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MARTIN CRUZ SMITH RED SQUARE (Red Square, 1992) Per EM Parte prima MOSCA 6 agosto - 12 agosto 1991 1 Le notti estive di Mosca ricordano il fuoco e il fumo. Le stelle e la luna impallidiscono. Le coppie si alzano, si vestono e vanno a passeggio per strada. Le auto girano a fari spenti. «Laggiù.» Jaak aveva visto un'Audi passare nella direzione opposta. Arkady infilò le cuffie e diede un colpetto alla radio ricevente. «Gli si è incantata.» Jaak fece un'inversione di marcia portandosi sull'altro lato del vialone e accelerò. Aveva un paio d'occhi obliqui in un volto muscoloso e si teneva aggrappato al volante come se volesse piegarlo. Arkady fece saltar fuori una sigaretta con una scossa del pacchetto. La prima della giornata. Non c'era poi tanto da vantarsi, era l'una di notte. «Vagli più vicino» disse togliendo le cuffie. «Vediamo se è proprio Rudy.» Davanti a loro si allungavano le luci della tangenziale che circondava la città. L'Audi deviò imboccando la rampa d'accesso e si immise nel traffico. Jaak si infilò tra due autocarri a pianale basso, carichi di lastre d'acciaio che sbattevano a ogni irregolarità del fondo stradale. Superò il primo, l'Audi e un'autocisterna. Durante il sorpasso Arkady aveva colto il profilo del conducente, ma erano due le persone a bordo, non una. «Ha preso su qualcuno, dobbiamo dare un'altra occhiata» disse. Jaak rallentò. L'autocisterna non li superò, ma un istante dopo fu l'Audi a scivolare accanto a loro. Rudy Rosen, il conducente - un uomo rotondo con le mani paffute strette al volante - era uno dei banchieri privati delle varie mafie, un aspirante Rotschild al servizio dei più primitivi capitalisti di Mosca. Il passeggero era una donna, con quell'aria selvatica, tra il sen-
suale e il famelico, che i lineamenti dei russi assumono in dieta, con capelli biondi corti tagliati alla moda e spazzolati all'indietro nel colletto del giubbotto di pelle nera. L'Audi li superò; la donna si voltò e squadrò la macchina dei due investigatori, una Zhiguli 8 a due porte, assegnandola alla categoria "rottami". Sulla trentina, pensò Arkady. Occhi scuri, bocca grande dalle labbra piene, socchiuse, come se fosse sul punto di morire di fame. Mentre davanti a loro l'Audi si portava sulla destra, venne seguita da un rumore di motore fuoribordo e dall'apparizione di una Suzuki 750 che si inserì tra le due macchine. Il motociclista indossava casco nero tondo, giacca di cuoio nera e stivaletti neri alti, luccicanti di piastrine rifrangenti. Jaak gli fece spazio. Era Kim, la guardia del corpo di Rudy. Arkady si chinò e ascoltò di nuovo le cuffie. «Sempre muta.» «Ci sta portando al mercato. C'è della gente là che se ti riconosce sei morto.» Jaak rise. «Naturalmente, a quel punto capiremo di essere capitati nel posto giusto.» «Ottimo argomento.» Dio non voglia che a qualcuno venga mai in mente di dire cose sensate, pensò Arkady. D'altra parte, se qualcuno mi riconosce vuol dire che sono ancora vivo. Tutto il traffico si accalcò per uscire dalla stessa rampa. Jaak cercò di tener dietro alla Audi, ma una banda di "rocker" sciamò in mezzo a loro. Avevano la schiena decorata da svastiche e da aquile zariste, tutti avvolti dal fumo dei tubi di scappamento privi di silenziatore. In fondo alla rampa, la staccionata di un cantiere era stata spinta da parte. La macchina procedette a sobbalzi come se attraversasse un campo di patate, ma Arkady riuscì ugualmente a vedere alcune sagome stagliarsi alte contro la debole luce del cielo settentrionale. Passò una Moskvitch con i finestrini stipati di tappeti sventolanti. Il tetto di un'antica Renault reggeva un soggiorno. Di fronte a loro le luci dei freni si accesero formando una grande chiazza rossa. I rocker misero le moto in cerchio annunciando la sosta con un coro di ruggiti. Auto e autocarri si disposero a intervalli, qui su un monticello, là in un avvallamento. Jaak spense il motore in prima; la Zhiguli non aveva il folle. Uscì con il sorriso di un coccodrillo che ha trovato delle scimmie intente a giocare. Arkady scese a sua volta indossando un giaccone imbottito e un berretto di tela. Aveva occhi neri e un'espressione divertita, come se fosse tornato di recente da una lunga permanenza in una buca profonda per osservare i cambiamenti in superficie... cosa peraltro non lontana dal vero.
Questa era la nuova Mosca. Le silhouettes contro il cielo erano torri, segnalate da luci rosse alla sommità per farsi riconoscere dagli aerei. Alla base c'erano le sagome terrose delle ruspe e delle impastatrici, pile di ottimi mattoni e cataste di pessimi piloni di cemento armato che si tuffavano nel fango. Varie figure umane si muovevano tra le automobili e altre erano in arrivo, un apparente consesso di vittime dell'insonnia. Non si trattava però di sonnambuli, ma dell'animazione risoluta di un mercato nero. In un certo senso era come attraversare un sogno, pensò Arkady. C'erano cataste alte come muraglioni di stecche di Marlboro, di Winston, di Rothmans, perfino di disprezzate sigarette cubane. C'erano videocassette di film d'azione americani o di porno svedesi, venduti a dozzine per il noleggio. Oggetti di vetro polacchi luccicavano ancora nelle loro casse. Due uomini in tuta trattavano non tergicristalli ma interi parabrezza, e nuovi di fabbrica, non semplicemente prelevati dall'auto di qualche disgraziato. E il cibo! Non polli bluastri morti denutriti, ma quarti interi di carne di manzo marmorizzata appesi nel camion di un macellaio. Gli zingari accendevano lampade a petrolio accanto a valigette diplomatiche dove esponevano rubli d'oro zaristi fior di conio, sigillati e venduti in strisce di plastica. Jaak indicò una Mercedes color panna. Si accesero altre lampade, diffondendo un'atmosfera da bazar; prima o poi sarebbero spuntati anche cammelli intenti a brucare tra le macchine, pensò Arkady, oppure mercanti cinesi che aprivano balle di seta. Un accampamento a sé era quello della mafia cecena, uomini dalla carnagione scialba e butterata, neri di capelli, stravaccati nelle loro auto come tranquilli pascià. Anche in quell'atmosfera, intorno ai ceceni si estendeva uno spazio di paura. L'Audi di Rudy Rosen si era fermata al centro, in ottima posizione accanto a un autocarro da dove venivano scaricati radio e videoregistratori. Una coda educata si era formata accanto alla macchina, sotto la sorveglianza di Kim, in piedi a una decina di metri di distanza, un piede posato sul casco. Aveva capelli lunghi che scostava dal volto, i lineamenti minuti, quasi delicati. Il giubbotto che indossava era imbottito come un'armatura e aperto su un modello compatto di Kalashnikov, detto Malysh, "Bambino". «Mi metto in coda» disse Arkady a Jaak. «Ma perché Rudy fa una cosa del genere?» «Glielo chiedo.» «Lo sorveglia quel vampiro coreano: starà attento a ogni mossa che fai.» «Segnati le targhe, poi tieni d'occhio Kim.»
Arkady si mise in coda mentre Jaak indugiava nei dintorni dell'autocarro. Da lontano i videoregistratori sembravano solidi articoli sovietici. La miniaturizzazione è una virtù apprezzata dai consumatori di altre società; in genere i russi vogliono esibire quello che comprano, non nasconderlo. Ma erano nuovi? Jaak fece passare una mano sugli spigoli, cercando i segni rivelatori lasciati dalle cicche di sigaretta. Non c'era traccia della donna dai capelli d'oro che era venuta insieme a Rudy. Arkady si sentiva osservato. Si voltò e si trovò di fronte un volto il cui naso era stato spaccato tante di quelle volte che ormai aveva formato una sorta di gomito. «A quanto cambiano stasera?» chiese l'uomo. «Non lo so» confessò Arkady. «Ti slogano l'uccello qui, se hai qualcosa di diverso dai dollari. O dai coupon per turisti. Ti sembro un turista del cazzo?» Infilò le mani in tasca e ne estrasse delle banconote accartocciate. Sollevò un pugno. «Zloty.» Sollevò l'altro. «Fiorini. Ma ti pare possibile? Ho puntato due tizi che uscivano dal Savoy. Mi parevano italiani, e invece è saltato fuori che erano un ungherese e un polacco.» «Doveva essere piuttosto buio» osservò Arkady. «Quando me ne sono accorto quasi quasi li ammazzavo. Facevo meglio ad ammazzarli, così gli risparmiavo il tormento di cercare di vivere con dei fiorini o degli zloty del cazzo.» Rudy abbassò il vetro dalla parte del passeggero e chiamò Arkady. «Il prossimo!» All'uomo in attesa con gli zloty disse: «Ci vorrà un po'». Arkady entrò in macchina. Rudy era avvolto in un doppiopetto e teneva una cassetta aperta sulle ginocchia. Portava i radi capelli pettinati di sghembo sul cranio, aveva occhi umidi dalle ciglia lunghe, mascelle segnate da un'ombra bluastra. A un dito della mano che reggeva la calcolatrice portava un anello con un'agata. Sul sedile posteriore c'era un vero e proprio ufficio formato da classificatori disposti ordinatamente, un computer portatile con relativa batteria, kit di programmi, manuali e dischetti. «È una vera e propria banca mobile» disse Rudy. «Una banca illegale.» «Sui miei dischi posso registrare tutti i risparmi della Repubblica Russa. Un giorno o l'altro dovrò fare un foglio elettronico anche per te.» «Grazie, Rudy. Un centro di elaborazione ambulante non basta a rendere felici.» Rudy alzò un Game Boy. «Parla per te.» Arkady annusò. Appeso allo specchietto retrovisore dondolava un ogget-
to che assomigliava a uno stoppino verde. «È un deodorante» spiegò Rudy. «Al profumo di pino.» «Sa di ascella alla menta. Come fai a respirare?» «Sa di pulito. Lo so, sono io. La pulizia, i microbi: lo so che è la mia fissa. Cosa stai facendo qui?» «La tua radio non funziona. Fammela vedere.» Rudy ammiccò. «Vuoi aggiustarla qui?» «È qui che vogliamo usarla. Comportati come se stessi conducendo una normale transazione.» «Dicevi che sarebbe stata una faccenda senza rischi.» «Ma non a prova di deficienti. Ci guardano tutti.» «Dollari? Marchi? Franchi?» chiese Rudy. Il cassetto era stipato di valute di vari colori e di vari paesi. C'erano franchi che parevano ritratti delicatamente colorati a mano, marchi tedeschi di dimensioni esagerate che trasudavano sicurezza e, più di tutti, fruscianti, verdi dollari americani. Ai piedi di Rudy era posata una borsa rigonfia che, immaginò Arkady, doveva contenere una quantità molto maggiore di soldi. Vicino alla frizione era appoggiato un pacchetto avvolto in carta marrone. Rudy estrasse le banconote da cento dollari dal cassetto rivelando una trasmittente e un registratore a microcassette. «Fingi di voler comprare rubli» disse Arkady. «Rubli?» Il dito di Rudy si gelò sulla calcolatrice. «Perché uno dovrebbe comprare rubli?» Arkady accese e spense più volte la trasmittente, quindi regolò la sintonia. «È quello che fai: comprare rubli in cambio di dollari o di marchi tedeschi.» «Lascia che ti spieghi. Io cambio soldi. Questo è un servizio per chi compra. Io controllo il tasso. Io sono la banca, per cui io faccio sempre soldi e tu perdi sempre. Arkady, nessuno compra rubli.» Gli occhietti di Rudy si gonfiarono di simpatia. «L'unica vera valuta sovietica è la vodka. Quello della vodka è l'unico monopolio statale che funziona sul serio.» «Hai un po' anche di quella.» Arkady lanciò un'occhiata sul pavimento dei sedili posteriori, pieno di bottiglie argentee di Starka, Russkaya e Kuban. «È baratto, come all'età della pietra. Prendo quello che la gente ha. Li aiuto. Mi stupisce di non avere anche sassi forati e pezzi da otto. Comunque, il cambio è quaranta rubli per dollaro.» Arkady provò il pulsante di accensione del registratore. Le minuscole
bobine non si mossero. «Il cambio ufficiale è trenta rubli per dollaro.» «Sì, e l'universo ruota intorno al buco del culo di Lenin. Senza offesa. È buffo. Mi capita di trattare con tipi che sarebbero disposti a tagliare la gola alla mamma, ma che sono a disagio davanti al concetto di profitto.» Si fece serio. «Arkady, se riesci a vedere profitto e reato come due categorie distinte allora nascono gli affari. Quel che noi stiamo facendo adesso è normale e legale nel resto del mondo.» «Lui è normale?» Arkady guardò nella direzione di Kim. Lo sguardo fisso sull'auto, la guardia del corpo aveva il volto inespressivo di una maschera. «Kim è lì per l'effetto» disse Rudy. «Io sono come la Svizzera, neutrale, il banchiere di tutti. Tutti hanno bisogno di me. Arkady, noi siamo l'unica parte dell'economia che funziona. Guardati intorno. La mafia del Laghetto Lungo, la mafia di Baumanskaya, i ragazzi del posto che sanno come fare a consegnare la merce. La mafia di Lyubertsy, un po' più dura, un po' più ottusa, vuole solo migliorarsi.» «Come il tuo socio Borya?» Arkady cercò di tendere il nastro delle bobine con una chiave. «Borya è una grande success story. Qualunque altro paese sarebbe orgoglioso di lui.» «E i ceceni?» «Be', i ceceni sono diversi, questo è garantito. Se fossimo tutti una catasta di teschi non batterebbero ciglio. Ma ricordati una cosa, la mafia più grossa è sempre il Partito. Non dimenticartelo mai.» Arkady accese la trasmittente e tolse le batterie. Attraverso il finestrino vedeva i clienti farsi irrequieti, sebbene Rudy sembrasse non avere fretta. Se non altro, dopo il nervosismo iniziale si era fatto di umore sereno, loquace. Il problema era che la trasmittente apparteneva alla milizia, cosa che non poteva lasciare tranquilli. Arkady ruotò gli spinotti di collegamento. «Non hai paura?» «Sono nelle tue mani.» «Sei nelle mie mani solo perché abbiamo abbastanza sul tuo conto da farti finire in un campo.» «Indizi di reati non violenti. Incidentalmente, "reato non violento" è sinonimo di "business", di affari. La differenza tra un criminale e un uomo d'affari è che il secondo ha immaginazione.» Rudy lanciò un'occhiata verso il sedile posteriore. «C'è abbastanza tecnologia qui per una stazione
spaziale. Sai, quella tua trasmittente è l'unica cosa in questa macchina che non funziona.» «Lo so, lo so.» Arkady sollevò le lamelle dei contatti e infilò delicatamente le batterie nell'alloggiamento. «C'era una donna in questa macchina. Chi è?» «Non lo so. Davvero, non lo so. Una che doveva darmi qualcosa.» «Che cosa?» «Un sogno. Un grande progetto.» «C'è dell'avidità di mezzo?» Rudy fece brillare un modesto sorriso. «Lo spero. Chi lo vorrebbe un sogno povero? Comunque è un'amica.» «Non pare che tu abbia dei nemici.» «Ceceni a parte, no. Non credo di averne.» «I banchieri non si possono permettere dei nemici?» «Arkady, io e te siamo diversi. Tu vuoi la giustizia. Non c'è da meravigliarsi che tu abbia dei nemici. Io ho degli scopi più modesti, quali il profitto e il piacere, come tutta la gente sana a questo mondo. Chi di noi due aiuta di più la gente?» Arkady colpì la trasmittente con il registratore. «Mi piace da morire osservare i russi aggiustare le cose» disse Rudy. «Sei uno studioso di russi?» «Per forza. Sono ebreo.» Le bobine presero a girare. «Funziona» annunciò Arkady. «Cosa ti posso dire? Per l'ennesima volta, sono esterrefatto.» Arkady infilò trasmittente e registratore sotto le banconote. «Sta attento» disse. «Se ci sono guai, urla.» «Ci pensa Kim a evitarmi i guai.» Quando Arkady aprì lo sportello per andarsene, Rudy aggiunse: «In un posto come questo sei tu quello che deve stare attento». La fila fuori avanzò accalcandosi. Kim la fece arretrare con rapidi spintoni. Quando Arkady lo sfiorò, gli lanciò uno sguardo ostile. Jaak aveva comperato una radio a onde corte che gli pendeva da una mano, simile a una borsa da viaggio dell'era spaziale. Voleva metterla nella Zhiguli. Mentre tornavano verso la macchina, Arkady disse: «Com'è quella radio. Onde corte, medie, lunghe? Tedesca?». «Tutte le gamme d'onda.» Jaak si ritrasse imbarazzato dall'occhiata di
Arkady. «Giapponese.» «Avevano anche delle trasmittenti?» Passarono davanti a un'ambulanza che offriva fiale di morfina in soluzione e siringhe a perdere ancora chiuse in cellofan americano sterile. Un motociclista di Leningrado vendeva acidi dal sidecar: l'Università di Leningrado era famosa per formare i migliori chimici. Un tipo che, dieci anni prima, Arkady aveva conosciuto come borseggiatore, accettava ordini per computer; computer russi, perlomeno. Dei copertoni d'auto rotolavano fuori da un autobus direttamente al cliente. Scarpe e sandali da donna erano disposti su uno scialle ricercato. Scarpe e gomme erano in marcia, se non alla luce del giorno perlomeno a quella del tramonto. Ci fu un lampo bianco seguito da uno scroscio di cristalli alle loro spalle, nel mezzo del mercato. Forse il flash di una macchina fotografica e una bottiglia rotta, pensò Arkady, ma sia lui che Jaak si voltarono per tornare nella direzione da dove la luce era arrivata. Un secondo lampo eruppe come un fuoco artificiale cogliendo un'espressione inorridita su tutti i volti. Fu sostituito da una comune luce arancione, come quella dei fuochi che d'inverno, all'aperto, si accendono nei bidoni di carburante per scaldarsi. Al puzzo acre della plastica si mescolava il bouquet inebriante della benzina. Alcuni uomini arretrarono barcollando con le maniche in fiamme. Mentre la folla si disperdeva, Arkady si fece avanti a spintoni e vide Rudy Rosen in un carro di fuoco, il volto annerito, i capelli in fiamme, le mani aggrappate al volante, luminoso di luce propria ma immobile dietro le spesse, velenose nubi scure che eruttavano dall'interno dell'auto e dai finestrini. Si avvicinò quanto bastava per vedere gli occhi di Rudy che affondavano nel fumo dietro il parabrezza. Era morto. C'era quel silenzio, quello sguardo vuoto, in mezzo alle fiamme. Intorno all'auto bruciata, altre auto erano in movimento. Abbandonando tappeti, monete d'oro, videoregistratori, un'evacuazione in massa si riversò verso l'ingresso del cantiere. L'ambulanza si allontanò traballando e travolgendo una sagoma umana davanti ai fari, seguita dalle auto dei ceceni in carovana. Le motociclette si divisero in vari flussi, cercando brecce nella staccionata. Alcuni uomini però rimasero e tentarono di afferrare le stelle svolazzanti nell'aria. Arkady stesso con un balzo prese al volo un marco in fiamme, poi un dollaro, poi un franco, tutti divorati da vermi d'oro fiammante.
2 Sebbene il terreno fosse ancora in ombra, Arkady vide che si trattava di un cantiere dove sarebbero sorte quattro torri da ventiquattro piani intorno a una piazza centrale: erano già state fatte le gettate in cemento armato precompresso di tre torri, mentre l'ultima era ancora in quella fase di ponteggi e di gru che, nella luce dell'alba, dava una sensazione a un tempo di forza e di fragilità. Immaginò che al piano terreno avrebbero aperto ristoranti, cabaret, forse un cinema e che, una volta scomparse ruspe e impastatrici, nel mezzo della strada avrebbero fatto un parcheggio per pullman e taxi. Ora invece c'erano un furgone dell'obitorio, la Zhiguli e la carcassa annerita dell'Audi di Rudy Rosen posata su un tappeto nero di frammenti di cristallo. I finestrini dell'Audi erano vuoti, il calore dell'incendio aveva fatto esplodere i copertoni, e l'odore di gomma bruciata aleggiava su tutto. Rudy Rosen sedeva rigido come se stesse ascoltando qualcosa. «Il vetro appare distribuito uniformemente» disse Arkady. Polina lo seguì con la sua Leica anteguerra, scattando una fotografia a ogni passo. «Nelle vicinanze dell'auto, una Audi 1200, il vetro si presenta fuso. Portiere di sinistra chiuse. Cofano chiuso, luci anteriori bruciate. Portiere di destra chiuse. Baule posteriore chiuso. Luci posteriori bruciate.» Non rimaneva altro da fare che chinarsi a quattro zampe. «Il serbatoio del carburante è esploso. La marmitta si è staccata dal tubo di scappamento.» Si rialzò. «Targa annerita. Numero di Mosca leggibile. Identificato come proprietà di Rudy Rosen. La disposizione dei frammenti di vetro fa pensare che il fuoco abbia avuto origine all'interno della vettura, non all'esterno.» «In attesa della relazione degli esperti, naturalmente» disse Polina con la consueta irriverenza. Giovane e minuscola, la patologa indossava giacca e camice sia d'estate che d'inverno, e teneva i capelli legati da feroci spilloni. «Dovresti far mettere la carcassa sul ponte.» I commenti di Arkady venivano trascritti da Minin, un investigatore con gli occhi infossati da maniaco. Alle sue spalle, un cordone della milizia stava occupando la zona. I cani antidroga trascinavano i militi intorno alle torri e correvano da una colonna a un palo, sollevando la zampa. «La vernice esterna è scrostata» proseguì Arkady. «La cromatura della maniglia si presenta sollevata.» Fine delle impronte, pensò; comunque, avvolse la mano in un fazzoletto per aprire la porta anteriore dal lato del passeggero. «Grazie» disse Polina.
Toccata da Arkady la porta si aprì, lasciandogli cadere della cenere sulle scarpe. «L'interno della vettura è distrutto» proseguì. «Dei sedili rimangono solo il telaio e le molle. Lo sterzo pare essersi fuso ed è scomparso.» «La carne è più resistente della plastica» disse Polina. «I tappetini posteriori di gomma si sono fusi intorno a ciò che si presenta come un ammasso di vetro. Il sedile posteriore è bruciato fino alle molle. Batteria di un computer combusta e residui di metallo non ferroso. Pagliuzze d'oro, probabilmente dei cavi di contatto.» E questo era tutto ciò che rimaneva del computer di cui Rudy era stato tanto orgoglioso. «Carcassa metallica delle unità a disco del computer.» I megabyte di informazioni. «Coperti di cenere.» Le scatole di dischetti. Con riluttanza, Arkady passò alla parte anteriore. «All'altezza della frizione sono rilevabili le tracce di una fiammata. Frammenti di cuoio carbonizzato. Residui di materia plastica, batterie nel vano del cruscotto.» «Naturalmente il calore era intenso.» Polina si sporse verso l'interno per scattare un'istantanea con la Leica. «Duemila gradi almeno.» «Sul sedile anteriore» disse Arkady «una cassetta per i soldi. Lo scomparto si presenta vuoto e carbonizzato. Sotto lo scomparto sono visibili minuscoli contatti metallici, quattro batterie, forse i resti di una trasmittente e di un registratore. Così finisce l'intercettazione. Sempre sul sedile, è visibile un rettangolo metallico, forse il dorso di una calcolatrice. La chiave di accensione è in posizione "Off". Altre due chiavi sull'anello.» Il che lo riportava al conducente. Non era il genere di cose in cui Arkady eccelleva. In realtà, a questo punto aveva bisogno di una lunga passeggiata e di una sigaretta. «Con quelli bruciati bisogna aprire tutto il diaframma per far venir fuori i particolari» disse Polina. Particolari? «Il cadavere si presenta rinsecchito» disse Arkady, «troppo carbonizzato per un'identificazione immediata sia del sesso che dell'età. Capo posato sulla spalla sinistra. Abito e capelli bruciati; la calotta cranica è parzialmente esposta. Non pare possibile prendere l'impronta dei denti. Scarpe e calze non sono identificabili.» Erano dettagli che non riuscivano a descrivere il nuovo Rudy, più piccolo, più scuro, seduto sulle molle del suo carro di fuoco. Non rendevano la sua trasformazione in materia carbonizzata e ossa, la particolare nudità evidenziata dalla fibbia della cintura che pendeva nella cavità pelvica, l'espressione di meraviglia delle cavità oculari, l'oro fuso delle otturazioni, i
calzoni strappati, il modo in cui la mano destra era rimasta afferrata al volante, come se stesse attraversando l'inferno, e il fatto che il volante, ridotto a un ammasso di bolle si fosse fuso come una crema rosa sulle sue dita. Non dava l'idea del modo misterioso in cui le bottiglie di vodka Starka e Kuban si erano liquefatte, il modo in cui la valuta pregiata e le sigarette erano scomparse in una nuvoletta. "Tutti hanno bisogno di me." Ormai non più. Arkady si voltò e vide che, per quanto nero apparisse Rudy Rosen, il viso di Minin registrava solo soddisfazione, come se quel peccatore avesse sofferto solo il minimo indispensabile. Arkady lo prese da parte e gli mostrò alcuni dei miliziani che si stavano riempiendo le tasche. Il terreno era cosparso di merci abbandonate nel panico dell'evacuazione. «Vedi di identificare e di mappare quello che trovano.» «Non gli hai detto di tenerselo.» Arkady trasse un profondo sospiro. «Esatto.» «Guarda qui.» Polina punse un angolo del sedile posteriore con lo spillone per capelli. «Sangue secco.» Arkady andò alla Zhiguli. Jaak sedeva dietro intento a interrogare l'unico testimone, lo sfortunato che Arkady aveva incontrato mentre aspettava di parlare con Rudy. Il truffatore con troppi zloty. Jaak l'aveva bloccato non lontano dalla staccionata. Secondo la carta d'identità e il libretto di lavoro, Gary Oberlyan era residente a Mosca, faceva l'inserviente in un ospedale e, secondo i suoi tagliandi, era in procinto di ottenere un nuovo paio di scarpe. «Vuoi vedere la sua carta d'identità?» chiese Jaak. Tirò su le maniche di Gary. All'interno dell'avambraccio sinistro era tatuata una donna nuda seduta in un bicchiere di vino con in mano un asso di cuori. «Gli piacciono vino, donne e carte» disse Jaak. Sull'avambraccio destro c'era un braccialetto di picche, cuori, quadri e fiori. «Adora le carte.» Sul mignolo della mano sinistra un anello di picche rovesciate. «Vuol dire che è stato condannato per teppismo.» Sull'anulare destro, un cuore trapassato da un coltello. «Vuol dire che è pronto ad ammazzare. Per cui diciamo che il nostro Gary non è puro come acqua di fonte. Diciamo che è un pluripregiudicato arrestato in un assembramento di speculatori, dunque dovrebbe collaborare.» «Vaffanculo» disse Gary. Alla luce del giorno il naso rotto sembrava gli fosse stato saldato sul volto. «Ce li hai ancora i fiorini e gli zloty?» chiese Arkady.
