riusciva a ricordare, da quand'era piccolo. Ma era un sogno, o aveva veramente commesso quei macabri omicidi? si chiese aprendo gli occhi e cercando di capire dove si trovasse. Dove cazzo sono? Poi si ricordò dov'era andato a dormire la sera prima: che idea sfolgorante aveva avuto!
La canzone, la sua canzone, gli risuonò nella testa: Sono un perdente, bimba. Perché non mi uccidi? Aveva scelto un nascondiglio dannatamente freddo, o forse lui stava diventando troppo stupido e sbadato. Dannatamente freddo? O troppo stupido? Chissà. Si trovava in casa sua, al terzo piano. Si fece forza con l'idea di essere per il momento «sano e salvo». Dio, come gli piaceva il potere di quella convinzione! Aveva il controllo totale della faccenda, della sua missione. Poteva essere grande e importante come Jack & Jill. Cazzo, poteva essere anche più grande e migliore di quei due stronzi dilettanti. Sapeva di potere, di poter rompere il culo a Jack & Jill. Tastò il pavimento a caccia del suo fidato zainetto. Dove cazzo era finito?... Oh, bene, eccolo. È tutto in regola. Vi frugò dentro e trovò la pila. L'accese. «Che la luce sia», bisbigliò. «Alé, oh-oh!» Oh-oh, al diavolo lo sport... Si trovava davvero all'ultimo piano di casa sua, non era un sogno. Dopo tutto era lui il killer della Truth School. Fece cadere il fascio luminoso sull'orologio che portava al polso, un regalo per il suo dodicesimo compleanno. Era il tipo d'orologio che portano i piloti. Caspita, gli era piaciuto un sacco! Magari poteva diventare pilota di jet una volta finita quella storia, imparare a far volare un F-16. L'orologio da pilota segnava le quattro del mattino, quindi dovevano essere le quattro. «L'ora del lupo mannaro», bisbigliò fra sé. Era ora di scendere e di continuare a lasciare la sua impronta sul mondo. Qualcosa di sbalorditivo stava per succedere. Delitti perfetti. Dovevano essere assolutamente perfetti. 75 Il killer della Truth School lasciò ricadere molto lentamente la grossa scala pieghevole fino al primo piano della casa, di casa sua. Se i genitori adottivi si fossero per caso alzati in quel momento per fare pipì... grossi
problemi in vista. Ma anche grosse sorprese. Un uragano stava per abbattersi su di loro. Aveva qualche problema a respirare. Ormai non c'era più niente di facile. Doveva appoggiare silenziosamente la grossa scala traballante sul pianerottolo del primo piano, ma alla fine si sentì un tud. «Accidenti a te, perdente», bisbigliò. Non riusciva ancora a respirare bene ed era tutto coperto di un sudore viscoso, come quello che ricopre i cavalli nelle passeggiate all'alba. Era un fenomeno che aveva osservato nella fattoria dei nonni e non se l'era più scordato: sudore che diventa quasi una crema proprio sotto i tuoi occhi. «Vigliacco», bisbigliò, ironizzando sulla propria codardia. «Cagasotto vigliacco. Idiota del mese. Sei un perdente, amico.» Di nuovo il ritornello della sua canzone. Provò ad aspettare che il nervosismo e il panico gelido passassero. Respirò più volte a fondo, in cima alla scala pieghevole. Era una sensazione così strana... Ma era la vita reale, il tempo reale. Finalmente cominciò a scendere la scala di legno traballante, con gambe di legno traballanti, che gli sembravano trampoli. Cercò di farlo il più silenziosamente possibile. Arrivato in fondo si sentì un po' meglio: la terraferma. Si avviò in punta di piedi lungo il corridoio, fino alla camera da letto. Non appena ne socchiuse la porta, si sentì colpire da una ventata d'aria gelida. Il padre adottivo teneva la finestra aperta perfino in dicembre, perfino quando nevicava, cazzol Probabilmente era quel freddo artico a tenergli corti i capelli argentei, risparmiandogli la spesa del barbiere. Che gran stronzo era! «Te la sbatti anche al gelo?» bisbigliò fra i denti, e gli parve un'idea azzeccata. Andò vicinissimo al letto. Vicinissimo. Rimase in piedi davanti al loro altare dell'amore, al loro sacro trono. Quante volte aveva immaginato di vivere quel momento? Proprio quel momento? Quanti altri ragazzi avevano immaginato la stessa scena migliaia di migliaia di volte? Ma poi non avevano fatto niente. Perdenti! Il mondo era pieno di perdenti. Stava per farsi cogliere da una delle sue furie peggiori, una furia tre-
menda! Sentiva i brividi ovunque. Sull'attenti! Era quello che sentiva. Vedeva rosso in tutta la stanza, una nebbia rossastra, quasi avesse osservato la camera attraverso un binocolo agli infrarossi. Stava... per... esplodere... no? Si sentiva... esplodere... in... un... miliardo... di pezzi. A un tratto urlò con tutto il fiato che aveva in gola: «Svegliatevi e sentite il fottuto profumo di caffè!» Era scoppiato anche in singhiozzi, non sapeva per quale motivo. Non ricordava di avere mai pianto così da quand'era piccolo, veramente piccolo. Gli faceva male il petto, come avesse preso un pugno, o fosse stato colpito da una mazza da baseball lunga mezzo metro. Si rese conto di singhiozzare forte. Mr Frignone era tornato. Sempre a pensare tre volte ogni mossa, prima e dopo averla fatta. «Bang», urlò con tutto il fiato che aveva in gola. «Bang», urlò di nuovo. «Bang. «Bang. «Bang. «Bang. «Bang. «Bang. «Bang. «Bang. «Bang. «Bang.» E a ogni urlo premeva il grilletto della Smith & Wesson, piantando un altro proiettile 9 mm nelle due figure addormentate. Dodici colpi, se non aveva sbagliato i conti. E lui non li sbagliava mai. Dodici colpi, proprio come quelli che si erano beccati Jose e Kitty Menendez dai loro figlioletti Lyle ed Erik. La scuola militare serviva finalmente a qualcosa, non poté impedirsi di pensare. Alla fin fine, i suoi insegnanti avevano ragione. Il colonnello Wilson e la Roosevelt Academy sarebbero stati orgogliosi della sua mira... ma soprattutto della sua risolutezza, del suo piano semplice e chiarissimo, dello straordinario coraggio dimostrato quella notte. I genitori adottivi erano stati completamente annientati, quasi disintegrati dalla potenza del suo fuoco. Lui non provava nulla... tranne forse un certo orgoglio per quello che aveva fatto, per la sua abilità di tiratore.
Nessuno è stato qui. Questa è opera di Nessuno, amico. Lo scrisse nel sangue. Poi scappò fuori a giocare nella neve, disseminando sangue ovunque. Poteva veramente, ormai poteva fare tutto quello che voleva. Nessuno poteva fermare Nessuno. 76 Era stato trovato un altro bambino ucciso. Un maschio, meno di un'ora prima. John Sampson ricevette la notizia verso le sette di sera. Non riusciva a crederci. Non poteva, non voleva accettare quello che gli era stato appena detto. Era venerdì tredici. La data era stata scelta apposta? Un altro bambino ucciso a Garfield Park. Almeno, il corpo era stato trovato lì. Sampson aveva una voglia pazza di prendere Sumner Moore e di prenderlo subito. Parcheggiò su Sixth Street e percorse a piedi il breve tragitto fino al parco tetro e desolato. Va sempre peggio, pensò andando verso le luci d'emergenza gialle e rosse che lampeggiavano davanti a lui. «Detective Sampson, lasciatemi passare», disse, facendosi largo nella cerchia di uniformi della polizia. Un agente teneva al guinzaglio un bastardino bianco e grigio, che guaiva. Era un elemento strano in una strana scena. Sampson si rivolse all'uomo in uniforme: «Che ci fai con quel cane? Di chi è?» «È stato il cane a scoprire la vittima. La proprietaria l'aveva lasciato libero per una corsa dopo essere tornata a casa dal lavoro. Qualcuno aveva coperto malamente il corpo del bambino con alcuni rami, quasi avesse voluto farlo scoprire.» Sampson annuì, poi avanzò fino al cadaverino. La vittima era evidentemente più grande di Vernon Wheatley o di Shanelle Green. Sumner Moore aveva fatto un salto di qualità: non uccideva più bambini in tenera età. Il piccolo vampiro cercava di far carriera. Un fotografo della polizia continuava a girare intorno alla vittima e il suo flash lampeggiava sulla candida neve che ricopriva il parco. Il ragazzino aveva il naso e la bocca tappati da un nastro adesivo argentato. Sampson respirò a fondo prima di inginocchiarsi accanto al medico legale, una donna che conosceva, di nome Esther Lee. «Da quanto pensi sia morto?» le chiese.
«Difficile a dirsi, forse trentasei ore. Il freddo rallenta notevolmente la decomposizione. Lo saprò dopo l'autopsia. Il ragazzo è stato picchiato selvaggiamente, con un tubo di ferro o qualcosa del genere. Ha cercato di difendersi... vedi le ferite alle mani e alle braccia? Che pena mi fa!» «Lo so, Esther, anche a me.» La parte visibile del collo del ragazzo era gonfia e terrea. Piccole cimici nere gli correvano fra i capelli. Alcuni vermi uscivano dal taglio nello scalpo, sopra l'orecchio destro. Sampson fece una smorfia e si costrinse a girare intorno al cadaverino. Non lo sapeva nessuno, nemmeno Alex, ma quella era la parte delle indagini che non riusciva proprio a sopportare: i corpi in decomposizione. «Non ti piacerà», disse Esther Lee prima che lui guardasse. «Ti avviso.» «Lo so», borbottò lui. Si soffiò un po' di fiato caldo sulle mani, ma non servì a molto. Vedeva la faccia del ragazzino. La vedeva ma... non riusciva a crederci. E sicuramente non gli piaceva: Esther Lee aveva avuto ragione. «Cristo», esclamò. «Gesù, Gesù! Dobbiamo fermare quest'orribile cosa!» Sampson si levò di nuovo nei suoi due metri abbondanti, solo che non era né abbastanza alto né abbastanza grosso. Non riusciva a credere a quello che aveva appena visto: la faccia del ragazzino. Quegli omicidi erano troppo perfino per lui, che ne aveva visti tanti negli ultimi anni nel Distretto di Columbia. Il ragazzino ucciso era Sumner Moore. PARTE QUINTA NÉ REGOLE NÉ RIMPIANTI 77 Niente comincia mai quando lo crediamo noi, eppure, ancora oggi, io continuo a pensare che tutto abbia avuto inizio proprio quel giorno. Sedevo con Jannie in cucina a chiacchierare nel nostro linguaggio speciale, in cui le parole non hanno nessuna importanza, quello che conta sono i sentimenti. «Sai, oggi è un anniversario per noi», dissi. «Un anniversario speciale.» Le accarezzai una guancia, morbida come l'ala di una farfalla. «Oh, veramente?» fece Jannie, lanciandomi un'occhiata scettica, identica
a quelle di Nana Mama. «E che anniversario sarebbe?» «Be', ora te lo dico: è la cinquecentesima volta che ti ho letto L'uomo che puzzava di formaggio.» «D'accordo, benissimo», disse sorridendo indulgente lei, «allora leggimelo ancora! Mi piace come lo leggi.» L'accontentai. Poi passai un po' di tempo con Damon e con Nana, prima di salire a preparare i bagagli. Quando scesi, mi fermai un attimo fuori, a parlare con Rakeem Powell, che aspettava Sampson, il quale avrebbe dovuto sostituirlo per la notte. La Montagna Umana era in ritardo come al solito e non aveva dato notizie, cosa piuttosto strana, ma sapevo che sarebbe arrivato. «Tutto bene?» chiesi a Rakeem. «Benissimo, Alex. Sampson arriverà, prima o poi. Tu pensa a quello che devi fare.» Andai alla macchina, salii e misi un nastro che corrispondeva al mio umore del momento: il finale del secondo concerto per pianoforte di SaintSaëns. Avevo sempre sognato di riuscire a suonarlo sul mio pianoforte in veranda. Continua pure a sognare, amico. Mentre ascoltavo quella splendida musica la mia auto correva verso la base aerea di Andrews, dove veniva preparato l'Air Force One. Il presidente Byrnes andava a New York e io facevo parte della sua scorta. Senza rimpianti. 78 In seguito ne furono dati vari resoconti spesso in conflitto tra loro, ma ecco che cosa e come accadde: io lo so bene, perché c'ero. Lunedì mattina, nove giorni prima di Natale, atterrammo in una nebbia grigiastra e sotto una pioggerella insistente all'aeroporto La Guardia di Long Island. La stampa non aveva ricevuto nessuna informazione specifica sugli spostamenti del presidente Byrnes, che avrebbe comunque mantenuto l'impegno di parlare a New York il mattino seguente. Thomas Byrnes era noto per mantenere i propri impegni e la parola data. Era stato deciso di andare dal La Guardia a Manhattan in auto, anziché in elicottero. Il presidente non si nascondeva più. Jack & Jíll avevano contato su questo sfoggio di coraggio o di arroganza da parte sua? mi chie-
devo. Avrebbero seguito il presidente a New York? Ne ero quasi sicuro. Sarebbe stato in linea con il loro comportamento. «Monta con noi, Alex», mi disse Don Hamerman mentre correvamo sulla pista, e la gelida pioggia decembrina ci batteva sul viso. Hamerman, Jay Grayer e io eravamo scesi insieme dall'Air Force One, l'aereo presidenziale. Eravamo anche stati seduti vicini durante il volo, pensando a come proteggere il presidente a New York. La conversazione ci aveva talmente assorbiti da farmi dimenticare del tutto l'aereo speciale su cui stavo volando. «Saremo sulla macchina che segue quella del presidente, quindi possiamo continuare la discussione andando a Manhattan», spiegò Hamerman. Montammo su una Lincoln blu, parcheggiata a una cinquantina di metri dal jet. Erano quasi le dieci di sera e quel settore dell'aeroporto era stato isolato e pullulava di uomini dei servizi segreti, di agenti dell'FBI e di poliziotti di New York. Intorno alle cinque limousine del corteo presidenziale, c'erano almeno tre dozzine di auto biancazzurre della polizia di New York, per non parlare dei poliziotti motociclisti, a bordo delle loro Harley. Gli agenti dei servizi segreti fissavano la notte nebbiosa come se Jack & Jill avessero potuto comparire all'improvviso sulla strada del La Guardia. Avevo saputo che la polizia locale aveva disposto la presenza di almeno cinquemila uomini in borghese per tutta la durata della visita del presidente, oltre a un centinaio di detective. I servizi segreti avevano cercato di convincere il presidente a risiedere a Governors Island, nella base della guardia costiera, o a Fort Hamilton, a Brooklyn, ma lui aveva insistito invece per Manhattan. Nessun rimpianto. Le sue parole, pronunciate nella Sala Ovale, continuavano a risuonarmi nella testa. Mi appoggiai al comodo sedile di pelle della limousine. Riuscivo a sentire il potere. Capivo che cosa significava trovarsi proprio alle spalle dell'auto del presidente, della «carrozza», come la chiamavano i servizi segreti. Un paio di poliziotti in motocicletta si piazzarono davanti al corteo, accendendo le luci rosse e gialle che presero a girare come un vorticoso caleidoscopio. E il corteo presidenziale si mossa dall'aeroporto La Guardia. Don Hamerman attaccò subito a parlare. «Nessuno ha visto Kevin Hawkins negli ultimi tre giorni, giusto? Sembra svanito dalla faccia della terra», osservò in tono colmo di rabbia e frustrazione, oltre che della solita petulanza. Gli piaceva fare il tiranno con i suoi sottoposti, ma né Grayer né io glielo permettevamo.
«Nessuno sa quale strada stiamo per percorrere», aggiunse. «Il percorso ufficiale è stato comunicato solo pochi minuti fa.» Non riuscii a trattenermi. «Veramente lo sappiamo noi e anche i poliziotti di New York, almeno per il momento. Kevin Hawkins è bravo a scoprire i segreti. Kevin Hawkins è bravo, punto e basta. È uno dei nostri migliori agenti.» Jay Grayer scrutava fuori del finestrino rigato di pioggia la superstrada newyorkese su cui stavamo viaggiando. La sua voce suonò molto lontana. «Cosa ti dice l'istinto riguardo a Hawkins?» «Ho la netta sensazione che sia coinvolto in questa faccenda. Ce lo dicono molti elementi: appartiene a gruppi che si oppongono alla politica presidenziale, ha già avuto dei guai, è sospettato di omicidio all'interno della CIA. Quadra tutto.» «Ma che cosa non quadra?» chiese ancora Grayer, che aveva già imparato a leggere nel mio pensiero piuttosto bene. «A giudicare da quanto ho letto su di lui, finora ha lavorato sempre da solo, è sempre stato un introverso. Pare abbia problemi nei rapporti con le donne, a parte la sorella a Silver Spring. Non capisco che cosa c'entri Jill con lui. Non me lo vedo a lavorare all'improvviso con una donna.» «Forse ha finalmente trovato la sua anima gemella. Capita», osservò Hamerman. Dubitavo che a lui fosse mai capitato. «Cos'altro ti viene in mente su Hawkins?» incalzò Jay Grayer, chiudendo gli occhi. «Tutti i profili psicologici dell'FBI suggeriscono la possibilità che lui sia una sorta di bomba pronta a esplodere. Non so come abbiano giustificato il fatto di tenerlo attivo per tutti questi anni in Asia e in Sudamerica. Il fatto interessante è proprio questo: Hawkins si dedica anima e corpo alle cause in cui crede. È fermamente convinto dell'importanza della CIA per quanto riguarda la difesa nazionale. Invece il presidente non lo è, e l'ha affermato più volte, anche in pubblico. Questo potrebbe spiegare le azioni di Jack & Jill. Dico potrebbe, notate bene. Hawkins è comunque abbastanza ricco d'esperienza e di risorse da compiere un assassinio del genere. Potrebbe senz'altro essere Jack e, se lo è, non sarà facile fermarlo.» Stavamo per attraversare il ponte verso Manhattan. Il corteo era una strana parata spettrale di sirene ululanti e luci lampeggianti. L'isola di Manhattan si stendeva davanti a noi. La città appariva incredibilmente imponente, in grado di inghiottirci. Qui può capitare di tutto, pensai. Sono certo che Don Hamerman e Jay
Grayer pensarono la stessa cosa. Bam! Bam! Bam! Ci rizzammo tutti e tre sul sedile della limousine, la pistola in mano, pronti a tutto, pronti ad affrontare Jack & Jill. Fissammo orripilati l'auto del presidente davanti a noi, la carrozza. Cadde un silenzio spaventoso, poi scoppiammo a ridere. Non si era trattato di spari. Quei botti, dovuti al passaggio dei veicoli sulle consunte grate metalliche della rampa che scende dal ponte, erano stati solo un falso allarme, ma ci avevano quasi fatto venire un infarto. E di certo anche i passeggeri dell'auto presidenziale avevano avuto la stessa reazione. «Cristo», imprecò Hamerman. «D'ora in poi sarà sempre così. Oh, Dio onnipotente!» «Mi trovavo all'Hilton di Washington quando Hinckley sparò a Reagan e a James Brady», raccontò con voce tremante Jay Grayer. Sapevo che stava rivivendo quei momenti. Mi chiesi quale fosse il suo interesse personale in tutta quella faccenda. Me lo chiesi di ogni membro del nostro team. Osservai l'auto del presidente infilarsi nelle strade affollate e illuminate di New York, mentre la brezza proveniente dal fiume agitava le bandierine americane ai lati dei paraurti. Nessun rimpianto. 79 Per svolgere il suo lavoro, il fotoreporter era arrivato a New York il mattino di lunedì 16 dicembre. Aveva deciso di servirsi di un'auto per coprire la distanza tra la capitale e la Grande Mela: era molto più sicuro. Adesso stava percorrendo a piedi Park Avenue dove il mattino seguente, solo poche ore dopo, sarebbe passato il corteo presidenziale. Si stava rilassando prima della storica data, assorbendo le luci e i suoni della New York prenatalizia. Di tanto in tanto rivedeva mentalmente le foto studiate in archivio sull'omicidio di JFK, su quelli di Martin Luther King e Robert Kennedy, perfino sul fallito attentato a Ronald Reagan. Kevin Hawkins sapeva per certo una cosa: il suo attentato non sarebbe
fallito. Era già fatto. Thomas Byrnes non aveva scampo, non aveva modo di fuggire. Si stava avvicinando al Waldorf-Astoria Hotel, dove sapeva che sarebbero scesi il presidente e la moglie. Era tipico di quel presidente non seguire i consigli del servizio di sicurezza: aderiva perfettamente alla sua personalità. Non ascoltare gli esperti, ripara quello che non è rotto, stupido arrogante, inutile bastardo. Traditore del popolo americano. Era una sera fredda e stellata: la pioggia aveva finalmente smesso di scendere e l'aria fresca sulla pelle era piacevole. Era sicuro che nessuno l'avrebbe riconosciuto come Kevin Hawkins. Aveva preso ogni precauzione. Probabilmente intorno all'albergo c'erano più di cento agenti in borghese, ma non aveva nessuna importanza. Nessuno l'avrebbe riconosciuto, nemmeno sua madre o suo padre. Il pittoresco viale fuori dell'albergo era relativamente affollato a quell'ora di sera. Molta gente era venuta lì nella speranza di veder sparare al presidente. Non si sapeva quando quest'ultimo sarebbe arrivato né dove sarebbe sceso, ma il Waldorf era uno degli alberghi più probabili. La stampa locale e perfino il New York Times avevano sbandierato titoloni su Jack & Jill e sul dramma in atto. Naturalmente avevano scritto quasi tutte cose sbagliate, ma a lui sarebbero tornate presto utili. Kevin Hawkins si unì alla folla stranamente rumorosa e quasi allegra. Gli improvvisati cacciatori di disgrazie se ne stavano davanti all'albergo lanciando battute ironiche; lui disprezzò il loro atteggiamento e il cinismo della grande città. Li disprezzò ancora di più dell'inutile presidente che era venuto a uccidere. Si tenne ai limiti della calca, nel caso avesse dovuto allontanarsi in fretta, all'improvviso. Non voleva soffermarsi troppo a lungo, ma il corteo presidenziale seguiva comunque il programma prestabilito, il programma che gli era stato comunicato. Finalmente vide le teste voltarsi a sinistra e sentì il rombo dei motori che risaliva Park Avenue. Il corteo stava arrivando all'albergo: doveva essere per forza il corteo presidenziale. La fila di auto si fermò davanti al sontuoso ingresso che dava su Park Avenue. E Kevin Hawkins non riuscì quasi a credere a ciò che vedeva. Quell'arrogante bastardo aveva deciso di entrare a piedi, direttamente dalla strada, anziché usare il garage sotterraneo. Voleva essere visto, fotografato. Voleva ostentare il proprio coraggio davanti a tutto il mondo...