«Vaffanculo.» Jaak lesse i suoi appunti. «Il testimone afferma di aver parlato a quel morto del cazzo perché pensava fosse uno che gli doveva dei soldi. Poi è uscito dall'auto del cazzo del morto e circa cinque minuti dopo, quando era a una decina di metri di distanza, l'auto del cazzo è esplosa. Un uomo che il testimone conosce sotto il nome di Kim ha gettato una seconda bomba del cazzo e se l'è data.» «Kim?» «Questo è quello che dice. Dice anche che si è bruciato le sue mani del cazzo cercando di salvare il morto.» Jaak infilò le mani nelle tasche di Gary e ne estrasse due manciate di marchi e di dollari mezzo bruciati. Si preannunciava una giornata calda. L'umidità dell'alba si stava già trasformando in goccioline di sudore. Arkady osservò socchiudendo gli occhi lo striscione illuminato dal sole che pendeva dalla sommità della torre occidentale. «NEW WORLD HOTEL!» Immaginò la bandiera gonfiata dalla brezza e la torre che salpava come un brigantino. Aveva bisogno di sonno. Aveva bisogno di Kim. Polina si inginocchiò a terra sul lato sinistro dell'Audi. «Altro sangue» annunciò. Mentre Arkady apriva la porta dell'appartamento di Rudy Rosen, Minin si fece avanti con un'enorme mitra Stechkin. Impossibile definirlo un modello d'ordinanza. Arkady ammirò l'arma; ma Minin lo preoccupava. «Potresti segare in due una stanza con quell'affare» gli disse. «Ma adesso non servono armi. Solo a spaventare le signore.» Rivolse un cenno di rassicurazione alle due spazzine che aveva chiamato perché facessero da testimoni alla perquisizione. Le donne risposero con un lampo timido dei denti d'acciaio. Alle loro spalle, un paio di tecnici della scientifica infilarono i guanti di gomma. Perquisisci la casa di qualcuno che non conosci e sei un investigatore, pensò Arkady. Perquisisci la casa di qualcuno che conosci e sei un voyeur. Strano. Sorvegliavano Rudy Rosen da un mese ma in casa sua non erano mai entrati. Porta d'ingresso imbottita con spioncino ottico. Soggiorno/sala da pranzo, cucina, camera da letto con TV e videoregistratore, un'altra camera da letto trasformata in ufficio, bagno con vasca a idrogetto. Scaffali con collane rilegate di titoli colti (Gogol, Dostoevskij, biografie di Breznev e di Moshe Dayan, album di francobolli e numeri arretrati di "Israel Trade",
"Soviet Trade", "Business Week" e "Playboy". I tecnici della scientifica iniziarono la perquisizione, mentre Minin si teneva a un passo da loro per accertarsi che nulla scomparisse. «Non toccate niente, per favore» disse Arkady alle due spazzine, che si erano fermate in atteggiamento riverente nel mezzo della stanza, come se fossero entrate nel Palazzo d'Inverno. In un mobiletto di cucina c'erano del whisky americano e del brandy giapponese, più del caffè danese in sacchetti di alluminio. Niente vodka. Nel frigorifero, pesce affumicato, prosciutto, paté e burro di marca finlandese, un vasetto di panna acida e, nel freezer, una torta gelato con decorazioni rosa e verdi a forma di fiori e di foglie. Era il tipo di torta che un tempo veniva venduto nelle normali latterie ma che ormai era un sogno così raro che lo si poteva trovare solo nei buffet più raffinati... un po' meno raro, diciamo, di un uovo Fabergé. Sul pavimento del soggiorno erano stesi alcuni kilim. Sulla parete, due ritratti gemelli di un violinista in abito da cerimonia e di sua moglie al pianoforte. I volti erano rotondi e seri come quello di Rudy. La finestra anteriore dava su via Donskaya e, sopra i tetti, in direzione nord, verso la gigantesca ruota che girava a vuoto su Gorky Park. Arkady passò nell'ufficio, dove c'erano una scrivania di acero finlandese, una macchina per scrivere, il telefono e il fax. Nella presa era inserito un regolatore di tensione, per cui Rudy aveva usato nell'appartamento il suo computer portatile. Nei cassetti c'erano fermagli, matite, carta intestata del negozio di Rudy all'albergo, libretti di risparmio e ricevute. Minin aprì un armadio e con una manata tirò da parte delle tute sportive americane e degli abiti italiani. «Controlla nelle tasche» disse Arkady. «Controlla le scarpe.» Nel cassettone della camera da letto anche le mutande avevano etichette straniere. Una spazzola per capelli sul televisore. Sul comodino, videocassette di viaggio, una maschera per dormire e la sveglia. La maschera, pensò Arkady, era proprio ciò di cui Rudy aveva bisogno, nelle condizioni in cui si trovava. Una faccenda sicura, ma non a prova di imbecilli, era questo che gli aveva detto? Ma perché mai gli davano retta? Una delle spazzine lo aveva seguito senza far rumore come se avesse ai piedi delle pantofole di feltro. «Olga Semyonovna e io viviamo in coabitazione. Nelle altre stanze ci sono armeni e turkmeni. Non si parlano.» «Armeni e turchi? Siete fortunate che non si ammazzino.» Aprì la finestra della camera da letto per controllare il garage nel cortile. Nulla di ap-
peso. "Gli appartamenti in coabitazione sono la morte della democrazia" rifletté. "Ovviamente la democrazia è la morte degli appartamenti in coabitazione." Arrivò Minin. «Sono d'accordo con l'investigatore capo. Quel che ci serve è un polso fermo.» «Dite quello che volete, ai vecchi tempi c'era ordine» disse la spazzina. «Era un ordine rude ma efficace» disse Minin, ed entrambi si voltarono verso Arkady con la faccia così piena di speranza da farlo sentire come un cane rabbioso su un piedistallo. «Sono d'accordo, l'ordine non mancava» disse. Alla scrivania, Arkady compilò il modulo per le perquisizioni: data, il suo nome, in presenza di (qui scrisse i nomi e l'indirizzo delle due donne), in base al mandato di perquisizione numero, perquisita la residenza del cittadino Rudyk Abramovich Rosen, appartamento 4A, al numero 25 di via Donskaya. Il fax attirò di nuovo la sua attenzione. Aveva i pulsanti in inglese. Uno di essi era «REDIAL». Con un gesto rapido sollevò la cornetta e premette il pulsante. Si sentirono delle note nel ricevitore, uno squillo, una voce. «Parla Feldman.» «Telefono per conto di Rudy Rosen» disse Arkady. «Perché non può telefonare di persona?» «Glielo spiegherò quando potremo parlarci.» «Non mi ha telefonato per parlarmi?» «Dovremmo incontrarci.» «Non ho tempo.» «È importante.» «Glielo dico io che cosa è importante. Stanno per chiudere la biblioteca Lenin. Sta crollando. Stanno spegnendo le luci, chiudendo le stanze. Diventerà una tomba come le piramidi di Giza.» Arkady fu sorpreso all'idea che un conoscente di Rudy fosse afflitto dalle condizioni della biblioteca Lenin. «Dobbiamo parlare comunque.» «Lavoro fino a tardi.» «In qualsiasi momento.» «Fuori dalla biblioteca, domani a mezzanotte.» «A mezzanotte?» «A meno che la biblioteca non mi caschi addosso.» «Mi faccia verificare il numero di telefono.» «Feldman. F-E-L-D-M-A-N. Professor Feldman.» Recitò il numero e
appese. Arkady posò la cornetta. «Uno splendido apparecchio.» Per essere così giovane Minin aveva un sorriso amaro. «Quei bastardi della scientifica saccheggeranno tutto e a noi un fax farebbe comodo.» «No, lasciamo qui tutto, e specialmente il fax.» «Anche cibo e alcolici?» «Tutto.» La seconda spazzina sgranò gli occhi. La forza magnetica della colpa la obbligò a fissare sul tappeto le goccioline di gelato che segnavano il percorso dal frigorifero e ritorno. Minin aprì di scatto la porta del freezer. «Si è mangiata il gelato mentre le davamo la schiena. È sparito anche il cioccolato.» «Olga Semyonovna!» Anche la prima spazzina era sconvolta. L'accusata levò una mano di tasca e parve crollare sulle ginocchia come travolta dall'eccessivo peso della tavoletta di cioccolata che la incriminava. Le lacrime le scivolarono sulle pieghe delle guance e caddero dal mento tremante, come se avesse rubato un calice d'argento da un altare. Splendido, pensò Arkady, abbiamo fatto piangere una vecchia per un po' di cioccolato. Come poteva resistere? La cioccolata era un mito esotico, una ventata di storia, come gli Aztechi. «Bene, che cosa ne pensi?» chiese Arkady a Minin. «Dobbiamo arrestarla, non arrestarla ma picchiarla, oppure semplicemente lasciarla andare? Sarebbe un'aggravante se avesse preso anche la panna acida. Comunque, voglio sapere cosa ne pensi.» Arkady era davvero curioso di sapere quanto fosse zelante il suo assistente. «Suppongo» disse finalmente Minin «che per questa volta possiamo lasciarla andare.» «Se lo dici tu.» Arkady si rivolse alle donne e disse: «Cittadine, questo significa che dovrete collaborare ancora con la giustizia.» I garage sovietici erano oggetti misteriosi: pur non essendo lecito vendere lamiera di ferro ai privati, i garage costruiti in lamiera di ferro continuavano a spuntare come per magia nei cortili e a moltiplicarsi sul retro delle case. La seconda chiave di Rudy Rosen aprì l'oggetto misterioso nel cortile. Arkady evitò di toccare la lampadina appesa. Alla luce del sole vide una cassetta degli attrezzi, lattine di olio lubrificante, parabrezza, specchietti retrovisori e coperte per tenere calda l'auto in inverno. Le coperte si stendevano su banali copertoni. Più tardi Minin e i tecnici della scientifica avrebbero passato la polvere sulla lampadina e controllato il pavimento. Per
tutto il tempo le due spazzine rimasero timidamente sulla porta; non si sarebbero fatte allontanare nemmeno con un argano. Perché non era né stanco né affamato? Si sentiva come un uomo con la febbre al quale non è stata diagnosticata alcuna malattia. Quando raggiunse Jaak nell'atrio dell'Intourist Hotel, lo trovò che inghiottiva tavolette di caffeina per tenersi sveglio. «Gary racconta cazzate» disse Jaak. «Io non me lo vedo Kim ad ammazzare Rudy. Era la sua guardia del corpo. Sai, ho così sonno che se trovo Kim quello mi spara e io non me ne accorgo neanche. Qui non c'è.» Arkady si guardò intorno. Lontano, alla sua sinistra, una porta girevole dava sulla strada e sul chiosco della Pepsi, che era diventato il punto di riferimento delle prostitute di Mosca. All'interno, una fila di addetti alla sicurezza faceva scrupolosamente entrare solo le prostitute che pagavano. Accampati nel buio cavernoso dell'atrio, alcuni turisti attendevano un autobus; era un po' che lo aspettavano, e la loro immobilità era quella dei bagagli abbandonati. Il banco delle informazioni non era solo vuoto: sembrava esprimere l'eterno mistero di Stonehenge. Perché mai era stato costruito? L'unica attività si svolgeva sulla destra, dove un cortile in stile vagamente spagnolo sotto un cielo illuminato attirava l'attenzione sui tavolini di un bar e sui riflessi di acciaio delle slot-machine. Il negozio di Rudy nell'atrio aveva le dimensioni di un grande armadio. In un espositore erano raccolte cartoline con panorami di Mosca e monasteri, o corone orlate di pelliccia di principi defunti. Sulla parete posteriore erano appese file di pietre d'ambra e scialli contadini. Negli scaffali laterali, bambole di legno di varie dimensioni dipinte a mano si affollavano intorno alle targhette Visa, MasterCard, American Express. Jaak aprì la serratura della porta di vetro. «Un prezzo per le carte di credito» disse, «la metà pagando in valuta pregiata; e questo, se si pensa che Rudy comprava le bambole dai fessi in cambio di rubli, gli dava comunque un profitto del mille per cento.» «Non è per le bambole che l'hanno ammazzato» disse Arkady. Con la mano avvolta in un fazzoletto aprì il cassetto del banco e fece passare le pagine del libro mastro. Solo cifre, niente appunti. Minin e i tecnici della scientifica avrebbero dovuto venire anche qui. Jaak si schiarì la gola e disse: «Ho un appuntamento. Ci vediamo al bar».
Arkady chiuse il negozio e attraversò il cortile dirigendosi verso le slotmachine. Sulla ruota della fortuna le macchine mostravano combinazioni del poker o prugne, campane e limoni, accompagnate da istruzioni in inglese, spagnolo, tedesco, russo e finlandese. Tutti i giocatori erano arabi che si aggiravano senza la minima allegria reggendo lattine di aranciata in cui raccogliere i gettoni. In mezzo alle macchine, un assistente versava una cascata argentea di gettoni in un contatore meccanico, una scatola di metallo con una manovella che faceva girare furiosamente, senza sosta. L'uomo sobbalzò quando Arkady gli chiese di accendergli una sigaretta. Arkady scorse la propria immagine sulla fiancata di una delle macchine: un uomo pallido dai capelli lisci e scuri, con un bisogno disperato di prendere qualche raggio di sole e di farsi la barba, ma non così spaventoso da giustificare i gesti impacciati dell'uomo con l'accendino. «Ha perso il conto?» chiese. «È automatica» rispose l'altro. Arkady lesse i numeri sui minuscoli contatori. Già 7950. Quindici sacchetti di tela erano già pieni e sigillati. Altri cinque, vuoti, erano in attesa. «Quanto valgono?» chiese. «Quattro gettoni per un dollaro.» «Quattro per... ecco, non sono bravo in matematica, ma mi pare che possiamo dividere.» Il sorvegliante si guardò in giro in cerca di aiuto e Arkady disse: «Scherzavo. Rilassati.» Jaak, seduto a un'estremità del bar e intento a succhiare zollette di zucchero, stava parlando con Julya, una bionda elegante vestita di cashmere e seta. Accanto al suo espresso erano posati, aperti, un pacchetto di Rothmans e una copia di "Elle". Quando Arkady si unì a loro, Jaak spinse una zolletta verso l'estremità del banco. «Bar per valuta pregiata, non accettano rubli.» «Vi offro la cena» propose Julya. «Preferiamo rimanere puri» disse Jaak. Julya scoppiò in una risata profumata di tabacco. «Mi ricordo quando ero io a dirlo.» Un tempo Jaak e Julya erano stati sposati. Si erano incontrati sul lavoro, per così dire, e si erano innamorati. Evento non raro in una situazione come la loro. Lei poi era passata a cose più grandi e migliori. Oppure c'era passato lui. Difficile a dirsi. Il buffet, sotto bandierine che pubblicizzavano un brandy spagnolo, offriva pasticcini e tartine. Arkady si chiese se lo zucchero era ottenuto da
canna cubana o da semplice ma onesta barbabietola sovietica Avrebbe potuto diventare un intenditore. Australiani e americani seduti al bar chiacchieravano con voci monotone. Ai tavoli vicini alcuni tedeschi allettavano le prostitute con champagne dolce. «Come sono, i turisti?» Arkady chiese a Julya. «Vuoi dire se hanno esigenze speciali?» «Più o meno.» Julya gli consentì di accenderle la sigaretta e tirò una boccata riflettendo. Incrociò le lunghe gambe con un movimento al rallentatore, attirandosi occhiate da tutto il bar. «Ecco, io sono specializzata in svedesi. Sono freddi ma sono puliti e diventano clienti fissi. Altre ragazze si specializzano in africani. Ci sono stati un paio di assassini, ma generalmente gli africani sono dolci e riconoscenti.» «Gli americani?» «Gli americani hanno paura, gli arabi sono pelosi, i tedeschi chiassoni.» «E i russi?» chiese Arkady. «I russi? Mi fanno compassione, gli uomini russi. Sono pigri, inutili, ubriachi.» «Ma a letto?» chiese Jaak. «Era proprio di questo che parlavo» disse Julya. Si guardò in giro. «Questo posto è così volgare. Lo sapevi che ci sono delle ragazze di quindici anni che battono il marciapiede?» chiese ad Arkady. «Di notte le ragazze battono con i clienti, vanno a bussare alle porte. Non posso credere che Jaak ti abbia chiesto di venire qui.» «Julya lavora al Savoy» spiegò Jaak. Il Savoy era un investimento finlandese all'angolo della sede del Kgb. Era l'hotel più costoso di Mosca. «Al Savoy dicono che non ci sono prostitute» disse Arkady. «Esattamente. È un posto di classe. Comunque, non mi piace la parola prostituta.» Putana era il termine che veniva impiegato più spesso per le prostitute di classe, quelle che si facevano pagare in valuta pregiata. Arkady aveva la sensazione che Julya non avrebbe gradito nemmeno quel termine. «Julya è una segretaria poliglotta» disse Jaak. «Ed è anche brava.» Un uomo in tuta sportiva posò una borsa su una sedia, sedette e ordinò un cognac. Una corsetta, un po' di cognac; pareva un ottimo regime. Aveva i capelli ricci dei ceceni, ma li portava lunghi sulla nuca, corti ai lati, con un ciuffo ricciuto tinto di arancione sul davanti. La borsa sembrava pesante. Arkady guardò l'addetto alle slot-machine. «Non ha l'aria allegra. Rudy
era sempre presente alla conta dei gettoni. Se Kim ha ammazzato Rudy, chi lo proteggerà?» Jaak lesse nel suo taccuino. «Secondo quelli dell'albergo, "dieci macchinette da gioco prese in leasing dalla cooperativa TransKom Services e messe a disposizione dalla Recreativos Franco, SA, per un incasso complessivo giornaliero di circa mille dollari". Mica male. "I gettoni vengono contati giornalmente e, sempre giornalmente, confrontati con i contatori sul retro delle macchine. I contatori sono sigillati; solo lo spagnolo può aprirli e azzerarli." Tu hai visto...» «Venti sacchetti» disse Arkady. Jaak fece il calcolo. «Ogni sacchetto tiene 500 gettoni. Per cui venti sacchetti sono 2500 dollari. Vale a dire mille dollari per lo stato e millecinquecento al giorno per Rudy. Non so come abbia fatto ma, stando ai sacchetti, è riuscito a fregare i contatori.» Arkady si chiese che cosa fosse la TransKom. Non poteva essere solo di Rudy. Per un'attività di importazione e affitto come questa bisognava essere sponsorizzati dal Partito, da qualche istituzione ufficiale disposta a fare da socio. Jaak riportò lo sguardo su Julya. «Risposiamoci.» «Ho intenzione di sposare uno svedese, un dirigente. Ho delle amiche a Stoccolma che l'hanno già fatto. Non è Parigi, ma agli svedesi piace una che ci sa fare con i soldi e che sa far divertire. Ho avuto delle proposte.» «E poi parlano di fuga dei cervelli» disse Jaak ad Arkady. «Uno mi ha regalato una macchina» disse Julya. «Una macchina?» ripeté Jaak, con più rispetto. «Una Volvo.» «Naturalmente. Il tuo sedere dovrebbe posarsi solo su cuoio straniero.» Jaak la implorò: «Aiutami. Non per le auto o per gli anelli di rubini, ma perché non ti ho rispedita al paesello la prima volta che ti abbiamo raccolta per la strada.» Ad Arkady spiegò: «La prima volta che l'ho vista aveva degli stivali di gomma e un materasso. Si lamenta di Stoccolma e viene da un posto in Siberia dove per cagare devono bere l'antigelo.» «Questo mi fa venire in mente» disse Julya imperterrita «che per il visto di uscita mi serve una tua dichiarazione, in cui rinunci a ogni pretesa nei miei confronti.» «Siamo divorziati. Abbiamo una relazione di mutuo rispetto. Mi presti la macchina?» «Vieni a trovarmi in Svezia.» Julya sfogliò la rivista fino a trovare una
pagina che era disposta a rovinare. Scrisse tre indirizzi con una scrittura tutta riccioli, piegò il margine e lo strappò lungo la piega. «Non ti sto facendo un favore. Personalmente, Kim è l'ultima persona che vorrei trovare. Siete sicuri che non vi posso offrire il pranzo?» «Mi concederò un'altra zolletta prima di andare» disse Arkady. «Stai attento» disse Julya a Jaak. «Kim è pazzo. Preferirei che non lo trovassi.» Uscendo, Arkady si rivide per un attimo nello specchio del bar. Più malconcio di quel che pensava; non era il tipo di faccia che si risvegliava aspettando il sole. Come recitava quella vecchia poesia di Majakovskij? "Guardami, mondo, e invidiami; ho un passaporto sovietico!" Ora tutti volevano il passaporto semplicemente per andarsene e il governo, ignorato da tutti, era precipitato in quel tipo di polemiche astiose che potevano verificarsi in un bordello dove da vent'anni non si vedevano più clienti. Come si poteva spiegare questo negozio, questo paese, questa vita? Una forchetta con tre punte su quattro, due copechi. Un amo da pesca, venti copechi: usato, ma i pesci non sono schizzinosi. Un pettine piccolo per un paio di baffi, ridotto da quattro copechi a due. Era vero che si trattava di un rigattiere, ma in un altro mondo, più civile, questa non era spazzatura? Non sarebbe stata tutta gettata via? Di alcuni oggetti non si immaginava la funzione. Uno scooter di legno con rozze ruote di legno e niente manubrio. Un cartellino di plastica con il numero 97. Che probabilità c'erano che qualcuno avesse 97 stanze, 97 armadietti o 97 oggetti qualsiasi e gli mancasse proprio quest'ultimo numero? Forse era semplicemente l'idea dell'acquisto. L'idea di mercato. Perché questo era il negozio di una cooperativa e la gente voleva comperare... qualunque cosa. Sul terzo tavolo giaceva un pezzo di sapone, ripulito e ricavato da un pezzo più grosso, a venti copechi. Un rugginoso coltello per burro, cinque copechi. Una lampadina annerita con il filamento rotto, tre rubli. Per quale ragione, quando una lampadina nuova costava quaranta copechi? Perché, dato che nei negozi non si trovavano lampadine nuove, si portava quella usata in ufficio, la si metteva al posto della lampadina della scrivania e si portava quella buona a casa, per non essere costretti a vivere al buio. Arkady sgusciò fuori dalla porta posteriore e attraversò lo spiazzo di terra battuta verso il secondo indirizzo, una latteria. Teneva una sigaretta in ma-
no, per segnalare che Kim non era stato alla cooperativa. Sulla strada, in macchina, Jaak sembrava impegnato nella lettura di un giornale. Nella latteria non si trovava né latte, né panna, né burro, i locali refrigerati erano pieni di scatole di zucchero. Ai banconi vuoti, le commesse in camice bianco e berrettino ostentavano l'espressione annoiata di una retroguardia. Arkady prese in mano una scatola di zucchero. Vuota. «Panna montata?» Arkady chiese a una commessa. «No.» La donna pareva sconcertata. «Formaggio dolce?» «No di certo. Ma è matto?» «Sì, però la memoria è buona» disse Arkady. Mostrò per un attimo il tesserino rosso, passò dietro il bancone e attraverso la porta a ventola, e si ritrovò sul retro. Nel magazzino c'era un autocarro dal quale stavano scaricando del latte, che veniva trasferito direttamente in un altro autocarro senza contrassegni. La direttrice del negozio uscì da un frigorifero. Prima che la porta si chiudesse di scatto, Arkady vide svariati formaggi e vaschette di burro. «Tutto quel che vede è riservato. Non abbiamo niente, niente!» annunciò la donna. Arkady aprì la porta del frigorifero. Un vecchio era accoccolato come un topo in un angolo. In una mano stringeva un certificato che lo nominava ispettore volontario per la lotta contro l'incetta e la speculazione. Nell'altra aveva una bottiglia di vodka. «Stai al calduccio, zio?» chiese Arkady. «Sono un veterano.» Il vecchio toccò con la bottiglia la medaglia appuntata al maglione. «Lo vedo.» Arkady si aggirò nel magazzino. A cosa potevano servire dei ripostigli in una latteria? «Tutto quello che vede è un'ordinazione speciale per invalidi e bambini» disse la direttrice. Arkady aprì un ripostiglio e vide sacchi di farina accatastati come se fossero sacchi di sabbia. Quando ne aprì un altro, delle melagrane gli rotolarono sui piedi e si fermarono sul pavimento del magazzino. Da un terzo ripostiglio, dei limoni caddero sulle melagrane. «Invalidi e bambini!» urlò la direttrice. L'ultimo ripostiglio era pieno di sigarette. Arkady aggirò cautamente la frutta sparsa e uscì dal magazzino. Gli uo-
mini che stavano caricando il latte nascosero il volto. Dal retro del negozio, con la sigaretta ancora nella sinistra, attraversò un cortile cosparso di pezzi di vetro in direzione della via principale. Su di essa si affacciavano condomini macchiati di ruggine. Le automobili avevano l'aria malconcia e rugginosa dei rottami. Alcuni bambini si aggrappavano a una giostra color ruggine senza sedili. La scuola sembrava costruita con mattoni fatti di ruggine. In fondo alla strada, come un sepolcro, la sede locale del Partito era coperta di marmo bianco. Giunto all'ultimo indirizzo di Kim indicato da Julya, Arkady lasciò cadere la sigaretta mentre si avvicinava ad un negozio di animali. Grandi pezzi di intonaco della facciata erano caduti come ampie sezioni geografiche. Udì Jaak avvicinarsi in macchina alle sue spalle. Gli unici animali in vendita sembravano pulcini e gattini che pigolavano e miagolavano in gabbie di metallo. La commessa era una ragazza cinese che trafficava su quello che sembrava un fegato. Quando il fegato si agitò Arkady vide che in realtà si trattava di un ammasso di sanguisughe. Passò dietro al bancone ed uscì sul retro seguito dalla ragazza che, agitando la mannaia, ammoniva: «Qui vietato entrare». Il retro rivelò sacchi di segatura e mangime per polli, un frigorifero con un calendario dell'Anno del Topo, scaffali con alti vasi di vetro pieni di tè, funghi, radici di ginseng a forma umana e prodotti con etichette in cinese che Arkady riconobbe dalle erboristerie che aveva visto in Siberia. Quello che sembrava catrame era in realtà bile di orso bruno; una bottiglia più grande conteneva una massa granulosa di sangue di maiale coagulato, buono per la zuppa. C'erano anche cavallucci marini essiccati e peni di cervo, simili a peperoni. Su una corda erano infilate alcune zampe d'orso, un altro prodotto illegale. Su un trespolo, un armadillo mezzo vivo si agitò. «Vietato entrare» insistette la ragazza. Non poteva avere più di dodici anni, e la mannaia sembrava lunga quanto il suo braccio. Arkady si scusò e uscì. Una seconda porta dava su una scala cosparsa di semi per uccelli e finiva su una porta metallica. Arkady bussò e si appiattì contro il muro. «Kim, vogliamo aiutarti. Esci che dobbiamo parlare. Siamo amici.» Dentro c'era qualcuno. Arkady sentì un'asse del pavimento cigolare e un rumore di fogli. Diede un colpo sulla porta, che si aprì di scatto. Entrò in un magazzino buio, salvo una scatola da scarpe in fiamme rovesciata al centro del pavimento; sentì l'odore della benzina per accendini che vi era stata versata. Contro le pareti erano ammassati diversi scatoloni di te-
levisori, sul pavimento giacevano un materasso spoglio, una cassetta di attrezzi, un fornelletto. Scostò le tende e dalla finestra aperta vide una scala antincendio che scendeva in un cortile colmo dei rifiuti del negozio di animali: sacchi di sementi, reti di acciaio, pulcini morti. Chiunque si trovasse in quella stanza era scomparso. Provò a premere l'interruttore. Anche la lampadina era scomparsa. Questa sì che era capacità di prevedere. Arkady fece il giro completo del locale controllando dietro i cartoni, quindi tornò alla scatola che bruciava. Il rumore delle fiamme era lieve e nello stesso tempo furioso, una sorta di incendio in miniatura. Non era una scatola da scarpe. Su un fianco c'era la scritta "Cindy", accompagnata dall'immagine di una bambola dai capelli biondi a coda di cavallo che versava del tè seduta a un tavolino. La riconobbe perché le bambole Cindy erano l'articolo di importazione più diffuso a Mosca, si vedevano in tutte le vetrine dei negozi di giocattoli, ma non esistevano sugli scaffali. L'illustrazione mostrava anche un cane, forse un pechinese, che agitava la coda accucciato ai piedi della bambola. Jaak si precipitò dentro. Fece per spegnere l'incendio con i piedi. «Non farlo.» Arkady lo allontanò. La base della fiamma divorava l'immagine. Quando i capelli di Cindy presero fuoco il viso si oscurò, allarmato. Per un istante, mentre il tronco si consumava, la bambola parve sollevare la teiera e alzarsi. Il cane aspettava fedele nonostante fosse circondato dalla carta in fiamme. La scatola si ridusse a un ammasso nero contorto, percorso da una ragnatela ardente che man mano diventava grigia e soffice, velata da uno strato di cenere che Arkady soffiò via. Dentro c'era una mina antiuomo, leggermente carbonizzata, con i due aghi delle spolette sollevati, ancora in attesa che Jaak li schiacciasse col piede. 3 Arkady disegnò su un pezzo di carta un'automobilina da cartone animato. Le matite colorate, pensò, erano praticamente l'unica cosa che gli mancava. Le comodità a disposizione di Renko, investigatore speciale riabilitato, comprendevano scrivania e tavolo da riunione, quattro sedie, schedari e un armadio contenente una cassaforte a combinazione. Inoltre, due macchine da scrivere portatili modello "Deluxe", due telefoni rossi per l'esterno con disco e due telefoni gialli interni senza. Aveva due finestre ornate da tende, una carta topografica da parete di Mosca, una lavagna avvolgibi-
le, un samovar elettrico e un portacenere. Sul tavolo Polina dispose una panoramica a 360° in bianco e nero del cantiere, le foto a distanza ravvicinata dell'Audi, i dettagli a colori dell'auto bruciata e del conducente. Minin si chinò pieno di zelo. Jaak, che non dormiva da quaranta ore, si muoveva come un pugile che cerca di alzarsi prima di venir contato fino a dieci. «È stata la vodka a rendere così disastroso l'incendio» disse Jaak. «Tutti pensano alla vodka» disse Polina sprezzante. «In realtà quelli che bruciano sono i sedili di poliuretano. Ecco perché ci mettono così poco a bruciare le macchine, perché sono quasi tutta plastica. Il sedile aderisce alla pelle come napalm. Un'auto è semplicemente un dispositivo incendiario montato su ruote.» Arkady sospettava che non tanto tempo prima Polina dovesse essere stata la ragazza che, di tutto il corso di anatomia patologica, aveva gli appunti migliori, illustrati e annotati puntigliosamente. «Nelle foto si vede dapprima Rudy ancora nella macchina, poi dopo che l'abbiamo tirato fuori; infine c'è una foto del sedile ripreso dall'alto, attraverso le molle, per inquadrare gli oggetti caduti di tasca: chiavi d'acciaio intatte, copechi fusi con la sporcizia del pavimento, apparecchi appoggiati sul sedile, compreso quel che resta della nostra trasmittente. I nastri sono bruciati, ovviamente, se pur avevano registrato qualcosa. Nelle prime foto noterete che ho evidenziato in rosso la traccia di una fiammata, vicino al cambio.» E in effetti l'aveva fatto, vicino al perone e alla tibia calcinati e alle scarpe di Rudy Rosen. «Intorno al segno della fiammata c'erano tracce di sodio rosso e di solfato di rame, cosa che farebbe pensare a una bomba incendiaria. Dato che non ci sono resti di un timer né di una spoletta, suppongo che si trattasse di una bomba destinata a incendiarsi per contatto. C'era anche benzina.» «È uscita quando è esploso il serbatoio» disse Jaak. Arkady disegnò una figura umana nella macchina e, con una penna rossa, un cerchio intorno ai piedi. «Che mi dici di Rudy?» «La carne in quelle condizioni è dura come legno, e le ossa si spezzano non appena usi il bisturi. È già abbastanza difficile asportare i vestiti. Vi ho portato questo.» Da una borsa di plastica Polina estrasse quel che era rimasto dell'anello di Rudy. Il freddo orgoglio che le si leggeva in volto ricordò ad Arkady quei gatti che portano al padrone i topi appena catturati. «Hai controllato i denti?» «Ecco lo schema. L'oro si è staccato e non l'ho ritrovato, ma ci sono
tracce di otturazione nel secondo molare inferiore. Naturalmente tutte queste sono informazioni preliminari al referto dell'autopsia.» «Grazie.» «Una sola cosa» aggiunse Polina. «C'era troppo sangue.» «Probabilmente Rudy aveva un bel po' di ferite» disse Jaak. «Chi muore bruciato non esplode. Non è una salsiccia. Ho trovato sangue dappertutto.» Arkady si agitò a disagio. «Forse è l'aggressore a essere rimasto ferito.» «Ho mandato dei campioni al laboratorio per stabilire il gruppo sanguigno.» «Ottima idea.» «È stato un piacere.» Mento in alto, disinteressata nei confronti di quel che sarebbe successo da quel momento in poi, Polina stava persino seduta come un gatto. Jaak disegnò sulla lavagna la pianta del mercato, mostrando la posizione dell'auto di Rudy, quella di Kim, della coda di clienti e poi, a venti metri di distanza, il camion dei videoregistratori. Un secondo gruppo era disposto irregolarmente nell'orbita dell'autoambulanza, del venditore di computer, del furgone del caviale; poi, più lontano, mezza orbita comprendente i gioiellieri zingari, i rocker, i mercanti di tappeti, la Zhiguli. «Era una serata importante. Con i ceceni presenti, possiamo dirci fortunati che il posto non sia saltato in aria.» Jaak fissò la lavagna. «Il nostro unico testimone afferma che Kim ha ucciso Rudy. All'inizio mi pareva difficile da credere, ma considerando chi si trovava abbastanza vicino da poter tirare una bomba, la cosa ha un senso.» «Tutto questo da un ricordo di qualcosa visto al buio, in mezzo alla confusione?» chiese Polina. «Come quasi sempre, nella vita.» Arkady cercò le sigarette sulla scrivania. Non si è dormito? Un po' di nicotina risolve il problema. «Quello di cui stiamo parlando è un mercato nero, non il solito insieme di normali cittadini ma un mercato clandestino notturno per criminali. Un territorio neutrale e una vittima molto neutrale, cioè Rudy Rosen.» «È quasi combustione spontanea» disse Jaak. «Basta mettere insieme un po' di delinquenti, di vodka, di droga, si butta in mezzo una granata incendiaria e senz'altro succede qualcosa.» «Visto il tipo, avrà probabilmente fregato qualcuno» suggerì Minin. «Rudy mi piaceva» disse Arkady. «L'ho costretto a partecipare a questa operazione e l'ho fatto ammazzare.» La verità è sempre un ottimo metodo
per mettere in imbarazzo. Jaak sembrava addolorato dall'ammissione di Arkady, come un bravo cane che vede il padrone inciampare. Minin invece sembrava cupamente soddisfatto. «La domanda è: come mai due bombe incendiarie? C'erano tante di quelle armi da fuoco in giro: perché non sparargli? Il nostro testimone...» «Il nostro testimone è Gary Oberlyan» gli ricordò Jaak. «...il quale identifica in Kim l'aggressore» proseguì Arkady. «Kim era armato di un Malysh. Gli sarebbe stato più facile scaricargli cento pallottole addosso che tirargli una bomba. Doveva solo premere il grilletto.» Polina chiese: «Perché due bombe invece di una? Bastava la prima ad ammazzarlo.» «Forse non si trattava solo di ammazzare Rudy» disse Arkady. «Forse si trattava di bruciare la macchina. Sui sedili posteriori c'erano tutti i suoi fascicoli, tutte le informazioni - prestiti, affari, documenti di carta, dischetti.» «Quando si ammazza qualcuno» intervenne Jaak «la prima cosa che si fa è filare. Non si ha voglia di mettersi a maneggiare documenti.» «Adesso sono finiti in fumo» osservò Arkady. Polina suggerì un argomento più allegro. «Se Kim era vicino alla macchina quando si è incendiata la bomba, potrebbe essere rimasto ferito. Potrebbe essere suo, il sangue.» «Ho avvertito ospedali e cliniche di avvertire se si presenta qualcuno con delle ustioni» disse Jaak. «Aggiungerò anche lacerazioni. Solo, mi sembra difficile credere che Kim abbia fatto fuori Rudy. Se non altro, Kim era un tipo leale.» «A che punto siamo con la casa di Rudy?» chiese Arkady seguendo l'odore di tabacco stantio, attraente e repellente al tempo stesso, fino a un cassetto in basso. «I tecnici hanno preso le impronte» disse Polina. «Per il momento hanno trovato solo quelle di Rudy.» Nel fondo di un cassetto Arkady trovò un pacchetto dimenticato di Belomor, la vera misura della disperazione. «Non avete ancora finito l'autopsia?» chiese. «C'è la coda per l'obitorio, te l'avevo detto.» «Coda all'obitorio? È l'insulto finale.» La Belomor si accese con uno sbuffo di fumo nero, come lo scappamento di un diesel. Difficile fumarla e nello stesso tempo tenerla lontana, ma Arkady ci provò. «Guardarti fumare è come guardare una persona che si suicida» disse
Polina. «Nessuno ha bisogno di attaccare questo paese, basta che lo bombardi di sigarette.» Arkady cambiò argomento. «E a proposito dell'appartamento di Kim?» Jaak riferì che una ricerca più accurata nel magazzino aveva rivelato altri cartoni vuoti di autoradio tedesche, di scarpe da ginnastica italiane, il materasso, bottiglie di cognac vuote, semi per uccelli e confezioni di balsamo di tigre. «Tutte le impronte digitali trovate nel magazzino corrispondono a quelle della pratica che la milizia ha sul conto di Kim» disse Polina. «Le impronte sulla scala antincendio erano confuse.» «Il testimone ha identificato Kim come la persona che ha gettato la bomba nella macchina di Rudy. Avete trovato una mina nella sua stanza. È il caso di avere ancora dubbi?» chiese Minin. «Non abbiamo visto Kim» disse Arkady. «Non sappiamo chi ci fosse, nella stanza.» «Ho aperto la porta e ho visto le fiamme» disse Jaak. «Vi ricordate di quando eravate bambini? Non avete mai messo della merda di cane in un sacchetto di carta per poi dargli fuoco e vedere la gente che lo pestava per spegnerlo?» No, Minin scosse il capo; lui non aveva mai fatto niente del genere. «Noi lo facevamo sempre» disse Jaak. «Comunque, invece di cacca di cane c'era una mina. Non riesco a crederci ma ci sono cascato. Quasi.» Aveva davanti a sé la foto dell'involucro oblungo, con i due spilli delle spolette alzati. Era una piccola mina antiuomo dell'esercito con una carica di tritolo, del tipo soprannominato "Souvenir per...". L'investigatore sollevò lo sguardo e si ricompose. «Forse una guerra di bande. Se Kim si è messo con i ceceni, Borya lo starà cercando. Scommetto che la mina è stata lasciata per Borya.» Polina si era tenuta addosso la giacca. Si rizzò in piedi e abbottonò i bottoni più alti con gesti rapidi delle dita, esprimendo decisione e disgusto. «La mina nella scatola era per te. E anche la bomba nell'auto era probabilmente per te» disse ad Arkady. «No» Stava per spiegare a Polina quanto fosse errato il suo ragionamento quando la donna uscì, chiudendo la porta come ultima parola. Arkady spense la Belomor e scrutò i suoi due investigatori. «È tardi, figlioli. Per oggi basta.» Minin si alzò riluttante. «Non vedo perché dobbiamo tenere un agente nell'appartamento di Rosen.»
«Vogliamo che rimanga com'è, almeno per un po'. Ci abbiamo lasciato delle cose di valore» spiegò Arkady. «I vestiti, la televisione, i libretti di risparmio?» «Pensavo al cibo, compagno Minin.» Minin era l'unico membro del Partito della squadra; Arkady ogni tanto gli lanciava un "compagno", come si gettano dei rifiuti a un maiale. A volte Arkady aveva la sensazione che, mentre lui era via, Dio avesse sollevato Mosca e l'avesse rovesciata. Era ritornato in una Mosca del sottosuolo, una città non più sotto la mano grigia del Partito. La mappa mostrava una città diversa, con molti più colori tracciati con le matite. Il rosso, per esempio, era il colore della mafia di Lyubertsy, un sobborgo operaio a oriente della città. Kim si distingueva perché era coreano, ma per il resto era il tipico esempio di ragazzo cresciuto in quel quartiere. Qui abitavano gli emarginati, gli studenti che non frequentavano le scuole di élite, senza diplomi universitari e senza contatti nel Partito. Erano quelli che, nei cinque anni precedenti, erano emersi dalle stazioni del metro prima per aggredire i punk e poi per offrire protezione alle prostitute, ai vari mercati neri, agli uffici statali. I circoli rossi mostravano le sfere di influenza di Lyubertsy: il complesso turistico del parco di Izmailovo, l'aeroporto di Domodedovo, i venditori di video di via Shabalovka. L'ippodromo era gestito da un clan ebreo. Il blu era quello della mafia del Laghetto Lungo, un sobborgo di baracche nella zona settentrionale. I circoli blu indicavano i loro interessi - furto di merci all'aeroporto di Sheremetyevo e prostitute all'hotel Minsk - ma la loro attività principale erano i ricambi d'auto. La fabbrica Moskvitch, ad esempio, era all'interno di uno dei cerchi. Borya Gubenko non solo era salito ai vertici di Laghetto Lungo, ma aveva attirato anche Lyubertsy sotto la sua influenza. Il verde islamico era quello dei ceceni, musulmani originari delle montagne del Caspio. A Mosca ne vivevano un migliaio, a cui si aggiungevano i rinforzi che arrivavano in carovane di automobili; tutti obbedivano agli ordini di un capo chiamato Makhmud. Tra le varie mafie sovietiche, i ceceni erano l'equivalente dei siciliani. Il rosso cardinale era riservato alla mafia di Baumanskaya, autoctona di Mosca, che prendeva il nome dal quartiere compreso tra il carcere di Lefortovo e la chiesa dell'Epifania. La base dei loro traffici era il mercato Rizhsky.
Infine vi era il marrone dei ragazzi di Kazan, più uno sciame di ambiziosi artisti della rapina che una mafia organizzata. Assalivano i ristoranti dell'Arbat, spacciavano droghe e gestivano prostitute adolescenti nelle strade. Di tutti costoro Rudy Rosen era stato il banchiere. Semplicemente seguendo Rudy nella sua Audi, Arkady era riuscito a delineare questa Mosca più luminosa, più cupa. Sei mattine alla settimana, dal lunedì al sabato, Rudy seguiva una routine prefissata. Un viaggio mattutino a un bagno pubblico gestito da Borya nella zona settentrionale della città, poi un viaggio in compagnia di Borya a comperare pasticcini al parco di Izmailovo e a incontrare i Lyuber. Un caffè nella tarda mattinata al National Hotel con il contatto della Baumanskaya. Persino una colazione all'Uzbekistan con il suo nemico, Makhmud. Il circuito di un moderno uomo d'affari moscovita, sempre seguito da Kim in motocicletta, come una coda segue il gatto. Fuori, la notte era ancora bianca. Arkady non aveva né sete né sonno. Si sentiva il perfetto uomo nuovo sovietico, fatto per un paese senza cibo né riposo. Si alzò e lasciò l'ufficio. Ne aveva abbastanza. A ogni piano una grata chiudeva la tromba delle scale per raccogliere i "tuffatori", prigionieri che tentavano la fuga. Forse non solo i prigionieri, pensò Arkady scendendo. Nel cortile, la Zhiguli era parcheggiata accanto a un furgone blu per il trasporto dei cani. Due di essi, con i peli irti sulla schiena, erano incatenati al paraurti anteriore. Apparentemente, Arkady aveva due automobili ufficiali, ma i buoni della benzina bastavano per una sola, dato che i pozzi petroliferi della Siberia venivano prosciugati dalla Germania, dal Giappone e anche dal paese fratello Cuba, lasciando solo un rivolo per i consumi interni. Dalla seconda auto aveva anche dovuto cannibalizzare lo spinterogeno e la batteria per tenere in esercizio la prima, perché inviare la Zhiguli in officina equivaleva a farla partire per un viaggio intorno al mondo nel corso del quale sarebbe stata smontata sulle banchine di Port Said o di Calcutta. Come problema già bastava la benzina. La benzina era la ragione per cui i difensori dello stato strisciavano da un'auto all'altra con un tubo e un bidone. La stessa per cui i cani erano legati al paraurti. Arkady entrò dal lato del passeggero e si sistemò al volante. I cani tesero la catena per tutta la lunghezza e tentarono di azzannarlo attraverso il finestrino. Pregò e girò la chiave di accensione. Ah, almeno un decimo di serbatoio. Dio esisteva, dopotutto. Due svolte a destra lo immisero tra le file di negozi ancora illuminati di
via Gorky. Che cosa c'era in vendita? Uno scenario di sabbia e palmizi racchiudeva un piedistallo sul quale era posato un vasetto di marmellata di guava. Nel negozio accanto, alcuni manichini si disputavano un taglio di chintz. I negozi di alimentari esponevano pesce iridescente come chiazze di petrolio. In piazza Pushkin la folla si spargeva sulla strada. Un anno prima c'era allegria e tolleranza tra i gruppi che si combattevano a slogan. All'epoca sventolavano una dozzina di bandiere: lituana, armena, il rosso zarista, il bianco e blu del fronte democratico. Ora tutte le bandiere erano state espulse dal campo salvo due, quella del fronte e, sui gradini di fronte, quella rossa del Comitato per la Salvezza della Russia. Ogni bandiera aveva migliaia di seguaci che cercavano di coprire le voci del gruppo avversario. Tra i due gruppi scoppiavano focolai di rissa, e ogni tanto un corpo finiva a terra e veniva preso a calci o trascinato via. La milizia si era ritirata con discrezione ai margini della piazza e sulle scale del metro. I turisti osservavano dalla sicurezza di un MacDonald's. Le auto venivano fermate, ma Arkady riuscì a infilarsi in un vicolo e a raggiungere un giardinetto di platani, un rifugio tranquillo, al riparo dalle luci e dai clacson del viale vicino. Alcune sedie e un tavolo erano fissati al terreno, in attesa del tè degli orsi. Raggiunto il lato opposto, entrò in una strada parzialmente ingombra di camion. Erano pesanti, con massicce ruote militari, il pianale chiuso da teloni. Incuriosito, Arkady suonò il clacson. Una mano scostò un lembo, mostrando un gruppo di truppe speciali in divisa grigia ed elmetto nero, armate di scudi e manganelli. Insonni armati - i peggiori, si disse Arkady. L'ufficio del pubblico ministero gli aveva offerto un appartamento moderno in un palazzone dove vivevano apparatchiki e giovani professionisti, ma Arkady voleva avere la sensazione di vivere a Mosca. E qui si trovava, nell'angolo formato dalla Moscova e dallo Yauza, in un edificio a tre piani dietro una ex chiesa dove ora producevano linimento e vodka. La cupola della chiesa era stata dorata in occasione delle Olimpiadi del 1980, ma l'interno era stato sventrato per fare spazio a serbatoi di ferro stagnato e alle macchine per l'imbottigliamento. Come facevano i distillatori a decidere quale parte della loro produzione fosse vodka e quale alcol per frizioni? Del resto, che importanza aveva? Mentre toglieva per la notte le spazzole dei tergicristalli e lo specchietto retrovisore esterno, Arkady ricordò la radio a onde corte di Jaak, rimasta
nel baule dell'auto. Radio, spazzole e specchietto in mano, contemplò il negozio di alimentari all'angolo. Chiuso, naturalmente. Poteva svolgere il proprio lavoro oppure mangiare; sembravano queste le scelte a disposizione. Se la cosa poteva essere di consolazione, l'ultima volta che aveva mangiato al mercato aveva potuto scegliere tra testa di mucca e zoccoli. Niente di quel che c'era in mezzo, come se i quarti dell'animale fossero scomparsi in un buco nero. Dato che si poteva entrare nel palazzo solo premendo un codice numerico in un quadro di sicurezza, qualcuno in vena di gentilezze aveva scritto i numeri del codice accanto alla porta. All'interno, le caselle delle lettere erano annerite nei punti in cui dei vandali avevano infilato dei giornali nella fessura per poi dargli fuoco. Al primo piano si fermò da una vicina per recuperare la sua posta. Veronica Ivanovna, gli occhi luminosi di una bambina e i capelli grigi sconvolti di una strega, era la persona che in tutto il palazzo più assomigliava a una portinaia. «Due lettere personali e la bolletta del telefono.» Porse le due buste ad Arkady. «Non ho potuto procurarti da mangiare perché ti sei dimenticato di darmi la tessera del razionamento.» L'appartamento della donna era illuminato dalla luce asfittica di un televisore. Pareva che tutti i vecchi del palazzo si fossero raccolti su sedie e sgabelli per guardare, o meglio per ascoltare, a occhi chiusi, l'immagine di un volto grigio e professorale dalla voce profonda e rassicurante che arrivava come risacca fino alla porta aperta. «Siete stanchi. Tutti sono stanchi. Siete confusi. Tutti sono confusi. È un periodo difficile, un periodo di stress. Ma questa è l'ora della guarigione, della ripresa dei contatti con le forze naturali positive che ti circondano. Provate a vedere l'immagine. Lasciate che la fatica vi esca dalla punta delle dita, lasciate che entrino le forze positive.» «Un ipnotizzatore?» chiese Arkady. «Entra. È il programma più popolare della televisione.» «Be', per essere stanco e confuso lo sono» ammise Arkady. I vicini di Arkady si rilassavano sulle sedie come se fossero esposti al calore radiante di un caminetto. Era il collare di barba, da orecchio a orecchio e fin sotto il mento, che conferiva all'ipnotizzatore un'aria seria, da accademico, insieme alle lenti spesse che gli ingrandivano gli occhi, intensi e non ammiccanti come quelli di un'icona. «Apritevi e rilassatevi. Ripulite la mente dai vecchi dogmi e dalle angosce, perché esistono solo nella vostra mente. Ricordate, l'universo intende lavorare attraverso di voi.»
«Ho comperato un cristallo per strada» disse Veronica. «I suoi li vendono dappertutto. Tu metti un cristallo sul televisore e questo concentra le sue emanazioni su di te, come un faro. Lo amplifica.» In effetti, Arkady vide una fila di cristalli allineata sopra il televisore. «Credi che sia un brutto segno quando è più facile comperare sassi invece che cibo?» chiese. «I brutti segni si trovano solo se si cercano.» «Questo è il problema. Nel mio lavoro non faccio altro.» Dal frigorifero Arkady tirò fuori un cetriolo, dello yoghurt e del pane stantio che mangiò in piedi davanti a una finestra aperta, guardando sopra la chiesa, verso il fiume. Il quartiere aveva vecchie stradine su vere colline e un vicolo di carbonai dietro la chiesa. Nei cortili dietro le case si tenevano mucche e capre, che in tempi come quelli facevano comodo. Era la parte più nuova della città quella che sembrava abbandonata. Le insegne al neon sopra le fabbriche erano metà spente e metà accese e comunicavano messaggi incomprensibili. Il fiume stesso era nero e immobile come asfalto. Il soggiorno di Arkady era arredato da un tavolo col piano smaltato, una lattina piena di margherite, una poltrona, una buona lampada d'ottone e un numero tale di scaffali che la stanza sembrava costruita contro una diga di libri, un muraglione di tascabili, dalla poetessa Achmatova all'umorista Zoschenko, passando per Makarov, la calibro 9 che teneva nascosta dietro la traduzione del Macbeth di Pasternak. Il corridoio con la doccia e il WC portava alla camera da letto, che ospitava altri libri. Il letto era fatto, questo lo inorgogliva. Sul pavimento giacevano un registratore a cassette con cuffie e un portacenere. Le sigarette le trovò sotto il letto. Sapeva che doveva sdraiarsi e chiudere gli occhi, ma si ritrovò a ripercorrere il corridoio. Non aveva ancora né sonno né fame. Tanto per fare qualcosa, guardò di nuovo nel frigorifero. Trovò soltanto un contenitore di cartone con qualcosa chiamato "Frutti di bosco" e una bottiglia di vodka. Dovette agitare il cartone per far scendere con un "plop" nel bicchiere un rivolo granuloso di succo marrone. A giudicare dal sapore doveva essere mela, prugna o pera. La vodka riuscì a malapena a coprirne il sapore. «A Rudy.» Bevve e riempì di nuovo il bicchiere. Visto che aveva la radio di Jaak, la piazzò sul tavolo e la accese, dando via libera a un bailamme di stazioni a onde corte. Da luoghi distanti del globo giunsero spasmi eccitati di arabo e le vocali rotonde della Bbc. Av-
volto dai segnali, il pianeta sembrava ronzare spensierato, forse diffondendo quelle forze positive di cui l'ipnotizzatore parlava. Su una stazione a onde medie udì una discussione in russo sul ghepardo asiatico. «Il più splendido tra i felini del deserto, il ghepardo, è diffuso in una fascia che si estende lungo il Turkmenistan meridionale fino al tavoliere di Ustyurt. La distribuzione di questi splendidi animali non è però ben definita in quanto da trent'anni nessun esemplare è stato visto in libertà.» Il che rendeva la diffusione del ghepardo valida come quella delle banconote zariste, pensò Arkady. Gli piaceva però l'idea dei ghepardi ancora in agguato nel deserto sovietico, per inseguire l'onagro o la gazzella gozzuta, in accelerazione, saettando tra le tamerici, balzando verso il cielo. Notò che aveva di nuovo gravitato verso la camera da letto. Veronica, al piano di sotto, diceva che tutte le sere faceva un chilometro da una stanza all'altra. Solo per affermare la sua libertà di movimento, nient'altro. Alla radio una voce diversa, femminile, leggeva le notizie sull'ultima crisi nei paesi baltici. La ascoltò distrattamente mentre rifletteva sulla mina terrestre nel locale di Kim. Ogni giorno dai depositi militari venivano rubate delle armi. I camion dell'esercito avrebbero aperto bottega a tutti gli incroci? Mosca sarebbe diventata la prossima Beirut? Una leggera cappa di fumo incombeva sulla città. Sotto, lo stesso fumo mulinava intorno a casse di vodka vuote. Si ritrovò nuovamente in soggiorno. La trasmissione aveva un'impostazione strana, ma la voce gli sembrava vagamente familiare. «Il gruppo di destra "Bandiera rossa" ha affermato che stasera intende svolgere una manifestazione in piazza Pushkin, a Mosca. Sebbene le forze speciali siano state allertate, gli osservatori ritengono che ancora una volta il governo, prevedendo lo scoppio di disordini, eviterà di prendere iniziative, in modo da avere una scusa per eliminare gli oppositori politici sia di destra che di sinistra.» La lancetta si trovava tra il 14 e il 16 delle onde medie. Si rese conto che stava ascoltando Radio Liberty. Gli americani avevano due stazioni di propaganda, "Voice of America" e "Radio Liberty". La VOA, con personale americano, era una burrosa voce della ragionevolezza. Il personale di Radio Liberty era invece costituito da espatriati e da profughi russi, ragione per cui diffondeva vetriolo, più in carattere con il suo pubblico. Un arco di stazioni di disturbo era stato costruito a sud di Mosca nell'intento di bloccare Radio Liberty, a volte inseguendo il segnale su e giù per il quadrante. Sebbene i disturbi a tempo pieno fossero ormai cessati, era molto
che Arkady non ascoltava quella stazione. L'annunciatrice parlò tranquilla dei disordini a Tashkent e a Baku. Riferì di nuove prove sull'impiego di gas velenosi in Georgia, di altro cancro alla tiroide a Chernobyl, di scontri lungo il confine con l'Iran, di imboscate nel Nagornyy Karabakh, di manifestazioni islamiche nel Turkestan, di scioperi di minatori nel Donbas, di scioperi ferroviari in Siberia, di siccità in Ucraina. Nel resto del mondo, l'Europa dell'est sembrava ancora allontanarsi sulle scialuppe da un'Unione Sovietica in procinto di affondare. Se la cosa poteva consolare, indiani, pakistani, irlandesi, inglesi, zulu e boeri stavano facendo casino nelle rispettive parti del globo. L'annunciatrice concluse dicendo che il prossimo notiziario sarebbe stato trasmesso di lì a venti minuti. Qualunque persona ragionevole sarebbe stata depressa dalle notizie, ma Arkady controllò l'orologio. Si alzò, prese le sigarette e trangugiò dell'altra vodka, liscia questa volta. Il programma tra i due bollettini riguardava la scomparsa del mare di Aral. L'irrigazione dei campi di cotone dell'Uzbekistan aveva prosciugato gli immissari dell'Aral, lasciando migliaia di barche da pesca e milioni di pesci imprigionati nella melma. Quante nazioni potevano vantarsi di aver cancellato un mare intero? Si alzò e andò a cambiare l'acqua alle margherite. Il notiziario della mezz'ora durava solo un minuto. Ascoltò gli incantevoli cinguettii dei canti folkloristici della Bielorussia fino a quando, allo scadere dell'ora, venne di nuovo il notiziario, dieci minuti questa volta. Le notizie erano le stesse, ma Arkady attendeva solo la voce dell'annunciatrice. Posò l'orologio sul tavolo. Notò di avere delle tendine di pizzo alle finestre. Sapeva, ovviamente, che c'erano, ma un uomo può benissimo non accorgersi di queste finezze fino a quando non siede immobile. Fatte a macchina, naturalmente, ma belle, con un disegno floreale che si stemperava nella luce pallida fuori. «Qui Irina Asanova con l'ultima edizione del notiziario.» Dunque non si era sposata, oppure non aveva preso il nome del marito. La sua voce era più piena e più tagliente, non era più la voce di una ragazza. L'ultima volta che l'aveva vista stava avanzando in un campo coperto di neve, con la voglia di andarsene e al tempo stesso quella di rimanere. L'accordo era che se lei fosse andata, lui sarebbe rimasto. Da quella volta aveva sempre aspettato di risentire la sua voce, prima durante gli interrogatori, quando temeva che l'avessero catturata, poi negli ospedali psichiatrici, dove il ricordo di lei era la cosa da curare. Quando lavorava in Siberia a volte
si chiedeva se Irina esistesse ancora, se era esistita davvero o se si trattava di un'allucinazione. Razionalmente sapeva che non l'avrebbe mai più vista né sentita. Irrazionalmente si aspettava sempre di vedere il suo viso quando girava un angolo, o di sentire la sua voce all'altro capo di una stanza. Come un malato grave, aveva atteso ogni secondo che il suo cuore si fermasse. La sua voce aveva un bel suono. Era il suono di chi sta bene. A mezzanotte, quando i programmi iniziarono a ripetersi, finalmente spense la radio. Fumò un'ultima sigaretta accanto alla finestra. Sotto la volta della notte la cupola della chiesa riluceva come una fiamma dorata contro uno sfondo grigio. 4 Il museo aveva il soffitto basso e l'atmosfera opprimente di una catacomba. A intervalli regolari lungo le pareti si allineavano dei diorama spenti, simili a cappelle abbandonate. In fondo, al posto dell'altare, alcune casse aperte contenevano placche opache e bandiere polverose. Arkady ricordò la prima volta in cui, vent'anni prima, era entrato in quel luogo, ricordò gli occhi gonfi e il tono sepolcrale della loro guida, un uomo anziano, un capitano il cui unico dovere era quello di instillare nei visitatori la gloriosa tradizione e la sacra missione della milizia. Provò a premere l'interruttore. Niente. Il secondo interruttore funzionava: illuminò una strada di Mosca nell'anno 1930 circa, con le luci funeree dell'epoca, figurini maschili che incedevano impettiti, donne che scivolavano via con borse, ragazzi nascosti dietro i lampioni, tutto apparentemente normale, salvo che in osservazione furtiva dietro l'angolo vi era un bambolotto con il colletto di pelliccia tirato su fino alla falda del cappello, un paranoico in miniatura. «Riuscite a vedere l'agente in borghese?» aveva chiesto orgoglioso il capitano. Il giovane Arkady era venuto insieme ad altri ragazzi delle scuole superiori, una foto di gruppo di ipocrisia e di risatine soffocate. «No» avevano detto in coro con volto impassibile e scambiandosi smorfie di intesa. Altri due interruttori guasti, poi la scena di un uomo che entrava in una casa per prendere un cappotto appeso nell'anticamera. Nel salotto accanto, una famiglia di gesso ascoltava soddisfatta la radio. La didascalia rivelava che quando questo "grande criminale" era stato arrestato, lo avevano trovato in possesso di mille cappotti. Una ricchezza inimmaginabile! «Sapete dirmi» aveva chiesto il capitano «come faceva questo criminale
a portare i cappotti a casa senza destare sospetti? Riflettete prima di rispondere.» Dieci volti l'avevano fissato con espressione vacua. «Li indossava.» Il capitano aveva guardato negli occhi i ragazzi, uno a uno, per far capire a tutti la fantasia e l'inventiva della mente criminale. «Li indossava.» Altri reperti continuavano la panoramica storica del crimine sovietico. Non c'era una gran tradizione di sottigliezza, pensò Arkady. Vedi le foto dei bambini massacrati, vedi l'ascia, vedi i capelli sull'ascia. Un'altra immagine di corpi dissepolti, un altro assassino con metà della faccia cancellata da una vita passata a bere vodka, un'altra ascia accuratamente conservata. Due scene in particolare erano state realizzate apposta per suscitare orrore. Una era quella di un rapinatore fuggito con l'automobile di Lenin cosa che equivaleva a rubare l'asino a Gesù Cristo. L'altra raffigurava un terrorista con un razzo artigianale che aveva mancato di poco Stalin. Dov'era il delitto, pensò Arkady: cercare di assassinare Stalin o mancarlo? «Non fissarti sul passato» gli disse Rodionov dalla porta. Il procuratore gli rivolse l'ammonimento con un sorriso. «Siamo gli uomini del futuro, Renko, tutti noi, da questo momento in poi.» Rodionov era il superiore diretto di Arkady, l'occhio che tutto vede dei tribunali moscoviti, la mano che guidava gli investigatori di Mosca. Oltre a ciò, Rodionov era stato eletto deputato al Congresso del Popolo, un tozzo totem della democratizzazione sovietica a tutti i livelli. Aveva la carnagione di un capocantiere, i riccioli argentei di un attore e le palme morbide di un uomo dell'apparato. Forse alcuni anni prima era solo uno dei tanti goffi burocrati; ora aveva quella grazia particolare che viene dal recitare per le telecamere, una voce modulata da educati dibattiti. Come se avesse riunito due cari amici, presentò Arkady al generale Penyagin, un uomo più grosso e più anziano dagli occhi infossati, acquosi, la cui azzurra uniforme estiva era segnata da un bracciale nero. Il capo delle indagini criminali era morto pochi giorni prima. Ora Penyagin era il capo del dipartimento investigativo e, sebbene avesse due stelle sulle spalline, era chiaramente l'orso appena arrivato al circo e si lasciava guidare da Rodionov. L'altra persona in compagnia del procuratore era un uomo di tipo completamente diverso, un visitatore dall'aria baldanzosa di nome Albov, con un aspetto più da americano che da russo. Rodionov liquidò vetrine e cartelloni con un gesto. «Penyagin ed io abbiamo l'incarico di ripulire gli archivi del ministero» disse. «Finiranno tutti
al macero e verranno sostituiti da computer. Siamo entrati nell'Interpol perché, di fronte all'internazionalizzazione del crimine, dobbiamo reagire con immaginazione, con spirito di collaborazione, senza paraocchi fuori dal tempo. Immagina quando i nostri computer saranno collegati con New York, Bonn, Tokyo. Già ci sono rappresentanti sovietici che collaborano attivamente in indagini all'estero.» «Nessuno potrà più sfuggire, in nessun posto» disse Arkady. «Non ti sembra una prospettiva allettante?» Arkady voleva essere compiacente. Una volta aveva sparato a un pubblico accusatore, fatto che rendeva alquanto delicati i rapporti. Ma la prospettiva lo emozionava? Il mondo come un'unica scatola? «In passato hai lavorato con gli americani» gli ricordò Rodionov. «E per questo hai sofferto. Tutti abbiamo sofferto. Questa è la natura tragica degli errori. L'ufficio ha sofferto per non aver potuto sfruttare le tue capacità in anni cruciali. Ritorni da noi come parte di un processo vitale di guarigione di cui tutti noi siamo orgogliosi. Dato che questo è il primo giorno di Penyagin al CID, voglio presentargli uno dei nostri migliori investigatori.» «So che ha chiesto determinate condizioni quando è ritornato a Mosca» disse Penyagin. «Le sono state assegnate due macchine, mi hanno detto.» Arkady annuì. «Con dieci litri di benzina. Sono possibili solo brevi inseguimenti.» «I suoi investigatori, il suo medico legale» gli ricordò Rodionov. «Ho pensato che un medico legale che non depredava i cadaveri fosse una buona cosa.» Arkady guardò l'orologio. Aveva pensato che se ne sarebbero andati dal museo nella solita sala conferenze, con tavolo coperto di panno verde e doppia batteria di assistenti incaricati di prendere appunti. «Il punto importante» disse Rodionov «è che Renko voleva svolgere indagini in modo indipendente, avendo un canale di comunicazione diretto con me. Io lo considero un esploratore che precede le nostre forze regolari e, quanto più indipendentemente opera, tanto più importante diventa la sua linea di comunicazione con noi.» Si rivolse ad Arkady e il tono si fece grave. «Ecco perché dobbiamo discutere dell'indagine Rosen.» «Non ho avuto il tempo di esaminare la pratica» disse Penyagin. Vedendo Arkady esitare, Rodionov disse: «Puoi parlare di fronte ad Albov. Questa è una conversazione aperta e democratica». «Rudik Abramovich Rosen» recitò a memoria Arkady. «Nato nel 1952, Mosca, genitori morti. Diploma con lode in matematica all'Università Statale di Mosca. Zio nella mafia ebrea che gestisce l'ippodromo. Da giovane,
durante le vacanze, Rudy aiutava a fissare il totalizzatore. Servizio militare in Germania. Accusato di cambiare valuta per gli americani a Berlino, assolto. Torna a Mosca. Incaricato della gestione dell'autoparco presso la Commissione per il lavoro culturale di massa, vendeva capi di alta moda dall'auto. Direttore del magazzino spedizioni dell'Ente Farine e Cereali di Mosca, dove ha rubato container interi di merce. Fino a ieri aveva un negozio di souvenir in un albergo, dove gestiva anche le slot-machine piazzate nell'atrio. Così si procurava la valuta pregiata per la sua attività di cambio. Con le slot-machine e con il cambio, faceva soldi da una parte e dall'altra.» «Prestava denaro alle mafie, è così?» «Le mafie hanno troppi rubli.» spiegò Arkady. «Rudy gli insegnava come investire i loro soldi e trasformarli in dollari. Lui era la banca.» «Quel che non capisco» disse Penyagin «è cosa lei e la sua squadra speciale intendete fare ora che Rosen è morto. Di cosa si è trattato, di una molotov? Perché non lasciare l'assassino di Rosen a un investigatore normale?» Il predecessore di Penyagin al CID era stato quel tipo di raro animale uscito dai ranghi degli investigatori, per cui avrebbe capito il perché senza bisogno di spiegazioni. L'unica cosa che Arkady sapeva sul conto di Penyagin era che aveva un passato di funzionario politico, non operativo. Cercò di istruirlo con delicatezza. «Non appena Rudy ha accettato di mettere la mia trasmittente e il mio registratore nella sua cassa, è passato sotto la mia giurisdizione. Questa è la regola. Gli ho detto che lo avrei protetto, che faceva parte della mia squadra. Invece, l'ho fatto morire.» «Perché ha accettato di portare la sua radio?» Albov parlò per la prima volta. Il suo russo era perfetto. «Rudy aveva una fobia. Gli era venuta durante il servizio militare. Era ebreo, era grasso e i sergenti si misero d'accordo, lo calarono in una bara piena di rifiuti umani e ce lo tennero inchiodato per una notte. Da allora ha sempre avuto paura dei contatti fisici, della sporcizia e dei microbi. Avevo abbastanza elementi su di lui per farlo andare in un campo di lavoro per qualche anno, da cui Rosen era convinto di non uscire vivo. Ho utilizzato questa minaccia per forzarlo a portare la radio.» «E cos'è successo?» chiese Albov. «Gli apparecchi della milizia non funzionavano, come al solito. Sono entrato nell'auto di Rudy e ho trafficato con la trasmittente fino a quando ha ripreso a funzionare. Cinque minuti dopo, Rosen bruciava.»