dimostrare che Thomas Byrnes non aveva paura di Jack & Jill. Il fotoreporter osservò il bulletto vanaglorioso scendere dalla limousine: avrebbe potuto sparargli in quello stesso istante! Nel momento in cui quella testa calda, quell'ex dirigente automobilistico, aveva preso la decisione di far tornare la presidenza «alla normalità», l'omicidio era stato virtualmente garantito. I dilettanti prendono decisioni da dilettanti. Hawkins lo sapeva. Era un fatto su cui aveva contato. Potrei farlo fuori subito. Potrei sparare al presidente qui in Park Avenue. Come mi fa sentire la cosa? Eccitato... ingranato al massimo. Nessun senso di colpa. Che strano uomo sono diventato, pensò Kevin Hawkins. Proprio per quel motivo si trovava lì: voleva vedere come avrebbe reagito emotivamente. Era l'ultima prova prima del grosso evento, l'unica prova di cui aveva bisogno e che gli sarebbe stata consentita. I servizi segreti infilarono il presidente all'interno dell'albergo. Una copertura eccellente, tre anelli stretti intorno alla PP, alla «persona da proteggere». La sicurezza operava al massimo, ma non bastava. Nessuno avrebbe potuto salvare il presidente da quello che aveva in mente Kevin Hawkins. Un attacco da kamikaze! Un attacco suicida, al quale la più alta carica del Paese non sarebbe potuta sfuggire. Nessuno avrebbe potuto: era fatta. Poi osservò il seguito del presidente scendere dalle berline blu e nere, riconoscendo quasi ogni faccia. Scattò mentalmente le sue solite foto, dozzine di istantanee che immagazzinò nel cervello. E finalmente vide Jill, freddissima, del tutto tranquilla e a proprio agio. Nel suo genere era una psicotica perfetta, no? La donna rimase un attimo in piedi in mezzo a tutta quella confusione, poi sparì con gli altri all'interno del Waldorf. Il fotoreporter poteva allontanarsi e lo fece scendendo Park Avenue verso quello che era stato un tempo il grattacielo della Pan Am, e che ormai apparteneva a MetLife, sul cui tetto lampeggiava un neon con Snoopy che guidava la slitta di Babbo Natale. Stasera il presidente dovrebbe farsi una bella assicurazione sulla vita, pensò, costi quel che costi. L'assassinio è già avvenuto: È garantito. Ma quello che Kevin Hawkins non sospettava nemmeno e di cui non si rendeva minimamente conto, era di essere a propria volta seguito. In quel-
lo stesso istante veniva tenuto sotto stretta sorveglianza anche lui. Jack stava seguendo Kevin Hawkins lungo Park Avenue. 80 Jack, devi essere il più acuto. Il più rapido. Dopo aver visto Kevin Hawkins sparire lungo Park Avenue, Sam Harrison lasciò la zona affollata intorno al Waldorf. New York era sconvolta quanto Washington al pensiero di Jack & Jill. Bene, questo avrebbe reso tutto più facile. Doveva fare una cosa, a qualunque costo. Era la cosa più importante per lui. All'angolo fra Lexington Avenue e Forty-seventh Street, si fermò davanti a una cabina del telefono. Stranamente il dannato apparecchio funzionava; forse era l'unico di tutto il centro. Compose il numero osservando una vistosa passeggiatrice sulla Lexington. Nelle vicinanze, un gay di mezza età stava comprandosi i servizi di un ragazzino biondo, mentre cowboy urbani e ragazze vistose sciamavano in un bar particolare chiamato Ride'm High. Il cuore di Jack pianse la vecchia New York, la vecchia America, i veri cowboy e i veri uomini. Aveva un lavoro importante e necessario da svolgere a New York. Jack & Jill stavano arrivando alla meta. Jack era certo che la verità sarebbe finita nella tomba con lui. Così doveva essere. La verità è sempre stata troppo pericolosa per venire rivelata al pubblico. Di solito la verità non fa sentire affatto liberi; fa impazzire, invece. Quasi nessuno è in grado di affrontarla. Finalmente riuscì a chiamare un numero nel Maryland e provò subito un incredibile sollievo, una gioia quale non sentiva da giorni. Pareva che la bambina fosse proprio lì, a New York. «Ciao, sono Karon, chi parla?» chiese. Le aveva insegnato lui a rispondere al telefono. Chiuse forte gli occhi, allontanando così la deprimente volgarità di New York e tutto quello che stava per fare. Perfino Jack & Jill svanirono per un brevissimo istante dai suoi pensieri. Si trovava in zona di sicurezza: si trovava a casa. Ciò che contava veramente per lui era la bambina. Era l'unica cosa che avesse importanza. Le era stato permesso di stare alzata fino a tardi per a-
spettare la sua telefonata. Mentre stringeva la cornetta, non era più Jack. Non era nemmeno Sam Harrison. «Sono papà», disse alla figlia più piccola. «Ciao, scricciolo, mi manchi da matti. Come stai? Dov'è la mamma?» chiese. «Voi ragazzini vi state comportando bene? Tornerò presto a casa. Senti la mia mancanza? Tu mi manchi terribilmente.» Doveva finirla in fretta, pensò, parlando prima con la figlia e poi con la moglie. Jack & Jill dovevano portare a termine con successo il loro compito, poi avrebbe voltato pagina. Non poteva tornare a casa in un sacco dell'obitorio, in disgrazia, come il peggior traditore della storia d'America dai tempi di Benedict Arnold, l'ufficiale morto in esilio in Inghilterra. No, il sacco dell'obitorio era destinato al presidente Thomas Byrnes, che meritava di morire, come l'avevano meritato tutti gli altri. Ognuno a modo suo, erano stati tutti traditori. Jack & Jill sono venuti sulla Collina per fare una carneficina. E presto - molto presto - sarebbe finita. 81 C'era qualcosa che non andava al Waldorf. Eravamo entrati da pochi minuti quando capii che la sicurezza faceva acqua. Avevo visto il modo in cui gli agenti dei servizi segreti si erano stretti intorno al presidente Byrnes e alla moglie mentre entravano nell'atrio luminoso dell'albergo. Thomas e Sally Byrnes vennero scortati rapidamente nei loro appartamenti al ventunesimo piano. Conoscevo a memoria la trafila. La polizia di New York aveva lavorato in stretto contatto con i servizi segreti, controllando ogni metodo di infiltrazione al Waldorf, da quelli più ovvi a quelli più assurdi, inclusi la metropolitana, le fogne e tutti i passaggi sotterranei. Poco prima del nostro arrivo, l'albergo era stato perquisito da cani in grado di scoprire qualunque tipo di ordigno. Quel pomeriggio i cani erano stati portati anche al Plaza e al Pierre, altre possibili mete del presidente durante la sua visita. «Alex», chiamò qualcuno alle mie spalle. «Da questa parte, Alex. Di qui», mi fece cenno Jay Grayer. «Abbiamo già un piccolo problema. Non
so come ci siano riusciti, ma è certo che sono a New York. Jack & Jill sono qui.» «Cosa diavolo succede, Jay?» chiesi mentre passavamo in fretta davanti alle vetrine piene di bottigliette di profumo e di costosi accessori alla moda. Jay Grayer mi portò verso gli uffici della direzione dell'albergo, che si trovavano dietro la reception. La stanza era già gremita di agenti dei servizi segreti e dell'FBI e di poliziotti locali, che parevano tutti in ascolto dei proprii trasmettitori. Sembravano anche molto tesi, incluso il direttore del servizio di sicurezza dell'albergo, nonostante proclamasse fiero che ogni presidente, da Hoover in poi, era sceso al Waldorf. Finalmente Grayer mi offrì una spiegazione. «Dieci minuti fa sono stati consegnati dei fiori da parte dei nostri amici Jack & Jill, accompagnati da un'altra poesiola.» «Diamo un'occhiata. Fammi vedere il messaggio, per favore.» Il biglietto era posato su una scrivania di mogano, accanto a una composizione di rose rosse. Lo lessi con Grayer che sbirciava da sopra la mia spalla. Jack & Jill sono saliti sulla Collina sorprendendo il Capo con un fiore. In città ci troviamo e già contiamo le vostre ultime ore. «Vogliono farci credere di essere una coppia di psicopatici», dissi a Jay. «È questo che pensi?» «Io proprio no, ma loro insistono. Ormai è provato, fa tutto parte del piano. Sanno benissimo quello che stanno facendo, mentre noi non lo sappiamo assolutamente.» Jack & Jill si trovavano a New York. 82 La porta massiccia della camera da letto del presidente Thomas Byrnes si aprì qualche minuto dopo la mezzanotte. La suite presidenziale del Waldorf comprendeva quattro camere e due salotti nella torre dell'edificio. L'albergo era stato sgombrato dagli altri ospiti non solo al ventunesimo
piano, ma anche in quelli immediatamente soprastanti e sottostanti. «Chi è?» Il presidente levò lo sguardo dal libro che stava leggendo nel tentativo di calmarsi. Si trattava della ponderosa biografia di Truman scritta da David McCullough. Per poco, vedendo la porta aprirsi inaspettatamente, non lasciò cadere per terra il pesante volume. Ma non appena scorse la persona in piedi fra la soglia e un grosso armadio antico, Thomas Byrnes sorrise. «Oh, sei tu. Credevo potesse essere Jill. Sai, penso di piacerle in segreto. È solo una sensazione...» ridacchiò. Sally Byrnes si costrinse a sorridere a propria volta. «Volevo darti la buonanotte e vedere se stavi bene, Tom.» Il presidente lanciò un'occhiata affettuosa alla moglie. Dormivano da anni in camere separate e avevano avuto vari problemi, ma erano ancora ottimi amici. Lui era convinto che si amassero ancora e che si sarebbero amati per sempre. «Non sei venuta a rimboccarmi le coperte?» chiese. «È un peccato.» «Certo, sono venuta anche per questo. Stasera meriti un po' di coccole.» Il marito le sorrise in un modo che ricordò a entrambi tempi migliori, decisamente migliori. Thomas Byrnes sapeva essere affascinante quando voleva e Sally lo sapeva fin troppo bene. Sapeva anche che Tom riusciva a spezzarle il cuore; era stato così in quasi tutti gli anni vissuti insieme. Lei chiamava il loro rapporto il tormento e l'estasi. In verità però, a essere onesta, era stato più estasi che tormento. Era quello che pensavano entrambi, ben sapendo di aver avuto qualcosa di raro. Thomas Bvrnes batté una mano sul bordo dell'enorme letto sovrastato da un mezzo baldacchino. Sally andò a sedersi accanto a lui, lasciandosi stringere una mano. Le piaceva stringere la mano di Tom, le era sempre piaciuto. Sapeva di amarlo ancora, nonostante tutte le ferite e i problemi del passato. Poteva perdonargli le storie con altre donne: non avevano significato niente per lui. Sally era sicura di sé e capiva il marito meglio di chiunque altro. Sapeva com'era turbato in quel momento, lo sentiva impaurito e vulnerabile. E lo amava, amava anche la sua arroganza, la sua diffidenza, le sue insicurezze, il suo egocentrismo. Sapeva anche che lui l'amava e che sarebbero sempre stati i migliori amici sulla faccia della terra, due anime gemelle. «Devo dirti una strana cosa», fece lui tirandola a sé e stringendola teneramente: era sua moglie da ventisei anni. «Dimmi, non vedo l'ora di sapere tutto, signor re.» Era una citazione che
li aveva fatti ridere, assistendo a Londra alla commedia La follia di Giorgio III, in cui la regina, a letto, chiamava il sovrano «signor re». «Credo sia qualcuno che conosciamo, ne ho parlato con quel detective della omicidi. È l'unico che ha il fegato di venirmi a dare le cattive notizie. Credo possa trattarsi di qualcuno vicino a noi, Sally, cosa che rende tutto ancora più orribile.» Sally Byrnes cercò di mascherare il proprio timore, fissando a lungo il soffitto. C'era una stuccatura dorata a metà parete, sopra la quale era stesa una carta da parati celeste e crema. Dio, come desiderava poter tornare a casa, nel Michigan. Quello che voleva veramente più di qualunque altra cosa, per lei e per Tom, era tornare a casa. «L'hai detto a Don Hamerman?» «Lo sto dicendo a te», bisbigliò lui. «Di te mi posso fidare. Sei l'unica di cui mi possa fidare.» Sally gli baciò la fronte, poi la guancia e finalmente le labbra. «Ne sei sicuro?» «Al cento per cento», mormorò lui. «Anche se avresti qualche buon motivo per farmi fuori. Anzi, un motivo migliore di tutti gli altri. Perfino di quello di Jack & Jill, ci scommetto.» «Tienimi stretta», disse lei. «Non lasciarmi più andare.» «Tienimi stretto», bisbigliò lui. «Non lasciarmi più andare. Potrei rimanere così con te per sempre. E, per favore, Sally, perdonami.» È qualcuno vicino, molto vicino a me. Il presidente Thomas Byrnes non riusciva a toglierselo dalla testa, mentre abbracciava la moglie. Qualcuno vicino. «Cosa ti piacerebbe per Natale, Tom? Sai com'è la stampa... vogliono sempre saperlo.» Il presidente Byrnes ci pensò un attimo. «La pace. Vorrei che tutto questo fosse finito.» 83 Era giunta l'ora di provare al mondo la sua superiorità su Jack & Jill. In cuor suo ne era certo: in fondo Jack & Jill non erano che due pezzi di merda. Casa Cross si stagliava nell'ombra di Fifth Street, nel quartiere sud-est di Washington. Pareva che dentro si fossero finalmente addormentati tutti. Lo scoprirò presto, fra poco lo saprò, pensò il killer.
Si chiamava Danny Boudreaux, se volete conoscere la verità, e stava osservando la casa illuminata dai lampioni al riparo di un gruppetto d'alberi, che cresceva su un terreno non ancora edificato. Quanto odiava Cross e la sua famiglia! Alex Cross gli ricordava il suo vero padre, poliziotto anche lui, devoto al suo stupido lavoro al punto di lasciare per questo lui e la madre, abbandonandoli come fossero stati sputi sul marciapiede. Così sua madre si era suicidata e lui era stato affidato a genitori adottivi. Le famiglie gli davano la nausea e quel furbone di Cross tentava in tutti i modi di fare il paparino perfetto. Era talmente falso, un vero artista ma, ancor peggio per lui, l'aveva gravemente sottovalutato e anche «deluso» molte volte. Danny Boudreaux era stato compagno di classe di Sumner Moore alla Roosevelt Academy. Sumner Moore era sempre stato il cadetto immacolato e perfetto, lo studente perfetto, lo stronzo atleta perfetto. Era anche il suo dannato tutore dall'estate precedente. Lui l'aveva odiato fin dal primo giorno per quel suo essere tanto accondiscendente e perfettino. Aveva odiato tutta l'accondiscendente famiglia Moore. Be', aveva dato loro una bella lezione. Alla fine però il tutore era risultato lui. La sua prima idea era stata quella di far apparire le cose come se Sumner Moore, il cadetto perfetto, fosse il maniaco omicida di bambini. Si era collegato a Prodigy usando l'abbonamento dei Moore e aveva portato la polizia dritto a casa loro. Che bello scherzo era stato... il migliore. Poi aveva deciso di liberarsi di Sumner, la seconda idea. Uccidere Sumner Moore gli aveva dato molto più gusto che far fuori i bambini. Adesso intendeva dare una lezione anche a Cross. Era evidente che il detective non riteneva di dover dedicare il proprio tempo prezioso al cosiddetto killer della Truth School. Danny Boudreaux non era pari a Gary Soneji agli occhi di Alex Cross. Non era nemmeno Jack & Jill. Non era nessuno, giusto? Be', adesso vedremo, dottor Cross. Vedremo come me la cavo in confronto a Jack &]ill e agli altri. Stai ben attento a questo killer, dottor detective di merda. Potresti imparare qualcosa. Nell'ora seguente un mucchio di persone avrebbe imparato a non sottovalutare Danny Boudreaux, a non disprezzarlo mai più. Il killer della Truth School attraversò Fifth Street, attento a tenersi all'ombra degli alberi, poi entrò dritto nel giardino davanti a casa Cross. Aveva tredici anni, ma ne dimostrava di meno: era alto solo un metro e
sessanta e pesava appena cinquantadue chili. Non aveva l'aria del colosso, certo. Gli altri cadetti lo chiamavano Frignone perché si scioglieva in un lago di lacrime ogni volta che lo prendevano in giro, cioè praticamente sempre. Per Danny Boudreaux l'inferno durava per tutto l'anno scolastico. No, durava da tutta la vita. Cristo, come gli era piaciuto ammazzare Sumner Moore! Era stato come far fuori l'intera dannata scuola! Prima di avvicinarsi a casa Cross, si passò un ombretto grigio sulla faccia, sul collo e sulle mani. Indossava jeans e camicia neri e portava una parrucca a riccioli neri. Doveva sembrare un afroamericano del quartiere, giusto? Be', nessuno gli aveva prestato molta attenzione in Sixth Street e nemmeno lungo E Street. Danny Boudreaux toccò il calcio della Smith & Wesson semiautomatica infilata nella tasca del poncho. Era una pistola a dodici colpi, completamente carica. Aveva già tolto la sicura. Poi ricominciò a piangere, le lacrime che gli rigavano la faccia. Se le asciugò con una manica: Frignone era morto. Lui compiva solo delitti perfetti. 84 Niente in cielo o in terra avrebbe ormai potuto salvare la bella famigliola di Alex Cross. Sarebbero stati i prossimi a morire, era quella la mossa giusta. La mossa giusta al momento giusto. Ehi, ehi, che dici? Danny Boudreaux cominciò a salire lentamente i gradini del portico sul retro della casa, senza uno scricchiolio. Sapeva essere un ottimo cadetto quando occorreva, un bravo giovane soldato che quella notte dava inizio alle manovre. Era in missione notturna. Cerca e distruggi. Non sentiva nessun rumore provenire dall'interno della casa, nemmeno la televisione: niente Letterman, Leno, Beavis e Butt-head o inserti commerciali. Non si udiva nemmeno il pianoforte, cosa che probabilmente indicava che anche Cross stava ormai dormendo. Così sia. Il sonno del morto, giusto? Non appena toccò il pomello della porta gli venne voglia di staccare le dita: il metallo sembrava ghiaccio contro la pelle. Ma tenne duro e lo girò molto lentamente, poi lo tirò verso di sé. La stupida porta era chiusa a chiave! Per qualche folle motivo aveva
immaginato che non lo fosse. Poteva sempre scassinarla, ma avrebbe fatto un po' di rumore. Non andava. Non era perfetto. Decise di girare intorno alla casa e di provare dall'ingresso principale. Sapeva che c'era una veranda con il pianoforte, su cui Cross suonava musiche malínconiche... ma la malinconia stava solo cominciando per il buon dottore. Dopo quella notte, il resto della sua vita sarebbe stato molto peggio che malinconico. Dall'interno della casa non arrivava ancora nessun rumore. Sapeva che Cross non aveva allontanato la famiglia dal pericolo, mostrando cosi il suo disprezzo verso di lui. Cross non aveva paura di lui. Be', faceva male. Accidenti, Cross avrebbe dovuto cagarsi addosso dalla paura! Danny Boudreaux provò la porta sul davanti. Il giovane killer era inondato di sudore e respirava a fatica. Stava vivendo il suo incubo peggiore e i suoi incubi erano veramente spaventosi. E si trovò davanti il detective John Sampson! Il gigante nero lo attendeva al varco in veranda. Se ne stava lì seduto con la sua aria compiaciuta. Gesù, l'avevano preso! Era caduto in trappola, c'era cascato proprio come un idiota. Ma... aspetta un attimo. Aspettunattimo! C'era qualcosa di stonato nel quadro... o piuttosto qualcosa di perfetto! Danny Boudreaux sbatté le palpebre, poi guardò meglio, concentrandosi. Sampson stava dormendo nella grossa poltrona accanto al pianoforte. Si era tolto le scarpe e aveva appoggiato i piedi a uno sgabello imbottito uguale alla poltrona. Aveva posato la pistola sul tavolino al suo fianco, a una ventina di centimetri dalla mano destra, ma l'arma era ancora dentro la fondina. Venti centimetri, mmm, solo venti centimetri, rimuginò il killer. Danny Boudreaux rimase immobile con la mano sul pomello della porta, e un dolore al petto come se avesse ricevuto un pugno. Che fare? Che fare? Cosa cazzo doveva fare?... Venti miseri centimetri! La mente viaggiava a un milione di chilometri al secondo, colpita da un tal numero di folgorazioni da rimanerne quasi annichilita. Voleva far fuori Sampson. Precipitarsi dentro e far fuori quel grosso somaro, poi salire di corsa a distruggere tutta la famigliola. Lo voleva con una tale intensità che quell'idea pareva bruciargli il cervello. Danny scivolava dentro e fuori la sua mente militare. Il vero valore e
tutto il resto, la logica conquistatrice. Sapeva cosa doveva fare. Indietreggiò sui gradini della veranda di casa Cross ancora più lentamente di quanto li avesse saliti, senza riuscire a credere di essere arrivato così vicino a colpire il grosso e minaccioso detective. Forse avrebbe potuto far fuori il gigante nero... fargli saltare il cervello. Ma forse no. Il gigante nero era davvero un gigante. No, il killer della Truth School non poteva rischiare. Lo aspettavano ancora troppi giochetti divertenti per far saltare tutto in quel modo. Ormai aveva troppa esperienza, stava diventando sempre più bravo. E sparì nella notte. Aveva altro da fare. Danny Boudreaux girava libero per il Distretto di Columbia e gli piaceva. Ci provava ormai gusto. Si sarebbe occupato in seguito di Cross e della sua stupida famiglia. Si era già dimenticato che solo pochi minuti prima piangeva. Non prendeva la sua medicina da sette giorni: l'odiato, disprezzato Depakote, la dannata pillola che lo teneva calmo. Stava di nuovo inondando di sudore la sua felpa preferita, quella con la scritta GIOIA E FELICITÀ. 85 Mi svegliai di soprassalto, percorso da un tremito. Avevo la pelle d'oca e il cuore mi batteva furioso in petto. Un brutto sogno? Qualcosa di reale o di immaginario? La stanza pareva nera come la pece, tutte le luci erano spente. Impiegai qualche istante a ricordarmi dove mi trovavo. Poi mi venne in mente, ricordai tutto. Facevo parte della squadra che doveva cercare di proteggere il presidente... solo che il presidente aveva deciso di rendere quasi impossibile il nostro compito. Thomas Byrnes aveva deciso di lasciare Washington per dimostrare al mondo di non aver paura dei terroristi o dei pazzi di qualunque tipo. Mi trovavo a New York, per la precisione al Waldorf-Astoria Hotel, su Park Avenue. Anche Jack & Jill si trovavano a New York ed erano talmente sicuri di se stessi da averci mandato dei fiori per darci il benvenuto. Cercai a tastoni la lampada sul comodino, poi il suo dannato interruttore. Finalmente riuscii ad accenderlo e guardai la sveglia: le 2.55. «Fantastico», bisbigliai fra i denti. «Grande.» Pensai di chiamare i bambini a Washington, di parlare con Nana. Non lo pensai veramente, ma l'idea mi attraversò il cervello. Pensai a Christine
Johnson, ebbi l'impulso di telefonarle a casa. Assolutamente no! Eppure il pensiero di parlarle al telefono mi piacque. Alla fine infilai una tuta e le scarpe da ginnastica e mi misi a girare per l'albergo. Avevo bisogno di uscire da camera mia, di uscire dalla mia pelle. Ovviamente tutto il Waldorf-Astoria dormiva. Ma c'erano agenti dei servizi segreti appostati ovunque, in tutti i corridoi. Il team presidenziale svolgeva il turno di notte: erano uomini atletici, simili a impiegati bancari, sì, eppure in perfetta forma fisica. Solo un paio di donne erano state assegnate al servizio a New York. «Ha intenzione di fare una corsetta per il centro di New York a quest'ora, detective Cross?» mi chiese un agente mentre gli passavo davanti. Era una donna di nome Camille Robinson, seria e molto dedita al lavoro, come tutti gli altri, d'altronde, almeno in apparenza. Sembravano molto attaccati al presidente Thomas Byrnes, al punto di rischiare di prendersi un proiettile al posto suo. «È certo che la mia testa corre», risposi, riuscendo a sfoggiare un sorriso. «Probabilmente farà un paio di maratone prima del mattino. Lei sta bene? Vuole un caffè o qualcos'altro?» Camille scosse la testa, mantenendo la sua espressione seria: i cani da guardia possono essere anche femmine. La salutai e ripresi la mia passeggiata. Girando per l'albergo silenzioso, non riuscivo a sgombrare la mente, che finiva sempre per tornare sugli stessi pensieri. L'assassinio di Charlotte Kinsey non sembrava rientrare nel quadro, quasi fosse stato commesso da altri, non da Jack & Jill. Poteva esserci un terzo killer? Perché mai doveva esserci un terzo killer? Continuai lungo un altro corridoio, seguendo un altro pensiero. E se il complotto fosse ancora più grosso e intricato? Tipo JFK a Dallas, suo fratello Bob a Los Angeles, Martin Luther King a Memphis... Dove mi conduceva quell'analisi deprimente? La lista di potenziali cospiratori era praticamente infinita e comunque non possedevo le risorse per individuare gli indiziati. L'unità di crisi parlava parecchio di complotti. L'FBI era ossessionato dai complotti, proprio come la CIA... Ma rimaneva un fatto inoppugnabile: trent'anni dopo gli omicidi dei fratelli Kennedy, nessuno era davvero convinto che fossero stati risolti. Più rimuginavo sulla teoria del complotto, più mi rendevo conto che arrivare al nucleo di esso era quasi impossibile. Di certo nessuno c'era ancora riuscito. A Washington avevo parlato con il personale dell'archivio di
quei famosi delitti ed erano tutti giunti esattamente alla stessa conclusione, o piuttosto allo stesso punto morto. Girai per il corridoio del ventunesimo piano, dove dormiva il presidente, con il raggelante pensiero che potesse essere già cadavere in camera sua, che Jack & Jill avessero già colpito lasciando il solito biglietto, qualche altro verso che avremmo scoperto al mattino. «Tutto okay?» domandai agli agenti fuori della porta della suite presidenziale. Loro mi fissarono insospettiti, probabilmente chiedendosi come mai mi trovassi lì. «Finora sì», rispose seccato uno dei due. Alla fine tornai in camera mia: erano quasi le quattro del mattino. Scivolai in camera e mi sdraiai a letto, pensando alla conversazione avuta con Sampson quella sera, quando avevo saputo dell'omicidio di Sumner Moore. Chiaramente il giovane Moore non era il killer della Truth School. Cercai di non pensare più a niente. Dormicchiai fino alle sei, quando la radiosveglia si accese accanto alla mia testa, come un allarme antincendio. Una musica rock-and-roll inondò la stanza. Era radio K-Rock di New York e parlava Howard Stern, che anni prima aveva lavorato a Washington. In quel momento stava dicendo: «Il presidente è in città, possibile che Jack & Jill siano molto lontani?» Lo sapevano tutti. La parata presidenziale per Manhattan cominciava alle undici, la carrozza era di nuovo pronta. 86 Un capitolo di storia stava per essere scritto a New York: quanto meno era il momento di stare all'erta. Il gioco aveva smesso di essere tale. Jack attraversava di corsa Central Park, con un passo forte e regolare. Erano quasi le sei del mattino ed era uscito a fare jogging poco dopo le cinque. Aveva in testa un mucchio di cose: era finalmente arrivato il D day e la zona delle operazioni era New York. Non avrebbe potuto concepirne una migliore. Osservò la linea dell'orizzonte sopra Manhattan dal punto di Fifth Avenue in cui si trovava. Sopra gli alti edifici irregolari il cielo si stendeva grigiastro, solcato dai grossi sbuffi di fumo che parevano appesi in cima ai grattacieli. Era una vista bella da mozzare il fiato, e non corrispondeva affatto al
modo in cui lui di solito pensava a New York. La metropoli è solo una facciata, come Jack & Jill, pensò. Correndo al passo con un autobus blu diretto verso Fifth Avenue, si chiese se sarebbe morto nelle ore seguenti. Doveva essere pronto a quell'eventualità, doveva essere pronto a tutto. Sono un kamikaze, pensò. Il piano conclusivo era letale e a prova di bomba... almeno quanto poteva esserlo una cosa del genere. Non credeva che la vittima sarebbe sopravvissuta all'attentato. Nessuno sarebbe potuto sopravvivere. Sarebbero morti anche altri. In fondo erano in guerra e in guerra la gente moriva. Finalmente Jack emerse dal parco all'altezza fra Fifth e Fiftyninth Street e continuò a correre verso sud, mantenendo la stessa andatura. Qualche minuto dopo entrò nell'elegante hall del Peninsula Hotel. Erano le 6.10 del mattino. Il Peninsula si trovava a poco più di venti isolati dal Madison Square Garden, dove il presidente Byrnes avrebbe tenuto il suo discorso alle 11.25. Il New York Times era già arrivato e lui ne scorse il titolo: SI TEME LA PRESENZA DI JACK & JILL A NEW YORK DURANTE LA VISITA DEL PRESIDENTE. Ne fu impressionato: perfino il Times dedicava loro la prima pagina. Poi vide Jill, puntualissima, che lo aspettava. Jill era sempre puntuale. Si trovava nella hall del Peninsula, come avevano stabilito. Sempre come stabilito. Indossava una tuta da jogging azzurro-argento, ma non aveva l'aria di aver sudato molto venendo dal Waldorf. Jack si chiese se avesse corso o camminato. Magari aveva preso un taxi. Non accennò minimamente a riconoscerla. Montò in ascensore e salì al suo piano. Sara l'avrebbe seguito. L'aspettò in camera. Lei bussò una sola volta, meno di un minuto dopo l'ingresso di lui. Puntuale. «Ho un aspetto orribile», disse entrando. Era tipico del suo modo di vedersi, della sua vulnerabilità. Sara la povera zoppa. «No, non è vero», la rassicurò lui. «Hai un bell'aspetto, perché sei bella.» In realtà non appariva affatto al meglio, cominciava a mostrare la terribile tensione delle ultime ore. Il suo viso era una maschera d'ansia e di dubbio, coperto com'era da fondotinta, mascara e rossetto in quantità eccessiva. Il D day. Aveva i capelli biondi sciolti e appariva fragile. «Al Waldorf c'è già una grande agitazione», gli riferì. «Sono tutti convinti che l'attentato avverrà oggi e sono pronti a sventarlo, o almeno così
credono. Cinquemila uomini della polizia di New York, oltre a quelli dei servizi segreti e dell'FBI. Hanno messo in piedi un esercito.» «Lasciamogli credere di essere pronti», disse Jack. «Almeno finché possono, no? Adesso vieni qui.» Sorrise. «Non sei affatto orribile. Non sei mai orribile. Sei affascinante, Sara. Posso metterti in disordine?» «Adesso?» protestò debolmente lei. Ma non seppe resistere al suo abbraccio forte e rassicurante. Non ne era mai stata capace e anche questo elemento faceva parte del piano. Era stato tutto previsto: ecco perché non potevano fallire. Lui si tolse la maglia con cui aveva corso, denudando il petto luccicante di sudore e lo premette contro Sara. Lei si arcuò contro di lui, il battito del cuore che accelerava. Jack & Jill a New York, così vicini alla conclusione del loro lavoro. Lui sentì il cuore di lei battere forte, come quello di un animaletto braccato. Sara non poteva farne a meno: ormai era spaventata, e ne aveva ben donde. «Per favore, dimmi che ci rivedremo, anche se non è vero. Dimmi che non finirà tutto dopo questa giornata, Sam.» «Non finirà, musetto di scimmia. Sono spaventato quanto te, ma è normale, non c'è niente di strano. Tu sei normale. Lo siamo tutti e due.» «Fra poche ore andremo via da New York, lasciandoci alle spalle Jack & Jill», bisbigliò lei. «Oh, ti amo, Sam! Ti amo al punto che tremo nel dirtelo.» In effetti c'era di che tremare, e più di quanto Sara potesse mai supporre. Più di quanto chiunque potesse mai supporre. La storia non era destinata al pubblico, non lo era mai stata. Cauto e lento, Sam prese la Luger infilata nella cinta dei calzoni, dietro la schiena. Aveva le mani sudate. Tratteneva il fiato. L'appoggiò alla testa di Sara e fece fuoco alla tempia. Solo una volta. Un'esecuzione professionale. A sangue freddo. Quasi. La Luger era munita di silenziatore. Nella camera d'albergo, il rumore dello sparo fu un semplice plic, tuttavia l'impatto del proiettile da 9 mm fu tale da strappargli la donna dalle braccia. Sam rabbrividì involontariamente, abbassando lo sguardo sul corpo senza vita steso sul tappeto dell'albergo. «Adesso è davvero finita», disse. «Il dolore, l'amarezza e le offese della
tua vita sono finiti per sempre. Mi dispiace, musetto di scimmia.» Infilò nella mano destra di Jill l'ultimo biglietto, poi le chiuse il pugno. E dopo è inciampata anche Jill, diceva una filastrocca infantile che gli passò per la testa. Ma Jack non sarebbe caduto. Era cominciato il giorno del folle gesto definitivo. Jack & Jill avevano fatto la loro mossa. PARTE SESTA NESSUNO È PIÙ AL SICURO, NESSUNO 87 Il voluminoso fascicolo che tenevo in mano era intitolato: VISITA DEL PRESIDENTE DEGLI STATI UNITI. NEW YORK, 16 E 17 DICEMBRE. Erano ottantanove pagine nelle quali veniva previsto e programmato ogni istante della visita, da quando il presidente era sceso dall'Air Force One al La Guardia a quando vi sarebbe risalito verso le due del pomeriggio, per tornare a Washington. Il documento includeva disegni particolareggiati di ogni luogo in cui si sarebbe trovato il presidente: l'aeroporto La Guardia, il Waldorf, il Felt Forum all'interno del Madison Square Garden, le strade percorse dalla parata e quelle alternative. C'era scritto: 10.55: Il presidente e la first lady montano in auto per la parata. NOTA Il presidente e signora lasciano il Waldorf-Astoria Hotel attraverso un cordone di poliziotti. 11.00: Il corteo parte dal Waldorf per raggiungere (codice C) il Felt Forum al Madison Square Garden Niente stampa. Continuavo a pensare a Jack & Jill mentre si avvicinava il momento in cui il presidente avrebbe lasciato il Waldorf per attraversare il centro della città nella limousine circondata dalle auto e dalle moto della polizia. Negli ultimi tre giorni L'FBI, i servizi segreti e la polizia di New York avevano collaborato, architettando un piano imponente per catturare Jack & Jill, nel caso si fossero davvero presentati al Madison Square Garden. Quasi mille agenti e detective in borghese sarebbero stati presenti all'interno del Felt Forum durante il discorso del presidente, ma dubitavamo tutti che sarebbe stata una protezione sufficiente.