«Qualcuno t'ha visto insieme a Rudy?» chiese Rodionov. «Tutti mi hanno visto. Avevo immaginato che nessuno mi avrebbe riconosciuto.» «Kim non sapeva che Rudy collaborava con lei?» chiese Albov. Arkady modificò l'impressione che si era fatta di lui. Era russo, sebbene avesse la scioltezza fisica e l'asciutta sicurezza degli americani. Circa trentacinque anni, capelli castano scuri, occhi neri riflessivi, abito fumo di Londra, cravatta rossa e la pazienza di un viaggiatore accampato presso i barbari. «No» rispose Arkady. «Almeno non pensavo che lo sapesse.» «Che cosa sappiamo sul conto di Kim?» chiese Rodionov. «Mikhail Senovich Kim» disse Arkady. «Coreano, ventidue anni. Riformatorio, carcere minorile, geniere nell'esercito. Mafia Lyubertsy, furto d'auto e aggressione. Gira su una Suzuki, ma immaginiamo sia capace di rubare la prima moto che trova e naturalmente porta il casco per cui chi lo riconosce? Non possiamo fermare tutti i motociclisti di Mosca. Un testimone ha riconosciuto in lui l'aggressore. Lo cerchiamo, ma cerchiamo anche altri testimoni.» «Ma sono tutti criminali» disse Penyagin. «I migliori testimoni sono probabilmente gli stessi assassini.» «È più o meno quello che si verifica sempre» replicò Arkady. Rodionov rabbrividì. «Sembra un tipico attacco dei ceceni.» «In realtà» disse Arkady, «i ceceni sono più portati a usare i coltelli. E comunque, non credo che l'obiettivo fosse eliminare Rudy. Le bombe hanno bruciato la macchina, che era una banca mobile computerizzata piena di dischetti e di fascicoli. Credo sia per questo che hanno usato due bombe, per essere sicuri. Un lavoro ben fatto. Adesso è scomparso tutto, insieme a Rudy.» «I suoi nemici saranno contenti» disse Rodionov. «Probabilmente su quei dischetti c'erano più prove a carico dei suoi amici che dei suoi nemici» disse Arkady. «Pare quasi che Rosen le piacesse» osservò Albov. «È bruciato vivo. Penso di poter dire che lo capivo.» «Lei si definirebbe un investigatore insolitamente comprensivo?» «Ciascuno ha un suo modo di lavorare.» «Come sta suo padre?» Arkady rifletté un attimo, più per adeguarsi al nuovo argomento che per cercare una risposta.
«Non bene. Perché me lo chiede?» «È un grand'uomo, un eroe» rispose Albov. «Più famoso di lei, se posso dirlo. Ero curioso.» «È vecchio.» «L'ha visto di recente?» «Se lo vedrò, gli dirò che ha chiesto di lui.» La conversazione di Albov aveva i movimenti lenti ma deliberati di un pitone. Arkady cercò di coglierne il ritmo. «Se è vecchio e malato dovrebbe andarlo a trovare, non crede?» chiese Albov. «I suoi investigatori se li sceglie da solo?» «Sì.» Arkady stava cercando di rispondere alla seconda domanda. «Kuusnets è un nome strano... per un investigatore, intendo.» «Jaak Kuusnets è l'uomo migliore che ho.» «Ma non ci sono tanti estoni che fanno gli investigatori a Mosca. Deve esserle particolarmente riconoscente e leale. Estoni, coreani, ebrei... difficile trovare un russo in questa indagine. Qualcuno pensa che sia proprio questo il problema dell'intero paese.» Albov aveva lo sguardo riflessivo di un Buddha. Lo spostò verso il procuratore e il generale. «Signori, mi pare che il vostro investigatore abbia sia una squadra che un obiettivo. Il momento richiede che le iniziative vengano incoraggiate, non ostacolate. Spero di non fare con Renko lo stesso errore che abbiamo fatto in altre occasioni.» Rodionov era capace di riconoscere la differenza tra un semaforo verde e uno rosso. «Il mio ufficio appoggia completamente il nostro investigatore, naturalmente.» «Posso solo ripetere che la milizia appoggia l'investigatore fino in fondo» disse Penyagin. «Lei fa parte dell'ufficio del procuratore?» Arkady chiese ad Albov. «No..» «Lo pensavo.» Arkady valutò l'abbigliamento e l'atteggiamento di scioltezza. «Sicurezza dello Stato o Ministero dell'Interno?» «Sono un giornalista.» «Ha fatto venire un giornalista a questa riunione?» disse Arkady rivolto a Rodionov. «Il mio canale diretto con lei comprende un giornalista?» «Un giornalista internazionale» disse Rodionov. «Volevo un punto di vista più sofisticato.» «Bisogna ricordare» disse Albov «che il procuratore è anche un deputato del popolo. Ora c'è un'elezione di cui tener conto.»
«Questo sì che è un ragionamento sofisticato» commentò Arkady. «Il fatto principale è che io sono sempre stato un ammiratore» disse Albov. «Siamo a un punto di svolta della storia. Questa è Parigi durante la rivoluzione, Pietrogrado durante la rivoluzione. Se uomini intelligenti non possono cooperare, che speranza nel futuro possiamo avere?» Dopo che se ne furono andati, Arkady era ancora in preda allo stupore. Forse la prossima volta Rodionov si sarebbe fatto vedere con la redazione di "Izvestia" o con i vignettisti di "Krokodil". E cosa sarebbe successo alle casse e ai diorama del Museo della Milizia? Davvero sarebbero stati sostituiti da un centro informativo? Cosa sarebbe successo di tutte le asce insanguinate, dei coltelli e dei cappotti lisi del crimine sovietico? Li avrebbero messi in un deposito? Ovviamente, si disse, perché la mentalità burocratica tende a salvare ogni cosa. Perché? Perché ci potrebbe servire, sapete. Nel caso non ci fosse alcun futuro, ci sarebbe almeno un passato. Jaak, al volante, saltava da una carreggiata all'altra come un virtuoso del piano che fa correre le mani sulla tastiera. «Non fidarti né di Rodionov né dei suoi amici» disse ad Arkady mentre obbligava un'altra auto a farsi da parte. «A te non piace nessuno, nell'ufficio del procuratore.» «I procuratori sono pezzi di merda politicanti, lo sono sempre stati. Senza offesa.» Lanciò un'occhiata davanti a sé. «Ma appartengono al Partito. Anche se escono dal Partito, anche se diventano deputati del popolo, nel cuore rimangono membri del Partito. Tu dal Partito non sei uscito, ti hanno buttato fuori, ecco perché mi fido di te. La maggior parte degli investigatori della procura non escono mai dai loro uffici. Sono un accessorio della scrivania. Tu invece vai in giro. Ovviamente, senza di me non andresti lontano.» «Grazie.» Tenendo una mano sul volante, Jaak porse ad Arkady un elenco di numeri e di nomi. «Le targhe del mercato nero. Il camion vicino a Rudy al momento dell'esplosione è intestato alla fattoria collettiva "La Via Leninista". Credo che avrebbe dovuto portare in giro barbabietole da zucchero, non videoregistratori. Ci sono quattro auto di ceceni. La Mercedes è registrata a nome di Apollonia Gubenko.» «Apollonia Gubenko.» Arkady provò a pronunciarlo. «Un bel suono rotondo.»
«La moglie di Borya» disse Jaak. «Ovviamente Borya ha anche una Mercedes a suo nome.» Sorpassarono una Lada con il parabrezza coperto di puntine, carta e colla. Non era facile procurarsi un parabrezza. Il conducente guidava tenendo la testa fuori dal finestrino. «Jaak, che cosa ci fa un estone a Mosca?» chiese Arkady. «Perché non sei a difendere la tua amata Tallinn dall'Armata Rossa?» «Piantala con queste merdate» lo ammonì Jaak. «Io ero nell'Armata Rossa. Sono quindici anni che non vado a Tallinn. Quel che so degli estoni è che vivono meglio e si lamentano di più di chiunque altro in Unione Sovietica. Ho intenzione di cambiar nome.» «Cambialo in Apollo. Però ti rimane un po' di accento... quella bella parlata del Baltico.» «Affanculo gli accenti. È un argomento che odio.» Jaak fece uno sforzo per calmarsi. «Parlando di tonti, ci ha chiamato un allenatore del Komsomol Stella Rossa: dice che Rudy era un sostenitore talmente entusiasta del loro club che i pugili gli hanno dato uno dei loro trofei. Pensa che sia tra gli effetti personali di Rudy. Idiota, ma insistente.» Mentre si avvicinavano a Kalinin Prospekt, un pullman cercò di tagliare la strada a Jaak. Era un colosso italiano dai finestrini alti, le cromature barocche e due piani di volti stupefatti: quasi una trireme mediterranea, pensò Arkady. La Zhiguli accelerò in un grande sbuffo di fumo bluastro. Jaak toccò il freno quanto bastava per minacciare di rovinare le cromature del pullman e filò via, ridendo trionfante. «L'Homo Sovieticus vince ancora!» Giunti a un distributore di benzina, Arkady e Jaak affrontarono due code distinte per comperare della torta di carne e una bibita gassata. Vestita come un tecnico di laboratorio in camice bianco e berrettino, la venditrice scacciava le mosche dalle sue merci. Ad Arkady venne in mente il consiglio di un amico raccoglitore di funghi: lascia perdere quelli che hanno intorno mosche morte. Rammentò a se stesso di controllare per terra quando fosse arrivato al banco. Una coda molto più lunga, vigorosamente maschile, usciva da un negozio di vodka all'angolo. Gli ubriachi barcollavano e si piegavano come paletti rotti di una staccionata. I loro abiti avevano il grigiore degli stracci vecchi, i volti erano striati di rosso e di blu, ma si aggrappavano alle loro bottiglie vuote nella solenne consapevolezza del fatto che nessuna bottiglia piena avrebbe oltrepassato il bancone se non ne fosse stata consegnata una
vuota in cambio. E la bottiglia vuota doveva essere della dimensione giusta: non troppo grossa, non troppo piccola. Quindi tutti dovevano passare davanti ai miliziani che stazionavano sulla porta per controllare i tagliandi, onde evitare che altri cercassero di comprare la vodka assegnata ai moscoviti. Mentre Arkady osservava, un cliente soddisfatto uscì dal negozio tenendo la sua bottiglia come un uovo, e la coda avanzò un pezzettino. C'era una possibilità di scelta, ecco cosa rallentava la coda di Arkady: torte di carne o di cavolfiore. Senz'altro il ripieno sarebbe stato al massimo un'idea, un delicato soupçon di carne trita di maiale o di cavolfiore cotto a vapore, uno strato sottile di pasta prima immerso nel grasso bollente e poi lasciato a raffreddare e indurire... era una scelta che richiedeva un palato fine, al di là della fame. Anche la coda della vodka si era fermata, interrotta da un cliente che era svenuto mentre entrava nel negozio e aveva lasciato cadere il vuoto. La bottiglia stava rotolando nel canaletto sotto il marciapiede. Arkady si chiese che cosa stesse facendo Irina. Per tutta la mattina aveva negato a se stesso di pensare a lei. Ora, il rumore musicale prodotto dalla bottiglia, l'insolita qualità di quel suono, gliela aveva fatta immaginare mentre faceva colazione, non per strada ma in un bar occidentale tutto cromature lucenti, specchi luminosi, carrelli che rotolavano silenziosi portando tazze di porcellana bianche. «Carne o cavolo?» Gli ci volle un momento per tornare alla realtà. «Carne? Cavolo?» ripeté la venditrice offrendo due torte di aspetto assolutamente identico. Aveva un volto tondo e ruvido, gli occhi scavati in fondo a due fessure. «Avanti, tutti sanno quello che vogliono.» «Carne» disse Arkady. «E cavolo.» La donna sbuffò: quella era indecisione, non appetito. Forse stava lì il suo problema, pensò Arkady, nella mancanza di appetito. La donna prese i soldi e gli porse due torte in tovaglioli di carta gocciolanti di unto. Arkady controllò per terra. Niente mosche morte; sebbene quelle che ronzavano intorno avessero l'aria alquanto depressa. «Allora, non le vuole?» chiese la donna. Arkady vedeva ancora Irina, sentiva il caldo contatto di lei e avvertiva non i fumi rancidi del grasso, ma il profumo di pulito delle lenzuola. Gli parve di passare rapidamente attraverso stadi progressivi di follia, oppure era Irina che saliva progressivamente dall'oblio all'inconscio, fino alla coscienza.
Mentre la venditrice si sporgeva dal banco, avvenne una trasformazione. Sul viso apparve quel che rimaneva dell'imbarazzo di una ragazza, della tristezza perduta tra le rughe. Scrollò le spalle rotonde in un gesto di scusa. «Mangiale, non pensarci. È il meglio che riesco a fare.» «Lo so.» Quando Jaak arrivò con la soda, Arkady gli allungò tutt'e due le focacce. «No, grazie» rifiutò Jaak. «Mi piacevano prima che cominciassi a lavorare con te. Ma me le hai rovinate.» 5 In via Butyrski, superato un grande negozio di biancheria intima e di pizzi, l'accesso a un palazzo dalle finestre sbarrate era accanto a una guardiola e scendeva fino alle scale dell'ingresso. Appena entrati, un funzionario consegnò a Arkady e a Jaak due contrassegni di alluminio con un numero. Una grata a forma di cuore si aprì, scivolando di lato, e i due seguirono un agente lungo un parquet, giù per una scala dai gradini ricoperti di gomma e lungo un corridoio intonacato, illuminato da lampadine racchiuse in gabbiette. Solo una persona era riuscita a fuggire dal carcere di Butyrski: Dzerzhinsky, il fondatore del Kgb. Aveva corrotto il secondino. All'epoca i rubli valevano ancora qualcosa. «Nome?» chiese il secondino. Una voce dietro la porta della cella disse: «Oberlyan». «Reato?» «Speculazione, resistenza alla forza pubblica, rifiuto di collaborazione con le autorità... che cazzo, non so.» La porta si aprì. Gary era in piedi a torso nudo, la camicia avvolta come un turbante intorno al capo. Con il naso rotto e il torace coperto di tatuaggi, sembrava più un pirata abbandonato su un'isola deserta che un uomo dopo una notte in carcere. «Speculazione, resistenza e rifiuto. Splendido testimone» osservò Jaak. La stanza degli interrogatori era di una semplicità monastica: sedie di legno, tavolo di metallo, icona di Lenin. Arkady si accinse a compilare il modulo: data, città, il suo nome sotto il grandioso titolo "L'Investigatore incaricato delle indagini speciali sotto l'autorità del procuratore generale dell'Urss", interroga Oberlyan, Gary Semyonovich, nato il 3/11/60, Mosca, passaporto numero RS AOB 425807, nazionalità armena...
«Naturalmente» disse Jaak. Arkady proseguì. «Titolo di studio e specializzazione?» «Istituto professionale. Indirizzo medico» disse Gary. «Neurochirurgo» disse Jaak. Scapolo, portantino, non iscritto al Partito, precedenti: violenza privata, detenzione di stupefacenti a fini di spaccio. «Onorificenze?» Jaak e Gary scoppiarono a ridere all'unisono. «È la domanda successiva sul modulo» spiegò Arkady. «Probabilmente pensando al futuro.» Dopo aver scritto l'ora esatta, l'interrogatorio iniziò, ripercorrendo la stessa traccia coperta da Jaak sul luogo del delitto. Gary si stava allontanando dall'auto di Rudy quando l'aveva vista saltare in aria, poi aveva visto Kim buttare la seconda bomba. «Ti stavi allontanando dall'auto di Rudy voltandole la schiena?» chiese Jaak. «E come hai fatto a vedere?» «Mi sono fermato a pensare.» «Ti sei fermato a pensare?» chiese Jaak. «E a cosa?» Gary rimase in silenzio e Arkady gli chiese: «Rudy ha cambiato i tuoi fiorini e i tuoi zloty?». «No.» Il volto di Gary si oscurò come una nuvola. «Eri piuttosto infuriato.» «Gli avrei tirato quel suo collo di lardo.» «Se non ci fosse stato Kim?» «Già, però poi Kim l'ha fatto al posto mio.» Gary si illuminò. Arkady tracciò una "X" nel mezzo di una pagina e porse la penna a Gary. «Questa è l'auto di Rudy. Segna dove eri tu, poi tutto quello che hai visto.» Concentrandosi, Gary tracciò un pupazzetto dalle membra tremolanti. Aggiunse un rettangolo su ruote: "Camion con materiale elettronico." Tra lui e Rudy, una sagoma nera: "Kim". Un rettangolo con una croce: "Ambulanza". Un altro rettangolo: "Forse un furgone". Delle aste provviste di testa: "Zingari". Quadratini piccoli con ruote: "Macchine dei ceceni". «Io ricordo una Mercedes» disse Jaak. «Loro erano già andati via.» «Loro?» chiese Arkady. «Loro chi?» «Un autista. So che l'altra persona era una donna.» «Riesci a disegnarla?»
Gary disegnò uno stecco con un grosso busto, tacchi alti e pettinatura a riccioli. «Forse bionda. So che era ben messa.» «Un osservatore davvero attento» disse Jaak. «Allora l'hai vista anche quand'era fuori dalla macchina» osservò Arkady. «Già. Veniva da quella di Rudy.» Arkady osservò il foglio da un paio di angolature. «Ottimo disegno.» Gary annuì. Era vero. Con il suo corpo blu e il volto malridotto, Gary sembrava esattamente come il suo pupazzo, reso più umano dal disegno. Il mercato delle automobili di Porto Sud era racchiuso tra Proletariat Prospekt e da un'ansa della Moscova. Le auto venivano ordinate in un salone di marmo bianco. Nessuno entrava; non c'erano auto nuove. Fuori, alcuni biscazzieri avevano disteso a terra dei fogli di cartone per il gioco delle tre tavolette. I recinti dei cantieri erano coperti di avvisi ("Gomme in condizioni discrete per Zhiguli 1985") e implorazioni ("Cerco cinghia ventilatore per Peugeot '64"). Jaak prese il numero delle gomme. Non si può mai sapere. Alla fine della staccionata c'era una stradina in terra battuta piena di auto usate: Zhiguli, Zaporozhet, Trabant tedesche a due cilindri e Fiat, tutte rugginose come spade antiche. Gli acquirenti si muovevano esaminando attentamente battistrada, contachilometri, tappezzerie, inginocchiandosi con una torcia elettrica per vedere se il motore perdeva olio Tutti erano esperti. Persino Arkady sapeva che una Moskvitch costruita a Mosca valeva meno di una costruita nella lontana Izhevsk, e che l'unico modo per distinguere l'una dall'altra era lo stemma sulla griglia. Intorno alle auto si aggiravano i ceceni in tuta. Erano scuri di carnagione, tarchiati, con fronti basse e sguardi che tardavano a staccarsi dall'interlocutore. Tutti imbrogliavano. I venditori entravano nella baracca di legno per sapere, in relazione al modello, all'anno di fabbricazione e alle condizioni, il prezzo che potevano chiedere (e sul quale pagavano una tassa), prezzo che non assomigliava nemmeno lontanamente alla somma che in realtà passava dal compratore al venditore. Tutti, venditore, acquirente e assistente, sapevano benissimo che il prezzo vero sarebbe stato tre volte più alto. I ceceni truffavano in modo machiavellico. Una volta che il ceceno aveva in mano l'atto di vendita, pagava solo il prezzo ufficiale e a questo punto le probabilità che il venditore aveva di farsi dare il resto equivalevano a
quelle di strappare un osso dalle fauci di un lupo. Ovviamente, il ceceno vendeva poi subito la macchina a prezzo intero. La tribù ammassava fortune al mercato di Porto Sud. Non lo facevano sempre, rischiando così di eliminare gli incentivi a fare arrivare nuove macchine: operavano su una percentuale intelligente. I ceceni tosavano il mercato come se fosse un gregge di loro esclusiva proprietà. Jaak e Arkady si fermarono circa a metà della fila; l'investigatore indicò con un cenno del capo un'auto isolata in fondo alla stradina. Era una vecchia Chaika, una berlina nera diplomatica, con la calandra lucidata a specchio. I finestrini posteriori erano chiusi da tendine. «Arabi del cazzo» disse Jaak. «Non sono più arabi di te» disse Arkady. «Pensavo che non fossi razzista. Makhmud è vecchio.» «Spero gli sia rimasta la forza di farti vedere la sua collezione di teschi.» Arkady proseguì da solo. L'ultima auto in vendita era una Lada talmente piena di bozzi che pareva essere stata trascinata al mercato rovesciata. Due giovani ceceni con delle borse da tennis lo fermarono per chiedergli dove andasse. Quando Arkady fece il nome di Makhmud, lo scortarono alla Lada, lo spinsero sui sedili posteriori e gli palparono braccia, gambe e torso alla ricerca di una pistola o di un filo d'acciaio; quindi gli ordinarono di aspettare. Uno andò alla Chaika; l'altro salì davanti, aprì la borsa e si voltò per infilare un fucile tra i sedili anteriori con la canna in grembo ad Arkady. Era una carabina di nuovo modello chiamata "Orso", a canna singola, tagliata a mezza lunghezza e modificata per sparare pallettoni. Da tutti gli specchietti pendevano perline, il cruscotto era decorato con cartoline di tralci di vite, moschee e autoadesivi degli AC/DC e dei Pink Floyd. Un ceceno più anziano si sistemò al posto di guida, ignorò Arkady, aprì il Corano e si mise a leggerlo con voce monotona. Aveva due pesanti anelli d'oro ai mignoli. Un altro si sistemò accanto ad Arkady con uno spiedino di shashlik e ne offrì a tutti, Arkady compreso. Gli mancavano solo baffoni e bandoliere, pensò Arkady. La Lada puntava verso l'esterno del mercato, ma nello specchietto retrovisore riusciva a scorgere Jaak intento a esaminare le auto. I ceceni non avevano nulla a che fare con gli arabi. Erano tartari, un ramo occidentale dell'Orda d'oro che si era fermata nella vastità delle montagne del Caucaso. Arkady studiò le cartoline sul cruscotto. La città con la moschea era la loro capitale tra le montagne, Grozny. Come in "Ivan
Grozny", Ivan il Terribile. Crescere con un nome come quello poteva forse aver distorto la psiche dei ceceni? Finalmente, il primo ceceno tornò accompagnato da un ragazzo non molto più grande di un fantino. Aveva una faccina a cuore imbellettata e occhi pieni di ambizione. Infilò una mano nella tasca di Arkady, prese i documenti, li studiò e li rimise a posto. All'uomo con il fucile disse: «Ha ammazzato un procuratore». Quando scese dalla macchina, Arkady sentì che gli era stato accordato un certo rispetto. Seguì il ragazzo verso la Chaika, e gli venne aperto lo sportello posteriore. Una mano ne uscì e lo tirò dentro, afferrandolo per il colletto. Le Chaika d'epoca avevano una magnificenza tutta sovietica: tetto imbottito, portacenere elaborati, sedili posteriori di emergenza imbottiti, aria condizionata, un sacco di spazio per il ragazzo e l'autista davanti, e per Arkady e Makhmud dietro. E vetri a prova di proiettile, ne era sicuro. Arkady aveva visto le fotografie dei cadaveri mummificati estratti dalle ceneri di Pompei. Assomigliavano a Makhmud, curvi e rinsecchiti, senza ciglia né sopracciglia, con la pelle di un grigio pergamena. Anche la voce sembrava arsa. Si voltò rigido come se stesse girando su un perno per tenere il visitatore a distanza, fissandolo con occhi neri come carboncini. «Scusami» disse Makhmud. «Mi sono fatto fare questa operazione. La meraviglia della scienza sovietica. Ti aggiustano gli occhi, così poi non devi più mettere gli occhiali. Un'operazione che non fanno in nessun'altra parte del mondo. Quello che non ti dicono è che dopo puoi vedere solo a una certa distanza. Il resto del mondo è tutto sfuocato.» «E come ha reagito?» chiese Arkady. «Avrei potuto ammazzare il dottore. Voglio dire, avrei potuto ammazzarlo davvero. Poi ci ho riflettuto. Perché mi sono fatto fare questa operazione? Vanità. Ho ottant'anni. È stata una lezione. Grazie a Dio non sono impotente.» Tenne fermo Arkady. «Adesso ti vedo. Non hai un aspetto troppo buono.» «Ho bisogno di alcuni consigli.» «Penso che non ti servano solo i consigli. Ti ho fatto tenere laggiù mentre facevo delle domande su di te. Mi piace essere informato. La vita è talmente varia. Sono stato nell'Armata rossa, nell'Armata bianca, nell'esercito tedesco. Non c'è nulla di prevedibile. Mi hanno detto che sei stato investigatore, poi carcerato, poi ancora investigatore. Sei più confuso di me.» «Molto probabile.»
«È un cognome insolito. Sei parente di Renko, il pazzo furioso della guerra?» «Sì.» «Hai gli occhi diversi uno dall'altro. Vedo un sognatore in uno e uno sciocco nell'altro. Vedi, sono così vecchio ormai che vado in giro una seconda volta e apprezzo le cose. Altrimenti si diventa matti. Ho smesso di fumare due anni fa per i polmoni. Bisogna essere ottimisti per fare una cosa del genere. Tu fumi?» «Sì.» «I russi sono una razza di gente cupa. I ceceni sono diversi.» «Così si dice.» Makhmud sorrise. I denti sembravano eccessivamente grossi, come quelli di un cane. «I russi fumano, i ceceni ardono.» «Rudy Rosen è arso.» Per essere un vecchio, Makhmud cambiava espressione in fretta. «Lui e i suoi soldi, mi hanno detto.» «Lei era lì» disse Arkady. L'autista si voltò. Pur corpulento, non era più vecchio del ragazzo che aveva accanto, con l'acne agli angoli della bocca imbronciata, i capelli lunghi dietro e corti sui lati, i riccioli di colore arancione tinti con lo spray. Era l'atleta del bar dell'Intourist. «Questo è mio nipote Ali» disse Makhmud. «L'altro è suo fratello Beno.» «Bella famiglia.» «Ali mi è molto affezionato, per cui non gli piace sentire questo tipo di accuse.» «Non è un'accusa» disse Arkady. «C'ero anch'io. Forse siamo innocenti tutti e due.» «Ero a casa a dormire. Ordine del medico.» «Cosa pensa sia successo a Rudy?» «Con le medicine che prendo e i tubi dell'ossigeno, sembro un cosmonauta e dormo come un bambino.» «Che cosa è successo a Rudy?» «La mia opinione? Rudy era ebreo, e gli ebrei pensano di riuscire a mangiare in compagnia del diavolo senza farsi mordere il naso. Forse Rudy conosceva troppi diavoli.» Sei giorni alla settimana Rudy e Makhmud avevano bevuto caffè turco insieme mentre trattavano i tassi di cambio. Arkady ricordava di aver visto
il paffuto Rudy seduto al tavolo di fronte allo scheletrico Makhmud, e di essersi chiesto chi dei due avrebbe mangiato l'altro. «Tu eri l'unico di cui aveva paura.» Makhmud rifiutò il complimento. «Non avevamo problemi con Rudy. A Mosca c'è altra gente convinta che i ceceni dovrebbero tornare a Grozny, tornare a Kazan, a Baku.» «Rudy ha detto che lei gli dava la caccia.» «Mentiva.» Makhmud respinse l'affermazione come un uomo abituato a essere creduto. «È difficile discutere con i morti» osservò Arkady con il massimo tatto possibile. «Avete preso Kim?» «La guardia del corpo di Rudy? No. Probabilmente la sta cercando.» Makhmud parlò rivolto ai sedili anteriori. «Beno, ci daresti del caffè?» Beno passò un thermos, tazzine e piattini, cucchiaini e un sacchetto di carta con delle zollette di zucchero. Il caffè uscì dal thermos simile a una crema nera. Makhmud aveva mani grandi, con dita e unghie ricurve; il resto del corpo si era raggrinzito con l'età, le mani no. «Delizioso» disse Arkady. Sentì il cuore fibrillare di gioia. «Una volta le mafie avevano dei veri capi. Antibiotic era un impresario teatrale, e se uno spettacolo gli piaceva affittava tutto il teatro per sé. Era praticamente un membro della famiglia Breznev. Un personaggio, un gangster, ma sapeva mantenere la parola. Ricordi Otarik?» «Ricordo che era membro dell'Unione degli scrittori, anche se nella sua domanda aveva fatto ventidue errori di grammatica» disse Arkady. «Be', scrivere non era la sua occupazione principale. Comunque, adesso sono stati sostituiti da questi nuovi uomini d'affari come Borya Gubenko. Una volta, una guerra di bande era una guerra di bande. Adesso devo proteggermi la schiena due volte, dai sicari e dalla milizia.» «Che cos'è successo a Rudy? Era coinvolto in una guerra di bande?» «Vuoi dire una guerra tra gli uomini d'affari di Mosca e i sanguinari ceceni? I cani rabbiosi siamo sempre noi; i russi sono sempre le vittime. Non intendo te personalmente, ma come nazione vedi tutto a rovescio. Posso darti un piccolo esempio preso dalla mia vita?» «La prego.» «Sapevi che c'era una Repubblica Cecena? Nostra. Se ti annoio, dimmi di smettere. Il peggior crimine dei vecchi è quello di annoiare i giovani.» Dicendo questo, si era aggrappato di nuovo al bavero di Arkady.
«Vada avanti.» «Alcuni ceceni avevano collaborato con i tedeschi, per cui nel febbraio del 1944 in ogni villaggio vennero convocate delle assemblee generali. C'erano soldati e bande musicali con gli ottoni; la gente pensava che si trattasse di una celebrazione militare, per cui vennero tutti. Lo sai come sono le piazze dei villaggi, con altoparlanti ai quattro angoli che suonano musica e annunci. Bene, l'annuncio era che la gente aveva un'ora di tempo per riunire famiglia e roba. Nessuna spiegazione. Un'ora. Immagina la scena. Prima le implorazioni, inutili. Il panico di cercare i bambini piccoli, i nonni, costringerli a vestirsi e a uscire di casa per salvargli la vita. Decidere che cosa prendere, che cosa si può portare. Un letto, un cassettone, una capra? I soldati caricarono tutti sui camion. Studebaker. La gente pensava che dietro ci fossero gli americani e che Stalin li avrebbe salvati!» Negli occhi di Makhmud Arkady vide le iridi nere bloccate come l'obiettivo di una macchina fotografica. «Dopo ventiquattr'ore non era rimasto un solo ceceno in tutta la Repubblica Cecena. Mezzo milione di persone partite. Dai camion vennero trasferiti sui treni, in vagoni merci senza riscaldamento che viaggiarono per settimane e settimane nel pieno dell'inverno. Morirono a migliaia. La mia prima moglie, i miei primi tre figli. Chissà dove le guardie buttarono fuori i loro cadaveri? Quando ai sopravvissuti venne finalmente concesso di scendere si trovarono nel Kazakhstan, in Asia centrale. A casa, la Repubblica Cecena venne liquidata. Alle nostre città vennero dati nomi russi. Eliminati dalle carte geografiche, dai libri di storia, dalle enciclopedie. Scomparimmo. «Passarono venti, trent'anni prima che riuscissimo a tornare a Grozny, o a Mosca. Come fantasmi, tornammo in patria per vedere dei russi nelle nostre case, bambini russi nei nostri giardini. Ci guardano e ci dicono: «Animali!». Ora, dimmi, chi è stato l'animale? Ci indicano e gridano: «Ladri!». Dimmi, chi è il ladro? Quando qualcuno muore, trovano un ceceno e dicono: «Assassino!». Credimi, vorrei incontrarlo l'assassino. Credi che mi dispiaccia per loro, adesso? Si meritano tutto quel che gli succede. Ci meritano.» Gli occhi di Makhmud raggiunsero la massima intensità, come carboni spenti e improvvisamente accesi, quindi si spensero di nuovo. Le dita strinsero e lasciarono il bavero di Arkady. La stanchezza si tramutò in un sorriso. «Perdonami, ti ho spiegazzato la giacca.» «Era già spiegazzata.» «In ogni modo, mi sono lasciato prendere la mano.» Makhmud lisciò la
giacca. «Non c'è nulla che desidero come trovare Kim» disse. «Vuoi dell'uva?» Beno passò una ciotola di legno colma di grappoli verdi. Ora Arkady vedeva non tanto una somiglianza di famiglia tra lui, Ali e Makhmud, quanto una somiglianza di specie, come il becco di un falco. Arkady ne prese una manciata. Makhmud aprì un coltellino e tagliò accuratamente un piccolo grappolo. Quando lo mangiò, abbassò il vetro per sputare i semi per terra. «Diverticolite. Non devo mandarli giù. Terribile diventare vecchi.» 6 Quando Arkady arrivò dal mercato delle automobili, Polina stava passando la polvere per le impronte digitali nella camera da letto. Era la prima volta che la vedeva senza l'impermeabile. Faceva caldo, indossava un paio di short, aveva annodato i lembi della camicia, legato i capelli e, con i guanti di gomma e il pennellino di peli di cammello, sembrava una bambina che giocava alla massaia. «Abbiamo già passato la polvere.» Arkady lasciò cadere la giacca sul letto. «A parte le impronte di Rudy, i tecnici non hanno trovato niente.» «Allora non hai niente da perdere» disse allegra Polina. «La talpa umana è giù nel garage alla ricerca di porte segrete.» Arkady aprì la finestra che dava sul cortile e vide Minin, in giacca e cappello, sulla porta aperta del garage. «Non dovresti chiamarlo così.» «Ti odia.» «Come mai?» Polina fece roteare lo sguardo, poi salì su una sedia per spargere la polvere sullo specchio del cassettone. «Dov'è Jaak?» «Hanno promesso di darci un'altra macchina. Se riesce ad averla, deve andare alla fattoria collettiva La Via Leninista.» «Be', siamo in periodo di raccolta per le patate. Jaak gli può venire buono.» In una varietà di strani posti (sulla spazzola per capelli e sulla testata del letto, sul lato interno dello sportello dell'armadietto del bagno, sotto il coperchio del water) erano disseminati gli ovali delle impronte passate con la polvere. Altre impronte erano già state staccate con nastro adesivo e trasferite su vetrini che si allineavano sul comodino. Arkady infilò i guanti di gomma. «Questo non è il tuo lavoro» disse.
«E neanche il tuo. Un investigatore capo dovrebbe lasciar fare il lavoro materiale agli investigatori. Io sono stata addestrata a farlo e sono più brava degli altri, per cui perché non dovrei? Lo sai perché non c'è nessuno che vuole lavorare in sala parto?» «Perché?» Si pentì immediatamente di averlo chiesto. «I medici non vogliono assistere le partorienti perché hanno paura dell'Aids e perché non si fidano dei guanti di gomma sovietici. Ne infilano tre o quattro uno sopra l'altro. Immagina cosa dev'essere cercare di far venir fuori un neonato indossando quattro paia di guanti. E non praticano più gli aborti per lo stesso motivo. I medici sovietici preferirebbero tenere le donne a cento metri di distanza e stare lì a guardarle esplodere. Naturalmente, non ci sarebbero così tanti bambini se i preservativi sovietici non fossero come i guanti di gomma.» «Vero.» Arkady sedette sul letto e si guardò intorno. Sebbene avesse seguito Rudy per settimane, sapeva ancora troppo poco sul suo conto. «Qui non ci portava donne» disse Polina. «Niente crackers, niente vino, neanche un preservativo. Le donne lasciano in giro certe cose: forcine, batuffoli di cotone per il trucco, cipria sul cuscino. Troppo pulito.» Quanto ancora intendeva starsene su quella sedia? Le gambe erano più bianche e più muscolose di quanto non si aspettasse. Forse un tempo voleva fare la ballerina. Riccioli neri sfuggivano all'ordine imposto dal cerchietto e scendevano a spirale sulla nuca. «Fai una stanza dopo l'altra?» chiese Arkady. «Sì.» «Non dovresti andare in giro con gli amici a giocare a pallavolo o roba del genere?» «Un po' tardi per la pallavolo.» «Hai preso le impronte sulle cassette vìdeo?» «Sì.» Gli rivolse un'occhiata fulminante riflessa dallo specchio. «Sono riuscito a farti avere più tempo in sala autopsie» disse Arkady per rabbonirla. Ma che modo è di addolcire una donna, pensò, quello di offrirle più tempo all'obitorio? «Perché vuoi rimetterti a guardare dentro Rudy?» «C'era troppo sangue. Ho ricevuto le analisi di laboratorio del sangue trovato nella macchina. Era del suo tipo, per lo meno.» «Ottimo.» Se era contenta lei, anche lui lo era. Si girò verso la televisione e il videoregistratore, inserì una delle cassette di Rudy, premette i tasti "Play" e "Fast Forward". Accompagnate da disturbi, le immagini si susseguirono sullo schermo: la dorata città di Gerusalemme, Muro del pianto,
spiaggia sul Mediterraneo, sinagoga, aranceto, grandi alberghi a molti piani, casino, El Al. Fece scorrere il nastro a velocità normale per sentire il commento, in una lingua più gutturale del russo. «Parli ebraico?» chiese a Polina. «Perché mai dovrei parlare ebraico?» La seconda cassetta mostrava, in rapida successione, la città bianca del Cairo, piramidi e cammelli, spiaggia sul Mediterraneo, barche a vela sul Nilo, muezzin su un minareto, piantagione di datteri, grandi alberghi a molti piani, Egyptair. «Arabo?» chiese Arkady. «No.» La terza cassetta si apriva su una birreria all'aperto per poi presentare diversi scorci della Monaco medievale, panoramiche aeree della Monaco moderna ricostruita, gente in giro per acquisti nella Marienplatz, birreria, bande musicali in lederhosen, stadio Olimpico, Oktoberfest, teatro rococo, angelo annunciatore della pace dorato, autobahn, altra birreria all'aperto, le vicine Alpi, scia di vapori della Lufthansa. Riavvolse il nastro fino alle Alpi per ascoltare il commento, ponderoso ed entusiastico nello stesso tempo. «Parli tedesco?» chiese Polina. Lo specchio coperto di polvere cominciava ad assomigliare a una collezione di ali di falena, ciascuna simile a un piccolo gorgo ovale. «Un pochino.» Arkady aveva prestato servizio militare a Berlino come addetto all'ascolto degli americani e aveva imparato un po' di tedesco in quel modo truculento con cui i russi si avvicinano alla lingua di Bismarck, di Marx e di Hitler. Non era semplicemente perché i tedeschi rappresentavano i tradizionali nemici, ma anche perché per secoli gli zar avevano importato tedeschi come artigiani, per non parlare del fatto che i nazisti ritenevano sottouomini tutti gli slavi. Si era formata una certa concrezione di malevolenza nazionale. «Auf wiedersehen» disse la televisione. «Auf wiedersehen.» Arkady spense il televisore. «Polina, auf wiedersehen. Va' a casa, va' a vedere il tuo ragazzo, va' a vedere un film.» «Ho quasi finito.» Fino a quel momento pareva che Polina avesse notato più cose di lui, su quell'appartamento. Si rendeva conto che non gli mancavano tanto gli indizi, quanto l'essenza. La fobia di Rudy per i contatti fisici aveva prodotto un appartamento solitario e sterile. Niente portacenere, nemmeno un mozzicone. Aveva una gran voglia di fumare ma non osava sconvolgere l'equi-
librio igienico dei locali. L'unica debolezza di Rudy pareva essere il cibo. Arkady aprì il frigorifero. Prosciutto, pesce e formaggio olandese erano ancora freschi, a posto e irresistibili anche per chi, come lui, aveva appena assaggiato come aperitivo l'uva di Makhmud. Le cibarie provenivano probabilmente da Stockmann's, il grande magazzino finlandese che, in cambio di valuta pregiata, vendeva smorgasbord completi, mobili da ufficio e auto giapponesi alla comunità straniera di Mosca; Dio non volesse che fossero costretti a vivere come russi. Avvolto nella sua cera rossa, il formaggio sembrava la cappella di un fungo. Polina si affacciò sulla soglia della camera da letto, con un braccio già infilato nell'impermeabile. «Stai esaminando i reperti o consumandoli?» «Li sto ammirando, in realtà. Ecco del formaggio proveniente da mucche che brucano l'erba a duemila chilometri da qui. E formaggio non raro come quello russo. La cera prende bene le impronte, non è vero?» «L'umido non è l'ideale.» «Troppo umido per te?» «Non ho detto che non sarei capace di farlo. Non volevo farti sperare troppo, tutto qui.» «Ho l'aria di uno che spera troppo?» «Non saprei; oggi sei diverso.» Polina non era solita avere incertezze. «Tu...» Arkady posò un dito sulle labbra. Aveva udito un rumore quasi inavvertibile, come il ventilatore di un frigorifero. «Una toilette» disse Polina. «Qualcuno si alleggerisce allo scoccare di ogni ora.» Arkady andò al gabinetto e toccò i tubi. Solitamente risuonavano come catene. Il rumore che stava sentendo era più sommesso, più meccanico che liquido, e proveniva dall'interno dell'appartamento. Poi cessò. «Allo scoccare di ogni ora?» chiese Arkady. «Spaccata. Mi sono guardata in giro ma non ho trovato nulla.» Arkady entrò nello studio di Rudy. La scrivania non era stata toccata, il telefono e il fax tacevano. Toccò il fax e si accese la luce rossa "Alert". Lo toccò con più energia e il pulsante si illuminò a intervalli regolari, come un faro. Il volume era stato messo al minimo. Scostò la scrivania e trovò della carta da fax che era scesa tra il mobile e la parete. «Prima regola dell'investigatore: raccogliere le cose» disse. «Non mi ero ancora occupata di questo locale.»
La carta era ancora calda. Sotto il margine superiore erano riportate la data e l'ora di trasmissione, un minuto prima. Il messaggio, in cirillico, era: "Dov'è Red Square?". Dove si trovava la Piazza Rossa? Chiunque avesse una mappa poteva rispondere. Lesse il messaggio precedente. La trasmissione risaliva a sessantuno minuti prima: "Dov'è Red Square?". Non c'era nemmeno bisogno di una mappa. Bastava chiederlo a chiunque al mondo - dal Nilo, alle Ande, persino in Gorky Park. C'erano cinque messaggi in tutto, ognuno spedito allo scadere dell'ora, con la stessa insistente domanda: "Dov'è Red Square?". Il primo diceva anche: "Se siete al corrente ubicazione Red Square, posso mettere a disposizione contatti con ditta internazionale. Richiedo intermediazione del dieci per cento." Il dieci per cento di intermediazione per trovare la Piazza Rossa sembravano soldi facili. Sempre sotto il margine superiore, la macchina aveva stampato automaticamente il lungo numero della stazione trasmittente. Arkady telefonò all'operatore dei servizi telefonici internazionali, che identificò il codice nazionale come quello della Germania e quello della città come Monaco. «Hai uno di questi affari?» «Conosco un ragazzo che ce l'ha.» Arkady scrisse sulla carta intestata di Rudy: "Necessarie ulteriori informazioni". Polina inserì il foglio, sollevò la cornetta e formò il numero, che rispose con un "ping". Una luce lampeggiò sopra il pulsante su cui era scritto "Transmit", e quando Polina lo premette, il foglio cominciò a muoversi. «Se cercano di contattare Rudy significa che non sanno che è morto» disse Polina. «Proprio questa è l'idea.» «Così riceverai informazioni inutili o ti ritroverai in una situazione imbarazzante. Non vedo l'ora.» Attesero un'ora senza ricevere risposta. Arkady si decise infine a scendere al piano di sotto per dare un'occhiata al garage e trovò Minin che stava percuotendo il pavimento con il manico di un badile. La lampadina appesa al soffitto era stata sostituita da un'altra più potente. Le gomme erano state messe di lato e impilate secondo la dimensione, le cinghie di gomma e le latte d'olio erano state numerate ed etichettate. Come unica concessione al caldo Minin si era tolto la giacca e il giubbotto: il cappello era rimasto in
testa e l'ombra gli tagliava il viso a metà. L'uomo della luna, pensò Arkady. Quando vide il suo superiore, Minin scattò imbronciato sull'attenti. Il guaio di Minin era quello di essere il classico figlio bruttino e piccoletto, si disse Arkady. Non che fosse minuscolo, ma era la creatura non amata, quello che si sente sempre disprezzato. Arkady avrebbe potuto farlo togliere dalla squadra (un investigatore capo non era costretto ad accettare chiunque gli venisse assegnato) ma non voleva dare un'ulteriore giustificazione all'atteggiamento di Minin. Inoltre, odiava vedere un uomo brutto mettere il broncio. «Investigatore Renko, con i ceceni in giro credo sarei più utile per le strade che in questo garage.» «Non sappiamo con precisione se i colpevoli sono ceceni, e voglio che questo lavoro lo faccia una persona capace. Qualcuno sarebbe capace di infilarsi le gomme sotto la giacca.» La battuta stimolò Minin. «Vuole che vada di sopra a tener d'occhio Polina?» «No.» Arkady provò con il calore umano. «Sembra che ti sia successo qualcosa, Minin. Di cosa si tratta?» «Non saprei.» «Ecco cosa.» Sulla camicia intrisa di sudore era appuntata una bandiera rossa di smalto. Arkady non l'avrebbe notata se non si fosse tolto la giacca. «Iscritto?» «Un'organizzazione patriottica» spiegò Minin. «Molto elegante.» «Siamo per la difesa della Russia, per l'abolizione delle cosiddette leggi che sottraggono la ricchezza al popolo e la riservano a un piccolo gruppo di avvoltoi e di cambiavalute; siamo per ripulire la società e porre termine al caos e all'anarchia. Le dà fastidio?» Non era tanto una domanda quanto una sfida. «Oh, no. Addosso a te sta bene.» Sulla strada che lo conduceva da Borya Gubenko, Arkady ebbe l'impressione che la serata estiva fosse calata come una cappa di silenzio. Strade vuote, davanti agli alberghi taxi fermi, disponibili soltanto per i turisti. Un negozio era assediato da compratori, mentre quelli accanto erano così deserti da sembrare abbandonati. Mosca pareva una città divorata, senza cibo, senza benzina, senza le merci fondamentali. Arkady si sentiva un uomo divorato, come se gli mancassero una costola, un polmone, un pezzo di
cuore. Era stranamente rassicurante che qualcuno in Germania avesse chiesto della Piazza Rossa a uno speculatore sovietico. Confermava che la Piazza Rossa esisteva ancora. Borya Gubenko prese una pallina da un secchio, la posò sul tèe, disse ad Arkady di fare attenzione al backswing, si concentrò, spinse indietro la mazza fino a quando questa non parve racchiuderlo in un cerchio, scaricò il colpo e fece partire la palla in linea retta. «Vuole provare?» chiese. «No grazie. Preferisco guardare» disse Arkady. Una dozzina di giapponesi si mettevano in posizione sui quadrati di erba artificiale, sollevavano i bastoni e tiravano palle da golf che volavano, simili a puntini bianchi sempre più piccoli, per tutta la lunghezza del capannone. L'irregolare, secco rumore che facevano quando venivano colpite sembrava una batterìa di colpi d'arma da fuoco: estremamente appropriato, dato che la fabbrica un tempo produceva bossoli. Durante il Terrore Bianco, durante la Guerra Patriottica e gli anni del Patto di Varsavia, gli operai avevano prodotto milioni di bossoli d'ottone con anima d'acciaio. Per trasformare lo stabilimento in un campo da golf, le linee di produzione erano state eliminate e il pavimento era stato dipinto in color verde pascolo. Un paio di presse inamovibili erano state schermate da alberi tagliati: un tocco apprezzato dai giapponesi, che portavano il berretto da golf anche al coperto. A parte Borya, gli unici giocatori russi in vista erano una madre e una bambina, con minigonne identiche, che prendevano lezione. Sulla parete di fondo, le palline rimbalzavano contro un telone verde contrassegnato da distanze crescenti: duecento, duecentocinquanta e trecento metri. «Confesso» disse Borya «di sopravvalutare un po' le cose. Un cliente soddisfatto è il segreto del successo.» Si mise in posa per Arkady. «Cosa gliene pare? Il primo campione russo dei dilettanti?» «Come minimo.» La sagoma massiccia di Borya era come addolcita da un costoso pullover color pastello; i capelli ribelli erano stati bagnati e sottili riccioli d'oro incorniciavano un volto attento e spigoloso, dai cristallini occhi azzurri. «Provi a vederla in questo modo.» Borya prese un'altra pallina dal secchio. «Ho passato dieci anni a giocare a calcio per l'Armata Centrale. Conosce il tipo di vita: soldi a palate, appartamento, macchina, finché si è in
grado di giocare. Poi capita l'infortunio, si comincia a perdere colpi e all'improvviso ci si ritrova per strada. Si passa diritti dalla cima al fondo. Tutti sono disposti a offrirti una birra, ma la cosa finisce lì. Ecco il premio per dieci anni di gioco e le ginocchia fuori uso. I vecchi pugili, i lottatori, i giocatori di hockey... tutti la stessa storia. Non c'è da meravigliarsi se finiscono con la mafia. O peggio, se si mettono a giocare a football americano. Ad ogni modo, io sono stato fortunato.» Più che fortunato. Borya sembrava essersi cristallizzato in un personaggio nuovo, di successo. Nella Nuova Mosca nessuno era trascendentalmente popolare e prospero come Borya Gubenko. Da dietro il campo pratica proveniva il canto delle slot-machine situate accanto a un bar decorato di manifesti Marlboro, portacenere Marlboro e lampade Marlboro. Borya impostò il tiro. Se possibile, sembrava ancor più robusto che ai tempi in cui giocava. Ma anche agile come un leone. Tirò e rimase immobile studiando la pallina che salì e subito scomparve. «Mi parli un po' di questo club» disse Arkady. «Solo valuta pregiata, e solo per gli iscritti. Più è esclusivo, più sono gli stranieri che si vogliono iscrivere. Le dirò un segreto» disse Borya. «Un altro segreto?» «La posizione. Gli svedesi hanno impegnato milioni in un campo di diciotto buche fuori città. Con centro congressi, centro comunicazioni, sistemi di sicurezza, in modo che gli uomini d'affari e i turisti possano andarci senza nemmeno dover stare a Mosca. Ma a me sembra una stupidaggine. Se dovessi investire dei soldi in qualche posto, vorrei vedere com'è davvero, quel posto. Comunque, gli svedesi sono un bel po' fuori città. Al confronto noi siamo centrali, giusto sul fiume, praticamente di fronte al Cremlino. E guardi cosa c'è voluto: un po' di vernice, Astroturf, mazze e palle. Ci citano nelle guide e nelle riviste straniere. E l'idea di tutto questo è stata di Rudy.» Guardò Arkady dalla testa ai piedi. «Lei che sport praticava?» «Calcio, a scuola.» «Ruolo?» «Quasi sempre in porta.» Arkady non aveva intenzione di vantare i propri meriti atletici, non di fronte a Borya. «Come me. La posizione migliore. Si studia, si vede l'attacco, si impara a prevenire. Il gioco si riduce a un paio di trucchi. E quando ci si impegna, ci si impegna, giusto? Se si cerca solo di salvarsi, ci si fa male. Per me, naturalmente, giocare era un modo per vedere il mondo. Non sapevo che co-
sa volesse dire mangiare fino a quando non sono stato in Italia. Ancora adesso faccio da arbitro in qualche incontro internazionale solo per andare a mangiare bene.» "Vedere il mondo" era un eufemismo per descrivere l'ambizione di Borya, pensò Arkady. Gubenko era cresciuto nelle "Baracche Kruscev" di cemento del Laghetto Lungo. In russo, "Kruscev" fa rima con "bassofondo". Borya doveva essere cresciuto a zuppa di cavoli e speranze, ed eccolo parlare di ristoranti italiani. «Cosa pensa che sia successo a Rudy?» chiese. «Credo che quello che è successo a Rudy sia una catastrofe nazionale. Era l'unico vero economista di questo paese.» «Chi l'ha ammazzato?» Senza esitazione Borya disse: «I ceceni. Makhmud è un bandito che non ha la minima idea di cosa sia lo stile occidentale o il business. Il fatto è che impedisce a tutti di progredire. Più terrore c'è, tanto meglio... e chi se ne frega se si chiude un mercato. Tanto più gli altri hanno paura, tanto più forti diventano i ceceni.» Sui tee più avanti i giapponesi tirarono una salva tutti insieme, subito seguita da urla eccitate: «Banzai!». Borya sorrise e li indicò con la mazza. «Prendono l'aereo da Tokyo per farsi un weekend di golf alle Hawaii. Di sera devo buttarli fuori.» «Se i ceceni hanno ucciso Rudy» disse Arkady, «hanno dovuto superare l'ostacolo Kim. Nonostante la sua fama di culturista e di esperto d'arti marziali, non mi pare che abbia protetto un granché. Quando Rudy, il suo migliore amico, ha cercato una guardia del corpo, non è venuto a consigliarsi con lei?» «Rudy andava in giro con un sacco di soldi ed era preoccupato per la propria sicurezza.» «E Kim?» «Le fabbriche di Lyubertsy chiudono. Il problema dell'interazione con il libero mercato, diceva sempre Rudy, è che noi fabbrichiamo merda. Quando ho suggerito a Rudy di prendere Kim, credevo di fare un favore a tutti e due.» «Se lei trova Kim prima di noi, cosa intende fare?» Borya puntò la mazza verso Arkady e abbassò la voce. «Vi chiamo. Senz'altro. Rudy era il mio migliore amico e credo che Kim abbia aiutato i ceceni, ma lei pensa che io metta in pericolo tutto questo, tutto quello che sono riuscito a mettere insieme, per una qualche primitiva vendetta ? Men-
talità vecchia. Dobbiamo metterci al pari con il resto del mondo, se no rimarremo indietro. Ci ritroveremo in case vuote, a morire di fame. Dobbiamo cambiare. Ha una sua carta?» chiese all'improvviso. «Che carta? Del partito?» «Raccogliamo i biglietti da visita e una volta al mese estraiamo una bottiglia di Chivas Regal.» Borya trattenne un sorriso. Arkady si sentì un idiota. Non un idiota comune, ma un idiota fuori tempo, socialmente disinformato. Borya posò il driver e guidò orgogliosamente Arkady verso il buffet. Seduti sulle poltrone foderate in bianco rosso e nero Marlboro, c'erano altri giapponesi con berretto da baseball e americani in scarpe da golf. Arkady sospettava che Borya avesse indovinato l'esatto arredamento da sala d'aspetto di un aeroporto, l'ambiente naturale del viaggiatore d'affari internazionale. Avrebbero potuto essere a Francoforte, a Singapore, in Arabia Saudita, dovunque: e proprio per questo si sentivano a casa. Sopra il bar la televisione era accesa sulla Cnn. L'affollato buffet offriva un assortimento di storione e trota affumicati, caviale rosso e nero, cioccolatini tedeschi e pasticcini georgiani intorno a bottiglie di spumante dolce, Pepsi, vodka al pepe, vodka al limone e cognac armeno cinque stelle. Il profumo del cibo diede ad Arkady un improvviso capogiro. «Organizziamo anche serate di karaoke, tornei e feste aziendali» spiegò Borya. «Niente prostitute, niente venditori. Non potrebbe essere più innocente.» Come, Borya? Non solo era passato dal calcio alla mafia, ma aveva fatto un secondo balzo evolutivo diventando imprenditore. Il modo in cui gli cadeva dalle spalle il pullover, lo sguardo diretto, i movimenti sciolti delle mani pulite dicevano soltanto: uomo d'affari. Borya fece un cenno discreto, da padrone, e un cameriere in uniforme arrivò immediatamente dal buffet, posando sulla tavola di fronte ad Arkady un piatto di aringhe argentee. I pesci sembravano nuotare davanti ai suoi occhi. «Se lo ricorda, il pesce non inquinato?» chiese Borya. «Non a sufficienza, grazie.» Arkady scovò l'ultima sigaretta nel pacchetto. «Dove se lo procura il pesce?» «Come tutti. Scambio una cosa, ne baratto un'altra...» «Al mercato nero?» Borya scosse il capo. «Direttamente. Rudy diceva che non c'era una sola fattoria o un solo collettivo di pesca che non fosse disposto a fare affari, se
gli si offriva qualcosa di più dei rubli.» «Rudy le diceva cosa offrire?» Borya fissò Arkady negli occhi. «Rudy ha cominciato come tifoso. Ha finito col diventare un fratello maggiore. Voleva semplicemente vedermi contento. Mi dava consigli. Non mi sembra un reato.» «Dipende dai consigli.» Arkady voleva provocare una reazione. Borya aveva gli occhi limpidi come l'acqua, senza un'increspatura. «Rudy diceva sempre che non c'era nessun bisogno di infrangere la legge, bastava riscriverla. Guardava in avanti.» «Conosce una certa Apollonia Gubenko?» chiese Arkady. «Mia moglie. La conosco bene.» «Dov'era la notte in cui Rudy è morto?» «Che importanza ha?» «C'era una Mercedes intestata a suo nome al mercato nero, a circa trenta metri dal punto in cui è morto Rudy.» Borya impiegò qualche istante per rispondere. Guardò la televisione, dove un carro armato americano procedeva in un deserto. «Era con me. Eravamo qui.» «Alle due di notte?» «Spesso chiudo dopo mezzanotte. Ricordo che siamo andati a casa con la mia macchina perché quella di Polly era dal meccanico.» «Lei ha due auto?» «Tra me e Polly, due Mercedes, due Bmw, due Volga e una Lada. In Occidente la gente investe in azioni e in obbligazioni. Noi abbiamo automobili. Il guaio è che appena si manda una bella macchina in garage, qualcuno la prende in prestito. Posso provare a vedere chi è stato.» «Lei è sicuro che sua moglie fosse con lei? Perché in quella macchina è stata vista una donna.» «Io le donne le rispetto. Polly ha la sua autonomia, non deve giustificare cosa fa ogni momento, ma quella notte era con me.» «C'è qualcun altro che l'ha vista qui?» «No. Il segreto degli affari è quello di rimanere sempre vicino al registratore di cassa e fare la chiusura per conto proprio.» «Ci sono un sacco di segreti negli affari» disse Arkady. Borya si piegò in avanti e allargò le mani. Sebbene Arkady sapesse che era grosso, rimase sorpreso vedendo l'apertura delle braccia. Ricordò quando Borya balzava fuori dalla porta dell'Armata Centrale per parare i calci di rigore. Gubenko lasciò cadere le mani. Il tono di voce era gentile.