Un pensiero mi turbava. Nessuno ha mai fermato il proiettile di un assassino, l'unico a bloccarlo è la vittima. Che cosa avrebbero fatto Jack & Jill? Come sarebbe andata? Ero convinto che si sarebbero presentati al Madison Square Garden. Sospettavo che intendessero portare a termine il loro lavoro proprio lì e che avessero anche studiato una via di fuga. Il presidente e la first lady vennero scortati alla loro auto alle 10.55. Dozzine di agenti dei servizi segreti li scortarono lungo il tragitto dalla suite nella torre fino alla limousine blindata nel garage sotto l'albergo. Camminavo proprio alle spalle della scorta presidenziale: il mio ruolo non era quello di proteggere fisicamente il presidente. Avevo già riferito a Jay Grayer come ritenevo che si sarebbe svolto l'attentato. Da molto vicino, in modo drammatico. Ma dovevano avere formulato anche un piano di fuga. Quel mattino c'era già stato un mutamento nel programma. Nessun cordone di poliziotti all'ingresso sul retro dell'albergo. Nessuna posa per i fotografi. Il presidente era stato convinto a non varcare per la seconda volta il portone principale del Waldorf. Osservai la coppia presidenziale montare sulla limousine; marito e moglie si tenevano per mano. Fu un momento toccante, che rientrava perfettamente nel quadro che mi ero fatto di Thomas e Sally Byrnes. Nessun rimpianto. Il corteo si mosse puntuale in quella che i servizi segreti definiva una «parata ufficiale». Era composto da ventotto macchine, sei delle quali circondate da agenti pronti alla controffensiva. Sulle auto dei servizi segreti erano montati computer per tenere i contatti con la normale sorveglianza al presidente. Mi chiesi se Jack & Jill fossero in possesso del programma e magari perfino del numero delle auto. La parata di berline e limousine uscì dalla ripida discesa del garage, e i tombini che risuonavano forte sotto i pneumatici. Il percorso verso l'auditorium partiva da Park Avenue e girava a ovest lungo Forty-seventh Street, fino a Fifth Avenue. Mi trovavo con Don Hamerman, due auto dietro quella del presidente. Quel mattino perfino Hamerman aveva un'aria distante. Non era ancora successo niente. Possibile che Jack & Jill avessero cambiato programma? Intendevano nascondere in quel modo le loro tracce? Sarebbero saltati fuori all'improvviso? Mi avrebbero sorpreso attaccando durante la parata? Guardavo fuori del finestrino: in quella mattina tutto sembrava irreale.
La gente allineata lungo la strada pareva entusiasta: applaudiva e acclamava al passaggio del corteo. Ecco uno dei motivi per cui il presidente Byrnes aveva deciso di non poter più rimanere nascosto alla Casa Bianca. Fino a quel momento era stato un buon presidente, popolare e perfino coraggioso. Chi voleva uccidere Thomas Byrnes, e perché? C'era un'infinità di nemici potenziali, ma io tornai con la mente a quelli elencati dal presidente: la senatrice Glass, il vicepresidente Mahoney, qualche reazionario del Congresso e i potenti di Wall Street. Mi aveva detto che stava cercando di cambiare il sistema e che il sistema opponeva una fiera resistenza. Il sistema opponeva una fiera resistenza! Le sirene della polizia ululavano, sembravano ovunque. Era come un muro di rumore eretto a ripararci. Il mio sguardo passava rapido dalla folla alle auto del corteo, che avanzava veloce. Ne facevo parte, eppure mi sentivo un estraneo. Non potevo impedirmi di pensare a Dallas, a John Kennedy, a Robert Kennedy e a Martin Luther King, le ultime tragedie della nazione. La sua storia dolorosa. Non potevo staccare gli occhi dalla carrozza. Mi pareva quasi impossibile, impensabile, che due di quei tre delitti fossero rimasti un mistero irrisolto. Due dei tre più grossi casi d'omicidio del secolo non erano mai stati chiariti in modo soddisfacente. Il garage dei VIP sotto il Madison Square Garden era un bunker di cemento armato dipinto di bianco; ci aspettava un centinaio di uomini dei servizi segreti e della polizia di New York. Tutti gli agenti portavano cuffie che li tenevano in contatto con la centrale. Osservai Thomas e Sally Byrnes scendere lentamente dall'auto blindata. Scrutai gli occhi del presidente: il suo sguardo pareva quieto, emanava sicurezza. Forse sapeva benissimo quello che stava facendo: forse il suo era l'unico modo di affrontare la situazione. Mi trovavo a meno di cinque metri dalla coppia presidenziale. Ogni secondo passato allo scoperto pareva un'eternità. C'era troppa gente in quel parcheggio e chiunque avrebbe potuto essere l'assassino. Il presidente e la moglie sorridevano e parlavano in tono rilassato con alcuni importanti personaggi di New York. Erano entrambi bravissimi in questo: comprendevano la tremenda importanza del loro ruolo cerimoniale, il simbolismo e l'assoluto potere che comportava. Per quel motivo si trovavano lì. Mi piaceva molto il loro senso del dovere e di responsabilità. Nana si sbagliava su di loro; io ero convinto che fossero persone a posto, che
cercavano di fare del proprio meglio. Comprendevo quanto fosse difficile il loro lavoro. Non me ne ero reso conto prima di entrare alla Casa Bianca. Non deve accadere niente al presidente o a Sally Byrnes, pensai, come se quel mio atto di volontà avesse potuto fermare il proiettile di un assassino, il terribile evento che poteva verificarsi lì in quel garage o di sopra, nel gremito Felt Forum. Una qualunque di queste persone potrebbe essere Jack o Jill, continuavo a pensare, scrutando la folla. Portiamo fuori di qui il presidente e sua moglie, subito! Andiamo, forza! Il Kennedy Center del Distretto di Columbia! Hanno sparato a una studentessa in legge, Charlotte Kinsey, in un luogo pubblico, proprio come questo! La mia mente continuava a tornare a quell'omicidio. Al Kennedy Center infatti era accaduto qualcosa di rivelatore su Jack & Jill: avevano mutato schema! Insomma, qual era il loro vero fine? Cominciammo a salire le scale verso l'auditorium gremito di folla. Se Jack & Jill pensavano di finire qui i loro giorni non avrebbero incontrato la minima difficoltà! Eppure avevo la sensazione che intendessero farla franca: era un dato costante nei loro omicidi. Non vedevo però come potessero riuscirci nel bel mezzo del Madison Square Garden... se intendevano attaccare lì. I veri Jack & Jill - il presidente e la first lady degli Stati Uniti - erano arrivati. Puntuali. 88 Una goccia di sudore mi cadde lentamente dalla punta del naso. Un camion mi schiacciava il petto. Il fragore proveniente dall'interno dell'auditorium di cemento e acciaio rendeva più esasperante la confusione. Una volta all'interno, i decibel superarono di gran lunga la soglia consentita. Quasi diecimila persone affollavano il Felt Forum. Mi avviai verso il palco con gli altri addetti alla sicurezza. Agenti dei servizi segreti, dell'FBI, dell'esercito e della polizia di New York erano appostati ovunque intorno al presidente. Frugai il pubblico con lo sguardo, a caccia di Kevin Hawkins. E magari, speravo, di Jill al suo fianco. Il presidente Byrnes non mutò né il sorriso né il passo entrando nella sala. Ricordai le sue parole: «Non possiamo permettere che le minacce di una coppia di psicopatici interferiscano nell'amministrazione del governo
degli Stati Uniti». Faceva caldo nell'auditorium, ma io mi sentivo inondato di sudore freddo, freddo come il vento che soffiava sul fiume Hudson. Ci trovavamo a meno di trenta metri dal grosso palco pieno di celebrità e politici famosi, inclusi sia il governatore sia il popolare sindaco della città. I flash lampeggiavano accecanti ovunque, da ogni angolo immaginabile, un sibilo proveniva dai microfoni sul palco. Mi aggiustai la stella a cinque punte sul risvolto sinistro della giacca, che portava il colore deciso per quel giorno e che mi identificava come appartenente ai servizi segreti. Il colore del giorno era verde. Verde speranza? Fino a quel momento Jack & Jill avevano mantenuto tutte le loro promesse e forse avevano trovato anche il modo di far entrare una o più armi nel Felt Forum. Le pistole in dotazione alla polizia e agli altri agenti di sicurezza erano mille, senza contare i fucili e le mitragliette. Chiunque poteva essere Jack o Jill. Chiunque poteva essere Kevin Hawkins. Don Hamerman stava al mio fianco, ma c'era troppo rumore per parlare in un tono normale. Di tanto in tanto ci chinavamo a gridarci qualcosa all'orecchio. Era comunque difficile anche in questo modo sentire più di una parola isolata o di una breve frase. «Ci sta mettendo troppo a salire sul palco!» esclamò Hamerman, o almeno così mi parve. «Lo vedo, spiegami», gli gridai. «Osserva il movimento della folla», mi urlò lui. «Se vedesse spuntare una pistola, comincerebbe a ondeggiare. Il presidente si ferma troppo a lungo in mezzo al pubblico. Vuole sfidare i killer? Cosa crede di dover provare?» Naturalmente il capo dello staff aveva ragione: il presidente aveva l'aria di voler sfidare Jack & Jill. Ma la sala affollata poteva anche rappresentare una trappola per loro. A un tratto la folla si mise veramente a ondeggiare, facendosi da parte. «Uccidi quel figlio di puttana! Ammazzalo!» sentii gridare un paio di file davanti a me, e avanzai rapido, spingendo per farmi largo. «Attento, bastardo!» mi urlò una donna. «Uccidilo subito!» sentii gridare davanti a me. «Fatemi passare!» urlai, più forte che potevo. L'uomo che stava causando tutto quel trambusto aveva i capelli biondi
lunghi fino alle spalle e indossava un parka nero con uno zainetto pure nero sulle spalle. Lo afferrai insieme a un altro agente e lo sbattemmo subito per terra nel corridoio fra i sedili. La testa urtò con violenza sul pavimento di cemento. «Polizia di New York!» urlò l'altro tizio che lo teneva. «Polizia di Washington, addetto alla Casa Bianca», gli urlai io, tenendolo fermo. Il poliziotto di New York aveva già spianato la pistola. Non riconobbi nel biondo Kevin Hawkins, ma non c'era modo di saperlo con sicurezza. Non ci restava che tenerlo giù. «Uccidete il bastardo! Ammazzate il presidente!» continuava a gridare il biondo. Era assolutamente pazzo, ma sembravamo tutti impazziti, non solo lo stronzo con il muso schiacciato sul pavimento. «Mi fate male!» urlò addosso a me e al poliziotto. «Mi fate male alla testa!» Un pazzo? mi chiesi. Un emulatore? Un diversivo? 89 Un attacco da kamikaze! Ormai poteva avvenire da un momento all'altro. Il killer si sarebbe suicidato, ecco perché non poteva essere fermato. Ed ecco il motivo per cui il presidente Byrnes era già un morto che camminava. Kevin Hawkins non incontrò il minimo ostacolo nel raggiungere le prime file dell'auditorium rumoroso e affollato. Aveva usato tutta la fantasia e l'abilità di cui disponeva per crearsi un'identità veramente strana. Hawkins era diventato un'alta signora bruna, che indossava un tailleur pantalone blu scuro. Di certo non era molto avvenente, ma in quel modo era ancor meno probabile che attraesse l'attenzione. Hawkins era anche in possesso di una targhetta da investigatore dell'FBI, autentica fino al timbro e allo spessore della carta, che lo identificava come Lynda Cole, agente speciale di New York. Il fotoreporter stava in piedi davanti a un sedile della sesta fila e osservava calmo il pubblico. Scatto. Scatto. Prese mentalmente un gran numero di foto, una dopo l'altra, soprattutto
dei suoi awersari: FBI, servizi segreti, polizia di New York. In realtà non riteneva di avere nessun autentico avversario. Chi poteva fermare un kamikaze? Nessuno, o forse Dio. Magari nemmeno Dio. Era comunque impressionato dal gran numero di uomini che stavano facendo di tutto per sventare l'attacco di Jack & Jill. Chissà? Magari ci sarebbero riusciti, vista la superiorità numerica e la loro potenza di fuoco. Capitavano anche cose molto strane. Ma Hawkins non credeva affatto che ci sarebbero riusciti. L'ultima loro vera opportunità era stata prima di entrare nell'edificio e ormai era svanita. Il fotoreporter contro L'FBI, i servizi segreti, l'esercito e la polizia newyorkese. Gli pareva ragionevole, una partita quasi ad armi pari. C'era una certa ironia nella loro elaborata difesa. Attese che comparisse la vittima. I piani dell'avversario erano parte essenziale del suo. Tutto quello che stavano facendo, ogni loro passo, era stato anticipato ed era necessario al lavoro del kamikaze. L'altoparlante cominciò a diffondere le note di She's a Grand Old Flag e Hawkins applaudì con gli altri: in fondo era un patriota. Non ci avrebbe creduto nessuno dopo quel giorno, ma lui sapeva di esserlo. Kevin Hawkins era uno degli ultimi veri patrioti. 90 Nessuno può fermare il proiettile di un assassino. Sentivo il fuoco divamparmi in petto mentre mi muovevo rapido tra la folla, cercando ovunque Kevin Hawkins. Ogni mio nervo era teso e bruciante, e la mano destra stava appoggiata al calcio della Glock. Continuavo a pensare che chiunque nel pubblico poteva essere Jack o Jill e la pistola mi pareva del tutto inutile in quell'ammasso rumoroso di gente. Ero arrivato alla seconda fila, sulla destra del palco alto circa tre metri, quando mi parve che le luci venissero abbassate, ma forse era solo la luce nella mia testa. O la luce nella mia anima? Il presidente stava salendo i gradini di metallo grigio, stringendo la mano a un sostenitore e dando una pacca sulle spalle di un altro. Pareva aver scacciato del tutto dalla testa l'idea del pericolo. Sally Byrnes saliva dalla scaletta opposta: la vedevo benissimo e repressi il pensiero che probabilmente lo stesso valeva per Jack & Jill. Gli agenti
dei servizi segreti parevano occupare tutto lo spazio disponibile intorno al palco. Ero lì quando finalmente accadde, vicinissimo al presidente Byrnes. Jack & Jill colpirono con una forza vendicatrice. La bomba esplose. Il rumore fu simile a quello di un tuono. Giunse da vicino al palco, o forse dal palco stesso. L'esplosione colse del tutto di sorpresa le guardie del corpo intorno al presidente: era avvenuta all'interno del loro perimetro. Il caos dilagò istantaneamente! Una bomba al posto di uno sparo! E l'auditorium era stato passato al setaccio, proprio a caccia di bombe, quel mattino stesso, pensai precipitandomi verso il palco. Notai che la mia mano sanguinava: probabilmente era a causa della colluttazione con il pazzo, ma forse era stata la bomba. Fu così che, rapidissima, cominciò a dipanarsi una sequenza di azioni, la peggiore sequenza immaginabile. Pistole e mitragliette spuntarono ovunque. Nessuno sapeva dove avesse colpito la bomba, come, con quali danni, o a quale scopo fosse servita. Sul palco e nelle prime venti file tutti si gettarono a terra. Uno spesso fumo nero si levò verso il soffitto, le vetrate del tetto e le travi d'acciaio. L'aria puzzava di capelli bruciacchiati e la gente urlava. Non capivo quanti fossero i feriti e non vedevo più il presidente. La bomba era esplosa vicino al palco, vicinissima al punto in cui si era trovato Tom Byrnes fino a pochi istanti prima, stringendo mani e chiacchierando amichevolmente. Il rimbombo mi risuonava ancora nelle orecchie. Mi feci largo verso il palcoscenico. Non c'era modo di dire quanta gente fosse rimasta ferita, e forse perfino uccisa, dallo scoppio. Non riuscivo ancora a localizzare né il presidente né la first lady, a causa del fumo e della muraglia umana che si agitava in un movimento convulso. I cameramen della TV premevano per raggiungere la scena del disastro. Finalmente scorsi un gruppo di agenti dei servizi segreti stretti intorno al presidente. L'avevano perfino sollevato da terra, ma Thomas Byrnes era vivo, sano e salvo. Gli agenti cominciarono ad allontanarsi, formando uno scudo umano intorno a lui. Io avevo spianato la Glock e la puntai verso l'alto, gridando: «Polizia!» Altri agenti e poliziotti stavano facendo la stessa cosa: ci identificavamo l'uno con l'altro, cercando di non farci sparare e di non sparare a nessuno in
quella confusione terrificante. Continuai a farmi largo verso l'uscita sud-ovest, quella scelta dai servizi segreti per far entrare il presidente ed eletta in precedenza anche via di fuga principale. Sotto la luminosa insegna rossa EXIT, un lungo tunnel di cemento armato conduceva a un parcheggio speciale per gli ospiti, dove ci aspettavano le auto blindate. Ma cos'altro ci aspetta? mi chiedevo, mentre una voce mi urlava nella testa, reclamando la mia attenzione. Jack & Jill sono sempre stati un passo avanti a noi e adesso l'hanno mancato! Perché? Non è gente che commette errori. Mi trovavo a un centinaio di metri dal presidente e dalle sue guardie del corpo quando una lampadina mi si accese nel cervello e finalmente capii quello che nessun altro aveva ancora afferrato. «Uscite da un'altra parte!» urlai, con tutto il fiato che avevo in gola. «Cambiate via di fuga!» 91 Non mi sentì nessuno. Io stesso udii a malapena la mia voce in quel frastuono. C'erano troppo rumore e troppa confusione all'interno del Madison Square Garden. Mi spinsi avanti, seguendo disperatamente il gruppo di agenti che avanzava quasi si aspettasse un premio alla fine della corsa. Il fumo della bomba aveva creato una specie di effetto stroboscopico. «Cambiate via di fuga! Cambiate via di fuga!» continuavo a urlare. Finalmente entrammo nel tunnel di cemento armato, dalle pareti bianche, sulle quali ogni suono echeggiava bizzarramente. Mi trovai proprio dietro l'ultimo agente dei servizi segreti. «Non andate da questa parte! Fermate il presidente!» gridai di nuovo. Invano. Il tunnel era pieno di ospiti d'onore arrivati in ritardo e delle loro guardie del corpo, che spingevano dalla parte opposta alla nostra. Ormai era troppo tardi per cambiare tragitto. Mi feci largo, avvicinandomi sempre più alla coppia presidenziale e cercando disperatamente tra la folla il viso di Kevin Hawkins: c'era ancora una probabilità di fermarlo. Intorno a me vedevo solo espressioni sconvolte, occhi sgranati dalla paura che mi scrutavano. A un tratto si udirono alcune forti detonazioni nel cuore del tunnel: erano spari!