«Renko?» «Sì?» «Io non ho intenzione di ammazzare Kim. Questo è il suo lavoro. Se vuole fare un favore alla società, ammazzi anche Makhmud.» Arkady controllò l'orologio. Erano le otto. Aveva già perduto la prima trasmissione e la mente iniziava a vagare. «Devo andare.» Borya gli fece attraversare il bar. A un altro cenno discreto, una cameriera li raggiunse con due pacchetti di sigarette che Borya gli infilò in una tasca della giacca. Mamma e figlia si fecero strada tra i tavoli. Avevano gli stessi lineamenti minuti e gli stessi occhi grigi. Quando la donna parlò, Arkady ne avvertì la pronuncia leggermente blesa. Fu sollevato nel trovare almeno un'imperfezione. «Borya, il maestro ti sta aspettando.» «Si dice il professionista, Polly. Il professionista.» «Ieri i nazionalisti armeni hanno attaccato nuovamente le truppe sovietiche, provocando dieci morti e altrettanti feriti» disse Irina. «Oggetto dell'attacco era un deposito dell'esercito sovietico, che è stato saccheggiato e dal quale sono state prelevate tutte le armi leggere, fucili da combattimento, mine, un carro armato, un blindato per trasporto truppe, mortai e cannoni anticarro. Ieri il soviet supremo della Moldavia ha dichiarato la propria sovranità, tre giorni dopo un'analoga dichiarazione da parte del soviet supremo della Georgia.» Arkady preparò la tavola con pane nero, formaggio, tè e sigarette, e sedette davanti alla radio, come se l'avesse invitata a cena. Avrebbe dovuto tornare all'appartamento di Rudy; invece era qui, un uomo privo di volontà, in tempo per la sua trasmissione. Le notizie erano apocalittiche ma non importava. «In Kirghizia proseguono per il terzo giorno gli scontri tra kirghizi e uzbeki. Le strade di Osh sono pattugliate da autoblindo dopo che gli uzbeki si sono impadroniti degli alberghi turistici al centro della città e hanno sparato con armi automatiche contro gli uffici locali del Kgb. Le vittime dei disordini sono duecento; si è anche detto di dragare il canale di Uzgen alla ricerca di altri cadaveri.» Il pane era fresco e il formaggio dolce. Dalla finestra entrava la brezza e la tenda fremeva come una sottana. «Un portavoce dell'Armata Rossa ha ammesso oggi che gli insorti af-
ghani hanno attraversato i confini sovietici. Da quando le truppe sovietiche hanno lasciato l'Afghanistan, il confine è di nuovo accessibile ai contrabbandieri di stupefacenti e agli estremisti religiosi che sollecitano le repubbliche dell'Asia centrale a dare inizio alla guerra santa contro Mosca.» Il sole pendeva sull'orizzonte settentrionale, sopra le cupole a cipolla e sopra i camini. La sua voce era appena più roca e l'accento siberiano era più istruito e sofisticato. Arkady ricordava i suoi gesti, a volte eccessivi, e il colore dei suoi occhi, come quello dell'ambra. Notò che, ascoltandola, si era piegato verso la radio. Si sentì ridicolo, come se avesse bisogno di dare forza alle proprie argomentazioni. «Ieri i minatori del Donetsk hanno chiesto le dimissioni del governo e la messa al bando del partito, proclamando inoltre un nuovo sciopero. Interruzioni del lavoro si sono verificate anche in tutte le ventisei miniere del bacino di Karaganda e in ventinove miniere di Rostov sul Don. Manifestazioni di massa in appoggio ai lavoratori in lotta sono state organizzate dai minatori di Sverdlovsk, Chelyabinsk e Vladivostok.» Le notizie non erano importanti; quasi non le udiva. Era la sua voce e il suo respiro trasmesso a milleseicento chilometri di distanza. «Ieri sera a Mosca il Fronte per la democrazia ha manifestato davanti a Gorky Park per chiedere la messa al bando del Partito Comunista. Contemporaneamente, appartenenti al gruppo di destra Bandiera Rossa si sono incontrati per difendere il Partito. Ambedue i gruppi hanno chiesto il diritto di manifestare in Piazza Rossa.» Era Sheherazade, pensò Arkady. Una notte dopo l'altra era capace di raccontare storie di oppressione, insurrezione, scioperi e catastrofi naturali, e lui la ascoltava come se stesse intrecciando favole di paesi esotici, di spezie magiche, di scimitarre lampeggianti e draghi con gli occhi di perla e le scaglie d'oro. Purché non smettesse di parlargli. 7 A mezzanotte, Arkady attendeva di fronte alla biblioteca Lenin, ammirando le statue degli scrittori e degli studiosi russi sul cornicione. Ricordò di aver sentito dire che il palazzo era sul punto di crollare. E infatti, pareva che le statue stessero per spiccare un salto. Quando un'ombra emerse e chiuse la porta, Arkady attraversò la strada e si presentò. «Un investigatore? Non mi sorprende.» Feldman indossava un cappello di pelliccia, aveva una borsa e assomigliava a Trotsky perfino nella barbet-
ta caprina, candida come la neve. Partì a passo deciso verso il fiume e Arkady gli si mise al fianco. «Ho le mie chiavi. Non ho rubato nulla. Vuole perquisirmi?» Arkady ignorò l'invito. «Come faceva a conoscere Rudy?» «Sono le uniche ore in cui si può lavorare. Grazie a Dio soffro d'insonnia. Anche lei?» «No.» «Ne ha tutta l'aria. Si faccia vedere da un medico. A meno che non gliene importi niente.» «Rudy?» riprovò Arkady. «Rosen? Non lo conoscevo. Ci siamo incontrati una volta, la settimana scorsa. Voleva discutere di arte.» «Come mai?» «Io sono professore di storia dell'arte. Le ho detto al telefono che ero professore. Un diavolo di investigatore, ho già capito.» «Che cosa le ha chiesto Rudy?» «Voleva sapere tutto dell'arte sovietica. L'avanguardia artistica sovietica è stato il periodo artistico più creativo, più rivoluzionario della storia, ma l'uomo sovietico è un ignorante. Non potevo istruire Rosen in mezz'ora.» «Le ha chiesto di qualche quadro in particolare?» «No. Ma ho capito dove vuole andare a parare. È divertente. Per anni il Partito ha imposto il realismo socialista, la gente appendeva quadri di trattori alle pareti e nascondeva i capolavori dell'avanguardia dietro il cesso o sotto il letto. Adesso cominciano a tirarli fuori. All'improvviso Mosca si è riempita di esperti d'arte. A lei piace il realismo socialista?» «Il realismo socialista è uno dei settori in cui sono più debole.» «Sta parlando dell'arte?» «No.» Feldman osservò Arkady con occhi più attenti, più interessati. Erano nel parco dietro la biblioteca, dove i gradini scendevano tra gli alberi verso il fiume, vicino all'angolo sud-occidentale del Cremlino. I riflettori trasformavano i rami bassi in tralicci dorati che sfumavano nel nero. «Ho detto a Rosen che quel che si dimentica è che c'era del vero idealismo all'inizio della Rivoluzione. A parte la fame e la guerra civile, Mosca era la città più stimolante del mondo. Quando Majakovskij disse: "Che le piazze diventino le nostre tavolozze, che le strade diventino i nostri pennelli", faceva sul serio. Ogni muro era un quadro. Si dipingevano treni, navi, aerei, palloni. Carta da parati, piatti, confezioni di gomma da masticare
venivano reinventati da artisti sinceramente convinti di creare il mondo nuovo. E contemporaneamente le donne manifestavano per il libero amore. Si credeva che tutto fosse possibile. Rosen mi ha chiesto quanto potrebbe valere adesso una di quelle confezioni di gomma da masticare.» «La stessa cosa che era venuta in mente a me» ammise Arkady. Feldman scese i gradini a passi decisi, disgustato. «Visto che l'arte d'avanguardia era al bando, lei si è scelto una specializzazione suicida. È per questo che ha preso l'abitudine di lavorare fino a tardi?» chiese Arkady. «È un'osservazione non del tutto stupida.» Feldman si bloccò. «Come mai il rosso è il colore della rivoluzione?» «Tradizione?» «Preistoria, non tradizione. Le prime due abitudini dell'uomo scimmia furono il cannibalismo e il pitturarsi di rosso. I sovietici sono gli unici a farlo ancora. Guardi cosa abbiamo fatto al genio della rivoluzione. Mi descriva la tomba di Lenin.» «È un quadrato di granito rosso.» «È un disegno costruttivista ispirato da Malevich. È un quadrato rosso nel quadrato della Piazza Rossa. Non è semplicemente Lenin esposto come un'aringa affumicata. All'epoca l'arte era dappertutto. Tatlin progettò un grattacielo girevole più alto dell'Empire State Building. La Popova disegnava alta moda per i contadini. Gli artisti di Mosca avevano intenzione di dipingere gli alberi del Cremlino. Lenin si oppose, ma la gente pensava che tutto fosse possibile. Erano giorni di speranza, giorni di fantasia.» «Lei tiene delle lezioni su questo argomento?» «Nessuno mi vuol stare ad ascoltare. Sono come Rosen, vogliono solo vendere. Passo tutta la giornata ad autenticare opere d'arte per gli idioti.» «Rosen aveva qualcosa da vendere?» «Non lo chieda a me. Avremmo dovuto incontrarci due giorni fa. Non si è fatto vedere.» «E come mai pensa che avesse qualcosa da vendere?» «Oggi ognuno vende tutto ciò che ha. E Rosen mi ha detto che aveva trovato qualcosa. Non mi ha detto cosa.» Sull'argine, Feldman si guardò in giro con tale fervore che ad Arkady parve quasi di vedere alberi dipinti nei giardini del Cremlino, amazzoni in corteo in via Gorky, dirigibili che innalzavano manifesti di propaganda sotto la luna. «Viviamo tra le rovine archeologiche di quel mondo nuovo che non si è
mai materializzato. Se sapessimo dove scavare, chissà mai che cosa troveremmo» disse Feldman e, da solo, attraversò il ponte. Diretto verso casa, Arkady costeggiò il muraglione dell'argine. Non aveva sonno, ma non sentiva di avere l'insonnia. La sola parola lo rendeva irrequieto. Non trovò alcuna amazzone lungo il fiume. Qualche pescatore era intento a infilare l'esca sull'amo. Arkady aveva trascorso un paio di anni del suo esilio su un peschereccio nel Pacifico. Gli era sempre piaciuto il modo in cui al tramonto anche le navi più rugginose e malandate si trasformavano in una stupefacente, intricata costellazione, con le luci sugli alberi, sul boma, sulle murate, sul castello di prua, sul ponte e sulle scalette. Gli venne in mente che si poteva fare lo stesso con i pescatori notturni di Mosca: batterie e lampadine sul cappello, sulla cintura e sulla punta della canna da pesca. Forse il problema non era l'insonnia. Forse non era altro che un pazzo. Perché cercava di scoprire chi aveva ammazzato Rudy? Quando un'intera società stava crollando, che differenza faceva sapere o meno chi aveva assassinato un trafficante al mercato nero? Comunque, non era questo il mondo reale. Il mondo reale era quello in cui viveva Irina. Qui lui era una delle tante ombre dentro una caverna, nella quale comunque non poteva dormire. Di fronte a lui il profilo di San Basilio si ergeva come una folla di mori in turbante sullo sfondo luminoso dei riflettori della piazza, accesi per tutta la notte. All'ombra del basamento di pietra della Cattedrale stazionavano un centinaio di soldati della caserma del Cremlino in uniforme da campo, attrezzati di radio e fucili mitragliatori. La Piazza Rossa saliva come un ampio rilievo di ciottoli. Sotto le luci, i mattoni del Cremlino apparivano quasi bianchi, con bastioni a coda di rondine che rendevano aggraziata una fortezza le cui difese parevano estendersi fino alla Grande Muraglia. Le cupole sopra gli ingressi, ora sormontate da stelle color rubino, sembravano chiese catturate, legate e trascinate dall'Europa come trofei per lo zar. Fremente sotto il raggio dei riflettori, il Cremlino era qualcosa a metà tra la realtà e il sogno, una visione immensa e opprimente. Dall'ingresso della Torre Spassky una berlina nera uscì come un pipistrello e scivolò sul selciato. In lontananza, all'inizio della piazza, un cartellone della Pepsi alto quattro piani copriva la facciata del Museo della Guerra. Alla sua destra, la facciata di pietra in stile classico del
Gum, il più grande e il più vuoto tra i grandi magazzini del mondo, si rimpiccioliva nel buio. Dal tetto del Gum e dal muraglione del Cremlino alcune telecamere sorvegliavano la piazza, ma nessun riflettore era tanto potente da penetrare la vallata d'ombra al centro, dove si trovava Arkady. Qui una persona appariva come un semplice puntino su uno schermo grigio. Invece che elevare lo spirito, le dimensioni enormi e il vuoto impressionante della piazza lo schiacciavano, suggerendo al contempo quanto fosse irrilevante. Salvo per uno spirito. In punto di morte, Lenin aveva implorato che non gli si costruisse alcun mausoleo. Quello che Stalin aveva fatto costruire era una vendicativa fila di cripte, una tarchiata ziggurat rossa e nera, sotto le mura del Cremlino. La fiancheggiavano quinte vuote di marmo bianco, la zona in cui sedevano i dignitari in occasione della parata del Primo Maggio. Il nome di Lenin era scritto a lettere d'oro sul portale della tomba. Ai lati, le due guardie del picchetto d'onore, sergenti ancora ragazzi con i guanti bianchi e i volti di cera, barcollavano per la stanchezza. Nella piazza era vietato il traffico normale, ma mentre Arkady si allontanava dalla tomba una Zil nera balzò fuori da via Cherny e passò davanti al Gum verso il fiume, immergendosi nell'oscurità di fronte a San Basilio. Vi fu uno stridore di pneumatici, un acuto suono di protesta che si riverberò per tutta la piazza. La Zil tornò indietro. Procedeva a fari spenti, e Arkady si rese conto troppo tardi che puntava direttamente su di lui. Si mise a correre verso il museo ma la Zil lo seguì con il paraurti quasi alle sue calcagna. Deviò a sinistra verso la tomba ma la grossa automobile accelerò e gli tagliò la strada. Arkady evitò il paraurti posteriore e puntò verso via Cherny. La Zil si fermò oscillando, prese posizione e puntò verso di lui descrivendo un ampio cerchio e accelerando. Quando la via di fuga intersecò l'arco descritto dalla berlina, Arkady si tuffò. Rotolò su se stesso, si rialzò e, con la testa che gli girava, puntò verso San Basilio, ma scivolò sui ciottoli. Vide i fari incombergli addosso. Cadde su un ginocchio e incrociò le braccia davanti agli occhi. La Zil gli si arrestò davanti. Quattro uniformi emersero dall'alone dei fari che gli esplodevano negli occhi. Uniformi verde scuro da generale con stelle di ottone, spalline a spazzola e un mosaico di medaglie. Quando riprese a vederci, ad Arkady parve che gli uomini dentro le uniformi fossero stranamente avvizziti, intenti a reggersi l'un l'altro. Scendendo dall'auto, il conducente fu sul punto di cadere. Indossava un maglione da civile e un
giubbotto, in testa aveva il berretto da sergente maggiore. Era ubriaco, e dagli occhi le lacrime gli colavano sulle guance fino alle mascelle. «Belov?» chiese Arkady rialzandosi. «Arkasha.» La voce di Belov era profonda e vuota come un barile. «Siamo andati a casa tua ma non c'eri. Siamo andati al tuo ufficio ma non c'eri. Stavamo andandocene in giro quando ti abbiamo visto, ma ti sei messo a correre.» Arkady riconobbe i generali, sebbene fossero delle versioni fantoccesche e ingrigite degli alti, imponenti ufficiali che di solito seguivano suo padre. Questi erano i duri eroi dell'assedio di Mosca, i comandanti dei battaglioni corazzati dell'offensiva in Bessarabia, l'avanguardia della presa di Berlino; tutti e quattro esibivano l'Ordine di Lenin concesso per "un'azione decisiva che ha alterato significativamente il corso della guerra". Ma Shuksin, che usava sempre battersi un frustino sugli stivali, appariva adesso prosciugato, mentre Ivanov, che aveva sempre chiesto il privilegio di portare la cassa con i piani operativi del generale Renko, era curvo come una scimmia. Kuznetsov era diventato tondo come un bambino, mentre Gul era uno scheletro: il suo vigore e la sua ferocia si riducevano ormai a ciuffi di pelo che gli spuntavano sulle sopracciglia e dalle orecchie. Arkady, che pure li aveva odiati tutta la vita (o meglio disprezzati, essendo il servilismo verso suo padre, più che la cattiveria, alla base delle loro ingiurie nei suoi confronti), rimase attonito di fronte alla loro decrepitezza. Boris Sergeyevich era diverso. Un tempo era stato il sergente Belov, l'autista di suo padre, la guardia del corpo che accompagnava il giovane Arkady al Gorky Park. Poi era diventato l'investigatore Belov, sebbene non si distinguesse tanto per essere dotato negli studi quanto per la devozione e per la ferrea lealtà. Il suo atteggiamento verso Arkady era sempre stato di adorazione. Il suo arresto e il suo esilio erano cose che non era mai riuscito a capire, né più né meno della meccanica quantistica o della lingua francese. Belov si levò il berretto e lo strinse sotto il braccio come se si stesse mettendo a rapporto. «Arkady Kyrilovich, ho il dolore di informarti che tuo padre, il generale Kyrii Ilyich Renko, è deceduto.» Il generali si fecero avanti per stringergli la mano. «Avrebbe dovuto essere maresciallo dell'esercito» disse Ivanov. «Eravamo compagni d'armi» disse Shuksin. «Sono entrato a Berlino con tuo padre.» Gul agitò un braccio arrugginito. «Ho marciato in questa stessa piazza
con tuo padre e ho deposto mille bandiere fasciste ai piedi di Stalin.» «Le nostre più sincere condoglianze per questa perdita incommensurabile.» Kuznetsov singhiozzava come una zia. «Il funerale è già stato organizzato per sabato. È presto, ma tuo padre ha lasciato tutte le istruzioni, come sempre. Ha chiesto di consegnarti questa lettera.» «Non la voglio.» «Il contenuto non lo conosco.» Belov cercò di infilare una busta nella giacca di Arkady. «Da padre a figlio.» Arkady scostò la mano di Belov. Fu sorpreso dalla sua stessa sgarbatezza nei confronti di un buon amico e dall'intensità del disgusto che provava per gli altri. «No, grazie.» Shuksin fece un passo ondeggiante in direzione del Cremlino. «Allora sì che l'esercito veniva considerato. La potenza sovietica voleva dire qualcosa. Allora sì che i fascisti si cagavano nelle braghe ogni volta che ci soffiavamo il naso.» Gul riprese il motivo. «Adesso strisciamo verso la Germania per leccarle il culo. Ecco cosa abbiamo guadagnato a lasciare che si rimettessero in piedi.» «E cosa abbiamo guadagnato ad aver salvato ungheresi e cechi e polacchi, salvo sputi in faccia?» La passione con cui aveva posto la domanda era troppa per Ivanov; il vecchio custode dei documenti di guerra si piegò sul parafango dell'auto. Erano talmente pieni di vodka, notò Arkady, che un fiammifero sarebbe bastato a farli ardere come stracci. «Abbiamo salvato il mondo, ricordate?» disse Shuksin. «Abbiamo salvato il mondo!» «Perché?» si lagnò Belov. «Era un assassino» rispose Arkady. «Era la guerra.» «Credi che noi l'avremmo perso, l'Afghanistan?» chiese Gul. «O l'Europa? O anche una sola repubblica?» «Non sto parlando della guerra» disse Arkady. «Leggi la lettera» lo implorò Belov. «Sto parlando di un assassinio» disse Arkady. «Arkasha, ti prego!» Gli occhi di Belov avevano un'espressione implorante, come quelli di un cane. «Fallo per me. Sta per leggere la lettera!» I generali si riscossero, si raggrupparono e fecero circolo. Uno spintone e probabilmente sarebbero crollati, trasformandosi in mucchietti di polve-
re, pensò Arkady. Chi vedevano? si chiese. Lui, suo padre, chi? Avrebbe potuto essere un momento di vendicativo trionfo. Ma tutto era troppo patetico, e i generali, per quanto grotteschi, non erano mai stati così umani, sdentati e rimbambiti com'erano. Prese la lettera. Sembrava luminosa e riportava il suo nome a caratteri spigolosi. In mano pareva leggera, come se non contenesse nulla. «La leggerò poi» disse Arkady e si allontanò. «Al cimitero di Vagankovskoye» gli gridò Belov. «Alle dieci.» Oppure la butterò via, pensò Arkady. O la brucerò. 8 Il giorno dopo era l'ultimo della cosiddetta "indagine calda", l'ultimo giorno degli allarmi ufficiali alle stazioni, il momento designato per le frustrazioni e i risentimenti. Arkady e Jaak seguirono false segnalazioni di Kim a nord, a ovest e a sud, e a tutti e tre gli aeroporti di Mosca. Alla quarta soffiata puntarono a est, verso la strada senza uscita conosciuta come Lyubertsy. «Un nuovo informatore?» chiese Arkady. Era lui alla guida, il che era sempre segno di pessimo umore. «Nuovissimo» confermò Jaak. «Non è Julya» disse Arkady. «Non è Julya» confermò Jaak. «Ti sei già fatto prestare la sua Volvo?» «Lo farò. Comunque, non è Julya. È uno zingaro.» «Uno zingaro!» Con uno sforzo, Arkady evitò di uscire di strada. «E poi dici che sono io ad avere dei pregiudizi» osservò Jaak. «Quando penso agli zingari, penso a poeti e a musicisti, non a informatori attendibili.» «Be'» disse Jaak «questo tizio venderebbe anche suo fratello, il che a mio parere lo rende un informatore attendibile.» Videro la moto di Kim. Una Suzuki, un scultura esotica color blu notte che collegava due cilindri a due ruote, sostava su un cavalletto cromato dietro un palazzo di cinque piani. Arkady e Jaak le girarono intorno ammirandola, e lanciando ogni tanto un'occhiata all'edificio. I balconi ai piani alti erano stati chiusi illegalmente. Il terreno era cosparso di rifiuti che sembravano essere piovuti dalle finestre: cartoni, molle di materasso, bot-
tiglie rotte. L'isolato successivo era a cento metri di distanza. Era un paesaggio incompleto di palazzi distanziati, con le condutture delle fogne semplicemente posate nelle fosse aperte, i marciapiedi di cemento che si intersecavano tra le erbacce. Nessuno si aggirava per la strada. Il cielo era insozzato da quel particolare tipo di smog che esprime sia veleni industriali che disperazione. Lyubertsy era tutto ciò di cui ogni russo provava orrore: essere lontani dal centro, non essere a Mosca o a Leningrado, essere dimenticati e invisibili, come se in quel luogo iniziasse la steppa, a soli venti chilometri dal limite cittadino di Mosca. I suoi abitanti erano i molti che passavano senza soluzione di continuità dall'asilo nido alla scuola professionale alla catena di montaggio alle lunghe code per la vodka al cimitero. Lyubertsy era il terrore dei moscoviti anche a causa dei suoi giovani operai, che in treno calavano su Mosca per fare a botte con i privilegiati della città. Era assolutamente naturale che i Lyuber si fossero trasformati in una mafia specializzata nel rovinare concerti rock e ristoranti. Jaak si schiarì la gola. «In cantina» disse. «La cantina?» Era l'ultima cosa che Arkady avrebbe voluto sentire. «Per andare nelle cantine ci vorrebbero lampade e giubbotti antiproiettile. Non li hai ordinati?» «Non immaginavo che Kim sarebbe finito qui.» «In realtà non ti fidavi affatto del tuo attendibile informatore, vero?» «Non volevo mettere in piedi un casino» spiegò Jaak. Il guaio era che le cantine di Lyubertsy non erano cantine normali, perché fino a poco tempo prima praticare in privato le arti marziali orientali era illegale. Come risposta, i culturisti di Lyuber erano entrati in clandestinità, trasformando le carbonaie e i locali delle caldaie in palestre clandestine. Andarsene in giro da solo per una cantina di Lyubertsy non era per Arkady una prospettiva affascinante; ma d'altro canto ci sarebbe voluto un giorno buono per far venire da Mosca le attrezzature speciali. Tre babushka erano sedute sui gradini di un condominio e sorvegliavano un campo da gioco dove dei bambinetti salivano su un carrettino di assi fradice. Le donne avevano capelli grigi e abiti neri che le facevano assomigliare a cornacchie. «Ti ricordi il Komsomol che ha chiamato per riavere il trofeo lasciato a Rudy?» «Vagamente.» «Ti ho detto che hanno continuato a telefonare?»
«Ti pare il momento buono per raccontarmelo?» chiese Arkady. «E la mia radio?» chiese Jaak. «La tua radio?» «L'ho comprata, mi piacerebbe ascoltarla. Continui a dimenticarti di ridarmela.» «Vieni a riprenderla a casa mia stasera.» Non potevano stare tutto il giorno nei dintorni della moto, pensò Arkady. Erano già stati notati. «Vado io, visto che ho la pistola» disse Jaak. «Non appena qualcuno entra, quello si mette a correre. Dato che la pistola ce l'hai tu, aspetti qui e lo fermi.» Arkady salì i gradini. Le donne lo guardarono come se fosse arrivato da un altro pianeta. Tentò un sorriso. No, qui non si accettavano sorrisi. Guardò il campo giochi. Era vuoto; i bambini rincorrevano i batuffoli dei pioppi sul terreno. Lanciò un'occhiata verso Jaak che sedeva sulla moto e guardava l'edificio. Percorse il perimetro della casa fino a quando non trovò una rampa di scale che scendeva verso una porta d'acciaio. La porta era aperta su un buio abissale. Chiamò: «Kim! Mikhail Kim! Voglio parlarti!». In risposta ottenne un silenzio totale. Il rumore dei funghi che crescevano, pensò Arkady. Non aveva nessuna voglia di entrare nella cantina. «Kim?» Tastò intorno a sé fino a quando non toccò una catena. La tirò e una dozzina di deboli lampadine si accesero, appese a un cavo elettrico fissato direttamente alle travi. Non si potevano tanto definire un sistema di illuminazione, quanto dei segnaposizione nel buio. Chinandosi e procedendo, gli sembrò quasi di immergersi in una palude. Tra il pavimento e il soffitto c'era un metro e mezzo, a volte meno. Il tunnel si inoltrava tra tubi scoperti e valvole, costringendo a procedere curvi. Sopra, il piano terreno della casa cigolava come una nave. Si staccò delle ragnatele dal viso e trattenne il respiro. La claustrofobia si ripresentò come una vecchia amica venuta ad accompagnarlo. La cosa più importante era passare senza fermarsi da una lampadina all'altra. Respirare con più regolarità. Non pensare al peso dell'edificio sulla sua schiena. Non pensare alla qualità scadente dell'edilizia sovietica. Non pensare nemmeno per un istante che il tunnel poteva assomigliare a una tomba. All'ultima lampadina, Arkady superò un altro stretto passaggio e si trovò
carponi in una stanza bassa, senza finestre, intonacata, dipinta e illuminata da un tubo fluorescente. Sul pavimento erano disposti materassi, manubri per sollevamento pesi e maniglie. I manubri erano di fabbricazione casalinga, ruote d'acciaio rozzamente fissate alle sbarre. Le cinghie erano fatte con lastre d'acciaio tagliate e collegate a un filo. A una parete erano appesi uno specchio a figura intera e una fotografia di Schwarzenegger che fletteva i muscoli. Da una catena appesa al soffitto pendeva un sacco da allenamento. Nell'aria aleggiava un pungente odore di talco e sudore. Arkady si rizzò. Al di là si apriva una seconda stanza con panchette e pesi appoggiati ai sostegni. Su un materasso erano sparsi libri sul culturismo e l'alimentazione. Una delle panche era lucida e mostrava l'impronta di una scarpa da ginnastica. Sul soffitto sopra la panca era stata fissata una piastra di metallo. A metà parete vide un interruttore. Arkady spense la luce per non offrire la propria sagoma a un eventuale aggressore. Salì sulla panca, sollevò la piastra e la fece ruotare sul cardine. Fece per sollevarsi, quando sentì la canna di una pistola premergli contro il capo. Era buio. La testa sporgeva a metà dal pavimento dietro le scale dell'ingresso. La panca era a un milione di chilometri dai piedi oscillanti nel vuoto. L'odore di urina stantia arrivava a zaffate dall'atrio. Vedeva un triciclo senza ruote, in un angolo pacchetti di sigarette e preservativi usati e, all'altro capo dell'automatica, Jaak. «Mi hai fatto paura» disse Jaak alzando la rivoltella. «Davvero?» Arkady si sentiva come se non fossero solo i piedi a oscillare. Jaak lo tirò fuori. L'atrio dava sulla strada parallela a quella da dove erano arrivati. Arkady si appoggiò alle caselle delle lettere. Erano state incendiate, come al solito. Le luci dell'atrio erano fulminate, come al solito. Non c'era da stupirsi che la gente venisse ammazzata. Jaak era imbarazzato. «Ci stavi mettendo un'eternità, così sono venuto a vedere se c'era un altro ingresso, proprio mentre tu spuntavi fuori.» «Non lo rifarò più.» «Dovresti portare la rivoltella» disse Jaak. «Se avessi la rivoltella il nostro sarebbe un patto di suicidio.» Quando furono fuori, Arkady si rese conto che gli stava ancora girando la testa. «Andiamo a tenere d'occhio la moto» suggerì Jaak. Quando arrivarono dall'altra parte dell'edificio, la bella motocicletta di Kim era scomparsa.
La milizia trainava i rottami delle auto a una banchina nelle vicinanze del Porto Sud, a portata di mano delle fonderie e delle fabbriche automobilistiche del quartiere Proletariato. Tutto ciò che era anche solo remotamente riutilizzabile era già stato asportato. Ciò che restava erano scheletri di auto, pieni di una sorta di loro dignità, come i fiori secchi. Dalla banchina si scorgevano le propaggini meridionali di Mosca; non era Parigi, ovviamente, ma possedeva una certa maestosità, sottolineata qua e là dalla cupola d'oro di una chiesa che splendeva all'ombra delle ciminiere. Il cielo della sera era ancora illuminato. Arkady trovò Polina in fondo alla banchina intenta a trafficare con pennello, barattoli di vernice e tavolette di truciolato. Come concessione all'aria tiepida si era sbottonata l'impermeabile, «Dal messaggio sembrava una cosa urgente» disse Arkady. «Pensavo che avresti dovuto assistere.» «A cosa?» Si guardò in giro. «Vedrai.» Arkady stava perdendo la pazienza. «Nessuna emergenza? Stai semplicemente lavorando?» «Stai lavorando anche tu.» «Be', io ho una vita ossessiva ma vuota. Non hai voglia di andare a ballare o a vedere un film con un amico?» Irina aveva già iniziato a trasmettere; Arkady sapeva perfettamente cosa avrebbe preferito fare in quel momento. Polina stese della vernice verde su una tavoletta di legno in equilibrio sul parafango di una Zil alla quale erano stati tolti sedili e portiere. Era un'immagine graziosa, pensò Arkady. Se avesse avuto una spatola e un po' più di tecnica... Ma sembrava intenta a dare gran pennellate di colore. Polina parve avvertire la sua poca concentrazione. «Cosa hai combinato con Jaak?» «Non ci siamo coperti di gloria.» Guardò in direzione della spalla di lei. «Molto verde.» «Sei un critico d'arte?» «Gli artisti hanno temperamento. Intendevo dire "un verde generoso, espansivo".» Fece un passo indietro per studiare il profilo della città. Il fiume nero, le gru grigie e le ciminiere si fondevano nel cielo lattiginoso. «Che cosa stai dipingendo, esattamente?» «Il legno.»
«Ah.» Polina aveva quattro barattoli diversi di vernice verde etichettati rispettivamente CS1, CS2, CS3 e CS4, separati da quattro barattoli di rosso con le etichette SR1, SR2, SR3 e SR4. Ogni barattolo aveva un suo pennello. Il puzzo della vernice verde era infernale. Si ficcò una mano in tasca, ma ricordò di aver lasciato le Marlboro di Borya nell'altra giacca. Quando trovò le Belomor, Polina gli soffiò sul fiammifero. «Esplosivi» disse. «Dove?» «Ricorderai che nell'auto di Rudy abbiamo trovato tracce di sodio rosso e di solfato di rame. Come sai, la cosa indicherebbe la presenza di una bomba incendiaria.» «Non sono mai stato forte in chimica.» «Quel che non riuscivamo a capire» proseguì Polina «era come mai non fossimo riusciti a trovare né un timer né un radiocomando. Ho fatto delle ricerche. Non c'è bisogno di un dispositivo di ignizione separato se si combinano sodio rosso e solfato di rame.» Arkady guardò di nuovo i barattoli ai suoi piedi. SR: sodio rosso, rosso minio, un carminio cupo con una sfumatura color ocra. CS: solfato di rame, un disgustoso verde spinacio con un puzzo del diavolo. Rimise in tasca i fiammiferi. «Non c'è bisogno di detonatore?» Polina posò la tavoletta bagnata di vernice sul sedile anteriore della Zil e ne tirò fuori un'altra con la vernice verde già asciutta. Coprì la tavola di carta marrone fissandola con del nastro adesivo. «Presi singolarmente, il sodio rosso e il solfato di rame sono relativamente innocui. Insieme invece reagiscono chimicamente e generano un calore sufficiente per la combustione spontanea.» «Spontanea?» «Ma non immediatamente e non necessariamente. Questa è la cosa interessante. È una classica arma binaria: le due metà di una carica esplosiva separate da una membrana. Sto provando barriere di tipo diverso come carta pergamena, mussolina e carta semplice, per misurare tempi ed efficacia. Ho già messo tavolette in sei macchine.» Polina prese il pennello dal barattolo SR4 e si mise a passare sulla carta robuste pennellate di sodio rosso. Arkady notò che aveva iniziato tracciando una "W", come gli imbianchini. «Se si incendiassero immediatamente, ormai lo sapresti» disse. «Sì.»