Cinque colpi esplosero all'interno della falange serrata intorno al presidente: qualcuno era entrato nel perimetro di difesa. Il mio corpo sussultò come se avessero sparato anche a me. Cinque colpi. Tre in rapida successione, poi altri due. Non vedevo che cosa fosse successo davanti a me... poi però udii un suono da brivido: un gemito altissimo, un lamento funebre. Cinque spari! Prima tre... poi altri due. Il lamento funebre giungeva dal punto in cui avevo scorto per l'ultima volta il presidente Byrnes e da dove erano partite le detonazioni solo qualche istante prima. Mi lanciai con tutto il mio peso contro il muro umano, facendomi largo verso l'epicentro del disastro. Mi sembrava di essere nelle sabbie mobili. Era quasi impossibile camminare, spingere, farsi largo. Cinque spari. Che cos'era successo? Poi lo vidi. La bocca mi si seccò istantaneamente e gli occhi s'inumidirono. Il bunker del tunnel si era fatto stranamente silenzioso. Il presidente Thomas Byrnes giaceva sul pavimento di cemento grigio e una gran quantità di sangue gli inondava la camicia bianca. Era sangue rosso, che scaturiva dal lato destro del suo viso, o forse dal collo. Dal punto in cui mi trovavo non capii dove fosse stato ferito. L'avevano giustiziato. Roba da professionisti. Quei bastardi di Jack & Jill! Era il loro stile, o ci andava vicino. Mi feci rudemente avanti, facendomi largo a gomitate e vidi Don Hamerman, Jay Grayer e infine Sally Byrnes. Tutto aveva l'aria di svolgersi al rallentatore. Sally Byrnes cercava di andare verso il marito e non sembrava ferita. Mi chiesi se potesse rappresentare un bersaglio anche lei. Magari il bersaglio di Jill? Gli agenti dei servizi segreti la trattenevano, cercando di proteggerla. Volevano tenerla lontana dalla carneficina, da suo marito, da qualunque altra minaccia. Poi vidi un secondo cadavere e mi sentii quasi colpire allo stomaco: nessuno avrebbe potuto immaginare qualcosa di tanto orribile. Una donna giaceva accanto al presidente. Le avevano sparato nell'occhio
destro e aveva una seconda ferita alla gola. In terra, accanto al suo corpo si trovava una semiautomatica. Era l'assassina? Era Jill? Chi altri poteva essere? Il mio sguardo tornò a posarsi sulla figura immobile di Thomas Byrnes. Temetti che fosse già morto. Non potevo saperlo con sicurezza, ma ritenevo che fosse stato colpito almeno tre volte. Vidi Sally Byrnes raggiungere finalmente il corpo del marito. Piangeva in modo incontrollabile, e non era l'unica a farlo. 92 Jack osservava con assoluta calma la fila di auto in West Street vicino all'ingresso dello Holland Tunnel di New York. Sentiva le radio rimbombare ai lati della sua jeep nera e vedeva i volti turbati e confusi dentro le altre macchine. Una donna di mezza età, su una Lexus verde bosco, era in lacrime, mentre migliaia di sirene ululavano lugubri nel centro città. Jack & Jill sono venuti sulla Collina. Adesso tutti sapevano perché, o almeno credevano di saperlo. Ormai tutti capivano la gravità del gioco. Spegnete le radio, avrebbe voluto dire a tutta quella brava gente diretta verso la galleria che portava fuori città. Quello che è successo non ha niente a che vedere con nessuno di voi. Non saprete mai la verità, non la saprà mai nessuno e, comunque, non sapreste affrontarla. Non capireste nemmeno se fermassi l'auto in questo istante, scendessi e vi spiegassi come stanno le cose. Cercò di non pensare a Sara Rosen mentre s'infilava nella lunga galleria che serpeggiava sotto il fiume Hudson. Uscito dal tunnel si diresse a sud sull'autostrada per il New Jersey, poi sulla I-95 entrò nel Delaware e proseguì verso sud. Sara era il passato e il passato non contava. Il passato non esisteva, se non come lezione per il futuro. Sara se n'era andata. Continuò a pensare alla povera Sara mentre cenava al Country Cupboard, all'uscita dell'autostrada di Talleyville. Era importante vivere il lutto: per Jill, non per il presidente Byrnes. Jill valeva una dozzina di Thomas Byrnes: aveva svolto un buon lavoro, un lavoro quasi perfetto, anche se era stata usata fin dall'ini-
zio. Sì, Sara Rosen era stata usata: aveva fatto da occhi e da orecchie all'interno della Casa Bianca. Era stata anche la sua amante, povero musetto di scimmia! Mentre si avvicinava a Washington - erano ormai le sette di sera - fece un voto: non avrebbe mai più pensato a Sara in termini affettuosi. Sapeva di esserne capace, di poter controllare i propri sentimenti. Era migliore di Kevin Hawkins, che si era comportato veramente come il più valoroso dei soldati. Lui era stato Jack. Ma adesso non era più Jack. Jack non esisteva più. Non era più nemmeno Sam Harrison. Sam Harrison era stato soltanto una copertura, una salvaguardia necessaria, una parte del piano. Sam Harrison non esisteva più. La sua vita sarebbe tornata semplice e piacevole. Era quasi arrivato a casa. Aveva completato con successo la sua Missione Impossibile. Tutto era andato alla perfezione. Poi arrivò veramente a casa, entrò nel solito vialetto circolare, disseminato di conchiglie colorate, sassolini e giocattoli. Vide la sua bambina uscire di corsa da casa, i capelli biondi al vento. Vide sua moglie dietro di lei, che quasi correva, il viso rigato di lacrime. Si mise a piangere anche lui, non ne aveva paura. Non aveva più paura di niente. Grazie a Dio, la guerra era finalmente finita. Il diabolico nemico era morto. I bravi ragazzi avevano vinto e il modo di vita più prezioso sulla faccia della terra era stato assicurato ancora per un poco... almeno per la durata della vita dei suoi figli. Nessuno avrebbe mai saputo come e perché era successo, né chi ne fosse veramente responsabile. Proprio com'era accaduto con JFK a Dallas. E con suo fratello Bob a Los Angeles. E nel caso Watergate e Whitewater e in tutti gli altri eventi significativi della storia recente del Paese. In verità la storia consisteva nel non sapere, veniva accuratamente messa al riparo della verità. Era quello il modo americano. «Ti amo tanto», gli bisbigliò la moglie. «Sei il mio eroe. Hai fatto una cosa così bella e coraggiosa!» Lo credeva anche lui, ne era certo fin nel profondo del cuore.
Ma non era più Jack. Jack non esisteva più. 93 Non era ancora finita! Poco dopo mezzogiorno, i servizi segreti vennero a sapere dalla polizia di New York di un altro omicidio: c'erano forti motivi per ritenere che fosse collegato all'attentato al presidente Byrnes. Mi precipitai con Jay Grayer al Peninsula Hotel, che si trova in centro città, nei paraggi di Fifth Avenue. Eravamo ancora attoniti per l'orrore cui avevamo appena assistito e non riuscivamo ancora a credere che avessero sparato al presidente. Ci facemmo comunque comunicare tutti i dettagli dell'ultimo omicidio. Una cameriera dell'albergo aveva scoperto un cadavere in una suite del dodicesimo piano. Nella camera c'era anche il solito messaggio in rima di Jack & Jill. L'ultimo? «Cosa dice la polizia?» domandai a Jay durante la corsa in macchina. «Che particolari si sanno?» «Secondo il rapporto iniziale, la morta potrebbe essere Jill. Forse è stata uccisa o forse si è suicidata. Sono ragionevolmente certi che il biglietto sia autentico.» I misteri all'interno di tutti quegli orribili misteri s'infittivano. Anche quella morte faceva parte del piano di Jack & Jill? Pensai che fosse probabile e che dovevamo strappare ancora molti veli - veli su veli - prima di arrivare al nocciolo dell'orrore. Emergemmo da un ascensore dorato sulla scena del delitto, che pullulava di poliziotti. Vidi medici legali, uomini delle squadre speciali in elmetto e maschera di plexiglas, uniformi, detective della omicidi. Pareva un manicomio. Tutta quella gente mi fece temere un'eventuale contaminazione delle prove e una fuga di notizie. «Il presidente?» ci chiese un detective locale non appena arrivammo. «Si sa qualcosa? C'è speranza?» «È ancora tutto in sospeso. Certo, c'è speranza», rispose Jay Grayer prima di allontanarsi con me dal gruppo dei detective. Almeno una dozzina di poliziotti e di agenti dell'FBI affollava la suite. Il lugubre suono delle sirene saliva dalla strada. Si sentivano anche le campane, probabilmente quelle della cattedrale di San Patrizio, un poco più a sud, in Fifth Avenue. Il cadavere di una bionda giaceva sul tappeto grigio accanto al letto ma-
trimoniale sfatto. Aveva la faccia, il collo e il petto inondati di sangue e portava una tuta da jogging blu e argento. Sul tappeto, accanto alle sue Nike, c'era un paio d'occhiali dalla montatura d'acciaio. È stata giustiziata... come le prime vittime di Jack & Jill. Un unico sparo, da vicino, alla testa. Molto professionale, molto freddo. Nessuna emozione. «È mai entrata in una nostra lista d'indiziati?» chiesi a Grayer. Sapevamo che la morta si chiamava Sara Rosen e che, lavorando alla Casa Bianca, era passata sotto i nostri controlli. Ma due approfondite indagini su tutto lo staff non l'avevano individuata e questa era la cosa più spaventosa di tutte. «No, che si sappia. Lavorava da un pezzo nella sala stampa della Casa Bianca e piaceva a tutti per la sua efficienza e la sua aria professionale. Era un tipo fidato. Cristo, che casino, che disastro! Era un tipo fidato, Alex.» Parte del lato sinistro della faccia era sparito, come se fosse stato sbranato da un animale. A quanto pareva, Jill era stata colta di sorpresa: non c'era timore nei suoi occhi. Si fidava dell'uomo che l'aveva uccisa. Era stato Jack a premere il grilletto? Notai l'anello grigio intorno alla ferita: le avevano sparato da molto vicino. Doveva essere stato Jack: un lavoro da professionista, privo di emotività. Un'altra esecuzione. Ma è veramente Jill? mi chiesi, chinandomi sul corpo. Il killer sotto contratto Kevin Hawkins era morto al St. Vincent's Hospital. Sapevamo che si era travestito da agente donna dell'FBI per entrare al Madison Square Garden e che aveva usato una bomba per portare la sua vittima dove voleva, quando voleva. Aveva aspettato nel tunnel d'uscita, travestito da donna, e aveva funzionato. Quale rapporto c'era tra Kevin Hawkins e Sara Rosen? Cosa diavolo stava capitando? «Ha lasciato la solita poesia, simile alle altre», disse Jay Grayer, passandomi il biglietto infilato in una bustina di plastica per raccogliere le prove. «Le ultime volontà, il testamento di Jack & Jill», aggiunse. «Il delitto perfetto», borbottai, più a me stesso che a Grayer. «Jack & Jill sono morti a New York. Il caso è chiuso, giusto?» L'agente dei servizi segreti mi fissò, poi scosse lentamente la testa. «Questo caso non sarà mai chiuso. Non finché vivremo noi, almeno.» «Facevo solo dell'ironia», puntualizzai.
Lessi l'ultimo biglietto. Jack & Jill sono venuti sulla Collina e Jill ha usato la sua frusta il senno l'ha guidata, ma ora dal gioco è scartata. La causa della morta Jill era giusta. «Vaffanculo, Jill», bisbigliai al cadavere. «Spero che tu bruci tra le fiamme dell'inferno per quello che hai combinato oggi. Spero che ci sia un inferno apposta per te e per Jack.» 94 La notizia dell'attentato arrivò più violenta che mai a Washington, città in cui Thomas Byrnes aveva raccolto consensi e critiche, ma che, in quel momento, era soprattutto la «sua» città. Christine Johnson ne fu sconvolta, e lo stesso accadde ai suoi amici e conoscenti. Gli insegnanti e i bambini della Sojourner Truth School furono traumatizzati da quello che era successo al presidente a New York. Era una cosa orribile, incredibilmente triste e quasi irreale. A causa dell'attentato, quel pomeriggio tutte le scuole del Distretto di Columbia chiusero. Christine si piazzò davanti alla televisione non appena rientrò in casa. Non riusciva ancora a credere a quello che era successo. Nessuno riusciva a crederci. Il presidente era ancora vivo, ma non vennero rilasciati altri bollettini. Christine non sapeva se Alex Cross si trovasse al Madison Square Garden, ma immaginava di sì ed era in ansia anche per lui. Le piacevano la sincerità e la forza interiore del detective, ma soprattutto la sua comprensione e la sua vulnerabilità. Le piacevano il suo aspetto, il modo in cui camminava e in cui si muoveva. Le piaceva anche il modo in cui Alex cresceva suo figlio Damon. Le faceva desiderare ancora di più di avere figli suoi. Lei e George dovevano parlarne. Lei e George dovevano parlare, punto e basta. Quella sera suo marito rientrò prima delle sette, con un paio d'ore d'anticipo rispetto al solito. George Johnson lavorava duro nel suo studio legale. Aveva trentasette anni e una liscia e attraente faccia da bambino. Era una brava persona, anche se troppo egocentrica, al punto da dare ogni tanto sui
nervi. Ma Christine lo amava: ne accettava i pregi e i difetti. Ci pensava proprio mentre gli andava incontro nell'ingresso per abbracciarlo forte. Nella sua mente non esistevano dubbi: si erano conosciuti all'università e da allora non si erano più lasciati. Lei riteneva che così dovessero andare le cose e, per quanto la riguardava, andavano bene. «La gente è ancora in giro a piangere per le strade», annunciò George dopo averla abbracciata. Poi si tolse la giacca di lana e allentò la cravatta, ma non salì a cambiarsi. Quella sera infrangeva la solita routine. «Non ho votato per il presidente Byrnes, ma la cosa mi fa lo stesso un effetto orribile, Chris. Che vergogna.» Aveva le lacrime agli occhi e, vedendole, anche lei riprese a piangere. Di solito George teneva per sé i propri sentimenti, non li rivelava mai, dunque Christine si commosse nel vedergli manifestare liberamente quelle emozioni. Si commosse molto. «Ho già pianto un paio di volte», confidò al marito. «Mi conosci, io ho votato per il presidente, ma non è questo. Il fatto è che stiamo perdendo il rispetto per ogni istituzione e direi anche per la vita umana. Lo vedo perfino negli occhi degli scolaretti di sei anni. Lo vedo tutti i giorni alla Truth School.» George Johnson abbracciò di nuovo la moglie. Avevano esattamente la stessa altezza e lei appoggiò piano la testa alla sua guancia. Christine aveva il vago profumo di limone che si metteva per andare a scuola e lui l'amava tanto. Era diversa da qualunque altra donna, da qualunque persona avesse mai conosciuto. Si sentiva incredibilmente fortunato ad averla, a essere amato da lei, a stringerla in quel modo. «Capisci?» chiese Christine. Quella sera voleva parlare con George, non voleva che lui sparisse come faceva così spesso. «Certo», rispose il marito. «Tutti si sentono così, Chrissie, ma nessuno sa da che parte cominciare perché tutto questo finisca.» «Preparo qualcosa da mangiare, poi c'incolliamo ai servizi della CNN», disse infine lei. «Parte di me non ha voglia di seguire le dirette, ma un'altra parte vuole comunque farlo.» «Ti aiuto», si offrì lui: accadeva raramente. Lei desiderò che non ci volesse una tragedia nazionale per entrare in contatto con le emozioni di suo marito. Be', sapeva che tanti uomini erano così e che c'era anche di peggio in un matrimonio. Prepararono una cena vegetariana e aprirono una bottiglia di Chardon-
nay. Avevano appena terminato di cenare davanti alla TV quando suonò il campanello della porta. Mancava poco alle nove e non aspettavano nessuno, ma capitava che i vicini passassero a trovarli. La CNN stava inquadrando il New York University Hospital, dov'era stato portato di corsa il presidente subito dopo l'attentato. Alex Cross era comparso insieme a vari altri ufficiali presenti sulla scena del delitto, ma non aveva detto molto ai giornalisti. Pareva sconvolto, spento, ma anche, be'... nobile. Christine non rivelò a George che lo conosceva e si chiese il motivo di quel silenzio. Non aveva nemmeno raccontato al marito della visita serale di Alex, ma d'altronde quella volta George aveva continuato imperterrito a dormire: era fatto così. Prima che si alzassero dal divano, il campanello suonò una seconda e poi una terza volta: chiunque fosse, non intendeva andarsene. «Vado io, Chrissie», disse George. «Non capisco chi diavolo possa essere a quest'ora, e tu?» «Nemmeno io.» «Va bene, vengo», esclamò lui e Christine sorrise, riconoscendo George l'impaziente. «Arrivo, cristo! Sto arrivando», gridò, andando verso la porta con solo i calzini ai piedi. Guardò dallo spioncino, poi si voltò, perplesso e seccato, verso la moglie. «È un ragazzino bianco.» 95 Danny Boudreaux si trovava sotto il bianco portico illuminato della casa dell'insegnante. Indossava un poncho impermeabile, color verde militare, troppo grande per lui, che lo faceva sembrare più grosso di quanto fosse in realtà e gli conferiva un'aria più grave. Era il killer della Truth School in carne e ossa, nel suo momento di gloria. Eppure, anche in quell'umore sovreccitato, intuiva che in lui c'era qualcosa che non andava. Non si sentiva bene e stava diventando triste... anzi, terribilmente depresso. La macchina si stava rompendo. I medici non erano riusciti a stabilire se il suo fosse un disturbo maniaco-depressivo o comportamentale. Se non c'erano riusciti loro, come poteva arrivarci lui? Il fatto di essere un po' impulsivo e di andare soggetto a bruschi mutamenti d'umore lo rendevano un pericolo per la società? La miccia era accesa ed era pronto a saltare, ma
chi se ne fregava? Aveva smesso di prendere il Depakote. Aveva semplicemente detto basta. Continuava a canticchiare fra sé la stessa canzone, una dei Crash Test Dummies. Era una musica triste e furiosa che gli rimbombava nel cervello come se avesse avuto dentro una radio accesa. Il pulsante della follia era ormai premuto... in modo permanente. Era infuriato con Jack & Jill. Ce l'aveva a morte con Alex Cross e con la direttrice della Truth School. Ce l'aveva con tutto il pianeta, ormai perfino con se stesso. Era un dannato idiota: lo era sempre stato e lo sarebbe stato per sempre. Sono un perdente, bimba. Perché non mi uccidi? Tornò a un vago senso di realtà quando un nero di merda in camicia a righine azzurre e calzoni tenuti dalle bretelle gli aprì la porta. Sulle prime Danny Boudreaux non capì chi cavolo fosse quel tizio dalla faccia rotonda. Si era aspettato di trovarsi davanti la gigantessa direttrice della scuola, Mrs Johnson, o magari Alex Cross, se non era andato a New York: li aveva visti insieme in tre diverse occasioni e aveva supposto che fossero amanti. Non sapeva perché la cosa gli desse sui nervi, ma effettivamente gli dava molto sui nervi. Cross era come quell'idiota di suo padre, il suo vero padre: un altro fottuto poliziotto che l'aveva abbandonato, che lo trattava come una cacca di cane. E adesso Cross si pompava anche la direttrice. Aspetta, aspetta un attimo, pensò Danny, illuminato improvvisamente da un flash. Questo stronzone d'un Kunta Kinte elegante dev'essere il marito, no? Certo che lo era. «Sì? Che cosa posso fare per te?» domandò George Johnson al ragazzotto dall'aria strana e sciatta sotto il suo portico. Non conosceva il ragazzo che distribuiva i giornali nel quartiere, ma forse era lui. Per qualche motivo bizzarro, il piccolo bianco gli ricordava uno strano film intitolato Kids, che aveva visto con Christine e che l'aveva un poco turbato. Il ragazzo aveva l'aria di trovarsi nei guai. Secondo l'umile opinione di Danny Boudreaux, il nero era davvero poco amichevole e altezzoso, soprattutto per essere un nessuno, il marito di un'insignificante maestrina. La cosa gli dava la nausea e gli faceva vedere dodici diverse sfumature di rosso. Lo faceva andare oltre il limite. Sentì arrivare una delle sue furie peggiori. L'uragano Daniel stava per abbattersi su Mitchellville.
«Noooooo!» urlò all'uomo. «Non puoi aiutare nemmeno te stesso! E ci scommetto le palle che non puoi aiutare me!» E sfoderò la sua semiautomatica, che George Johnson fissò incredulo, indietreggiando rapido dalla soglia e levando entrambe le braccia in un gesto di difesa. Boudreaux sparò due volte, senza esitare. «Prenditi questo, stupido coniglio nero!» urlò. I due proiettili colpirono George Johnson al petto. L'uomo balzò all'indietro come se avesse ricevuto un pugno nello stomaco e ricadde sul pavimento di marmo. L'aveva sicuramente fatto fuori: il sangue sgorgava dai due buchi sul petto. Il killer della Truth School entrò in casa, scavalcando il cadavere come se fosse stato spazzatura. Non provava niente. «Vado avanti da solo, grazie», disse al morto. «È stato molto gentile.» Sentendo gli spari, Christine Johnson si era alzata dal divano in soggiorno. Danny Boudreaux la vide dall'ingresso: si era dimenticato quanto fosse alta. Lei vide lui e il corpo del marito. Non aveva più l'aria del gran capo. La sua presenza l'aveva fatta rientrare al suo posto molto in fretta. Se lo meritava: l'aveva offeso la prima volta che si erano incontrati e probabilmente non se ne ricordava nemmeno. «Ti ricordi di me?» le chiese. «Ti ricordi di avermi rotto il culo, troia? Alla Truth School? Ti ricordi di me, vero?» «Oh, Dio mio! Oh, George! Oh, Dio, George!» gemette lei, scossa da un singhiozzo senza lacrime. Sembrava sul punto di svenire. Lui sentì provenire dal televisore una voce che parlava di quei due idioti di Jack & Jill. Maledizione, cercavano sempre di oscurarlo! Perfino lì, perfino in quel momento! Danny Boudreaux si accorse che la direttrice aveva una gran voglia di darsela a gambe, ma non poteva andare da nessuna parte, a meno di non spaccare il vetro della finestra per uscire sul prato. Christine si portò una mano alla bocca e sembrò che vi rimanesse incollata. Probabilmente era sotto shock. Chi non lo è di questi tempi, signora mia? «Smettila di urlare», le strillò contro lui. «Non urlare più altrimenti sparo anche a te. Posso farlo e lo farò. Ti ammazzo come ho fatto con il portiere.» Si fece più vicino, tenendole puntata addosso la Smith & Wesson. Voleva farle capire che era del tutto a proprio agio con quell'arma, che ci sape-
va fare con le pistole. Ed era vero, grazie all'accademia Roosevelt. Gli tremava un poco la mano, ma cosa contava? Da quella distanza non l'avrebbe comunque mancata. «Salve, Mrs Johnson», disse, sfoggiando il suo sorriso più sinistro. «Sono io quello che ha ucciso Shanelle Green e Vernon Wheatley. Mi stanno cercando tutti. Be', suppongo che tu mi abbia trovato», aggiunse. «Congratulazioni, bimba. Bel lavoro.» Danny Boudreaux si stava sciogliendo in lacrime e non ricordava più perché fosse tanto triste. Sapeva soltanto di essere incredibilmente infuriato, con tutti. Questa volta l'avevano fatto arrabbiare sul serio. Non aveva mai vissuto niente di peggio. Niente gioia e niente felicità. «Sono il killer della Truth School», ripeté. «Ci credi? Ci sei arrivata? Questa è una storia vera, raccontata con tutto il cuore. Non ti ricordi nemmeno di me? È tanto facile dimenticarmi? Io mi ricordo benissimo di te.» 96 Quella sera alle undici tornai di corsa a Washington: il killer della Truth School aveva messo in scena l'ultima follia. Io l'avevo previsto, ma il fatto di aver avuto ragione non mi dava certo conforto. Magari non era nemmeno una coincidenza che fosse esploso la stessa sera di Jack & Jill: voleva essere più bravo di loro, no? Voleva diventare importante, famoso, occupare le prime pagine. Non sopportava di non essere nessuno. Nel breve volo sul jet militare, cercai di pensare a tutt'altro. Mi sentivo talmente depresso da non aver voglia di nulla. Scorsi i giornali con le notizie in prima pagina sul presidente Byrnes e l'attentato a New York. Il presidente si trovava in condizioni estremamente critiche al New York University Hospital, a Manhattan. Jack & Jill erano dati per morti. I medici dell'ospedale non sapevano se il presidente avrebbe superato la notte. Ero intontito, disorientato, stanchissimo, ai limiti del tracollo emotivo, e le cose peggioravano. Non ero affatto certo di essere in grado di affrontare la situazione a Washington, ma non mi era stata data scelta. Il killer aveva chiesto di vedermi, dichiarando che ero io il suo detective e che negli ultimi giorni mi aveva telefonato più volte a casa. Un'auto della polizia doveva venirmi a prendere alla base di Andrews per portarmi a Mitchellville, dove Danny Boudreaux teneva in ostaggio
Christine Johnson. Boudreaux aveva già ucciso due bambini, un suo compagno di classe di nome Sumner Moore e i genitori adottivi. Era una escalation straordinaria e il caso meritava molta più attenzione di quella che gli era stata dedicata dalle forze dell'ordine. Un'auto della polizia mi aspettava ad Andrews. Qualcuno aveva messo insieme per me tutto il materiale disponibile su Danny Boudreaux, che era stato in cura da uno psichiatra dall'età di sette anni perché soffriva di gravi depressioni. Già allora, a quanto pareva, amava torturare gli animali in modo piuttosto bizzarro. La vera madre di Daniel Boudreaux era morta quando lui era ancora piccolo e Daniel se ne attribuiva la colpa. Il vero padre si era suicidato ed era stato poliziotto a cavallo in Virginia. Anche lui nella polizia, notai. Probabilmente nella testa del ragazzo si stava verificando una specie di transfert. Riconobbi Summer Street non appena uscimmo dalla tangenziale John Hanson. Un detective della Prince Georges County mi stava accanto, sul sedile posteriore. Si chiamava Henry Fornier e cercò di aggiornarmi sulla situazione dell'ostaggio. «Da quanto abbiamo capito, dottor Cross, il ragazzo ha sparato a George Johnson, che è probabilmente morto e si trova ancora in casa. Non ha permesso a nessuno di rimuovere il cadavere o di portare cure mediche», mi disse Fornier. «È una carogna, glielo dico io. Un vero piccolo stronzo.» «Boudreaux prendeva il Depakote per tenere a freno gli attacchi d'ira e la depressione, ma scommetto che ha smesso», osservai. Pensavo a voce alta per prepararmi a qualunque cosa mi aspettasse a pochi isolati di distanza, lungo la pacifica strada residenziale. Non importava che Boudreaux avesse tredici anni: aveva già ucciso cinque volte. Era un altro mostro, un mostro orribile e giovanissimo. Scorsi Sampson; superava di tutta la testa gli altri agenti fuori di casa Johnson. Cercai di cogliere ogni aspetto della situazione: c'erano poliziotti ovunque, ma anche soldati in tuta mimetica. Auto e camioncini con targhe governative erano parcheggiati lungo la strada. Andai dritto da Sampson: lui sapeva che cosa mi occorreva sapere e come dirmelo. «Ciao, bello», mi salutò con un'ombra del suo solito sorrisetto ironico. «Sono lieto che tu ti sia unito alla festa.» «Già, sono anch'io felice di vederti», risposi. «Un tuo amico vuole parlarti, desidera conferire con il dottor Cross in persona. Hai davvero degli strani amici.» «Già, verissimo», ammisi: lui era uno dei miei più strani amici. «Non
hanno ancora aperto il fuoco perché si tratta di un ragazzino? È andata così finora?» Sampson annuì. «È solo un killer spietato, Alex», mi disse. «Ricordatelo, è solo un assassino.» 97 Un assassino di tredici anni. Studiai con cura tutta la scena allestita intorno al perimetro di casa Johnson. Anche se relativamente scarse, le forze di polizia locali sapevano affrontare quel genere di situazioni. Il terrore esplodeva ormai in sobborghi residenziali come Ruby Ridge, Waco e, adesso, Mitchellville. In un furgoncino blu scuro ultimo modello erano montati monitor televisivi, apparecchi acustici, telefoni e computer. Un tecnico se ne stava accucciato sotto un salice battuto dal vento a registrare i rumori dentro la casa. Quello che aveva accanto era un apparecchio in grado di sentire le voci a cento metri di distanza. Varie foto del ragazzo erano state attaccate a una tavola appoggiata a un'auto della polizia. Un elicottero girava al di sopra dei tetti. Il dramma dell'ostaggio si stava spiegando nel solito modo spettacolare. Questa volta in un sobborgo della capitale. Un tredicenne di nome Daniel Boudreaux. Un altro killer spietato, semplicemente. «Con chi l'hanno fatto parlare?» domandai a Sampson, mentre ci avvicinavamo alla casa. Scorsi una Lexus nera parcheggiata nel vialetto, era la macchina di George Johnson? «Chi ha negoziato con lui?» «Hanno fatto venire Paul Losi non appena si è scoperto quant'era grave la situazione.» Annuii, sentendomi in parte sollevato da quella scelta. «Bene, Losi ci sa fare e sostiene bene la tensione. Come comunica dalla casa il ragazzo?» «All'inizio con il telefono, poi ha chiesto un megafono, altrimenti avrebbe ucciso subito l'insegnante e se stesso. Così il bambino cattivo ha avuto il suo corno e adesso usa quello. Finora non si può proprio dire che lui e Paul Losi abbiano trovato un accordo.» «E Christine Johnson? È ancora sana e salva? Cosa ne sai?» «Finora pare che stia bene. Ha mantenuto la calma. Abbiamo la sensazione che riesca in qualche maniera a trattenere, ma solo a malapena, il ragazzaccio. È una dura.»
Lo sapevo già. È ancora più dura di te, papà. Sperai che Damon avesse avuto ragione al cento per cento, che fosse più dura di tutti noi. George Pittman venne verso di noi: il capo della omicidi era l'ultima persona al mondo che volevo vedere, assolutamente l'ultima. Sospettavo ancora che fosse stato lui a offrirmi come «volontario» alla Casa Bianca. Comunque inghiottii tutta la rabbia che provavo, e anche l'orgoglio. «L'FBI ha appostato i suoi tiratori scelti», ci informò Pittman. «Il guaio è che non ci è permesso usarli: il piccolo bastardo è perfino uscito allo scoperto un paio di volte.» Mantenni la calma con Pittman, che mi teneva ancora una pistola puntata alla testa: lo sapevamo tutti e due. «Il guaio è che il killer ha tredici anni e probabilmente tendenze suicide», risposi, facendo un'ipotesi ragionevole, ma ero quasi certo che fosse azzeccata. Il ragazzino si era messo con le spalle al muro entrando in casa Johnson, poi aveva cominciato a urlare venite a prendermi. La faccia di Pittman si oscurò, mentre arrossiva fino al collo. «Crede che i cinque omicidi che ha commesso siano stati divertenti, è quello che ha detto a Paul Losi. Se ne ride dei delitti. Ha chiesto specificamente di te. Che ne pensate dei tiratori scelti?» chiese Pittman prima di allontanarsi da noi. Sampson scosse la testa. «Che a nessuno venga l'idea di entrare a giocare con Danny la Furia Umana», disse. «Devo capirlo meglio, devo parlargli», borbottai, guardando verso la casa. C'erano un mucchio di luci accese di sotto, ma nessuna al primo piano. «Tu lo capisci già dannatamente bene, anche se lo neghi. Ormai capisci i pazzi così bene che fra un po' varcherai tu stesso il limite. Mi senti? Mi hai capito?» Avevo capito. Mi ero fatto un'idea abbastanza precisa delle mie forze e delle mie debolezze. Almeno di solito, ma forse non in una notte come quella. Una voce al megafono ci interruppe: il killer della Truth School aveva deciso di parlare. «Ehi, voi, laggiù! Ehi, stupidi bastardi! Non vi state dimenticando qualcosa? Vi ricordate ancora di me?» Era la prima volta che sentivo la voce di Danny Boudreaux: era infantile, nasale, acuta, ordinaria. La voce di un tredicenne. «Ehi, figli di puttana, state cercando di leggermi nel cervello, vero?» urlò. «Lo so, ci state provando! Ma sbagliate tutto, ve lo dico io!»
Paul Losi prese il megafono. «Aspetta, non è così, Danny. Sei stato tenuto sotto controllo fin dall'inizio, lo sai, Danny. Siamo onesti in questo.» «Balle!» rispose infuriato Danny Boudreaux. «Dite tante di quelle balle da darmi la nausea. Tu mi fai venire la nausea, Losi. Mi rompi veramente il cazzo, lo sai, Losi?» «Dimmi qual è il problema», rispose il poliziotto, mantenendo la calma. «Parlami, Danny. Io voglio parlare con te. So che forse non ci crederai, ma è la verità.» «Lo so, stronzo, è il tuo lavoro tenerti in contatto con me. Il guaio è che conti palle, menti, dici di volermi bene. Tutte menzogne! Così adesso io non voglio più parlare con te. Non voglio più sentire una parola da te, altrimenti ammazzerò Mrs Johnson e sarà colpa tua... La ammazzo subito, lo giuro su Dio, lo faccio! Anche se prima è stata tanto gentile da prepararmi un sandwich. Bang!... Bang!... È morta!» La polizia circondava completamente casa Johnson. Gli uomini indossarono i loro caschi di plexiglas: ci si preparava a un'irruzione. In quel caso, Christine Johnson sarebbe quasi sicuramente morta. «Qual è il tuo problema?» chiese di nuovo Paul. «Parlami. Risolveremo le cose, Danny. Possiamo arrivare a una soluzione che vada bene per te. Qual è il problema?» Per un poco regnò una strana calma nel giardino e in strada. Sentivo il vento soffiare tra i salici e i sempreverdi. Poi Danny Boudreaux si mise a urlare. «Qual è il mio problema? Qual è il mio problema? Sei così falso, ecco una parte del mio problema... L'altra parte è che lui è arrivato. Alex Cross si trova qui e tu non me l'hai detto. Dovevo scoprirlo alla televisione! «Hai esattamente trenta secondi, detective Cross. Ora sono ventinove, ventotto... Non vedo l'ora di conoscerti, amico, non vedo l'ora. Ventisette, ventisei, venticinque...» Il killer della Truth School non vedeva l'ora di farsi sparare addosso. Un ragazzo di tredici anni. E dava ordini. 98 «Sono Alex Cross», gridai dal prato gelato davanti alla casa di Christine Johnson. Non avevo bisogno di un megafono per farmi sentire da quell'assassino. Il tuo detective è qui, va tutto come volevi tu. «Sono il detective Cross», urlai di nuovo. «Hai ragione, sono qui, ma
sono appena arrivato. Sono venuto perché mi hai chiamato. Ti stiamo prendendo sul serio. Nessuno ti vuole maltrattare, non lo faremmo mai.» Per ora, almeno, ma dammene la minima opportunità e vedi come ti concio. Mi ricordai della povera Shanelle Green e di Vernon Wheatley, che aveva solo sette anni. Pensai a Christine Johnson intrappolata con il giovane killer, che aveva sparato al marito sotto i suoi occhi. Volevo avere l'opportunità di conciare per le feste Daniel Boudreaux. A un tratto lui scoppiò a ridere nel megafono, una risata acuta e infantile, una risata da brivido. Ben pochi, nella folla di curiosi intorno alla casa, gli fecero eco. «Be', era ora, detective Alex Cross. È carino sapere che hai trovato un po' di tempo anche per me. È quello che pensa anche Mrs Johnson. Ti abbiamo aspettato e aspettato... forza, entra in casa, festeggiamo!» Il ragazzo stava sfidando apertamente me e la mia autorità. Aveva bisogno di dirigere lui il gioco. Io registravo mentalmente tutto, ogni mossa, e anche la loro sequenza. La schizofrenia paranoide era una diagnosi possibile, ma era più probabile che soffrisse di sindrome maniaco-depressiva. Dovevo parlargli per scoprirlo. Comunque Danny Boudreaux pareva agire in modo coerente, in tempo reale. Mi chiesi se avesse ripreso a prendere il Depakote. Una voce alle mie spalle disse: «Alex, vieni qui, maledizione. Voglio parlarti, Alex, vieni qui». Mi voltai. Sul viso di Sampson era stampata una smorfia. «Non ci serve un altro ostaggio là dentro», affermò in tono deciso. Era già arrabbiato con me: gli occhi erano due fessure scure e la fronte era profondamente aggrottata. «A differenza di noi, tu non hai ancora sentito la sua furia. Quel bambino cattivo è davvero pazzo, Alex. Tutto quello che vuole è uccidere qualcun altro.» «Credo che andrà tutto bene», risposi. «È il mio tipo: Gary Soneji, Casanova, Danny Boudreaux. Comunque non ho scelta.» «La scelta ce l'hai... Quello che ti manca, però, è il buonsenso.» Fissai di nuovo la casa. Christine Johnson era lì dentro con il killer: se non fossi andato, l'avrebbe uccisa. L'aveva detto e gli credevo. Che scelta mi rimaneva? Inoltre, nessuna buona azione resta impunita, no? Pittman mi fece cenno che per lui potevo andare. Spettava a me decidere, al dottor Cross. Respirai a fondo e m'incamminai sul prato bagnato verso la casa. I fotografi mi tempestarono di flash nei pochi istanti che impiegai ad arrivare
davanti alla porta. A un tratto tutte le telecamere furono puntate su di me. Mi concentrai con tutte le forze su Danny Boudreaux, che si era fatto incredibilmente pericoloso. Si era immerso in un mare di omicidi: cinque delitti in poche settimane. Ormai aveva le spalle al muro. Peggio, ci si era messo da solo. Afferrai il pomello, sentendomi stordito e un poco fuori posto. La vista sembrava annebbiata; mi limitai a mettere a fuoco la porta bianca. «È aperto», annunciò una voce da dietro la porta. Era una voce da bambino, un po' rasposa, fragile ed esile senza l'amplificazione del megafono. Spinsi la porta e finalmente vidi il killer della Truth School in tutta la sua folle gloria. Danny Boudreaux non arrivava al metro e sessanta e aveva gli occhietti furbi di un roditore, grandi orecchie e un pessimo taglio di capelli. Aveva un'aria strana, da sbandato. Intuii che non doveva piacere molto agli altri ragazzi, che doveva essere da sempre un escluso. Mi teneva puntata al petto una Smith & Wesson semiautomatica. «Accademia militare», mi ricordò. «Sono un tiratore esperto, detective Cross, e non ho nessuna difficoltà con i bersagli umani.» 99 All'interno di quella specie di gabbia metallica che pareva essere il mio petto, il cuore mi si strinse. Avvertivo un gran ronzio in testa, irritante come una stazione radio disturbata. Non mi sentivo affatto un eroe, ma avevo anzi paura. Era peggio del solito, forse perché il killer aveva tredici anni. Danny Boudreaux sapeva usare la semiautomatica che stringeva nel pugno e prima o poi l'avrebbe fatto. L'unica cosa al mondo che mi interessava in quel momento era strappargliela di mano. Mi si parava davanti un'immagine che richiedeva tutta la mia attenzione: un tredicenne mingherlino con una potente arma mortale. Avevo una semiautomatica puntata al cuore. Anche se la sua mano era abbastanza ferma, quel ragazzino pareva aver esaurito del tutto le sue riserve mentali e fisiche. Si trovava probabilmente in fase di decompressione e il suo comportamento si sarebbe fatto sempre più bizzarro. La sua instabilità era evidente e spaventosa: gliela si leggeva negli occhi. Occhi che frugavano all'intorno come quelli di un uccello chiuso in una boccia di vetro. In piedi nell'ingresso di casa Johnson, Daniel barcollava un poco, mentre
mi agitava davanti la pistola, formando piccoli cerchi nell'aria. Portava una strana felpa con la scritta GIOIA E FELICITÀ. Aveva i capelli corti bagnati di sudore e le lenti degli occhiali erano appannate ai bordi. Dietro le lenti, gli occhi brillavano. Non dubitai più che fosse mai piaciuto a qualcuno. A me non piaceva di certo. Il suo corpo sottile s'irrigidì d'improvviso. «Benvenuto a bordo, detective Cross. Signore!» «Ciao, Danny», risposi nel tono più pacato e meno minaccioso che riuscii a trovare. «Mi hai chiamato ed eccomi qui.» Sono io quello che ti farà saltare il culo. Lui mantenne le distanze: era un intrico di nervi tesissimi, un concentrato di rabbia pronta a esplodere. Era un burattino senza burattinaio. Non c'era modo di prevedere come sarebbe andata. Si trovava chiaramente in una fase di ricaduta per non aver preso il Depakote. Danny Boudreaux ne manifestava tutti i sintomi: aggressività, depressione, psicosi, iperattività, deterioramento comportamentale. Un killer freddo e spietato di tredici anni. Come potevo togliergli di mano la pistola? Christine Johnson, in piedi alle sue spalle nel soggiorno buio, non si mosse. Sembrava molto lontana sullo sfondo e, nonostante l'altezza, piccola. Appariva anche spaventata, triste e stanca. Alla sua destra c'era uno splendido caminetto di pietra, che pareva tolto di peso da una casa antica. Non avevo osservato molto quel soggiorno, ma in quei pochi istanti lo studiai con cura, come fosse stato un'arma eventualmente utilizzabile. George Johnson giaceva sul pavimento di marmo bianco dell'ingresso: Christine, o il ragazzo, gli avevano gettato addosso un plaid rosso. Il bell'avvocato aveva l'aria di essersi sdraiato a riposare. «Stai bene, Christine?» chiesi. Lei fece per parlare, ma si bloccò subito. «Sta benissimo, amico. È in gamba, stabbene», biascicò Daniel Boudreaux. «Lei stabbene, hai capito? Sono io il perdente qui dentro. Si tratta di me.» «Posso capire che tu sia stanco, Danny», dissi. Sospettavo che entro breve avrebbe sofferto di vertigini e avrebbe perso la concentrazione, mettendosi a biascicare ancora di più. «Già, hai detto giusto. Cos'altro hai indovinato? Quali altri brandelli di saggezza puoi sfoggiare sul mio deludente comportamento?» Bum! Chiuse con un calcio la porta dietro di noi. Sempre più impulsivo.
Ero davvero salito a bordo. Lui stava molto attento a mantenere le distanze, tenendomi la pistola puntata addosso. «So usarla benissimo, figlio di puttana», ribadì, nel caso non avessi afferrato. Mi convinsi ancora di più che si trovava in uno stato estremo di paranoia, agitazione e nervosismo. Si preoccupava molto di come lo vedevo e lo giudicavo. Mi confondeva con suo padre, il papà poliziotto che aveva abbandonato la famiglia. L'avevo appreso da poco, sulla macchina che mi aveva prelevato all'aeroporto, ma dava un senso al suo agire. Rientrava perfettamente nel quadro. Ricordai che quel ragazzo nervoso, inagrissimo e patetico era un assassino. Non mi era difficile odiare un simile maniaco, tuttavia in lui c'era anche qualcosa di tragicamente triste. Daniel Boudreaux era troppo solo e sbandato. «Sono convinto che tu sappia sparare benissimo», mormorai; sapevo che era quello che voleva sentirsi dire. Ti credo. Credo che tu sia un killer freddo e spietato. Credo che tu sia un giovane mostro, probabilmente irrecuperabile. Come faccio a strapparti la pistola di mano? Forse dovrò ucciderti, prima che tu uccida me o Christine Johnson. 100 Osservai la scritta GIOIA E FELICITÀ. Sapevo benissimo da dove veniva. Nickelodeon, un programma televisivo per bambini che piaceva molto a Damon e a Jannie. In un certo senso piaceva anche a me: erano storie ambientate in famiglia, storie che probabilmente facevano infuriare Danny Boudreaux. Il ragazzo mi stava ghignando in faccia, con un'aria da vero maniaco, da matto duro. Poi parlò in tono pacato, come avevo fatto io. Mi imitò alla perfezione, con un istinto acuto e crudele, che mi spaventò di nuovo e mi fece venire voglia di saltargli addosso e fargli saltare le cervella. «Non occorre che parli a bassa voce, non c'è nessuno che dorme qui. Be', a parte George il portiere.» Rise, godendosi la sua folle cattiveria da brivido: era un vero psicopatico. Danny era un killer raccapricciante in carne e ossa, e aveva solo tre-
dici anni. «Stai bene?» chiesi di nuovo a Christine. «No, veramente no», bisbigliò lei. «State zitti, cazzo!» urlò Daniel, puntando la pistola su Christine per poi volgerla di nuovo verso di me. «Quando dico qualcosa, parlo sul serio.» Capii che non sarei riuscito a strappargli la pistola. Dovevo tentare qualcos'altro. Lui pareva vicino al punto di rottura, fin troppo vicino. Decisi di tentare subito una mossa. Mi concentrai sul ragazzo per trovare il suo punto debole. Lo tenni d'occhio senza averne l'aria. Mossi lentamente e deliberatamente un paio di passi verso la finestra del soggiorno, davanti alla quale c'era un antico sgabello africano per la mungitura. Guardai la fila di agenti in giardino, che manteneva le distanze. Vidi gli scudi e i caschi di plexiglas, le uniformi da combattimento, i giubbotti antiproiettile, le pistole ovunque. Dio mio, che spettacolo: e tutto a causa di un ragazzino squilibrato. «Non farti venire strane idee», mi ammonì lui. Ho già una strana idea, piccolo Danny, ho già fatto la mia mossa. Sei già finito, ci crederesti mai? Non sei furbo come credi, piccolo maniaco. «Perché no?» chiesi, ma lui non rispose. Stava per ucciderci, che cosa poteva fare di più? Avevo un ottimo motivo per stare vicino alla finestra: occupavo l'angolo del soggiorno opposto a quello in cui si trovava Christine Johnson. L'ho fatta, ho già fatto la mia mossa. Pareva che Daniel Boudreaux non se ne fosse reso conto. «Che pensi di me adesso?» ghignò. «Come me la cavo in confronto a quei due stronzi di Jack & Jill? Sono meglio del grande Gary Soneji? Puoi dirmi la verità senza rischiare di ferire i miei sentimenti, perché io non ho sentimenti.» «Ti dirò la verità», risposi, «visto che è quello che vuoi. Nessun killer mi ha mai impressionato e non ci riesci nemmeno tu, non in quel senso.» Lui piegò le labbra in una smorfia, scattando: «Sì? Be', nemmeno tu mi impressioni, dottor Cross di merda. Comunque, chi ha la pistola in pugno?» Danny Boudreaux mi fissò intensamente per un lungo istante, gli occhi sbarrati dietro le lenti, le pupille ridotte a due puntini scurissimi. Sembrò sul punto di spararmi. Con il cuore che andava a mille, guardai verso Christine Johnson.
«Devo ucciderti, lo sai», disse il ragazzino, assumendo all'improvviso un tono annoiato e quanto mai sconcertante. «Tu e Christine dovete sparire dalla faccia della terra.» Puntò gli occhi su Christine. «Puttana nera! Sei anche viscida e autoritaria. Non mi sono dimenticato di come mi hai trattato in quella tua stupida scuola, di come hai osato mancarmi di rispetto!» tuonò. «Non è vero», disse lei, aggiungendo subito: «Cercavo solo di proteggere i bambini in cortile, non avevo niente a che fare con te. Non avevo idea di chi fossi, come avrei potuto saperlo?» Lui batté forte per terra il piede calzato in uno stivaletto nero. Era impaziente e spietato. Era un piccolo stronzo meschino in tutti i sensi. «Non dirmi quello che so benissimo, cazzo! Non puoi dire quello che penso! Non puoi entrarmi nella testa! Non può farlo nessuno.» «Perché ritieni di dover uccidere ancora?» Lui mi fulminò di nuovo con lo sguardo, puntandomi addosso la pistola. «Non fare lo strizzacervelli, cazzo! Non osare!» «Non lo farei mai», risposi, scuotendo la testa. «A nessuno piacciono le menzogne e la gente che fa sporchi trucchi. A me sicuramente no.» A un tratto lui puntò la Smith & Wesson su Christine. «Ti devo uccidere perché... mi piace.» Scoppiò di nuovo in una risata gracchiante, mettendosi nel contempo ad ansimare come un maniaco. Christine Johnson intuì quello che stava per succedere: sapeva di dover fare qualcosa prima che Danny Boudreaux esplodesse. Il ragazzo si voltò di nuovo verso di me, ondeggiando i fianchi, come se volesse pavoneggiarsi. Si osserva mentre recita la sua parte, compresi a un tratto. Si osserva e si piace. «Hai cercato di ingannarmi», disse. «Ecco perché usi quel tono calmo. Vai indietro, così non mi sembrerai tanto grosso e minaccioso. Vedo benissimo attraverso di te.» «Hai ragione», risposi, «ma non del tutto. Ti ho parlato in questo modo, in tono calmo, solo per distraiti da quello che stavo facendo. Ti sei fregato da solo, hai appena perso, piccolo idiota, figlio di puttana!» 101 «Non puoi sparare a tutti e due», feci sapere a Danny Boudreaux. Avevo parlato in tono chiaro e fermo, mettendomi di profilo rispetto a lui, per fornirgli un bersaglio meno esteso.