«Polina, non abbiamo dei tecnici della milizia con bunker e corazze e pennelli molto lunghi per fare queste cose?» «Io ci metto di meno e sono più brava.» Lavorava in fretta. Evitando di far finire le gocce rosse nei barattoli verdi, in meno di un minuto dipinse la carta di rosso.» «Dunque» disse Arkady «quando il sodio rosso oltrepassa la carta ed entra in contatto con il solfato di rame, si riscaldano e prendono fuoco.» «Questo è il concetto, in termini molto semplici.» Polina prese un taccuino e una penna dall'impermeabile, poi trascrisse le sigle dei barattoli e il tempo, al secondo. Reggendo la tavoletta verniciata e il pennello avanzò lungo la fila di rottami. Arkady la accompagnò. «Non posso fare a meno di pensare che staresti meglio a passeggio in un parco, o a mangiare un gelato con qualcuno.» Le auto sulla banchina erano distrutte, rugginose, vuote. Una Volga era talmente contorta che l'assale puntava verso il cielo. Il piantone dello sterzo di una Niva dal muso schiacciato aveva perforato il sedile anteriore. Passarono davanti a una Lada con il blocco motore posato minacciosamente sulla parte posteriore. La banchina era circondata da fabbriche buie e arsenali militari. L'ultimo aliscafo della sera scivolava sul fiume come un serpente luminoso. Polina posò la tavoletta rossa accanto al pedale del freno di una Moskvitch a quattro porte e dipinse un "7" sulla portiera anteriore sinistra. Quando vide che Arkady stava per avvicinarsi alle altre sei macchine in fondo alla banchina disse: «Faresti meglio ad aspettare». Sedettero in una Zhiguli alla quale erano stati tolti parabrezza e ruote, per vedere senza ostacoli la banchina e la sponda opposta. «Una bomba nella macchina e Kim fuori dalla macchina» disse Arkady. «Mi pare un po' eccessivo.» «All'assassinio dell'arciduca Ferdinando, quello che fece scoppiare la prima guerra mondiale» disse Polina, «c'erano ventisette terroristi con bombe e pistole disposti lungo il percorso.» «Hai fatto uno studio sugli assassini? Rudy era solo un banchiere, non l'erede al trono.» «Negli atti di terrorismo contemporanei, specialmente quelli contro i banchieri occidentali, l'autobomba è l'arma preferita.» «Allora hai proprio studiato l'argomento.» Il cuore parve precipitargli in petto. «Continuo a non avere le idee chiare sul sangue nell'auto di Rudy» am-
mise Polina. «Sono sicuro che scoprirai il perché. Sai, nella vita non c'è solo la... morte.» I riccioli bruni di Polina assomigliavano a quelli delle giovani donne dipinte da Manet, pensò Arkady. Avrebbe dovuto portare un collettino di pizzo e le sottane lunghe, sedere a un tavolino di ferro battuto sull'erba tra chiazze di sole, non in un deposito di rottami su una banchina a parlare della morte. Si rese conto che lo stava osservando. «Tu hai davvero una vita vuota, vero?» disse. «Un momento» disse Arkady. La conversazione, senza nessun preavviso e senza nessuna logica, pareva essersi rovesciata. «Sei stato tu a dirlo» gli fece notare lei. «Be', non sei obbligata a essere d'accordo.» «Esattamente» disse Polina. «Tu puoi condurre la tua vita vuota, ma critichi come io vivo la mia, anche se lavoro notte e giorno per te.» La prima auto esplose con un rumore soffocato, simile a un colpo di bacchetta su un tamburo umido. Un lampo bianco si mescolò all'esplosione del parabrezza e dei finestrini. Dopo un istante, mentre i vetri ancora cadevano, l'interno si riempì di fiamme. Polina riportò l'ora sul taccuino. «Non c'era né un detonatore né una spoletta? Solo le sostanze chimiche?» chiese Arkady. «Solo quello che hai visto, cambia solo la concentrazione delle soluzioni. Ne ho degli altri con fosforo e polvere di alluminio. Quelli esplodono solo con un detonatore o in seguito a uno scoppio.» Arkady si era aspettato una sorta di combustione spontanea, non un'esplosione così potente. Il fuoco aveva già attecchito, il sedile anteriore e il cruscotto erano coperti di fiamme dal fumo nero, malsano. Come si poteva sopravvivere all'incendio di un'auto? «Grazie per non avermi lasciato dare un'occhiata da vicino» disse. «Il piacere è tutto mio.» «E mi scuso per aver criticato, o anche solo suggerito, dubbi sul tuo impegno professionale, dato che sei l'unico membro della squadra che dimostra di avere una qualche competenza. Sono ammirato, davvero.» Mentre Polina lo scrutava cercando di capire se era stato sarcastico, Arkady accese una sigaretta. «Tirerei giù il finestrino, se ci fosse un finestrino» disse. La seconda auto si incendiò senza la forza esplosiva della prima, e la bomba nella terza si dimostrò persino più debole: non ci fu quasi esplosio-
ne, anche se le fiamme che seguirono si rivelarono tenaci. La quarta fu al livello della prima. Ormai Arkady si sentiva un osservatore esperto, e poteva apprezzare la sequenza: l'eruzione iniziale del cristallo di sicurezza, il lampo accecante, lo spostamento d'aria e poi la fioritura, in due fasi, di fiamme rosate e di fumo bruno e tossico. Polina prendeva appunti. Aveva mani delicate rese ancor più minuscole dalle maniche arrotolate della giacca. La scrittura era veloce, precisa come quella di una macchina per scrivere. Belov aveva detto che ci sarebbe stato il funerale di suo padre. Avrebbero seppellito il corpo o un mucchio di ceneri? Avrebbero potuto saltare il crematorio e portare il vecchio su quella banchina: un glorioso viaggio postumo in uno dei carri infuocati di Polina. Irina avrebbe potuto riferire la cosa nel notiziario, come l'ennesima atrocità dei russi. Gli venne fatto di pensare che le automobili non si confacessero ai russi. Prima di tutto, i russi non avevano abbastanza strade libere da ghiaccio o da pozze di fango. Cosa più importante, si sarebbe dovuto evitare di mettere veicoli in grado di correre nelle mani di gente incline alla malinconia e alla vodka. «Avevi altri progetti per stasera?» chiese Polina. «No.» La quinta e la sesta auto esplosero contemporaneamente, ma bruciarono in modo molto diverso: una trasformandosi in una palla di fuoco, e l'altra, già ridotta a una carcassa bruciata, riducendosi rapidamente in una serie di incerte fiammelle. Non era arrivata ancora nessuna autopompa. L'epoca dei turni di notte era passata da molto; a quell'ora le fabbriche intorno alle banchine erano vuote, poteva esserci solo qualche guardiano. Arkady si chiese quanta parte della città lui e Polina sarebbero riusciti a mettere a fuoco e fiamme prima che qualcuno se ne accorgesse. «Volevo mettere dei posticci nelle auto» disse Polina passando in rassegna i suoi appunti. «Posticci?» «Manichini. Volevo anche dei termometri. Non sono riuscita a trovare termometri da forno.» «È così difficile trovare qualsiasi cosa.» «Perché la combustione chimica è imprecisa, specie nella prima fase di ignizione.» «La mia impressione è che sarebbe stato molto più esatto se Kim avesse innaffiato Rudy con una scarica di mitra. Non è che non mi diverta a guar-
dare esplodere le auto. Assomiglia al suttee. Sai, le vedove indiane che si immolavano sulla pira funeraria del marito. Questo è come uno splendido suttee sul Gange, salvo che siamo sulla Moscova, che non è mezzogiorno ma mezzanotte, e che abbiamo dimenticato di portare delle vedove. O manichini di vedove. Per il resto è quasi romantico.» «Non si può dire che il tuo sia un approccio analitico» disse Polina. «Analitico? Non serviva un termometro da forno. Ho sentito l'odore che mandava Rudy. Era cotto.» Polina parve ferita. Arkady fu scioccato da quel che aveva detto. E ora cosa poteva dire? Che era stanco, stravolto, che voleva essere a casa con l'orecchio vicino alla radio? «Mi spiace» disse. «Ho detto una cattiveria.» «Credo che faresti meglio a trovarti un altro medico legale» disse Polina. «Credo che sia meglio che me ne vada.» Mentre scendeva dall'auto, la settima auto esplose in un gran spruzzo di frammenti di vetro. Dopo lo scoppio, il vetro scrosciò come un carillon, spandendosi intorno ai suoi piedi. La Moskvitch bruciava come una fornace a tutta potenza; balzando eccitate dai finestrini, le fiamme bianche diffondevano un cerchio di calore che obbligò Arkady ad arretrare. Con l'incendio dei sedili la natura delle fiamme mutò, trasformandosi in velenosi riccioli di fumo rossastro. Vesciche apparvero sulla vernice, e l'intera banchina brillò di cristalli di vetro, come carboni accesi. Arkady notò che Polina aveva ripreso a trascrivere i suoi appunti. Sarebbe stata un'ottima assassina, pensò. Era un'ottima patologa. E lui era un idiota. 9 «È triste, quello che è successo a Rudy. Era una persona umanissima, calda, impegnata nei confronti della gioventù sovietica.» Antonov fece una smorfia mentre un allievo stringeva l'avversario nell'angolo e con un pugno gli faceva saltare il paradenti. «Era spesso qui, incoraggiava i ragazzi, gli diceva di tenersi sulla retta via.» Antonov si chinò seguendo i movimenti del pugile che nell'angolo riusciva a liberarsi dalla stretta. «Inchiodalo, inchiodalo, muoviti! Che cosa credi di fare, l'elica? Rudy era come uno zio per loro. Non è il centro di Mosca, questo. Questi ragazzi non vanno alle scuole speciali di danza. Colpiscilo! Ma la gioventù è il nostro bene più prezioso. Ogni ragazzo e ogni ragazza del Komsomol ha una possibilità di riuscita. Aeromodelli, scacchi, pallacanestro. Scommetto che
Rudy sosteneva tutti i club. Va' indietro. Non tu! Lui!» Jaak non era ancora arrivato. Polina aveva telefonato, ma l'ultimo posto dove Arkady voleva iniziare la giornata era l'obitorio. Non si stancava mai alla vista del sangue? D'altra parte, stare a vedere dei ragazzi che si prendevano a pugni non si stava dimostrando una gran cura per il suo mal di testa. L'allenatore Antonov dava l'impressione di essere un uomo il cui cervello era stato da lungo tempo sbattuto fino a diventare roba più solida. Portava i capelli grigi tagliati a spazzola, aveva lineamenti concreti e nei pugni, talmente nodosi che parevano avere delle nocche in più, nascondeva un martelletto e un orologio. I ragazzi sul ring indossavano elmetti di cuoio, magliette da carrista, calzoncini. Avevano la pelle pallida come polpa di patate, salvo nei punti in cui erano stati colpiti. A volte parevano boxare, a volte sembrava che stessero ballando male. Accanto al ring, la palestra del Komsomol del quartiere Leningrado ospitava materassi per la lotta e uno spazio per il sollevamento pesi, per cui le pareti rimbombavano dei colpi dei lottatori e dei sollevatori. Esistevano due categorie psicologiche, pensò Arkady; i pesisti erano solisti del grugnito, mentre i lottatori non vedevano l'ora di venire stretti. Una debole luce penetrava dalle finestre imbiancate a calce e nell'aria ristagnava un lezzo antico. Le scale dei lottatori e dei sollevatori inquadravano la porta sulla quale un cartello avvertiva: SIGARETTE E SUCCESSO NON VANNO D'ACCORDO! Arkady si ricordò di avere inconsciamente indossato la giacca con i due pacchetti di Marlboro di Borya: c'era un lato luminoso nelle cose, dopotutto. «Rudy era un tifoso di sport... è per questo che mi ha chiesto di venire? Ha un trofeo da dargli?» «È davvero morto?» chiese Antonov. «Assolutamente morto.» «Fatti sotto, fatti sotto!» urlò Antonov rivolto al ring. E ad Arkady: «Lasci perdere il trofeo». «Lasciar perdere il trofeo?» Era a proposito del trofeo che Antonov aveva chiamato il suo ufficio due volte al giorno. «Che cosa se ne fa adesso Rudy di un trofeo?» «Proprio quello che mi chiedevo» disse Arkady. «Non vorrei mancare di rispetto, ma volevo farle una domanda. Supponiamo che in una cooperativa la persona che firma gli assegni muoia. Vuol dire che gli altri soci prendono i soldi che ci sono sul conto?» «Eravate soci di Rudy?» Antonov rise come se fosse una domanda ridicola. «Io personalmente,
no. Il club. Mi scusi. Non cambiare pugno! Se sei destro, rimani destro!» Arkady fece per rialzarsi. «Il club e Rudy?» «I Komsomol locali possono strutturarsi come cooperative. È il minimo, e a volte è utile avere un socio ufficiale: serve a importare certe cose.» «Per esempio slot-machine?» Arkady scelse l'ipotesi più rosea. Antonov si ricordò del suo orologio e picchiò il martelletto su un secchio. I pugili si staccarono, ormai incapaci di sollevare i guantoni. «È perfettamente legale» disse Antonov abbassando la voce. «TransKom Services, con la K maiuscola.» TransKom. La Lega dei giovani comunisti e Rudy erano soci paritari nella gestione delle slot-machine dell'Intourist. Visto in relazione al talento di Rudy, quel minuscolo club Komsomol era metallo trasformato in oro. Per Arkady era una piccola vittoria, sebbene secondaria rispetto al ritrovamento di Kim. «Vedrà» disse Antonov, «il Komsomol è nei documenti della cooperativa. Ci sono i nomi dei soci, l'oggetto sociale, i conti bancari, tutto.» «La documentazione ce l'ha lei?» «Tutti i documenti li ha Rudy» rispose Antonov. «Be', credo che Rudy se li sia portati con sé.» I morti erano perversi. All'obitorio invece erano pazienti. Il corridoio era pieno di barelle su ruote, e i cadaveri, coperti da sudicie lenzuola, attendevano il loro turno sul tavolo di dissezione con una definitiva, passiva pazienza. Poco importava se marcivano per mancanza di formaldeide. Nessuno si offendeva se un investigatore accendeva una costosa sigaretta americana per mascherare il fetore. Rudy era in un cassetto, con gli organi interni in una busta di plastica tra le gambe. Polina, tuttavia, se ne era andata. Arkady la trovò a metà di una coda di un migliaio di persone in attesa di acquistare barbabietole nel piccolo parco accanto a Petrovka. La pioggia cadeva a goccioline insistenti che rilucevano intorno ai lampioni. Alcuni ombrelli erano aperti, ma non troppi, perché la gente aveva bisogno di avere tutt'e due le mani libere per le sporte. All'inizio della coda alcuni soldati accatastavano dei sacchi nel fango. Con l'impermeabile abbottonato fino al mento, le gocce di pioggia sui capelli neri, Polina pareva spinta in avanti da un millepiedi di occhi e di bocche socchiusi. Si erano formate altre code per le uova e per il pane, e quella per le sigarette si arrotolava intorno a un chiosco. Alcuni vigilantes pattugliavano le code per controllare che nessu-
no passasse dall'una all'altra. Non avendo alcun bollino, per Arkady era tutta abbondanza sprecata. «Sono venuta dopo la banchina» disse Polina «per concludere l'autopsia di Rudy. Te l'avevo detto che c'era troppo sangue. Adesso è tutto tuo.» Arkady dubitava che ci sarebbe mai potuto essere troppo sangue per Polina, ma assunse un'espressione di ammirazione. Era ovvio che aveva lavorato tutta la notte. «Polina, mi dispiace per quanto ho detto sulla banchina. Sono terrorizzato dalla medicina e dalla patologia legale. Tu hai i nervi più saldi di me.» Alle spalle di Polina, una donna con uno scialle, un paio di sopracciglia grigie e due folti baffi si chinò verso di lui: «Sta cercando di saltare la coda?». «Dovrebbero sparare alla gente che cerca di infilarsi nelle code.» «Lo tenga d'occhio» suggerì l'uomo dietro di lei. Era un tipo basso, burocratico, con una borsa impressionante, del tipo in grado di contenere un sacco di barbabietole. Per tutta la lunghezza della coda, Arkady vide volti fissarlo con furia controllata. Si mossero avanti di un passo, accalcandosi per formare un muro impossibile da infrangere. «Da quanto sei in coda?» Arkady chiese a Polina. «Solo da un'ora. Ne prendo un po' anche per te» disse, e lanciò un'occhiata di fuoco alla coppia alle sue spalle. «Che si fottano.» «Cosa vuoi dire con "troppo sangue"?» Polina scrollò le spalle; l'offerta lei l'aveva fatta. «Prova a descrivere le esplosioni alla morte di Rudy» disse. «Che cosa hai visto, esattamente?» «Due fiammate» rispose Arkady. «La prima mi ha preso di sorpresa. Era luminosa, bianca.» «Quella era la bomba al sodio rosso e solfato di rame. E la seconda fiammata?» «Anche la seconda è stata luminosa.» «Come la prima?» «Meno.» Le aveva già fatte ripassare nella mente. «Non potevamo vedere bene, ma forse era più arancione che bianca. Poi abbiamo visto i soldi in fiamme che salivano insieme al fumo.» «Quindi due fiammate, ma solo una abbastanza calda da lasciare un segno sulla macchina. Hai sentito qualche odore dopo la seconda fiammata?» «Benzina.» «Il serbatoio?»
«Quello è scoppiato dopo.» Arkady vide che al chiosco era scoppiata una rissa: un cliente sosteneva di aver ricevuto solo quattro pacchetti per tutto il mese, non cinque. Un paio di soldati lo portarono via come una valigia, un braccio intorno al collo e uno all'inguine, scaricandolo su un furgone. «Gary ci ha detto che Kim ha lanciato una bomba nell'auto. Avrebbe potuto essere una bomba molotov, una bottiglia di benzina.» «Era qualcosa di meglio» disse Polina. «Meglio come?» «Benzina gelatinizzata. La benzina gelatinizzata si attacca e brucia, continua a bruciare. Ecco perché c'era così tanto sangue.» Arkady continuava a non capire. «Avevi detto che chi brucia non sanguina.» «Ho esaminato di nuovo Rosen. I suoi tagli, né per numero né per tipo, erano tali da giustificare tutto quel sangue. So che il laboratorio ha detto che il sangue era del suo gruppo, ma questa volta l'ho verificato io. Non era il suo gruppo sanguigno. Non era nemmeno sangue umano. Era sangue bovino.» «Sangue bovino?» «Si filtra il sangue con un tessuto e si utilizza il siero. Lo si mescola con benzina e con un po' di caffè o di bicarbonato di sodio. Si agita finché non si coagula.» «Una bomba di sangue e di benzina?» «È una tecnica di guerriglia. Me ne sarei accorta prima se i risultati di laboratorio fossero stati corretti» disse Polina. «Si può coagulare la benzina con sapone, uova o sangue.» «Ecco perché non si trovano mai» commentò Arkady. La coppia alle spalle di Irina li ascoltava intenta. «Non prendete le uova» ammonì la donna. «Hanno la salmonella.» Il burocrate controbatté: «Si tratta di una voce infondata, diffusa da individui che vogliono accaparrarsi tutte le uova». La coda si mosse di un passo. Arkady avrebbe voluto battere i piedi per scaldarli. Pur indossando un paio di sandali aperti, Polina avrebbe potuto essere un busto di gesso per quanto riguardava la sua reazione alla pioggia, al sangue e alla follia dell'attesa. Tutta la sua attenzione pareva concentrata sulle bilance che si avvicinavano. La pioggia si faceva più intensa. Le gocce le rigavano il contorno delle tempie e sottolineavano la curva a pagoda dei capelli. «Le vendono a peso o a numero?» chiese ai vicini di fila.
«Cara» disse la vecchia, «dipende se hanno alterato le bilance o se hanno barbabietole piccole.» «Danno anche le cime di rapa?» chiese Polina. «Per le cime c'è un'altra coda» rispose la donna. «Hai fatto un buon lavoro» disse Arkady. «Mi spiace che sia stato così sgradevole.» «Se mi dessero fastidio queste cose, avrei sbagliato professione.» «Forse l'ho sbagliata io» disse Arkady. Alle bilance la maggior parte delle transazioni si riduceva a muti e imbronciati passaggi di consegna di rubli e bollini in cambio di rape; ogni quattro o cinque clienti si innalzavano accuse di truffa e richieste di quantitativi maggiori, denunce che riecheggiavano di frustrazione, isteria e rabbia, e che spingevano la gente a farsi sotto ansiosa. I soldati rispondevano ricacciando indietro la coda e facendo avanzare il cliente, creando nella fila di persone una costante oscillazione. Per lo meno la pioggia lavava le barbabietole, facendone risaltare il colore scarlatto sotto la luce del lampione. Arkady notò che i sacchi ammucchiati dietro le bilance mostravano gli effetti del duro trattamento subito nel passaggio dalla campagna alla città: sporcizia e chiazze ne macchiavano la tela. I sacchi più bagnati erano tinti di un rosso acceso: il terreno intorno era rosso e le bilance erano macchiate di un vermiglio vinoso cosparso di bucce. Nel riflesso dell'acqua intorno ai sacchi, il parco riluceva come in una lente rossa. Polina si fissò le dita dei piedi nei sandali aperti, già macchiati di rosa. Arkady le vide il viso diventare come di cera e l'afferrò mentre si afflosciava. «Non all'obitorio, non all'obitorio» mormorò lei. Arkady le fece appoggiare un braccio sulla sua spalla e un po' trascinandola, un po' facendola camminare la condusse fuori dal parco e giù lungo via Petrovka, alla ricerca di un posto dove farla sedere. Dall'altra parte della strada, un'ambulanza stava uscendo dal cancello di una palazzina marrone, quel tipo di edificio prerivoluzionario che al partito piaceva moltissimo usare come ufficio. Sembrava una specie di clinica. «Niente dottori» insistette Polina non appena furono entrati nel cortile. Su un lato del cortile si apriva un ingresso di legno in stile rustico fantasiosamente dipinto con galli canterini e porcelli danzanti. Attraversarono un caffè vuoto. I tavolini erano circondati da panchette foderate di pelle, mentre una fila di sgabelli era allineata davanti a un bar imbottito. Dietro il bancone si allineava un arsenale di spremiagrumi. Polina sedette su una panchetta e posò il capo tra le ginocchia. «Merda,
merda, merda.» Dalla cucina arrivò un'inserviente con l'intenzione di cacciarli; Arkady la precedette mostrando il tesserino e chiese del brandy. «Questa è una clinica, non serviamo brandy.» «Allora brandy medicinale.» «Ci vogliono dollari.» Arkady posò un pacchetto di Marlboro sul tavolo. L'inserviente lo fissò, impassibile. Aggiunse un altro pacchetto. «Due pacchetti.» «E trenta rubli.» Scomparve, riapparve un'attimo dopo e con un unico movimento circolare posò una fiaschetta di cognac armeno con due bicchieri, spazzando via sigarette e soldi. Polina si rizzò a sedere e lasciò oscillare il capo all'indietro. I capelli pendevano in ciocche tristi. «È mezza settimana del tuo stipendio» disse. «Per che cosa avrei dovuto risparmiarlo? Per le rape?» Le versò un bicchiere che Polina tracannò d'un sorso. «Del resto non credo che avessi davvero voglia di borscht» disse. «Quell'orrendo cadavere. Una volta che si sa cosa è successo è peggio, non meglio.» Provò a trarre dei lunghi, profondi respiri. «Ecco perché ero uscita. Poi ho visto le code e sono entrata nella più vicina. Nessuno ti obbliga a tornare al lavoro quando fai la spesa.» Al bar, la cameriera infilò una mano nel grembiule per prendere l'accendino, accese una sigaretta ed esalò il fumo con una sensualità che le velò lo sguardo. Arkady la invidiò. «Mi scusi» disse. «Che clinica è, questa? Un caffè con sedili di pelle e luci diffuse è una cosa piuttosto raffinata.» «È per stranieri» spiegò la cameriera. «È una clinica dietetica.» Arkady e Polina si scambiarono un'occhiata. L'aria era carica di isterismo, pensò, perché lei sembrava sul punto di ridere e di piangere contemporaneamente, e lui sentiva la stessa cosa. «Be', Mosca è senz'altro il posto giusto» disse. «Non esiste posto migliore» confermò Polina. Arkady vide che le guance stavano riprendendo colore. Era interessante come fosse rapido il recupero in una persona giovane: come le rose. Versò un altro bicchiere per lei e uno per sé. «È una follia, Polina. È l'Inferno di Dante con le code per il pane. Forse c'è un centro dietetico anche all'inferno.»
«Gli americani ci andrebbero» disse lei. «Farebbero l'aerobica.» Ora sul suo viso era spuntato un vero sorriso, forse perché lo stesso stava accadendo al volto di Arkady. Bastava essere solidali nell'apprezzare la follia. «Mosca potrebbe davvero essere l'inferno. Questo potrebbe essere l'inferno» disse lei. «Ottimo cognac.» Arkady versò altri due bicchieri. Il liquore aveva un fantastico impatto sullo stomaco vuoto. «All'inferno» brindò. Sentiva l'umidità dei vestiti salire come vapore. Chiamò l'inserviente. «Che cosa danno da mangiare, con questa dieta?» «Dipende.» La donna strinse le labbra intorno alla sigaretta. «Se è dieta di frutta o dieta vegetale.» «Dieta di frutta? Hai sentito, Polina? Che frutta?» chiese. «Ananas, papaya, mango, banane.» L'inserviente parlò a raffica, in tono casuale, pronunciando quei nomi come se fossero suoi amici intimi. «Papaya» ripeté Arkady. «Polina, tu ed io faremmo anche sette o otto anni di coda per una papaya. Non so neanche bene come sono fatte. Potrebbero darmi una patata e probabilmente sarei felice. E poi non perderei peso. Il lusso è sprecato con gente come te e me.» Rivolto all'inserviente chiese: «Ce la può far vedere una papaya?». La donna li studiò. «No.» «Probabilmente non ce l'ha nemmeno, la papaya» disse Arkady. «Lo dice solo per impressionarci. Ti senti meglio?» «Sto ridendo, dunque un po' meglio dovrei stare.» «Non ti avevo mai sentito ridere prima d'ora. È un bel suono.» «Sì.» Polina oscillò lentamente avanti e indietro. Il sorriso le si spense sul volto. «Alla facoltà di medicina eravamo soliti chiederci: "Qual è il modo peggiore per morire?". Dopo Rudy, credo di saperlo. Ci credi all'inferno?» «Da dove arriva questa domanda?» «Ecco, tu assomigli al diavolo. Provi un piacere segreto nel tuo lavoro, come se fossi venuto sulla terra ad afferrare i dannati. Ecco perché a Jaak piace lavorare con te.» «E tu perché lavori con me?» Era ormai convinto che lei non l'avrebbe lasciato. Polina si concesse una pausa. «Mi fai fare bene le cose. Mi dai la possibilità di impegnarmi.» Arkady sapeva che era questo il problema. L'obitorio era un semplice teatro fatto di bianchi e di neri, di vivi e di morti. Polina era stata piena di di-
stacco scientifico, di cieco determinismo, perfetto per etichettare i morti come se fossero campioni freddi e inerti. Ma un patologo che si lasciava coinvolgere da un'indagine fuori dall'obitorio cominciava a vedere i cadaveri come persone vive, e a quel punto i corpi sul tavolo di dissezione diventavano l'immagine dell'ultimo, più sofferto respiro di un individuo sulla terra. Le aveva rubato il distacco professionale. In un certo senso l'aveva corrotta. «Perché sei intelligente» disse Arkady per chiudere l'argomento. «Ho pensato a quello che dicevi ieri sera» disse Polina. «Kim aveva un mitra. Perché usare due bombe di tipo diverso? Un modo così complicato per ammazzarlo.» «Il punto non era quello di ammazzarlo; il punto era quello di bruciarlo. O di bruciare tutte le schede, tutti i dischetti e tutte le informazioni che avrebbero potuto metterlo in collegamento con qualcun altro. Ne sono sempre più convinto.» «Quindi ti sono stata utile.» «Un eroe del lavoro socialista.» Le dedicò un brindisi. Polina bevve il cognac e gli puntò addosso il suo sguardo. «Ho saputo che sei uscito dal paese, una volta» disse. «C'entrava una donna, ho sentito.» «Dove le senti tutte queste cose?» «Stai evitando la domanda.» «Non so che cosa dice la gente. Sono stato fuori dal paese per pochissimo tempo e poi sono rientrato.» «La donna?» «Non è rientrata.» «Chi dei due aveva ragione?» chiese Polina. Questa, pensò Arkady, era una domanda che solo una persona molto giovane avrebbe potuto fare. 10 Irina disse: «Il ministro della Difesa ha ammesso che le truppe sovietiche hanno attaccato dei civili a Baku per impedire il rovesciamento del regime comunista dell'Azerbaijan. L'esercito non era intervenuto quando nella capitale attivisti azeri avevano aggredito la popolazione armena, ma è entrato in azione quando una folla di azeri ha minacciato di incendiare la sede del Partito. Mezzi corazzati e truppe hanno travolto le barricate co-
struite da militanti anticomunisti e preso d'assalto la città, sparando proiettili esplosivi e colpendo senza essere provocati abitazioni civili. Si valuta che centinaia, forse migliaia, di persone siano state uccise. Sebbene il Kgb abbia sparso la voce che gli attivisti azeri dispongono di armi pesanti, tra i morti sono stati trovati solo fucili da caccia, coltelli e pistole». Arkady aveva lasciato Polina per correre a casa in tempo e sentire la prima trasmissione di Irina. Bere con una donna e affrettarsi a casa per la voce di un'altra. Che vita strana, pensò. «L'intervento militare è stato ufficialmente giustificato sostenendo che le violenze collettive contro gli armeni sono state compiute da militanti in possesso di documenti i quali li identificavano come leader del Fronte Popolare azero. Poiché il Fronte non fornisce documenti di questo tipo, si sospetta trattarsi di un'ennesima provocazione del Kgb.» Mentre ascoltava, Arkady indossò una camicia e una giacca asciutte. Chi aveva avuto ragione? Lei. Lui. Non c'era scelta, non esisteva il giusto e lo sbagliato, il bianco o il nero. Avrebbe voluto scorgere un raggio accecante di certezza; anche sbagliare sarebbe stato un sollievo. Aveva ripercorso così spesso nella memoria i propri passi da consumare la pietra, e tuttora non sapeva che altro avrebbe potuto fare. A Polina aveva detto: «Non lo sapremo mai». Irina disse: «Mosca cita sempre più spesso le tensioni nazionaliste per giustificare la continua presenza di truppe russe nelle varie repubbliche, compresi gli stati baltici, la Georgia, l'Armenia, l'Azerbaijan, l'Uzbekistan e l'Ucraina. Mezzi corazzati e lanciamissili che avrebbero dovuto essere distrutti in base agli accordi sul controllo degli armamenti con la Nato, sono stati invece trasferiti nelle basi situate nelle repubbliche dissidenti. Contemporaneamente, dalle stesse repubbliche i missili nucleari sono stati trasferiti nella Repubblica Russa». A malapena distingueva le sue parole. Ogni voce che sentiva era peggiore delle sue notizie; la realtà era peggio delle sue notizie. Come un apicoltore che separa il miele dal favo, era in grado di udire solo la voce e non il significato. Stasera aveva un timbro più cupo. Aveva piovuto a Monaco? C'erano ingorghi sull'autobahn? Era in compagnia di qualcuno? Avrebbe potuto dire qualsiasi cosa e lui sarebbe rimasto ad ascoltarla. A volte gli pareva di volare fuori dalla finestra e di roteare nel cielo sopra Mosca. Avrebbe puntato verso quella voce, come verso un faro che l'avrebbe portato, portato, portato lontano.
Quando arrivarono le notizie registrate su nastro, Arkady uscì di casa non con un paio d'ali ma di tergicristalli. Li fissò sulla macchina e si tuffò nel traffico di mezzanotte. La notte e la pioggia si combinavano per confondere le strade e dipingere chiazze di luce sul parabrezza. Sul lungofiume fu bloccato da un convoglio di autocarri militari e blindati per il trasporto delle truppe lento come un treno merci. Nell'attesa cercò le sigarette nel giubbotto, trovò una busta e fece una smorfia nel riconoscere la lettera che Belov gli aveva dato sulla Piazza Rossa. Il suo nome attraversava la busta in caratteri minuscoli che iniziavano con tratti decisi e terminavano allargandosi, come se la mano che li aveva scritti fosse troppo debole per reggere una penna o un coltello. Polina si era chiesta quale fosse il modo peggiore di morire. Reggendo la lettera, lasciando che posasse leggera sul palmo, con l'ombra dell'acqua che scorreva sul suo nome, Arkady seppe qual era la risposta. Era il rendersi conto nel momento di morire che la cosa non importava a nessuno. Era rendersi conto di essere già morto. Non si sentiva così; non si sarebbe mai sentito così. Il semplice fatto di ascoltare Irina lo rendeva talmente vivo che il cuore subiva una scossa ad ogni pulsazione. Cosa aveva scritto suo padre? Sarebbe stato saggio, pensò, lasciar la lettera per strada. La pioggia l'avrebbe fatta finire in un tombino, il fiume l'avrebbe portata fino al mare, dove la carta si sarebbe aperta e sfaldata, e l'inchiostro si sarebbe stinto e indebolito come veleno. Invece la infilò di nuovo in tasca. Minin lo fece entrare nell'appartamento di Rudy. L'investigatore pareva agitato: correvano voci secondo le quali la speculazione sarebbe stata legalizzata. «Minerebbe le basi della nostra indagine» disse. «Se non possiamo dare la caccia ai cambiavalute, chi possiamo arrestare?» «Rimangono gli assassini, gli stupratori e i rapinatori. Di lavoro ne avrai sempre» lo rassicurò Arkady, dandogli cappello e giacca. Far uscire Minin dall'appartamento era come stanare una talpa. «Va' a dormire un pochino. Prendo io le consegne.» «La mafia aprirà delle banche.» «Molto probabile. È così che cominciano.» «Ho perquisito a fondo» disse Minin facendo con riluttanza un passo verso la soglia. «Non c'è niente nascosto nei libri, negli armadi, sotto il letto. Ho lasciato un elenco sulla scrivania.» «Il fatto che non ci sia nulla è sospetto, vero?»