Mossi un altro passo, allontanandomi ulteriormente da Christine Johnson. «Che cazzo vuoi dire? Di cosa parli, Cross? Rispondimi! Esigo che mi rispondi, Cross!» Invece non gli risposi: lasciai che ci arrivasse da solo. Ce l'avrebbe fatta: era un ragazzo intelligente. Daniel Boudreaux mi fissò, poi spostò rapido lo sguardo su Christine. Aveva ricevuto il messaggio e finalmente scorse la trappola. I suoi occhi sembrarono penetrarmi nel cranio: capì quello che avevo fatto. Se avesse sparato a uno dei due, l'altro gli sarebbe saltato addosso, sottraendogli l'ultimo sprazzo di gloria. «Sei un pezzo di merda», grugnì in tono basso e minaccioso. «Sarai tu il primo!» Levò la Smith & Wesson e io lo fissai oltre la canna della pistola. «Parlami, bastardo!» «Basta!» gridò Christine dall'altra parte della sala. «Hai ucciso abbastanza», disse poi a Daniel Boudreaux. Il ragazzo cominciava a farsi prendere dal panico: i suoi occhi spiritati ci fissavano e parevano sporgere dalla testa che oscillava come se fosse avvitata su un perno. «No, non ho ancora ammazzato abbastanza inutili robot! Ho appena cominciato!» Puntò la Smith & Wesson su Christine, le braccia tese davanti a sé, il corpo che tremava e ondeggiava. «Danny!» urlai, facendo per balzargli addosso. Lui esitò solo un attimo, poi sparò. Il colpo esplose, assordante. Aveva sparato a Christine! Lei si era buttata di lato, ma non capii se fosse riuscita a evitarlo. Ormai volavo. Danny Boudreaux voltò la semiautomatica verso di me, gli occhi colmi di terrore e di un odio profondo, il corpo scosso dalla rabbia, dalla paura e dalla disperazione. Forse poteva farci fuori tutti e due. Mi mossi molto più rapido di quanto avessi mai pensato; in un lampo, un adulto massiccio si abbatté su Danny Boudreaux. Lo schiacciai con tutto il mio peso e quel contatto mi piacque. Ci ritrovammo a terra, avvinghiati. Il revolver tuonò di nuovo: non provai nessun dolore lacerante, ma sentii in bocca il sapore del sangue. Il ragazzo lanciò il suo grido acuto, un grido di dolore! Gli strappai di mano la pistola. Lui cercò di mordermi a sangue, poi emise un forte gemi-
to. Stava avendo una crisi epilettica, probabilmente a causa della mancata assunzione della medicina. L'eccessiva attività cerebrale si stava scaricando nel corpo. Agitava braccia e gambe. Levò di scatto il bacino, sbattendolo contro la mia gamba. Poi gli occhi si rovesciarono all'indietro e lui s'immobilizzò all'improvviso, con la bava alla bocca. Probabilmente perse conoscenza per un paio di secondi, mentre continuava a emettere suoni soffocati. Lo girai sul fianco. Aveva le labbra bluastre. Prese a battere le palpebre. La crisi se ne stava andando, rapida com'era venuta. Rimase sdraiato a terra, un misero mucchietto umano di malignità. La polizia aveva sentito gli spari e il soggiorno pullulava già di uomini armati di mitragliette e pistole. Si sentivano grida e le radio gracchiavano. Christine Johnson, insieme a due infermieri, si diresse verso il marito. Quando guardai di nuovo, Christine era inginocchiata accanto a me. Non sembrava ferita. «Stai bene, Alex?» mi chiese in un bisbiglio roco. Stavo ancora tenendo a terra Danny Boudreaux, che pareva non capire nulla della situazione. Era ricoperto da un sudore freddo e viscido. Il killer della Truth School sembrava molto triste, perso, insostenibilmente confuso. Tredici anni e cinque omicidi. Forse di più. «Una crisi epilettica?» mi chiese Christine. Annuii. «Credo di sì, forse è stata l'eccessiva eccitazione.» Danny Boudreaux stava cercando di dire qualcosa, ma io non riuscivo a sentirlo. Sputacchiò ancora la sua bava bianca. «Cos'hai detto? Che c'è?» domandai con voce roca, la gola che mi faceva male. Tremavo ed ero coperto anch'io di sudore. Rispose con voce flebile, come se dentro di lui non ci fosse più nessuno. «Ho paura», disse. «Non so dove sono. Ho sempre tanta paura.» Annuii verso il faccino terrorizzato che mi fissava. «Lo so», dissi al giovane killer. «So che cosa provi.» Era il fatto più spaventoso di tutti. 102 Lo sbranamostri è ancora vivo, ma quante vite gli sono rimaste? Perché continuavo a rischiare in quel modo? Medico, cura te stesso. Rimasi in casa Johnson per più di un'ora, finché il giovane Boudreaux e il cadavere di George Johnson non furono portati via. Dovevo fare qualche
domanda a Christine per stendere il mio rapporto. Poi chiamai casa e parlai con Nana, pregandola di andare a letto: ero sano e tutto sommato anche salvo. Almeno per quella notte. «Ti voglio bene, Alex», bisbigliò lei nell'apparecchio. Pareva distrutta quanto me. «Ti voglio bene anch'io», risposi. Quella notte, miracolo dei miracoli, Nana mi lasciò l'ultima parola. Finalmente la folla di curiosi sgombrò Summer Street. Se ne andarono perfino i giornalisti e i fotografi più tenaci. Era arrivata una sorella di Christine Johnson, per starle vicino in quel momento terribile. Io l'abbracciai prima di andarmene. Tremava ancora: aveva subito una perdita orribile ed era stata una notte d'inferno per entrambi. «Non sento niente, è tutto così irreale», mi disse. «So che non è un incubo, eppure continuo a pensare che lo sia.» Sampson mi accompagnò a casa all'una del mattino. Mi pareva di non avere più le palpebre e il cervello, ancora frastornato e iperattivo, continuava a galoppare a un milione di chilometri all'ora. Dove stava andando il nostro mondo? Dove poteva andare martoriato com'era da persone come il mio Gary Soneji o come Theodore Bundy, che aveva ucciso quattordici donne soltanto perché gli ricordavano l'ex fidanzata, o come David Koresh, il folle autore della strage di Waco, in cui erano morte ottanta persone, oppure come Timothy McVeigh, il responsabile della bomba a Oklahoma City? Una volta qualcuno aveva chiesto a Gandhi che cosa pensasse della civiltà occidentale e lui aveva risposto: «Credo che potrebbe essere una buona idea». Io non piango molto, non posso. Lo stesso vale per un mucchio di poliziotti di mia conoscenza. A volte vorrei riuscire a piangere, sfogarmi, lasciar uscire paura e livore, ma non è facile. Qualcosa si è bloccato dentro. Entrato in casa, feci per salire in camera, ma poi mi sedetti sui gradini. Provai a piangere. Invano. Pensai a mia moglie Maria, uccisa qualche anno prima in uno scontro a fuoco per strada. Maria e io andavamo molto d'accordo e non lo pensavo solo perché il ricordo aveva smussato i contorni del nostro rapporto. Sapevo come può essere bello l'amore, sapevo che era la cosa migliore che avessi avuto in vita mia, eppure eccomi da solo. E continuavo a rischiare la vita e a dire a tutti che stavo bene, ma non era vero. Non so quanto a lungo rimasi seduto al buio con i miei pensieri: forse dieci minuti, forse molto di più. Il silenzio della casa era familiare e con-
fortante, ma quella notte nulla poteva consolarmi. Ascoltai i rumori che sentivo da anni. Ricordai quand'ero bambino, con Nana, e mi chiedevo che cosa sarei diventato. Adesso conoscevo la risposta a quella domanda. Ero diventato un esperto di serial killer, un uomo cui venivano affidati i casi più orribili e pericolosi. Ero diventato lo sbranamostri. Finalmente salii gli ultimi gradini e mi fermai in camera di Damon e Jannie. Erano profondamente addormentati. Mi piace come dormono Damon e Jannie: i miei piccoli si abbandonano al sonno fiduciosi e innocenti. Posso stare a guardarli a lungo, anche per un'intera notte d'incubo come quella. Non so quante volte sono rimasto a scrutarli dalla soglia. Certe notti sono loro a spronarmi a continuare, a impedirmi di infrangermi in mille pezzi. Se n'erano andati a dormire con addosso gli occhiali da sole a forma di cuoricino usati dai ragazzi del complesso degli Innocence. Erano carini da matti. E preziosi. Sedetti sul bordo del letto di Jannie. Mi tolsi piano gli stivali e li posai per terra senza fare il minimo rumore. Poi mi sdraiai ai piedi dei loro lettini, sentendo scricchiolare le ossa. Volevo stare vicino ai miei bambini, ai miei due bambini, per poterci salvare tutti. Non mi pareva di chiedere molto alla vita, non era una ricompensa troppo grossa per la giornata che avevo appena vissuto. Sfiorai con un bacio la suola di gomma dei piedi della tutina di Jannie. Posai una mano su una gamba nuda di Damon. E finalmente chiusi gli occhi, cercando di scacciare le immagini di assassini e delitti, ma non ci riuscii. Quella notte i mostri erano ovunque, mi circondavano. Sono tanti, sono ondate che arrivano una dopo l'altra. Giovani e vecchi, di ogni età. Da dove sono sbucati? Chi li ha creati? Sdraiato accanto ai miei due bambini, alla fine mi addormentai, riuscii per qualche ora a dimenticare la cosa più orribile di tutte, il motivo per cui ero così addolorato e sconvolto. Avevo sentito la notizia prima di uscire da casa Johnson. Il presidente Thomas Byrnes era morto nelle prime ore del mattino. 103 Stringevo teneramente fra le braccia la gattina Rosie. Avevo aperto la porta della cucina. Fuori c'era Sampson.
Se ne stava in piedi sotto la pioggia gelida. Pareva un gran masso nero sotto il temporale, ma forse era addirittura grandine quella che affrontava tanto stoicamente. «L'incubo continua», annunciò. Era una semplice dichiarazione. Devastante. «Già, vero? Ma forse non me ne importa più niente.» «Oh, oh, e forse quest'anno i Bullets vinceranno L'NBA e i Redskins il Super Bowl. Non si sa mai.» Era passato un giorno dalla lunga notte in casa Johnson e dall'ancora più lunga mattinata a New York. Non avevo avuto assolutamente il tempo di sanare le ferite e di piangere i miei morti. Il giorno prima il vicepresidente Edward Mahoney aveva prestato giuramento: lo richiedeva la legge, eppure a me pareva quasi un'indecenza. Indossavo un paio di calzoni da tuta e una T-shirt bianca; i miei piedi nudi erano posati sul freddo pavimento di linoleum. Avevo in mano la caffettiera fumante. Vivevo tranquillo la mia convalescenza. Non mi ero lavato i baffi: così dice Jannie quando non mi rado. Mi sentivo quasi umano. Ma non avevo ancora invitato Sampson a entrare. «Buongiorno, bello», ribadì lui, poi sollevò il labbro superiore mostrandomi i denti, in un sorriso brutalmente gioioso. Finì che dovetti sorridere anch'io all'amico comparso sulla soglia di casa mia. Erano passate da poco le nove e mi ero appena alzato, insolitamente tardi per me. Secondo Nana era un comportamento vergognoso. Mi sentivo ancora in debito di sonno, sotto shock e in pericolo di perdere il poco sale che m'era rimasto in zucca, però stavo anche meglio. E purtroppo esteriormente avevo l'aria di stare benissimo. «Non mi dici nemmeno buongiorno?» indagò Sampson, fingendosi offeso. «Buongiorno, John. Non voglio saperlo», risposi. «Qualunque sia il motivo che ti ha portato qui in questo freddo e desolato mattino, non lo voglio conoscere.» «È la prima cosa intelligente che sento sulla tua bocca da anni», osservò Sampson, «ma temo di non crederci. In realtà vuoi sapere tutto. Hai bisogno di sapere tutto, Alex. Ecco perché leggi quattro quotidiani tutte le dannate mattine.» «Non voglio saperlo nemmeno io», venne in mio soccorso la voce di Nana, dalla cucina. Naturalmente lei era alzata da ore. «Non ho alcun bisogno di saperlo. Quindi vattene, involati, sciogliti come ghiaccio. Vai a
farti una bella passeggiata, piccolo Johnny.» «Abbiamo tempo per la colazione?» chiesi. «Veramente no», rispose lui, attento a non far spegnere il sorriso, «ma facciamola lo stesso. Chi potrebbe resistere?» «È stato lui a invitarti, non io», precisò Nana da sopra i fornelli. Lo stava prendendo in giro. Gli vuole bene come se fosse suo figlio e mio fratello maggiore. Ci preparò uova strapazzate, salsicce, patate fritte e toast. Cucina bene e non le sarebbe difficile nutrire l'intera squadra dei Redskins. No, non sarebbe affatto un problema per Nana. Sampson aspettò che avessimo finito la colazione prima di tornare all'argomento. Parrà strano... ma quando la tua vita è piena di omicidi e altre tragedie, devi imparare a prenderti un po' di tempo per te stesso, tanto gli omicidi sono sempre lì che aspettano. «Poco fa mi ha chiamato il tuo Mr Grayer», annunciò, versandosi la terza tazza di caffè. «Ha detto di lasciarti pure a riposo per un paio di giorni che se la caveranno da soli. L'FBI è come quel vecchio film dell'orrore che ci spaventava a morte da bambini.» «Quello che hai appena detto mi spaventa a morte anche adesso e mi colma di sospetti. Se la caveranno a far che?» chiesi. Stavo finendo la mia colazione, che era davvero paradisiaca, e avevo ancora in mano un mezzo panino fatto in casa. Nana asserisce di aver rubato le sue ricette direttamente in paradiso e io tendo a crederle: ne ho visto e assaggiato la prova. Sampson sospirò e lanciò un'occhiata all'orologio, il Bulova che gli aveva regalato il padre quando aveva compiuto quattordici anni. «In questo momento stanno perquisendo l'ufficio di Jill alla Casa Bianca, poi andranno nel suo appartamento in Twenty-fourth Street. Vuoi venire anche tu, come mio ospite? Nel caso, mi sono procurato un pass per te.» Certo che volevo. Dovevo. Avevo un bisogno pazzesco di sapere tutto su Jill, proprio come aveva detto Sampson. «Sei il diavolo in persona», sibilò Nana al mio amico. «Grazie, Nana», fece lui, sorridendo con gli occhi e con i suoi mille denti. «Ma veramente esageri.» 104 Andammo fino all'appartamento di Sara Rosen sulla veloce Nissan nera di Sampson. La colazione di Nana era almeno servita a calarmi di nuovo
nella realtà. Mi sentivo in parte vivificato: se non emotivamente, almeno fisicamente. Ero molto curioso di visitare la casa di Jill. Volevo vedere anche il suo ufficio alla Casa Bianca, ma immaginavo che quello potesse aspettare un paio di giorni. Invece la casa aveva un'attrattiva irresistibile, sia per il detective sia per lo psicologo. Sara Rosen viveva in un edificio a dieci piani all'angolo tra Twentyfourth Street e K Street. Nell'ingresso c'era un «capitano» in divisa che, esaminati i nostri tesserini di poliziotti, ci lasciò procedere, riluttante. Era un atrio luminoso, con la moquette e un mucchio di piante. Non era certo il tipo di casa in cui ci si sarebbe aspettati di trovare un assassino. Eppure Jill aveva vissuto lì, no? In realtà l'appartamento rispecchiava il profilo che avevamo di Sara Rosen, figlia unica di un colonnello dell'esercito e di una insegnante d'inglese. Era cresciuta ad Aberdeen, nel Maryland, poi aveva frequentato l'Hollins College in Virginia, laureandosi con lode in storia e in inglese. Era venuta a Washington sedici anni prima, quando ne aveva ventuno. Non si era mai sposata, anche se aveva avuto parecchie relazioni. Parte del personale addetto all'ufficio stampa della Casa Bianca la chiamava «la sexy-zitella». Il suo appartamento si trovava al quinto piano. Era luminoso e dava su un cortile interno. L'FBI era già arrivata e lo stereo diffondeva a basso volume le note di Chopin. C'era un'atmosfera rilassata, quasi piacevole, alla al-diavolo-tutto-ormai-è-finita. In fondo il caso era chiuso. Sampson e io passammo le ore seguenti a cercare con i tecnici dell'FBI qualunque indizio rivelatore su Sara Rosen. Jill aveva vissuto proprio fra quelle mura. Chi diavolo eri, Jill? Come ti è potuta capitare una cosa del genere? Cos'è successo, Jill? Parlaci. Hai voglia di parlare, sei cosi sola. Nell'appartamento c'era un'unica camera da letto con un piccolo studio di cui esaminammo ogni centimetro quadrato: la donna che aveva vissuto fra quelle mura era stata complice dell'omicidio del presidente Thomas Byrnes. Lo studio era stato usato per il montaggio dei loro film e ormai aveva un'importanza storica. Finché quell'edificio fosse rimasto in piedi, la gente l'avrebbe indicato dicendo: «Ecco dove viveva Jill». I mobili che Sara Rosen aveva acquistato erano in stile country, sebbene del tutto anonimi. Inoltre si era circondata degli orpelli tipici della classe media: il divano e la poltrona erano ricoperti da un tessuto di cotone pettinato. I mobili portavano ancora l'etichetta: Mastercraft Interiors, Colony
House di Arlington. Tutte le stanze avevano colori freddi e sobri. In quella di Jill prevaleva l'avorio, c'era un tappeto dal disegno geometrico blu ghiaccio e un armadio di pino chiaro. Incorniciati alle pareti si scorgevano numerosi biglietti d'auguri natalizi e lettere da parte di esponenti della Casa Bianca: l'attuale segretario dell'ufficio stampa, il capo del personale, perfino due righe di Nancy Reagan. Non c'erano foto di nessuno dei «nemici» che mi aveva menzionato il presidente Byrnes. Ma in realtà Sara Rosen era una cacciatrice di celebrità, no? Jack rappresentava una celebrità per lei? Kevin Hawkins era veramente Jack? Parlaci, Jill, so che vuoi parlarci. Raccontaci cos'è successo veramente. Dacci un indizio. Sul piccolo scrittoio con alzata avvolgibile erano posate buste della Heritage Foundation e del Cato Institute, due organizzazioni dalle tendenze reazionarie. C'erano anche parecchie copie di U.S. News & World Report, Southern Living e Gourmet. Inoltre trovammo inviti a letture di poesia da Chapters, in K Street, e a conferenze politiche, dépliant su spettacoli di prosa e biglietti da visita di varie librerie nella zona di Washington. Era Jill la poetessa? Una poesia ritagliata da un libro era stata appesa al muro davanti allo scrittoio. Spaventoso - essere - Qualcuno! Come una Rana - per tutto giugno dover dire il proprio nome a una Palude in adorazione! EMILY DICKINSON A quanto pareva, Emily Dickinson aveva nutrito la stessa opinione di Jack & Jill nei confronti dei personaggi famosi. Le pareti dello studio e della camera da letto erano tappezzate di libri, completamente scaffalate: romanzi, saggi, poesia. Roba da intellettuale e roba più modesta. Jill la lettrice. Jill la solitaria. Jill la sexy-zitella. Chi sei, Jill? Chi sei, Sara Rosen? In anticamera, una frase incorniciata forniva la prova che Jill possedeva perfino un certo senso dell'umorismo: fatti una schitarrata e finisci in galera, è la legge. Chi sei, Sara-Jill?
Qualcuno si è mai veramente curato di te prima di oggi? Perché hai aiutato a commettere questo crimine orribile? Ne valeva la pena? Valeva la pena di morire in questo modo, sola e zitella? Chi ti ha uccisa, Jill? È stato Jack? Se avessi trovato un indiscutibile frammento di verità, solo uno, tutto il resto sarebbe seguito e finalmente avremmo compreso. Mi ostinavo a credere che potesse andare in quel modo. Osservai con cura il guardaroba di Jill. Trovai una serie di tailleur scuri, da ufficio, con etichette Brooks Brothers e Ann Taylor. Scarpe basse, scarpe da tennis e abiti casual. C'erano anche parecchie tute da jogging. Invece scarseggiavano gli abiti da sera. Chi eri, Sara? Andai a caccia di doppi muri, di pulsanti nascosti, frugai ogni angolo in cui avesse potuto infilare un biglietto, qualunque cosa potesse aiutarci a chiudere per sempre il caso, o a spalancarlo. Forza, Sara, facci entrare nella tua vita segreta, dicci chi eri veramente. Che cosa ti teneva viva, Sara? Chi eri, Sara? La sexy-zitella? Tu vuoi che lo scopriamo, lo so. Sei ancora in questo appartamento, lo sento. Sento la tua solitudine ovunque posi lo sguardo. Tu vuoi farci scoprire qualcosa. Che cosa, Sara? Dacci ancora una poesia. Soltanto una. Sampson arrivò alle mie spalle mentre fissavo il cortile da una finestra della camera da letto. Stavo pensando a tutte le possibilità del caso. «L'hai già risolto? Hai immaginato tutto?» «Non ancora. Ma c'è qualcosa, ne sono certo. Fammi passare qui dentro un paio di giorni.» L'idea gli strappò un grugnito, cui io feci eco, ma sapevo che sarei tornato in quella casa: Sara Rosen aveva lasciato qualcosa perché ci ricordassimo di lei, ne ero quasi certo. Jill la poetessa. 105 Forse avevo soltanto un penchant per le storie criminali... comunque il mattino seguente tornai da solo a casa di Sara Rosen. Alle otto ero già lì, prima di chiunque altro. Girai avanti e indietro per il piccolo appartamento, attingendo da una scatola aperta di Nutri-Grain. C'era qualcosa che non quadrava nella sexy-zitella e nel suo nascondi-
glio, me lo dicevano l'istinto da detective e l'intuito da strizzacervelli. Per quasi un'ora rimasi seduto davanti alla finestra che dava su K Street a fissare il manifesto appeso accanto alla fermata dell'autobus, che pubblicizzava un profumo di Calvin Klein: Escape. La modella del poster aveva un'aria incredibilmente triste e afflitta. Come Jill? Qualcuno le aveva disegnato un fumetto sopra la testa: «Per favore, datemi da mangiare». Che cosa dava nutrimento a Sara Rosen? mi chiesi. Qual era il suo segreto? Che cosa l'aveva spinta a uccidere personaggi famosi... o qualunque altra cosa avesse fatto prima di venire a sua volta ammazzata al Peninsula Hotel? Era morta a New York Che rapporto aveva con Jack? Com'era andata veramente la storia? Quale segreto non era ancora stato rivelato? Cominciai dai libri. I volumi dominavano ogni stanza dell'appartamento, perfino la cucina. Sara era stata una lettrice vorace, in particolare di letteratura e storia, soprattutto americana. Sara l'intellettuale, Sara la brava ragazza con il cervello. Diplomazia di Henry Kissinger, Alla corte di Reagan di Alexander Haig, Kissinger di Walter Isaacson, e così via. Romanzi di Anne Tyler, Robertson Davies, Annie Proulx, ma anche di Robert Ludlum e John Grisham. Poesie di Emily Dickinson, Sylvia Plath, Anne Sexton. Un volume intitolato Donna sola. Aprii ogni libro e lo scossi con cura: erano più di mille, forse duemila. Un mucchio di volumi da esaminare. In alcuni trovai appunti scritti a mano, note stese da Sara. Li lessi tutti. Le ore passavano, i pasti saltavano, ma non me ne importava niente. All'interno di una biografia su Napoleone e Giuseppina, Sara Rosen aveva annotato: «N. considerava l'intelligenza in una donna un'aberrazione. Accarezzava in pubblico il seno di G. Sporcaccione. Ma G. ebbe quello che si meritava. Troia». Jill la poetessa, Jill l'amante dei libri. Jill la donna del mistero, l'enigma. L'assassina. Nello studio c'erano anche parecchie videocassette; cominciai ad aprire ogni contenitore. La collezione cinematografica di Sara Rosen comprendeva notissime storie d'amore e thriller, più o meno sentimentali: Il principe delle maree, Senza via di scampo, Rivelazioni, la trilogia del Padrino, Via col vento, Ufficiale e gentiluomo. Le piacevano anche i vecchi film, soprattutto i gialli tratti da Raymond Chandler e da James Cain, ma anche quelli di Hitchcock.
Aprii ogni singola cassetta, fila dopo fila. Lo ritenevo importante, soprattutto nel caso di una persona ordinata come Sara. Se ci fosse stato anche Sampson, avrebbe continuato a brontolare, dicendomi che ero più pazzo di Jack & Jill. Arrivai così a Notorius di Hitchcock. Non ricordavo di averlo mai visto, ma sulla copertina della cassetta era raffigurato uno degli attori preferiti dal regista, Cary Grant. All'interno però c'era un video senza etichetta. Incuriosito, lo inserii nel videoregistratore. Era il quarto o quinto che visionavo fino a quel momento. Non era Notorius. Davanti ai miei occhi prese a dipanarsi l'omicidio del senatore Daniel Fitzpatrick. Sembrava la versione pre-montaggio del film ed era notevolmente più lunga di quella spedita alla CNN. La parte censurata era ancora più orrida del filmato che avevamo visto negli studi della rete televisiva. La paura nella voce del senatore Fitzpatrick era tangibile: implorava i suoi assassini di risparmiargli la vita, poi scoppiava a piangere forte. Tutta questa parte era stata accuratamente tagliata nel nastro inviato alla CNN, perché era troppo forte, brutale oltre il credibile: poneva Jack & Jill nella peggior luce immaginabile. Erano killer feroci, che uccidevano senza pietà, senza emozione, senza un briciolo di umanità. Premetti il pulsante dello STOP. Tombola! L'inquadratura che stavo esaminando era partita dal senatore Fitzpatrick per allargarsi notevolmente, forse più del voluto. Il nastro mostrava Jack nell'atto di premere per la seconda volta il grilletto. Il killer non era Kevin Hawkins! Mi chiesi se Jill avesse lasciato apposta quel nastro. Aveva sospettato di poter essere tradita? Era la sua vendetta? Pensai che fosse probabile: Jill aveva inculato Jack, dritto dall'inferno. Studiai il fermo immagine che rivelava il vero Jack: aveva capelli corti e chiari. Era un bell'uomo, sui quaranta. Non tradiva la minima emozione nel premere il grilletto. «Jack», bisbigliai. «Finalmente ti abbiamo trovato, Jack.» 106
L'FBI, i servizi segreti e la polizia di Washington collaborarono strettamente alla massiccia caccia all'uomo. Avevano tutti una gran voglia di prenderlo. Era un caso di omicidio assolutamente prioritario: era stato ucciso un presidente e il vero killer si trovava ancora in libertà. Jack era ancora vivo, o almeno io speravo che lo fosse. Lo era! Nelle prime ore del mattino del 20 dicembre mi ritrovai a osservare Jack attraverso un binocolo. Non riuscivo a staccare gli occhi dal killer, dall'organizzatore di quella serie di omicidi. Avevo voglia di farlo fuori, per puro gusto personale, ma bisognava attendere. Era stato Jay Grayer a decidere il piano per la cattura e quello era il suo giorno di gloria. Jack stava uscendo da una casa a due piani in stile coloniale, diretto verso la Ford Bronco rossa parcheggiata sul vialetto circolare. Ormai sapevamo chi era e dove viveva, conoscevamo quasi tutto di lui. Ormai avevamo capito molte più cose su Jack & Jill. Avevamo spalancato gli occhi. «Ecco Jack, il nostro ragazzo», disse Jay Grayer. «Non ha l'aria dell'assassino, vero?» feci io. «Eppure è stato lui, ha sparato lui in persona. Ha ammazzato un sacco di gente, compresa Jill.» Jack teneva per mano un bambino e una bambina. Bei ragazzini. Sapevo che si chiamavano Alix e Artie. La famigliola era seguita dai due cani: Shepherd e Wise Man, un cane da riporto nero di dieci anni e un giovane collie giocherellone. I figli di Jack. I cani di Jack. La bella casa nel sobborgo residenziale di Jack. Jack & Jill sono venuti sulla Collina... per uccidere il presidente. Poi Jack aveva ucciso anche la sua complice e amante, Jill. Aveva ammazzato Sara Rosen a sangue freddo. Jack pensava di averla fatta franca, di esserne uscito libero e pulito. Il suo piano era quasi perfetto, ma ormai gli eravamo alle calcagna. Vedevo Jack. Tutti noi lo vedevamo. Pareva, sotto ogni punto di vista, un papà classico e perfetto. Indossava una giacca a vento che, nonostante il freddo, era aperta e sotto la quale si scorgevano una camicia di flanella scozzese azzurra e un paio di jeans slavati. Scarpe di pelle marrone e calzini di lana grigi. Aveva i capelli corti, stile militare, ma erano castano chiaro. Era un gran bell'uomo, trentanove anni: era l'assassino del presidente, il killer a sangue
freddo di numerosi nemici politici. Un cospiratore. Un traditore a livello mondiale. Era anche un vero bastardo senza cuore. È il classico killer americano, pensai osservandolo al comando della sua obbediente truppa di cani e bambini. Era un assassino quasi perfetto: padre, marito, persona socialmente integerrima. Appariva assolutamente al di sopra di ogni sospetto. Aveva perfino i suoi alibi, anche se non avrebbero tenuto davanti alle immagini dell'assassinio del senatore Fitzpatrick. Era il vero sciacallo della nostra epoca, del nostro Paese, del nostro ingenuo e pericolosissimo stile di vita. Mi chiesi se avesse seguito in TV il funerale del presidente o se ci avesse magari partecipato, come avevo fatto io. «È proprio uno stronzo, vero?» commentò Jay Grayer, seduto accanto a me sul sedile anteriore dell'automobile. Quel giorno non aveva parlato granché: aveva soltanto una voglia matta di prendere Jack, di colpirlo. Era quello che stavamo per fare: sarebbe diventata una mattina memorabile per tutti noi. Stavamo per saldare i conti. «Preparatevi a seguirlo», ordinò Grayer nel microfono dell'auto. «Se per caso qualcuno lo perde, prosegua semplicemente, in qualunque direzione stia andando.» «Non lo perderemo. Non credo nemmeno che lui andrà forte», ribattei. «È un bravo ragazzo, il nostro Jack, un bravo papà, con il suo bel ruolo sociale.» In che strano Paese viviamo; pieno di assassini, di mostri e di gente onesta che ne diventa preda. «Probabilmente hai ragione, Alex. L'abbiamo individuato eppure non ci arrivo ancora, non lo capisco del tutto, ma credo tu abbia ragione. L'abbiamo inchiodato, ma cosa ci ritroviamo davvero fra le mani? Che cosa l'ha mosso? Perché l'ha fatto?» «I soldi», dissi, spiegando la mia teoria su Jack. «Prova a mettere in cima a tutto i soldi e ogni cosa si semplifica. Un po' di politica, un po' di dedizione alla causa e un mucchio di soldi. Un fine ideologico ed economico, difficile da combattere in quest'epoca venale.» «Credi?» «Sì, ci scommetterei pure. Jack è fortemente convinto di alcune cose e una di queste è che lui e la sua famiglia meritano di vivere bene. Sono si-
curo che i soldi siano stati il movente principale degli omicidi. È anche probabile che lui frequenti gente ricca e potente, e che vorrebbe esserlo molto di più.» La Bronco partì e noi la seguimmo a una certa distanza. Jack ci teneva ai suoi preziosi marmocchi e guidava con prudenza. Doveva essere un tipo rispettato e adorato dai figli e forse perfino dai cani, sicuramente dai vicini. Jack lo Sciacallo... mi chiesi se fosse un altro gioco di parole di Sara Rosen. Mi chiesi quale fosse stato l'ultimo pensiero di Jill quando il suo amante l'aveva tradita, a New York. Se l'era aspettato? Aveva intuito che sarebbe stata tradita? Era quello il motivo per cui aveva lasciato quel nastro incriminante nel suo appartamento? Jay aveva voglia di parlare, forse desiderava tenere la mente occupata. «Li sta portando a scuola. La sua vita è tornata normale, non è successo niente che potesse mutarla. Ha semplicemente architettato un piano per uccidere il presidente e dato una mano per eseguirlo. Tutto qui, niente di grandioso. La vita continua.» «Dai documenti risulta che è stato un soldato di prim'ordine. Ha lasciato l'esercito con il grado di colonnello e con un congedo d'onore, dopo aver partecipato all'operazione Desert Storm», mormorai. «Jack è un eroe di guerra. Questo fatto mi colpisce così profondamente che non so nemmeno come definire il mio stupore. Forse lo descriverò a lui.» Jack era ufficialmente un eroe di guerra. Jack era, ufficiosamente, un patriota. Mentre lo seguivamo, mi ricordai l'iscrizione sulla tomba del milite ignoto al cimitero nazionale di Arlington. Qui riposa in onorata gloria un soldato americano noto soltanto a Dio. Pensai che forse Jack vedeva se stesso in quel modo: un eroe-soldato noto soltanto a Dio. Probabilmente era convinto di essersela cavata dopo tutti quegli omicidi e dopo essersi battuto... in una guerra giusta. Be', non era così, stava per essere preso. Lasciò i due bambini alla Bayard-Wellington School, un bell'edificio dalle mura di pietra e circondato da prati; il tipo di scuola in cui mi sarebbe piaciuto mandare Damon e Jannie; il tipo di scuola in cui avrebbe dovuto insegnare Christine Johnson. Potrei andarmene via da Washington, certo, mi dissi osservando Jack dare un bacio di saluto ai due figli.
E allora perché non te ne vai? Perché non porti Damon e Jannie lontano da Fifth Street? Perché non fai le stesse cose che fa per i suoi figli quel marcio pezzo di merda? Jay Grayer parlò di nuovo nel microfono che teneva in mano. «Sta lasciando la Bayard-Wellington School, torna sulla strada principale. Lo fermiamo al primo semaforo! Una sola cosa è fondamentale: dobbiamo prenderlo vivo! Abbiamo quattro auto a disposizione e lo prenderemo vivo.» «Hai il diritto di non parlare», declamai. «Che cazzo stai dicendo?» disse Jay Grayer, voltandosi verso di me. «Una delle cose da non dirgli. Jack non ha nessun diritto. È finito.» Grayer si concesse un sorrisetto forzato. Sapevamo tutti e due il perché: stava per arrivare il bello, l'unica parte buona in tutta quella storia. «Roba da diventare famosi, eh? Eccoci qui: andiamo a prendere quel figlio di puttana.» «Certo, ho anch'io una gran voglia di fare una lunga chiacchierata con Jack.» Voglio farlo tornare a Washington a forza di calci in culo. Voglio conoscere il vero Jack. 107 Fino a quel momento nessuno aveva svelato il complotto per l'assassinio del presidente, nessuno ci si era nemmeno avvicinato. Il mistero sull'identità di Jack & Jill era stato risolto quand'era ormai troppo tardi, ma forse stavamo per mettere in chiaro tutta la trama. Una bella retrospettiva su Jack & Jill. Mancavano meno di cento metri alla cattura di Jack, che stava scendendo la collina verso il semaforo. Era una scena molto pittoresca, da film hollywoodiano. Il semaforo diventò rosso e Jack si fermò, da bravo cittadino rispettoso delle leggi, senza pesi sulla coscienza. Un uomo libero. Jay Grayer e io frenammo dietro il suo fuoristrada. La Bronco aveva un adesivo sul paraurti posteriore: TENETE LONTANI I RAGAZZI DALLA DROGA. Trappola per orsi era il nome in codice della nostra operazione. Avevamo a disposizione quattro veicoli, oltre a una mezza dozzina di altre macchine e a due elicotteri che ci seguivano a distanza. Non vedevo come Jack
potesse sfuggirci e pensavo già alle numerose conseguenze derivanti dalla sua cattura e alle sorprese ancor più sconvolgenti che probabilmente ci aspettavano. C'era di peggio, di molto peggio da scoprire. «Lo prendiamo in tre», disse Jay Grayer nel microfono. Il tono era gelido, da consumato professionista qual era. Mi piaceva enormemente lavorare con lui: non aveva il culto della propria personalità, era bravo nel suo lavoro e basta. «Lo prenderemo molto facilmente», aggiunse. La trappola per l'orso era pronta a scattare. Io ero uno dei sei che dovevano saltar giù dalle auto ferme a quell'innocente semaforo di campagna: un onore. C'erano altre due macchine di civili ferme al semaforo: una Honda grigia e una Saab. Chi le occupava probabilmente credeva di assistere a qualcosa di folle. In effetti lo era, anzi era anche peggio di quel che sembrava. L'uomo sulla Bronco aveva ucciso il presidente: era come arrestare Lee Harvey Oswald, Sirhan Sirhan, John Wilkes Booth. A un normale semaforo rosso nel Maryland settentrionale. Eccoci lì, e c'ero anch'io! Avrei pagato qualunque prezzo per esserci. Andai allo sportello del passeggero della Bronco mentre un agente dei servizi spalancava quello dalla parte del guidatore. Eravamo i due uomini più veloci, o forse semplicemente quelli che avevano più voglia di catturare Jack. Jack si voltò verso di me... e si trovò a guardare dritto nella canna della mia Glock. Comprese all'istante che stava guardando la morte in faccia. Come in un'esecuzione. Da vero professionista. «Non muoverti, attento a non respirare nemmeno troppo forte. Non spostarti di un millimetro», gli intimai. «Non voglio avere una scusa per spararti: non darmela.» Non se l'aspettava, lo lessi nella sua espressione sbalordita. Era convinto di averla sfangata, di essere tornato un uomo libero. Be', per una volta si era sbagliato completamente. Jack aveva commesso il suo primo errore. «Servizi segreti, sei in arresto. Hai il diritto di non parlare e mi pare proprio un'ottima idea!» gli sbraitò addosso un agente, con la faccia scarlatta
dalla rabbia che provava nei confronti dell'uomo che aveva ucciso il presidente Thomas Byrnes. Jack fissò l'agente, poi di nuovo me. Sembrò riconoscermi. Sapeva chi ero. Che altro sapeva? Lo sbalordimento tuttavia svanì ben presto. Fu stupefacente vedere con quanta rapidità riacquistò il controllo. «Benissimo», disse infine, quasi facendoci i complimenti per il nostro lavoro e il nostro professionismo. E quel figlio di puttana si mise ad annuire. «Sono orgoglioso di voi, avete agito estremamente bene.» Mi fece ribollire il sangue, ma mi trattenni. Non erano quelli gli ordini ricevuti. La trappola non doveva uccidere. Scese lentamente dal suo veicolo rosso, tenendo ben alte le mani. Non offrì la minima resistenza: non voleva che gli sparassimo. A un tratto, però, un coglione dei servizi gli sferrò un pugno, colpendolo dritto alla mascella. Non riuscivo a credere che l'avesse fatto, anche se, sotto sotto, ne fui contento. La testa di Jack scattò all'indietro e lui cadde a terra come un sasso. Jack era furbo. Rimase sdraiato sull'asfalto. Non c'era stata la minima scusa per quel pugno... se non il fatto che l'uomo a terra aveva ucciso a sangue freddo il presidente. Jack scosse la testa e si palpò la mascella, fissandoci. «Quanto sapete, esattamente?» chiese. Nessuno gli rispose, nessuno disse neppure una fottuta parola. Adesso il gioco era in mano nostra e tenevamo anche noi da parte qualche sorpresina per Jack. 108 Jack era soltanto l'inizio, una semplice tessera del puzzle che stavamo tentando di comporre. Avevamo deciso di prendere lui per primo, ma ci aspettava un altro arresto cruciale. Mentre tornavamo alla casa di Jack in Oxford Street, mi sentii lontano da quell'operazione, quasi l'avessi vissuta in sogno. Ricordavo i rari incontri avuti con Thomas Byrnes, che aveva ordinato a tutti di non avere rimpianti. Però quel consiglio non era applicabile alla realtà. Il presidente era morto e io me ne sarei sentito per sempre in parte responsabile, anche se non lo ero affatto. Inoltre non pensavo soltanto all'omicidio del presidente; c'era anche il tredicenne Danny Boudreaux. Avevo la sensazione che ci fosse uno sgra-
devole rapporto fra i due casi. Era stato così fin dall'inizio. Era come se uno strano disagio si stesse diffondendo in tutto il mondo, ma soprattutto in America. Avevo già visto fin troppo. Non sapevo come fermare l'incubo. Non lo sapeva nessuno. Non era ancora finita. Finalmente cominciavamo a dipanare l'orrido mistero. Era iniziato tutto da lì. Dalla casa che avevamo appena avvistato. Jay Grayer parlò nel microfono. «Il dottor Cross e io prendiamo la strada che arriva all'ingresso principale. Voi tutti copriteci. Niente spari. Non rispondete nemmeno al fuoco, se potete evitarlo. È chiaro?» Tutti gli altri agenti conoscevano sia la procedura sia la posta in gioco. L'operazione Trappola per orsi non era ancora finita. Grayer fermò la berlina nera davanti alla casa. «Sei pronto a un'altra tempesta di merda?» mi chiese. «Sei d'accordo sulla procedura, Alex?» «D'accordissimo», risposi. «Grazie per avermi fatto partecipare. Avevo bisogno di venire qui.» «Non ci saremmo mai arrivati senza di te. Andiamo.» Scendemmo dall'auto e risalimmo insieme, di corsa, il vialetto di mattoni rossi. Avevamo lo stesso passo. È cominciato tutto da qui. La grande casa e la strada avevano un'aria elegante e innocente. Una bella casa coloniale bianca ci stava davanti, con il suo ampio porticato sostenuto da colonnine a piedistallo. Sotto il porticato c'erano le biciclette dei bambini e tutto sembrava in perfetto ordine. Era solo una finzione? Naturalmente. Jay Grayer suonò il campanello, che emise qualche nota musicale. Jack & Jill sono venuti sulla Collina... Ma Jack & Jill avevano cominciato proprio da lì, no? Proprio da quella casa. La donna che ci aprì indossava un vestito di lana, rosso a motivi scozzesi. Una corona ornamentale, del tipo che ricorda quella di spine di Gesù, era stata appesa alla porta d'ingresso in occasione delle feste imminenti. Aveva un gran fiocco rosso. Ecco Jill, pensai. Finalmente, la vera Jill. 109
«Alex, Jay! Dio mio, cosa c'è? Cos'è successo ancora? Non ditemi che siete venuti per fare due chiacchiere!» Jeanne Sterling era in piedi sulla soglia di casa. Vedevo la scala di legno lucido salire alle sue spalle e attraverso varie porte di quercia spalancate si scorgeva la sala da pranzo. Sul tavolino dell'ingresso, sotto uno specchio alto due metri, era posata una pila di pacchi avvolti in carta natalizia. La casa di Jill, dell'ispettore generale della CIA. Jeanne Sterling la pura. «Che cos'è successo? Ho appena preparato il caffè. Entrate, prego.» Aveva parlato come se Jay Grayer e io fossimo stati due vicini venuti a scambiare due chiacchiere. Sorrise, ma i denti sporgenti sembrarono trasformare il sorriso in una smorfia. Che cos'è successo? Avete ammaccato un paraurti? Ho appena preparato il caffè. È buonissimo, facciamo due chiacchiere. «Buona idea, il caffè», assentì Jay, dimostrando di saper essere cordiale anche con i criminali più incalliti. Entrammo nella casa che lei divideva con i figli e il marito. Con Jack. Notai i particolari: tutto sembrava importante, sembrava una prova. I toni luminosi e lo stile esuberante dicevano «America», ma i particolari aggiungevano «viaggi all'estero»: acqueforti francesi, arazzi fiamminghi, porcellane cinesi. Jill la viaggiatrice, Jill la grande spia internazionale. I gialli classici si basano spesso su un vecchio motto che non avevo mai preso troppo sul serio: cherchez la femme. Io avevo il mio motto personale per risolvere i misteri moderni: cherchez l'argent. Non credevo che Jeanne Sterling e il marito avessero agito da soli. Non lo credevo proprio come non avevo mai creduto che Jack & Jill fossero semplici assassini di personaggi famosi. Si diceva che Aldrich Ames avesse ricevuto due milioni e mezzo di dollari per denunciare una dozzina di agenti americani. Quanto avevano ricevuto gli Sterling per liberare gli Stati Uniti da un presidente indesiderato? Un uomo libero e indipendente, che si batteva contro il sistema? E chi li aveva pagati? Cherchez l'argent. Forse Jeanne ce l'avrebbe rivelato se le avessimo storto un poco il braccio, cosa che ero decisissimo a fare. Chi aveva più da guadagnare dalla morte del presidente Thomas Byrnes? Il vicepresidente divenuto presidente? Wall Street? Il crimine organizzato? La CIA? L'avrei chiesto a Jeanne, magari davanti a una bella tazza di caffè
fumante. Magari avremmo potuto fare due chiacchiere su quell'argomento. Lei ci voltò le spalle e fece strada verso la cucina, calmissima e del tutto padrona di sé. Continuai a prendere nota di quello che vedevo: la casa era immacolata e perfetta, anche se ci vivevano tre bambini. Pensai di sapere come Jeanne e il marito potessero permettersi di vivere in un simile lusso a Chevy Chase. Cherchez l'argent. «Avete scoperto qualcosa, vero?» chiese lei, voltandosi verso di noi. «Mi avete tenuta completamente all'oscuro. Che cos'è successo? Ditemelo.» Si strofinò soddisfatta le mani. Che interpretazione da primadonna! «Abbiamo scoperto qualcosa», confermai. «Qualcosa di molto interessante su Jack.» E abbiamo deciso di prendere lui per primo, ma adesso tocca a lei. «Che notizia fantastica», esclamò Jeanne Sterling. «Ditemi tutto, per favore. In fondo Kevin Hawkins era uno dei nostri.» Entrammo nella grande cucina, che mi fece venire in mente la mia prima visita in quella casa. Le pareti erano coperte da piastrelle di terracotta e i mobiletti di legno avevano un'aria costosa. Mezza dozzina di finestre dava su un gazebo e su un campo da tennis. «Abbiamo arrestato suo marito, Brett, per l'omicidio del presidente», le fece sapere Jay Grayer, in tono gelido e piatto. «È già sotto la nostra custodia. Adesso siamo venuti a prendere lei.» «È difficile controllare ogni singolo dettaglio, vero? Ci è bastato trovare qualcosa che le era sfuggito», aggiunsi. «Sara ha commesso un errore. Credo che si fosse innamorata di suo marito, lo sapeva? Deve aver saputo della storia fra Sara e Brett.» «Che sta dicendo, Alex? Che dice, Jay? Sono un mucchio di assurdità.» «Oh, invece è tutto molto sensato. Sara Rosen teneva una copia del nastro sull'omicidio del senatore Fitzpatrick nel suo appartamento di Washington. C'è suo marito su quel nastro. Lei, povera zitellina, se n'era innamorata. Forse lei, Jeanne, aveva programmato anche questo, quantomeno l'aveva sospettato. Abbiamo perfino trovato un'impronta digitale parziale di suo marito nell'appartamento di Sara Rosen, a Foggy Bottom. Adesso che sappiamo cosa cercare, ne scopriremo probabilmente altre.» Lei si adombrò, gli occhi che parevano due fessure. Intuii che probabilmente non aveva saputo tutto sullo «stretto» rapporto fra il marito e Sara Rosen. Naturalmente però sapeva di Sara. Negli ultimi giorni avevamo scoperto che Sara Rosen era stata a lungo una spia della CIA all'interno della Casa
Bianca. Lo era stata per otto anni. Ecco come Jack l'aveva trovata, certo della sua lealtà. Sara Rosen era una Jill perfetta: aveva creduto nella «causa», almeno per quello che le avevano raccontato. Apparteneva all'estrema destra. Thomas Byrnes voleva effettuare radicali mutamenti al Pentagono e alla CIA e un gruppo potente riteneva che quei mutamenti potessero distruggere il Paese, che avrebbero distrutto il Paese. Così era stato invece deciso di distruggere il presidente Byrnes ed erano nati Jack & Jill. Jay Grayer riprese. «Sarà peggio del caso Aldrich Ames, lo sa, vero? Molto, molto peggio.» Jeanne Sterling annuì. «Suppongo di sì. E suppongo anche», aggiunse, spostando ripetutamente lo sguardo da Grayer a me, «che siate orgogliosi di partecipare alla distruzione di uno dei pochi, pochissimi, vantaggi degli Stati Uniti rispetto al resto del mondo. La nostra CIA non è mai stata seconda a nessuno e, per come la vedo io, è ancora così. Il presidente era uno stupido dilettante che voleva smantellare i servizi segreti e l'esercito. In nome di cosa? Di un cambiamento populista? Che presa in giro, che scherzo stupido e triste! Thomas Byrnes era solo un venditore d'auto di Detroit! Non sapeva niente delle decisioni che gli erano state affidate. Quasi tutti i presidenti prima di lui l'avevano capito. Non m'importa di quello che pensate di noi: mio marito e io siamo patrioti. È chiaro? È chiaro, signori?» Jay Grayer la lasciò finire, poi disse: «Suo marito e lei siete viscidi traditori. Siete due assassini. È chiaro? Ha ragione su una cosa, però: sono fiero di avervi beccati. Mi dà una sensazione magnifica». All'improvviso nella cucina esplose una luce bianca, il lampo di uno sparo. Echeggiò un rimbombo assordante e il corpo di Jay Grayer si arcuò, ricadendo sul bancone della cucina e abbattendo una fila di cucchiai di legno. Jeanne Sterling gli aveva sparato senza battere ciglio, con una pistola nascosta sotto il vestito. Aveva sparato attraverso la tasca. Forse ci aveva visti arrivare o forse teneva sempre una pistola a portata di mano. Dopotutto, era Jill. Jeanne si voltò di scatto, puntando la pistola contro di me. Però mi ero già tuffato dietro il bancone. Sparò ugualmente. Un altro scoppio assordante, un flash, poi un altro sparo. Continuò a premere il grilletto indietreggiando, poi si mise a correre, con il vestito che svolazzava come un mantello.
Corsi subito verso Jay Grayer. Era stato ferito alla clavicola. Il volto era terreo, ma lui non aveva perso i sensi. «Prendila, Alex. Prendila viva», ansimò. «Prendili, loro sanno tutto.» Mi mossi attento e rapido all'interno di casa Sterling. Non ucciderla, sa tutta la verità. Abbiamo bisogno di sentircela raccontare da lei almeno una volta. Sa perché e per ordine di chi è stato ucciso il presidente. Lei lo sa! In quell'istante, un agente dei servizi segreti fece irruzione dalla porta principale, seguito da un collega. Altri due comparvero dalla parte della cucina. Avevano tutti la pistola spianata e un'espressione tesa sul viso. «Cosa cazzo è successo qui dentro?» urlò un agente. «Jeanne Sterling è armata, ma dobbiamo comunque prenderla viva. Dobbiamo prenderla viva!» Sentii un rumore dalla parte dell'ingresso. Anzi due rumori. Capii che cosa stava accadendo e il mio cuore sembrò sprofondare. Stava mettendo in moto l'auto. La saracinesca elettrica di un garage veniva sollevata. Jill stava scappando. 110 Il mio petto pulsava, come se dovesse esplodere, ma il cuore era diventato freddo come ghiaccio. Prendila viva, a qualunque costo! È ancora più importante di Jack. La porta del garage si trovava in fondo al sentierino che partiva dall'ampia veranda, inondata dai raggi abbacinanti del mattino. Respirai a fondo, poi la aprii cauto, come se fosse collegata a una bomba. Sapevo che era possibile. Ormai poteva succedere di tutto: quella era la casa dei giochi più sporchi. C'era un corridoio buio e stretto fra la casa e il garage, lungo circa un metro e mezzo. Lo percorsi. In fondo trovai un'altra porta chiusa. Prendila viva. È necessario. Socchiusi la seconda porta e balzai in quello che immaginavo fosse il garage. Lo era. Udii tre colpi e mi gettai sul pavimento di cemento. Spari! In quello spazio ristretto il rimbombo era stato spaventoso, ma, grazie a
Dio, nessun proiettile mi aveva colpito al petto o alla testa. Vidi Jeanne Sterling sporgersi dal finestrino della sua station wagon, con una semiautomatica stretta in mano. Mi rialzai! Prendila viva! urlò il mio cervello mentre mi accucciavo perché non mi vedesse. Tuttavia avevo intravisto qualcos'altro sulla vettura. Aveva portato con sé Karon, la figlia più piccola, di soli tre anni: se ne faceva scudo. Sapeva che non avremmo sparato alla bambina, che urlava a squarciagola, terrorizzata. Come poteva fare una cosa del genere a sua figlia? Mi appostai dietro un bidone dell'olio, cercando di pensare. Chiusi gli occhi per una frazione di secondo, mezzo secondo al massimo. Respiravo l'aria fredda e i fumi della benzina, cercando di riflettere con assoluta lucidità. Poi presi una decisione, sperando che fosse quella giusta. Quando mi rialzai, cominciai a sparare, prestando attenzione a evitare la bimba. Ma sparai. Poi mi appostai di nuovo dietro il bidone. Sapevo di non aver colpito nessuno. Era stato solo un colpo d'avviso, l'ultimo. Andrew Klauk aveva avuto ragione, quando mi aveva parlato nel giardino degli Sterling. Era stato il «fantasma» della CIA a dirmi tutto quello che mi occorreva in quel momento: il gioco non aveva regole. «Jeanne, abbassi quella dannata pistola!» urlai. «Sta mettendo in pericolo la vita di sua figlia.» Mi rispose soltanto un silenzio terrificante. Jeanne Sterling avrebbe fatto qualsiasi cosa pur di riuscire a scappare. Aveva ammazzato un presidente, ordinato di farlo, seguito il piano in ogni mossa. Ma avrebbe veramente sacrificato la bambina? Per che cosa? Per i soldi? Per la causa in cui credevano lei e il marito? Quale causa poteva valere la vita di un presidente? O quella di tua figlia? Prendila viva. Anche se meriterebbe di morire qui, in questo garage. Come un'esecuzione. Riemersi dal nascondiglio e sparai una seconda volta contro il parabrezza... dalla parte del guidatore. I frammenti di vetro si sparsero in tutto il garage, schizzando sul soffitto e ricadendo poi come pioggia. Lo sparo riecheggiò, assordante. La bambina urlava e singhiozzava. Vedevo Jeanne Sterling attraverso il vetro rotto. Un lato del suo viso era coperto di sangue: pareva attonita e sconvolta. Una cosa è pianificare un
omicidio, un'altra prendersi una pallottola, rimanere feriti, vedersi sparare addosso, sentire il tud mortale sul proprio corpo. Avanzai rapido di tre passi verso la Volvo station wagon. Afferrai lo sportello e lo spalancai, tenendo la testa bassa e digrignando i denti. Afferrai Jeanne Sterling per i capelli biondi, poi la colpii. Le diedi un gran pugno, come quello che si era preso il marito. Il lato destro della sua faccia scricchiolò sotto la mia mano. Jeanne Sterling ricadde sul volante. Era un'assassina, non una lottatrice. Svenne al primo pugno. L'avevamo presa. L'avevo presa viva. Finalmente avevamo Jack & Jill. La piccola piangeva, però non era ferita. Nemmeno la madre aveva ferite mortali. Non avrei potuto fare di meglio, in nessun altro modo. Avevamo già preso Jack e adesso avevamo anche Jill. Forse ci avrebbero rivelato la verità. No... ce l'avrebbero detta per forza! Presi in braccio la bambina e la strinsi forte. Avrei voluto cancellare tutti quei minuti dalla sua testolina, fare in modo che non li ricordasse affatto. Continuai a ripeterle: «Va tutto bene, va tutto bene. Credimi, va tutto bene». Ma non era vero. Dubitavo che qualcosa sarebbe andato bene per i figli degli Sterling e per i miei. Per tutti noi. Non ci sono più regole. 111 La sera della cattura di Jeanne e Brett Sterling, le reti televisive non fecero che trasmettere servizi sullo sconcertante evento. Io concessi soltanto una breve intervista alla CNN, poi mi sottrassi a quel bailamme e andai a casa. Alle nove, il presidente Edward Mahoney fece una dichiarazione. Mentre lo osservavo rivolgersi a centinaia di milioni di persone in tutto il mondo, non potevo impedirmi di pensare che era diventato presidente perché l'avevano voluto Jack & Jill. Forse era direttamente coinvolto nell'attentato o forse no... comunque qualcuno aveva voluto che diventasse presidente al posto di Thomas Byrnes. E Byrnes non si fidava di lui. Tutto quello che sapevo su Mahoney era che aveva fatto una fortuna con le TV via cavo insieme a due soci cubani prima di assumere la carica di governatore della Florida: era stato un governatore molto popolare. Ricor-
davo che, dietro la sua campagna elettorale, giravano un mucchio di soldi. Cerca i soldi. Seguii quel tragico circo televisivo accanto a Nana e ai bambini: Damon e Jannie sapevano ormai troppo per essere esclusi dallo spettacolo. Dal loro punto di vista, il papà era diventato un eroe, qualcuno di cui andare fieri e al quale, ogni tanto, si poteva magari perfino obbedire. Ma probabilmente no. Jannie e la gattina Rosie se ne stavano rannicchiate contro di me sul divano mentre seguivamo la parata non-stop di servizi sull'attentato e sulla conseguente cattura di Jack & Jill. Ogni volta che apparivo sullo schermo, Jannie mi dava un bacio sulla guancia. «Sei soddisfatta del tuo papà?» le chiesi dopo uno smac particolarmente sonoro. «Sì, tantissimo», rispose. «Mi piace vederti in TV. Anche a Rosie. Sei bello e parli così bene. Sei il mio eroe!» «Tu che ne dici, Damon?» indagai presso sua maestà. Damon si lasciò andare a un enorme sorriso: non poteva trattenersi. «Non male», ammise. «Mi fa sentire bene dentro.» «Allora vuoi venire ad abbracciarmi?» Mi accontentò, così seppi che per il momento mio figlio era soddisfatto di me: era quello che contava. «E la mater familias?» chiesi infine a Nana, seduta nella sua poltrona preferita. Seguiva con le braccia incrociate quegli eventi traumatici, dedicando loro tutta la sua attenzione e qualche commento sprezzante. «Qui la familia scarseggia, ultimamente», si lagnò subito lei. «Be', in linea generale sono d'accordo con Jannie e Damon e non capisco proprio perché quel tizio dei servizi segreti si stia prendendo quasi tutto il merito. Mi pare che avrebbe dovuto badare lui al presidente quando gli hanno sparato.» «Forse avremmo dovuto badarci tutti», osservai. Nana si strinse nelle spalle apparentemente fragili. «A ogni modo, come sempre, sono fiera di te, Alex, anche se tutto questo non ha niente a che fare con l'eroismo. Sono fiera di te perché tu sei tu.» «Grazie», replicai. «Non si potrebbe dire niente di più gentile. A nessuno.» «Lo so.» Nana aveva avuto l'ultima parola poi, finalmente, sorrise. «Perché credi che l'abbia detto?» Non ero stato molto a casa nelle ultime quattro settimane ed eravamo tutti affamati della reciproca compagnia. Anzi, stavamo praticamente mo-
rendo di fame: non potevo muovere un passo in casa senza avere un ragazzino saldamente attaccato a un braccio o a una gamba. Perfino Rosie partecipava allo stesso modo. Ormai faceva definitivamente parte della famiglia ed eravamo tutti contenti che avesse accettato di farsi adottare da noi. Io mi godevo ogni istante di tutte quelle attenzioni, a mia volta avido d'affetto. Rimpiansi per un attimo che non ci fosse anche Maria a godersi quel momento speciale, ma per il resto andava tutto bene. Benissimo, anzi. La nostra vita era tornata di nuovo normale e mi ripromisi di farla rimanere così. Il mattino seguente mi alzai per accompagnare Damon alla Sojourner Truth School, che pareva rifiorita: l'innocenza ha la memoria corta. Passai dall'ufficio di Christine Johnson, ma non era ancora rientrata al lavoro. Nessuno sapeva quando sarebbe tornata, ma tutti ne sentivano la mancanza. Anch'io, anch'io! C'era qualcosa di speciale in lei. Sperai che si riprendesse. Alle nove meno un quarto del mattino rientrai in casa. Fifth Street era incredibilmente pacifica e tranquilla. La mia villetta aveva perfino un'aria graziosa. Presi un disco di Billie Holiday: The Legacy 1933-1958, uno dei miei preferiti in assoluto. Il telefono squillò alle nove in punto. L'infernale telefono. Era Jay Grayer. Non riuscivo a immaginare come mai mi avesse chiamato a casa e non avevo nessuna voglia di scoprirlo. «Alex, devi venire alla prigione di Lorton», mi disse in tono concitato. «Per favore, vieni subito.» 112 Infransi tutti i limiti di velocità per raggiungere la prigione federale della Virginia, mentre il cervello andava a mille, minacciava di decollare e d'infrangersi contro il parabrezza. Quando si è un detective della omicidi, bisogna credere di essere forti e di poter digerire qualunque cosa, ma prima o poi scopri che in realtà non è così. Nessuno potrebbe. Ero già stato qualche volta nella prigione di Lorton. Il serial killer Gary Soneji vi era stato detenuto tempo addietro nella zona di massima sicurezza. Arrivai verso le dieci di un mattino freddo e dal cielo terso e vidi subito i giornalisti in agguato nel parcheggio e nei prati intorno alla prigione.
«Che cosa sa, detective Cross?» mi chiese uno di loro. «Che è una splendida mattinata», risposi. «Potete citarmi liberamente.» Era lì che erano stati portati gli Sterling e che il governo aveva deciso di tenerli fino al momento del processo per l'omicidio di Thomas Byrnes. Alex, devi venire alla prigione di Lorton. Per favore, vieni subito. Incontrai Jay Grayer al quarto piano della prigione. C'era anche il direttore Marion Campbell ed erano entrambi pallidi come lo stucco sulle pareti. «Oh, maledizione, Alex», gemette Campbell, venendomi incontro. Gli presi la mano e gliela strinsi saldamente. «Andiamo di sopra», disse. C'erano poliziotti e secondini appostati fuori dell'obitorio al quinto piano. Jay Grayer e io scivolammo dentro dietro il direttore e i suoi assistenti. Sentivo il cuore in gola. Ci fecero indossare mascherine azzurre e guanti chirurgici. Faticavamo già a respirare anche senza la mascherina. «Oh, maledizione», borbottai, entrando. Jeanne e Brett Sterling erano morti. I due cadaveri giacevano su tavoli d'acciaio, entrambi nudi, sotto una luce forte e dura, quasi accecante. L'intera scena andava oltre la mia capacità di comprensione. La mia e quella di chiunque altro. Jack & Jill erano morti. Jack & Jill erano stati uccisi entro le mura di una prigione federale. «Maledizione, accidenti a loro», dissi sotto la mascherina. Brett Sterling era ben fatto e aveva l'aria di un uomo forte perfino da morto. Lo immaginavo benissimo come amante di Sara Rosen. Notai che aveva le piante dei piedi sporche: probabilmente aveva camminato a piedi nudi nella sua cella per tutta la notte. Che cosa rimuginava? Aspettava qualcuno? Chi era entrato a Lorton per compiere quel misfatto? Era stato veramente ucciso? Cos'era successo, in nome di Dio? Com'era potuto succedere lì dentro? La pelle di Jeanne Sterling era bianca e molle. Quella donna non era affatto in buona forma fisica. Stava molto meglio in tailleur che nuda. La pancia sporgeva da sopra il pelo pubico nero e le gambe erano percorse dalle vene varicose. Prima di morire, o morendo, aveva perso sangue dal naso. Nessuno dei due aveva l'aria di aver sofferto molto. Era un indizio? Era-
no stati trovati tutti e due morti nelle loro celle durante l'ispezione delle cinque del mattino. Dovevano essere deceduti più o meno alla stessa ora. Secondo il piano? Certo, secondo il piano, ma il piano di chi? Jack & Jill sono venuti nella prigione di Lorton... E che cosa è capitato loro? Che diavolo è successo qui ieri notte?... Chi ha ucciso Jack & Jill? «Hanno subito un'approfondita perquisizione corporea quando sono arrivati», disse Marion Campbell. «Potrebbe trattarsi di un duplice suicidio, ma avrebbero avuto bisogno di aiuto anche per questo. Qualcuno ha dato loro il veleno fra le sei di ieri sera e le prime ore dell'alba. Qualcuno che aveva accesso alle celle.» Il dottor Marion Campbell mi fissò. I suoi occhi erano velati, rabbiosi, iniettati di sangue. «La donna aveva una piccola quantità di pelle e sangue sotto l'unghia dell'indice destro. Deve aver lottato contro qualcuno, ha cercato di difendersi. Alla fine è stata uccisa, ma non voleva morire. Almeno credo.» Chiusi gli occhi per un paio di secondi, ma non servì a niente. Quando li riaprii era tutto uguale a prima: Jeanne e Brett Sterling giacevano morti e nudi sui due tavoli d'acciaio. Erano stati uccisi in modo professionale. Quello era l'aspetto più strano e assurdo: pareva che Jack & Jill fossero stati uccisi da Jack & Jill. Era stato un «fantasma» ad assassinare Jeanne e Brett Sterling? Temevo che non l'avremmo mai scoperto. Non eravamo abbastanza importanti per conoscere la verità. Tranne forse un piccolo particolare, un unico principio: non ci sono più regole. Non per certa gente, almeno. 113 Mi piace sempre archiviare tutto ordinatamente, legando un bel nastro rosso intorno alla cartella. Voglio essere lo sbranamostri che risolve ogni caso. Ma non funziona affatto così... e probabilmente non sarebbe nemmeno divertente se succedesse. Passai i due giorni e mezzo seguenti in casa Sterling, lavorando fianco a fianco con i servizi segreti e L'FBI. Anche Jay Grayer e Kyle Craig mi raggiunsero a Chevy Chase. Mi ero fatto la vaga idea che forse Jeanne Sterling ci aveva lasciato qualche indizio, qualcosa per consentirci di capi-
re chi l'avesse uccisa. La immaginavo capace di un atto malvagio e vendicativo del genere... il suo ultimo sporco trucco! Tuttavia, dopo due giorni e mezzo, non avevamo trovato niente. Se esisteva un indizio, qualcuno era arrivato prima di noi e l'aveva cancellato. Non scartavo l'ipotesi. Nel tardo pomeriggio del terzo giorno, Kyle Craig e io, distrutti dalla stanchezza, ci ritrovammo a parlare in cucina. Aprimmo un paio di birre e ci mettemmo a chiacchierare della vita, della morte e dell'eternità. «Hai mai sentito l'espressione... troppi indiziati logici?» chiesi a Kyle, mentre sorseggiavamo le birre nella cucina silenziosa. «A essere sincero, no, però capisco benissimo come possa applicarsi al nostro caso. I vari scenari che si aprono potrebbero implicare la CIA, le alte sfere militari, forse perfino quelle economiche e addirittura il presidente Mahoney. La storia avanza raramente in linea retta.» Annuii: come al solito, aveva saputo tracciare un'analisi rapida e convincente. «Trentacinque anni dopo l'assassinio Kennedy l'unica cosa certa è che si trattò di un complotto», osservai. «Non c'è modo di conciliare le prove fisiche - balistiche e mediche - con un unico tiratore a Dallas», ammise Kyle. «Quindi si tratta dello stesso dannato problema: troppi indiziati logici. Fino a oggi nessuno ha potuto escludere il possibile coinvolgimento di Lyndon Johnson, dell'esercito, della CIA o della mafia... Le similitudini con quello che è successo ora sono fin troppo ovvie, Kyle. Un possibile colpo di stato per eliminare il guastafeste in carica e sostituirlo con uno molto più malleabile - allora Johnson, adesso Mahoney - in attesa dietro le quinte. La CIA e gli alti vertici militari ce l'avevano a morte sia con Kennedy sia con Byrnes. Il sistema oppone una strenua resistenza a qualunque mutamento.» «Tienilo a mente, Alex», mormorò Kyle. «Il sistema oppone una strenua resistenza ai mutamenti e ai guastafeste.» Aggrottai la fronte, ma annuii. «Lo terrò a mente, grazie per l'aiuto.» Kyle allungò la mano; ce la stringemmo. «Troppi indiziati logici», ripeté. «Fa anche questo parte dell'orrido complotto? È questa la loro idea di copertura alla luce del sole?» «Non mi sorprenderebbe affatto se lo fosse. Non mi sorprende più niente. E adesso me ne vado a casa dai miei bambini», annunciai. «Non riesco a pensare a niente di meglio», ammise Kyle con un sorriso, facendomi cenno di andare.
114 Tornai a casa a giocare con i bambini. Cercai di stare con loro, ma continuavo a vedere la faccia di Thomas Byrnes. A volte anche quelle della piccola Shanelle Green, di Vernon Wheatley e perfino del povero George Johnson, il marito di Christine. Vedevo i cadaveri di Jeanne e Brett Sterling stesi sui due tavoli d'acciaio nella prigione di Lorton. Nei giorni seguenti, lavorai per qualche ora alla mensa di St. Anthony, dove sono «Mr Pane e Burro». Feci le razioni, aggiungendo talvolta qualche buon consiglio a chi era più o meno disgraziato di me. È un lavoro che mi piace moltissimo e da cui traggo più di quello che do. Non riuscivo però a concentrarmi: fisicamente ero lì, ma in realtà mi trovavo altrove. Il concetto del gioco senza regole mi si era piantato in gola come una spina di pesce, e mi soffocava. C'erano davvero troppi indiziati cui dare la caccia per risolvere definitivamente l'omicidio di Thomas Byrnes e c'erano seri limiti a quello che poteva fare un poliziotto del Distretto di Columbia in un caso del genere. Ormai è finita, cercavo di dirmi, tranne gli eventi che porterai per sempre con te. Una notte di quella settimana mi trovavo in veranda ad accarezzare la schiena di Rosie, che faceva le fusa tutta contenta. Pensai di mettermi al pianoforte, ma non lo feci: niente Billie Smith, Gershwin o Oscar Peterson. Mostri, furie e demoni giravano liberi per la mia mente. Avevano tutte le forme e le dimensioni, erano maschi e femmine, ma sempre mostri umani. Era la Divina Commedia in tutti i suoi gironi e c'eravamo dentro tutti. Infine mi misi al pianoforte. Suonai Stardust e Body and Soul, perdendomi nella gloria della musica, senza pensare alla telefonata arrivata all'inizio della settimana, che mi comunicava la sospensione dalle forze di polizia del Distretto di Columbia. Era un'azione disciplinare per il pugno dato al mio diretto superiore, il Jefe George Pittman. Sì, gliel'avevo dato. Ero colpevole del reato ascrittomi. E allora? E adesso che cosa sarebbe successo? Sentii bussare una volta alla porta della veranda. Poi il colpo si ripeté. Non aspettavo nessuno e non desideravo compagnia. Sperai che non fosse Sampson. Ormai era troppo tardi per qualunque visita. Impugnai automaticamente la pistola: la forza dell'abitudine. Un'abitudine terribile, se lo fai senza nemmeno pensarci... come succedeva a me. Mi alzai dallo sgabello del pianoforte e andai a vedere chi fosse. Dopo
tutto l'orrore cui avevo assistito, quasi mi aspettavo di trovarmi di fronte Gary Soneji, venuto finalmente a saldare il conto con me, a tentare un'ultima volta la fortuna. Aprii la porta sul retro... e mi ritrovai a sorridere. No, anzi, a brillare. Una luce si accese, o si riaccese, dentro la mia testa. Che bella sorpresa: mi sentii molto, molto meglio in un solo istante. Successe proprio così, pensieri e preoccupazioni svanirono in un istante. «Non riuscivo a dormire», disse Christine Johnson. Riconobbi la scusa che io stesso avevo usato una volta con lei. Ricordai la frase di Damon: È perfino più dura di te, papà. «Ciao, Christine. Come stai? Dio, sono così felice che sia tu», bisbigliai. «Anziché...» «Chiunque altro», risposi. Le presi una mano ed entrammo in casa. Finalmente a casa. Dove esistono ancora le regole, dove tutti stanno al sicuro e dove anche lo sbranamostri è sano e salvo. 115 In realtà non finisce mai... l'infinito incubo crudele, la corsa all'inferno. Era la vigilia di Natale e le calze erano state appese con cura al camino. Damon, Jannie e io avevamo quasi finito di decorare l'albero: il tocco finale erano ghirlande di caramelle avvolte nella stagnola rossa. Quando il dannato telefono squillò andai a rispondere, con le carole di Nat King Cole che facevano da sottofondo musicale. Uno strato di neve fresca luccicava sul praticello fuori della casa. «Pronto», dissi. «Oh, salve! Ma senti un po' il dottor-detective Cross in persona! Che bella festicciola.» Non dovetti chiedere chi fosse: avevo riconosciuto la voce, il cui suono aveva rappresentato per me un incubo... per molti anni. «È parecchio che non ci sentiamo», disse Gary Soneji. «Mi sei mancato, dottor Cross. E io, ti sono mancato?» Gary Soneji aveva rapito due bambini a Washington qualche anno prima, e ci aveva costretti a dargli la caccia per mesi. Di tutti gli assassini che avevo conosciuto, Soneji era il più brillante. Era perfino riuscito a far credere a qualcuno di noi di soffrire di schizofrenia. Era scappato di prigione
due volte. «Ti ho pensato spesso», ammisi infine. «Be', ho chiamato solo per augurare buone feste a te e alla tua famiglia. Come vedi, sono rinato.» Non gli risposi: attesi. I bambini avevano intuito che qualcosa non andava in quella telefonata e mi stavano fissando. Feci loro cenno di finire l'albero di Natale. «Oh, c'è un'altra cosa, dottor Cross», bisbigliò Soneji dopo una lunga pausa. Lo sapevo. «Che cosa, Gary?» «Te la stai godendo? Sai, dovevo chiedertelo, dovevo sapere. Ti piace?» Trattenni il fiato: sapeva di Christine, accidenti a lui! «Capisci, sono stato io a lasciare la piccola Rosie davanti a casa tua. Un pensiero gentile, non trovi? Così, ogni volta che vedi quell'adorabile gattina, pensa solo che... Gary è in casa tua! Gary è molto vicino! È vero, lo sai. Adesso ti auguro buon anno, ci vediamo presto.» E Gary Soneji riappese, con un clic. Io feci lo stesso, poi tomai al mio albero, a Jannie, a Damon e a Nat King Cole. Fino alla prossima volta. RINGRAZIAMENTI Un grazie particolare a Robin Schwarz per la stesura dei versi, ma anche a Irene Markocki, Barbara Groszewski, Maria Pugatch, Fern Galperin, Julie Goodyear, Diana Gaines, Mary Jordan, Tommy De Feo, Frank Nicolo, Michael Hart, Stephanie Apt, Liz Gruszkievicz, Nancy Temkin e Donald M. Poi a Richard e Artie Pine, Larry Kirshbaum, Charlie Hayward, Mel Parker, Amy Rhodes, Malcolm Edwards. Infine, e soprattutto, a Fredrica Friedman. Dividiamo tutti gli stessi incubi. Io ho cercato di metterli su carta per allontanarli almeno per un po'. FINE