«Ecco...» «È quel che penso anch'io» disse Arkady, cominciando a chiudere la porta. «E non preoccuparti per la mancanza di reati. In futuro avremo una classe di criminali ancora migliore: banchieri, intermediari, uomini d'affari. Ti ci vorrà una bella riserva di sonno.» Una volta solo, il primo posto dove Arkady si recò fu la scrivania dell'ufficio, per vedere se fossero arrivate nuove comunicazioni via fax. La carta era pulita, sul retro si scorgeva ancora il puntino a matita appena visibile che aveva lasciato dopo aver strappato il messaggio riguardante la Piazza Rossa. Raccolse l'elenco di Minin. L'investigatore aveva tagliato il materasso a molle di Rudy, ispezionato cassettone e cassetti, smontato e rimontato l'appartamento senza trovare nulla. Arkady ignorò l'elenco. Quel che si poteva trovare, pensò, doveva essere più evidente. Prima o poi un appartamento si adattava al padrone come un guscio. Magari il padrone scompariva, ma la sua forma si conservava nella poltrona consunta, in una foto, in briciole di cibo, in una lettera dimenticata, nell'odore di speranza o di disperazione. In parte, Arkady adottava questo approccio perché gli strumenti tecnologici per le indagini erano molto carenti. La milizia aveva investito in apparecchi tedeschi e svedesi, spettrografi e analizzatori del tipo sanguigno, che però non venivano usati per mancanza di pezzi di ricambio, causata dalla mancanza di fondi. Non c'era un computer per confrontare i gruppi sanguigni o le targhe automobilistiche, per non parlare poi di tecniche irraggiungibili come quella delle "impronte genetiche". Quel che si trovava nei laboratori di medicina legale sovietici erano arcaiche apparecchiature chimiche formate da tubi e provette anneriti, becchi a gas e serpentine di vetro che in Occidente non si vedevano più da cinquant'anni. Polina aveva ottenuto delle risposte dal corpo di Rudy Rosen malgrado le sue apparecchiature, non grazie ad esse. Dato che la catena delle prove concrete aveva la tendenza ad essere tenue, gli investigatori sovietici si basavano più su indizi immateriali, su logiche e sfumature sociali. Arkady conosceva certi investigatori convinti che comprendendo con sufficiente chiarezza la scena di un delitto si potevano dedurre sesso, età, occupazione e hobby dell'assassino. L'unico settore dell'Unione Sovietica dove all'analisi psicologica fosse consentito di fiorire era quello delle indagini criminali. Ovviamente, gli investigatori sovietici si erano sempre basati anche sulle confessioni. Una confessione risolveva tutto. Ma funzionava solo con i dilettanti e con gli innocenti. Kim non avrebbe confessato un delitto più fa-
cilmente di quanto non si sarebbe messo a parlare in latino. Cosa aveva detto l'appartamento fino a quel momento? Una sola cosa: "Dov'è Red Square?". Rosen era religioso? In giro non si vedevano menorah, Torah, scialli da preghiera, né candele per il sabato. La storia familiare si riduceva ai ritratti dei genitori; generalmente le case russe sono gallerie fotografiche di antenati color seppia. Dov'erano le foto di Rudy da solo o con gli amici? Era un maniaco dell'igiene. Le pareti erano lisce, immacolate, senza nemmeno la traccia di un chiodo a segnare la superficie, come se avesse voluto cancellarsi. Arkady prese libri e riviste dagli scaffali. "Business Week" e "Israel Trade" erano in inglese e suggerivano ambizioni di respiro internazionale. L'album dei francobolli suggeriva un'infanzia solitaria? Conteneva il solito acquario di pesci tropicali, enormi francobolli emessi da nazioni in miniatura e da isolette di tutto il mondo? Una tasca di carta raccoglieva alcuni esemplari anonimi: due copechi zaristi, "Liberté" francesi, "Franklin" americani. Niente rettangoli rossi di valore. Accatastò i libri e passò nella camera da letto, posandoli sul comodino. La maschera per dormire era significativa, lasciava pensare che la combinazione di cibo pesante e pillole dietetiche facesse passare notti difficili. Nella camera da letto non c'era nemmeno una poltrona. Arkady si levò le scarpe, sedette sul letto e si fermò, scosso dal lamento delle molle che si aspettavano il peso di Rudy. Si mise i cuscini dietro la schiena come avrebbe fatto Rudy e fece scorrere le pagine dei libri. Ogni casa ostenta i suoi classici come dimostrazione di alfabetismo. Rudy i suoi classici li aveva anche letti. Arkady notò che aveva sottolineato il brano umoristico dell'immortale La figlia del capitano di Pushkin, dove un ussaro si offre di insegnare a un giovanotto a giocare a biliardo: "Sai, non sempre è possibile battere gli ebrei. Per cui spesso non ci resta che andare alla taverna e giocare a biliardo; e a questo scopo bisogna saper giocare". "Oppure saper battere gli ebrei con le stecche" era scarabocchiato sotto. Arkady riconobbe la scrittura di Rudy dal libretto di banca. Delle Anime morte di Gogol, Rudy aveva sottolineato: "Per qualche tempo, Chichikov impedì ai contrabbandieri di guadagnarsi da vivere. In particolare, ridusse quasi alla disperazione gli ebrei polacchi, tanto invincibili, quasi innaturali, erano la rettitudine e l'incorruttibilità che lo spingevano ad evitare di trasformarsi in un piccolo capitalista". A margine, Rudy
aveva aggiunto: "Non cambia nulla". Ci doveva essere dell'altro, pensò Arkady. Grazie all'emigrazione ebraica, la mafia di Mosca aveva ottimi collegamenti con i criminali israeliani. Accese il televisore e fece passare di nuovo la cassetta di Gerusalemme, saltando da una località all'altra, dal Muro del pianto al casinò. Gli tornarono in mente le parole di Polina: «Troppo sangue». Era d'accordo con lei. Se si poteva solidificare la benzina con il sangue, lo stesso si poteva fare anche con una dozzina di altre sostanze più facili da ottenere. Aveva visto sangue in qualche altra strana forma, di recente, ma non riusciva a ricordare dove. Guardò di nuovo il nastro sull'Egitto. Dava calore vedere le sfumature violacee del deserto del Sinai mentre la pioggia picchiava sulle finestre. Si avvicinò alle immagini come a un caminetto. Infilò una mano in tasca per cercare le sigarette e, prima di ricordare di averle date via, si ritrovò in mano la lettera. Avrebbe potuto fare il conto esatto delle lettere ricevute da suo padre. Una al mese quando Arkady era al campeggio dei Pionieri. Una al mese quando il generale era in Cina, ai tempi in cui i rapporti con Mao erano profondi e fraterni. Il tono era sempre asciutto, come quello di un rapporto militare e nella conclusione si diceva sempre ad Arkady di studiare molto, di essere responsabile e meritevole. Complessivamente, dodici lettere all'incirca. Ne aveva ricevuta un'altra quando aveva preferito l'università all'Accademia Militare. L'aveva colpito il fatto che suo padre citasse la Bibbia e precisamente l'episodio in cui Dio chiede ad Abramo di sacrificare il suo unico figlio. Era qui che Stalin aveva fatto meglio di Dio, diceva il generale, perché lui non solo avrebbe consentito l'esecuzione ma sarebbe a maggior ragione stato glorificato da Abramo. E poi certi figli, come i vitelli deboli, erano adatti solo ad essere sacrificati. Troppo sangue? Per suo padre non ce n'era mai abbastanza. Il padre aveva rinunciato al figlio, il figlio aveva rinunciato al padre, uno troncando il proprio futuro, l'altro il proprio passato, mentre nessuno dei due, pensò Arkady, aveva avuto il coraggio di menzionare quell'unico attimo che avrebbero condiviso per sempre. Alla dacia, il ragazzo e l'uomo adulto erano rimasti a fissare dalla banchina i piedi sotto la superficie del fiume che scorreva tiepido e sonnolento ai margini del prato. I piedi erano nudi, non uscivano dall'acqua né vi calavano in profondità; rimanevano immobili, come fiori subacquei. Più sotto Arkady riusciva a scorgere il vestito bianco della madre che ondeggiava mosso dalla corrente, e ai suoi occhi infantili il momento pareva un cenno di saluto.
I dhow beccheggiavano e rollavano sulle acque del Nilo. Arkady si rese conto di aver smesso di osservare la televisione. Infilò di nuovo la lettera in tasca, delicatamente, come se fosse una lama di rasoio, poi estrasse la cassetta egiziana dal videoregistratore e infilò quella di Monaco. A questa prestò più attenzione: anche se in modo rudimentale capiva il tedesco; ma perché doveva concentrarsi su qualcosa che non fosse la lettera. Ovviamente, osservava con occhio russo. «Willkommen zu Munchen...» attaccò il nastro. Sullo schermo, un gruppo di monaci medievali era intento a innaffiare girasoli, a cuocere un cinghiale allo spiedo, a mescere birra. Non sembrava una brutta vita. Nella scena successiva si vedeva la Monaco moderna, ricostruita. Il commento riusciva a elogiare questa impresa senza citare esplicitamente alcuna guerra mondiale e lasciando intendere che una pestilenza "triste e tragica" aveva ridotto la città in macerie. Monaco era stata liberata dagli americani e le immagini sullo schermo suggerivano l'atmosfera plastificata di un centro commerciale d'oltreoceano. Dalla figura del buffone con i campanelli, che girava nella torre dell'orologio di Marienplatz, alle mura a scacchi del Tribunale Vecchio, tutti i monumenti storici ostentavano una bizzarra sterilità. Quasi tutte le altre immagini riguardavano birrerie all'aperto o al chiuso, come se la birra fosse un unguento di innocenza. Non si accennava, ovviamente, al putsch hitleriano. Eppure Monaco era innegabilmente attraente. La gente aveva un'aria così ricca e benvestita che pareva fare shopping su un altro pianeta. Le auto sembravano inesplicabilmente pulite e i clacson avevano il suono di corni da caccia. Cigni e anitre affollavano i laghi e il fiume della città; quando era stato visto per l'ultima volta un cigno sulla Moscova? «Monaco è una città che porta l'impronta dei re che l'hanno costruita» intonò il narratore. "Max-Joseph-Platz e il Teatro Nazionale sono stati costruiti dal re Max-Joseph, Ludwigstrasse dal figlio, re Ludwig I, il "Miglio d'Oro" di Maximilianstrasse dal figlio di Ludwig, Max II e Prinzregentstrasse dal fratello, il principe reggente Luitpold.» Ah, ma ce la fanno vedere la birreria dove Hitler e le camice brune cominciarono prematuramente la marcia verso il potere? La vedremo la piazza dove Goering si prese la pallottola destinata a Hitler e così facendo si conquistò l'eterna riconoscenza del Fuhrer? Visiteremo Dachau? Be', ci sono tanti di quei personaggi e di quegli eventi nella storia di Monaco che non si può vedere tutto in una sola cassetta. Arkady riconobbe che il suo atteggiamento era parziale, bilioso e roso dall'invidia.
«Durante l'ultima Oktoberfest, i partecipanti hanno bevuto più di cinque milioni di litri di birra e consumato settecentomila polli, settantamila stinchi di maiale e settanta manzi allo spiedo...» Be', potevano venire a Mosca per mettersi a dieta. L'esposizione quasi pornografica di cibo annebbiò lo sguardo di Arkady. Dopo l'opera al Teatro Nazionale - "costruito con un tassa sulla birra" - un rinfresco nella romantica cantina di una birreria. Dopo una puntata sull'autobahn, una sosta in una birreria all'aperto. Dopo una gita alpina sulla Zugspitze, una meritata birra in un rifugio. Arkady fermò il nastro e lo fece tornare sulla gita. Panorama delle Alpi che dava su un versante di rocce e di neve della Zugspitze. Escursionisti in lederhosen. Dettaglio di stella alpina. Silhouette degli ascensionisti in alto. Nuvole in movimento. Arkady riavvolse il nastro e fece scorrere di nuovo la scena della birreria all'aperto. La qualità del nastro sembrava la stessa, ma commento e musica mancavano. Al loro posto si sentivano i rumori delle sedie e del traffico. Gli occhiali da sole erano un errore; in un nastro professionale non avrebbero dovuto esserci. Continuò a passare dalle Alpi all'aereo. Le nuvole erano le stesse. La scena della birreria all'aperto era stata inserita. La donna alzò il bicchiere. Portava i capelli biondi spazzolati all'indietro come una criniera che partiva dalle sopracciglia larghe e dagli zigomi ancora più larghi. Mento piccolo, altezza media, età sui trenta passati. Occhiali da sole scuri, collana d'oro, golfino nero a maniche corte, probabilmente cashmere - contrasti più sensuali che piacevoli. Unghie dipinte di rosso. Carnagione chiara. Labbra rosse semiaperte, nella stessa indolente e sfrontata espressione che aveva già rivolto ad Arkady attraverso il finestrino di un'automobile, incurvandole in un mezzo sorriso. «Ti amo» disse con il solo movimento delle labbra. Fu facile decifrare il suo messaggio. Era in russo. 11 «Non so» disse Jaak. «Tu l'hai vista meglio di me. Io guidavo.» Arkady tirò le tende. L'ufficio rimase illuminato solo dalla debole luce della birreria all'aperto. Sullo schermo, un bicchiere sollevato, immobilizzato dal pulsante "Pause" del videoregistratore. «La donna nell'auto di Rosen ha guardato verso di noi.» «Ha guardato te» disse Jaak. «Io tenevo gli occhi sulla strada. Se tu credi
che sia la stessa donna, per me va bene.» «Ci servono delle istantanee. Ma cosa c'è?» «Ci servono Kim o i ceceni; sono stati loro ad ammazzare Rudy. Te l'aveva detto che l'avrebbero fatto. Se quella è tedesca, se tiriamo in ballo degli stranieri, dobbiamo allargare il cerchio e dividere il campo con il Kgb. Lo sai come vanno le cose: noi gli diamo da mangiare e loro ci cagano addosso. Gliel'hai già detto?» «Non ancora. Quando avremo più elementi.» Arkady spense il monitor. «Per esempio?» «Un nome. Magari un indirizzo in Germania.» «Vorresti procedere tenendoli all'oscuro?» Arkady porse la videocassetta a Jaak. «Semplicemente non vogliamo scocciarli finché non abbiamo in mano qualcosa di preciso. Forse la donna è ancora qui.» «Tu hai le palle di bronzo» disse Jaak. «Devi suonare come una campana quando cammini.» «Come un gatto col campanellino» concesse Arkady. «Tutti i meriti, comunque, se li prenderebbero quei bastardi.» Jaak accettò con riluttanza la cassetta, poi si illuminò e sventolò un paio di chiavi. «Mi sono fatto prestare la macchina da Julya. La Volvo, naturalmente. Fatta la tua commissione, vado al collettivo "La Via Leninista". Te lo ricordi quel camion dove mi avevano venduto la radio? Può darsi che abbiano visto qualcosa quando Rudy è stato ammazzato.» «Porterò la radio» promise Arkady. «Portala alla stazione di Kazan. Ho un appuntamento con la madre di Julya al "Dream Bar" alle quattro.» «Julya non viene?» «Neanche morta si farebbe vedere alla stazione Kazan, ma sua madre arriva in treno. Ecco perché mi ha prestato la macchina. A meno che tu non voglia tenerti la radio.» «No.» Quando fu solo, Arkady aprì il suo armadietto e chiuse nella cassaforte la cassetta originale di Monaco. Era arrivato in anticipo in ufficio per duplicarla. Chi era paranoico? Aprì le finestre. La pioggia era cessata, lasciando macchie come lacrime intorno alle finestre del cortile. Il profilo della città era un cerchio di comignoli bagnati, simili a vanghe rovesciate. Il tempo ideale per un funerale.
L'uomo del Ministero del Commercio estero disse: «Una joint venture richiede una società tra un ente sovietico - una cooperativa o una fabbrica e una società straniera. È utile che l'iniziativa venga sponsorizzata da un'organizzazione politica sovietica...». «Il che equivale a dire dal Partito?» «Sì, per dare l'idea, ma non necessariamente.» «Questo è capitalismo?» «No, non è capitalismo puro; è una fase intermedia del capitalismo.» «E questa joint venture può portar fuori dei rubli?» «No.» «Può portar fuori dei dollari?» «No.» «È una fase molto intermedia.» «Può portar fuori petrolio. Oppure vodka.» «Abbiamo così tanta vodka?» «Da vendere all'estero.» «Tutte le joint venture devono ricevere la sua approvazione?» chiese Arkady. «Dovrebbero, ma a volte non succede. In Georgia o in Armenia hanno la tendenza a stringere accordi per conto loro, il che spiega come mai la Georgia e l'Armenia non spediscono più niente a Mosca.» Ridacchiò. «Che vadano a farsi fottere.» L'ufficio del funzionario era situato al decimo piano, con vista di nubi temporalesche in moto da oriente a occidente. Niente fumo di fabbriche, perché i componenti non erano arrivati da Sverdlovsk, da Riga, da Minsk. «L'oggetto sociale della TransKom qual è?» «Importazione di articoli sportivi e per il tempo libero. È sponsorizzata dal Komsomol del quartiere Leningrado. Guanti da boxe e articoli del genere, immagino.» «Come slot-machine?» «A quanto sembra.» «In cambio di che cosa?» «Personale.» «Persone?» «Immagino di sì.» «Che tipo di persone? Pugili olimpionici, fisici nucleari?» «Guide turistiche.» «Per fare turismo dove?»
«In Germania.» «La Germania ha bisogno di guide sovietiche?» «A quanto pare.» Arkady si domandò a cosa mai sarebbe stato capace di credere il funzionario. Che Lenin bambino lasciasse monete sotto il cuscino in cambio dei dentini? «La TransKom ha dei funzionari?» «Due.» L'uomo lesse nella pratica che teneva davanti. «Molte cariche, ma tutte ricoperte da due persone, Rudik Abramovich Rosen, cittadino sovietico e Boris Benz, residente a Monaco, Germania. L'indirizzo della TransKom è quello di Rosen. Potrebbero esserci chissà quanti altri investitori, che però non sono elencati. Mi scusi.» Coprì la pratica con la "Pravda". «Il ministero possiede i nomi delle guide turistiche?» L'uomo piegò il giornale a metà e poi in quattro. «No. Sa, vengono qui a registrare un'impresa per importare la penicillina, e prima che te ne accorgi si mettono a vendere scarpe da pallacanestro o a costruire alberghi. Una volta che ci saranno le condizioni per lo sviluppo del libero mercato, sarà come innaffiare il terreno.» «E lei che cosa farà quando il capitalismo sarà in fiore?» «Troverò qualcosa da fare.» «Lei ha inventiva?» «Oh, sì.» Da un cassetto prese un rotolo di spago, ne morse via un pezzo della lunghezza di un braccio e mise spago e "Pravda" nella giacca. «L'accompagno fuori. Stavo andando a pranzo.» I burocrati sopravvivevano con il burro, il pane e le salsicce che si portavano a casa dalla mensa interna. La giacca era consunta e le tasche parevano mascelle unte di grasso. Il cimitero di Vagankovskoye era un po' disordinato ma curato con amore. Un tappeto di foglie bagnate circondava i tigli, le betulle, le querce; i gigli erano stati autorizzati ad allinearsi lungo i vialetti e il tutto era avvolto dal morbido abbraccio della decomposizione naturale. Molte delle pietre tombali erano busti di esponenti del Partito scolpiti in granito e in marmo nero: compositori, scienziati, autori del realismo socialista dalle sopracciglia distanziate e dallo sguardo imperioso. Anime più timide erano rappresentate da fotografie incastonate come cammei nelle lapidi. Le tombe erano recintate in ferro e i volti sulle lapidi sembravano scrutare da dietro una
gabbia nera. Non tutti però. La prima tomba all'interno del cancello apparteneva al cantante attore maledetto Vysotsky ed era circondata da cespugli di margherite e di rose annaffiati di fresco dalla pioggia e talmente alti che parevano vibrare per il ronzio dei calabroni. Arkady trovò il corteo funebre del padre a metà del vialetto centrale. Alcuni cadetti che reggevano una stella di rose rosse e un cuscino coperto di medaglie erano seguiti da un uomo che spingeva un carrello con la bara, da una dozzina di generali che si trascinavano in uniforme verde scuro e guanti bianchi, da due trombettisti e da due suonatori di tuba che suonavano una marcia funebre tratta da una sonata di Chopin. A chiudere il corteo, in abiti civili, c'era Belov. Alla vista di Arkady gli occhi gli si illuminarono. «Lo sapevo che saresti venuto.» Solenne, serrò la mano di Arkady fra le sue. «Naturalmente non potevi non venire, sarebbe stato disdicevole. Hai letto la "Pravda"?» «L'ho vista usare come cartoccio.» «Sapevo che avresti voluto avere questo.» Consegnò ad Arkady un articolo di giornale che sembrava essere stato strappato meticolosamente con un righello. Arkady si fermò per leggere l'elogio funebre. «Generale dell'esercito Kyrii Ilyich Renko, famoso comandante militare sovietico...» Il pezzo era piuttosto lungo: lo lesse un brano per volta «... dopo aver portato a termine l'Accademia Militare M.W. Frunze, l'impegno attivo di K.I. Renko nella grande guerra patriottica rappresenta una pagina brillante della sua biografia. Comandante di una brigata corazzata, rimase tagliato fuori dal grosso delle nostre forze dalla prima ondata dell'invasione fascista, ma si unì alle forze partigiane organizzando attacchi dietro le linee nemiche... Combatté con successo nelle battaglie per Mosca, nella battaglia di Stalingrado, nella campagna delle steppe e nelle operazioni intorno a Berlino. Dopo la guerra, gli fu assegnata la responsabilità di stabilizzare la situazione in Ucraina e poi passò a comandare il distretto militare degli Urali.» Ovvero, per metterla in un altro modo, pensò Arkady, il generale, ormai dedito ai massacri, fu corresponsabile delle esecuzioni in massa dei nazionalisti ucraini, esecuzioni così sanguinose che fu necessario esiliarlo negli Urali. «...decorato due volte con il titolo di Eroe dell'Unione Sovietica e quattro volte con l'Ordine di Lenin, con l'Ordine della Rivoluzione di Ottobre, l'Ordine della Bandiera Rossa, due Ordini di Suvorov (Prima Classe), due ordini di Kutuzov (Prima Classe).» Belov aveva appuntato alla giacca una piastrina di nastri sbiaditi. I ca-
pelli bianchi a spazzola erano radi. Il colletto era coperto da ciocche mal rasate. «Grazie.» Arkady infilò l'elogio funebre in tasca. «Hai letto la lettera?» «Non ancora.» «Tuo padre ha detto che la lettera avrebbe spiegato tutto.» «Chissà che lettera, allora.» Una lettera non sarebbe bastata, pensò Arkady. Ci sarebbe voluto un tomo pesante, rilegato in pelle nera. I generali marciavano davanti a loro con passo reumatico. Arkady non aveva nessuna voglia di raggiungerli. «Boris Sergeyevich, ti ricordi un ceceno chiamato Makhmud Khasbulatov?» «Khasbulatov?» Belov si adeguò lentamente al nuovo argomento. «La cosa interessante è che Makhmud sostiene di essere stato in tre eserciti: i bianchi, i rossi e i tedeschi. Secondo l'anagrafe ha ottant'anni. Nel 1920, durante la guerra civile, avrebbe dovuto avere 10 anni.» «È possibile. C'erano un sacco di bambini da una parte e dall'altra. Sono stati momenti terribili.» «Diciamo che all'epoca di Hitler Makhmud era nell'Armata Rossa.» «Tutti hanno servito in un modo o nell'altro.» «Mi chiedevo: nel febbraio del 1944 mio padre si trovava nel distretto militare ceceno?» «No no, spingevamo su Varsavia. L'operazione cecena era un'operazione di retroguardia.» «Non meritava l'interesse di un eroe dell'Unione Sovietica.» «Non meritava neanche un secondo del suo tempo» disse Belov. Non era meraviglioso, pensò Arkady, la misura in cui certa gente si ritirava, andava in pensione? Belov aveva solo recentemente smesso di lavorare per l'ufficio del procuratore; ora Arkady gli aveva chiesto del capo della mafia cecena e il vecchio sergente non aveva assolutamente fatto il collegamento, come se la sua mente si fosse ritirata di quarant'anni nel passato. Ripresero a camminare in silenzio. Arkady si sentiva osservato. In marmo e in bronzo i morti si ergevano sulle loro tombe. Una danzatrice in pietra bianca roteava sognante. Un esploratore si era fermato per un attimo, bussola in mano. Contro un bassorilievo di nuvole, un pilota si toglieva un paio di occhiali da aviatore. In comune avevano uno sguardo cupo, irrequieto e al tempo stesso appagato. «La bara era chiusa, ovviamente» borbottò Belov.
Arkady era distratto: verso di loro su un vialetto parallelo procedeva un altro corteo, più lungo, con un carrello vuoto, una banda più nutrita e, tra i partecipanti, alcuni visi familiari. Accompagnando una vedova uno da una parte e uno dall'altra, il generale Penyagin e il procuratore Rodionov aprivano il corteo, ambedue con una fascia nera sulla manica. Arkady ricordò che il predecessore di Penyagin presso la procura era morto da pochi giorni. Probabilmente la donna era stata sua moglie. I tre erano seguiti da un gruppo di ufficiali della milizia, di funzionari del partito e di parenti che si muovevano al rallentatore con espressioni fisse di noia e di dolore. Nessuno notò Arkady. Il suo corteo aveva svoltato immettendosi in un vialetto di pini stentati per poi fermarsi davanti a un cancelletto che si apriva su una buca scavata di fresco. Arkady si guardò in giro. Poiché le tombe sovietiche erano ben diverse da una serie di anonime lastre, ebbe la sensazione di venir presentato ai nuovi vicini di suo padre. Qui un cantante ascoltava la musica scolpito nel granito. Là, uno sportivo lanciava un giavellotto di ferro con muscoli di bronzo. Dietro agli alberi i becchini fumavano sigarette, stringendo il manico delle pale. Accanto alla tomba aperta, un piccolo segno di marmo bianco quasi si confondeva con il terreno. C'era poco spazio a Vagankovskoye e a volte marito e moglie venivano sepolti uno sopra l'altro. Non questa volta, grazie a Dio. Quando i generali si schierarono accanto alla fossa, Arkady riconobbe i quattro che aveva incontrato nella Piazza Rossa. Shuksin, Ivanov, Kuznetsov e Gul alla luce del giorno sembravano ancora più piccoli, come se gli uomini che da bambino Arkady temeva e detestava si fossero per magia curvati e rinsecchiti, trasformandosi in scarafaggi con carapaci di tessuto verde e di broccato d'oro, con i toraci incavati e irrigiditi da strati di medaglie, di onorificenze e di ordini, da una confusione sgargiante di nastri, di stelle e di patacche. Tutti piangevano amare lacrime di vodka. «Compagni!.» A fatica Ivanov spiegò un foglio di carta e cominciò a leggere. «Oggi diciamo arrivederci a un grande russo, a un amante della pace e tuttavia a un uomo forgiato...» Arkady era da sempre stupito dalla fiducia che la gente ripone nelle menzogne. Come se le parole avessero la più remota relazione con la verità. Questa banda di veterani non era altro che un manipolo di piccoli macellai che dicevano arrivederci a un grande macellaio. Bastava togliere loro l'artrite dalle giunture e avrebbero di nuovo piantato il coltello con lo stesso vigore della loro gloriosa giovinezza; oltretutto credevano a ogni men-
zogna che pronunciavano. Quando Shuksin prese il posto di Ivanov, Arkady avrebbe voluto una sigaretta e una pala. «"Nemmeno un passo indietro!" ordinò Stalin. Sì, Stalin. Il suo nome è ancora sacro alle mie labbra...» "Il generale preferito di Stalin" veniva chiamato suo padre. Quando erano circondati, senza viveri e senza munizioni, altri generali usavano far arrendere i loro uomini. Il generale Renko non si arrendeva mai; non si sarebbe arreso nemmeno se ci fossero stati solo morti ai suoi ordini. Comunque, i tedeschi non l'avevano mai fatto prigioniero. Era riuscito a passare le linee per partecipare alla difesa di Mosca; una famosa fotografia mostrava lui e Stalin, come due demoni a difendere l'inferno, intenti a studiare una mappa della metropolitana per decidere gli spostamenti di truppe da una stazione all'altra. Venne il turno del tondo Kuznetsov che si tenne in equilibrio sul bordo della fossa. «Oggi, quando ogni sforzo viene fatto per diffamare la nostra gloriosa Armata...» Le loro voci avevano il vuoto tremito di violoncelli scassati. Arkady si sarebbe sentito dispiaciuto per loro se non avesse ricordato il modo che avevano di entrare tutti insieme nella dacia, come tante piccole ombre di suo padre, per le cene di mezzanotte e le canzoni ubriache che terminavano immancabilmente con il ruggito dell'Armata, «Arrrrrrrraaaaaaaagh!!» Arkady non sapeva bene perché fosse venuto. Forse per non dare un dispiacere a Belov, che aveva sempre fedelmente sperato in una rappacificazione tra padre e figlio. Forse per sua madre. Avrebbe dovuto giacere al fianco del suo assassino. Fece un passo in avanti per spazzar via la terra dal segno bianco. «Il potere sovietico, costruito sull'altare sacro di venti milioni di morti...» intonava Kuznetsov. No, non si erano trasformati in scarafaggi, pensò Arkady. Era troppo gentile, troppo kafkiano. Assomigliavano più a vecchi cani zoppi, arteriosclerotici ma rabbiosi, che latravano davanti a una voragine. Gul ondeggiò, la divisa verde appesantita dalle medaglie. «Ricordo l'ultimo incontro che ho avuto con K.I. Renko pochissimo tempo fa.» Posò una mano sulla bara di legno scuro dalle maniglie di bronzo, sottile come una scialuppa. «Abbiamo evocato il ricordo dei compagni d'armi il cui sacrificio brucia come una fiamma eterna nel nostro cuore. Abbiamo parlato dell'attuale periodo di dubbi e di mortificazione, così diversa dalla nostra
ferrea volontà. Vi riporto ora le parole del generale: "A coloro che gettano sporcizia sul partito; a coloro che dimenticano i peccati storici degli ebrei; a coloro che sono disposti a distorcere la nostra storia, a debilitare e a involgarire il nostro popolo; ad essi io dico: la mia bandiera era, è e sempre sarà rossa!".» «Be', questo è più o meno il massimo che riesco a sopportare» disse Arkady a Belov e fece per allontanarsi lungo il vialetto. «C'è dell'altro» gli disse Belov raggiungendolo. «Per questo me ne vado.» Gul continuava a imperversare. «Speravamo che avresti detto alcune parole, adesso che è morto.» «Boris Sergeyevich, se fossi stato io a svolgere le indagini sulla morte di mia madre, avrei arrestato mio padre. L'avrei ammazzato con piacere.» «Arkasha....» «Solo l'idea che quel mostro sia morto tranquillo nel suo letto mi angustierà per tutta la vita.» La voce di Belov si fece sommessa. «Non è morto tranquillamente.» Arkady si fermò. Si costrinse a mantenersi calmo. «Hai detto che era una bara sigillata. Come mai?» Belov aveva difficoltà a respirare. «Alla fine il dolore era insopportabile. Disse che l'unica cosa che lo teneva insieme era il cancro. Non voleva morire in quel modo. Disse che preferiva la via d'uscita degli ufficiali.» «Si è sparato?» «Perdonami. Ero nella stanza vicina. Io...» Le ginocchia di Belov cedettero e Arkady lo aiutò a sedere su una panchina. Si sentì incredibilmente stupido; avrebbe dovuto capirlo dall'espressione del vecchio. Belov infilò una mano nella giacca, frugò e gli consegnò una pistola. Era un revolver Nagant nero con quattro proiettili massicci, lucido come argento vecchio. «Voleva che l'avessi tu.» «Il generale ha sempre avuto un ottimo senso dell'umorismo» disse Arkady. Quando Arkady tornò all'ingresso del cimitero, gli affari andavano a gonfie vele al chiosco accanto alla tomba di Vysotsky. Adesso che il sole era calato, i fan compravano spille, poster, cartoline e cassette del cantante, morto dieci anni prima ma più popolare che mai. Il tram numero 23 fermava sul lato opposto della via. Era la località più facile da raggiungere che ci fosse a Mosca. Attorno al cancello si erano radunati mendicanti, contadine con fazzoletto bianco e volto abbronzato, uomini senza gambe con carret-
tini e stampelle. Si raccoglievano intorno ai fedeli che uscivano dalla chiesetta gialla del cimitero. Davanti alla chiesa si allineavano coperchi di bara ricoperti di crespo, corone di sempreverdi dal profumo acuto e garofani. Alcuni seminaristi davanti a un tavolino da gioco vendevano delle Bibbie, chiedendo quaranta rubli per il Nuovo Testamento. Tenendo la pistola del padre in tasca, Arkady sentì che la testa iniziava a girargli; aveva difficoltà a operare distinzioni. Vedeva i riti del dolore umano (una vedova che lucidava una fotografia su una lapide) ma altrettanto chiaramente vedeva un pettirosso che strappava un verme da una tomba. Non riusciva a focalizzarsi su nulla. Un pullman delle pompe funebri superò il cancello e la famiglia del morto scese dai gradini dello sportello anteriore. La bara venne fatta uscire dal retro, scivolò e urtò rumorosamente il terreno. Una ragazza della famiglia fece una smorfia comica. Arkady si sentiva come lei. Fuori dal cancello, il gruppo Rodionov-Penyagin si aggirava ancora sul marciapiede. Arkady, che non si sentiva sufficientemente in forma per andare a parlare sia al procuratore che al generale, scivolò nella chiesa. All'interno si era raccolta una folla di fedeli, quelli autentici e i turisti dello spirito. Tutti in piedi, niente banchi. L'atmosfera era quella di una stazione ferroviaria affollata, piena di colori, con l'incenso al posto del fumo delle sigarette; in luogo dell'altoparlante, un coro invisibile di voci aleggianti sotto la volta cantava qualcosa a proposito dell'agnello di Dio. Le icone bizantine, con i volti scuriti dall'età racchiusi in cornici di argento lucido, si piegavano sulle pareti affrescate come pagine di un manoscritto miniato. Le candele delle icone erano lucignoli sospesi in coppette di vetro piene d'olio. Sul pavimento, disposte strategicamente, erano sparse delle lattine d'olio per alimentare le fiammelle. Le candele votive erano di tre misure, trenta copechi, cinquanta copechi e un rublo. Le candele bruciavano e sfrigolavano in pozzette di cera perlacea; gli altarini su cui erano posate rilucevano come alberelli in fiamme. Non a caso Lenin aveva descritto la religione come una fiamma ipnotica. Alcune donne in nero raccoglievano l'elemosina su vassoi d'ottone coperti di feltro rosso. A sinistra, un negozio vendeva cartoline di reliquie miracolose. A destra, tre donne, anch'esse in abito e fazzoletto nero con le mani incrociate sul seno, giacevano nelle bare aperte, circondate da candele infilate in candelieri di ferro battuto rigati di cera. In una cappella accanto alle bare, un prete insegnava a un ragazzo a inginocchiarsi, spingendogli la testa verso il basso, poi a farsi il segno della croce alla maniera ortodossa, con tre dita invece che con due. La pura spin-
ta dei corpi spinse Arkady a finire nell'"angolo del diavolo", il luogo delle confessioni. Un prete su una sedia a rotelle sollevò lo sguardo, in attesa, la lunga barba candida come i raggi della luna. Arkady si sentì un intruso: la sua incredulità non era un atteggiamento ufficiale, ma la furia di un figlio che deliberatamente, perché arrabbiato, aveva abbandonato il campo del padre. Eppure suo padre non era credente; per quel che le era servito, era sua madre che, come un uccello, scivolava segretamente nelle poche chiese aperte nella Mosca di Stalin. I copechi tintinnavano. La cera gocciolava. I vassoi dell'elemosina circolavano tra i fedeli e la musica gloriosa si spiegava, facendo appello all'Onnipotente: Ascoltaci e proteggici. No, pensò Arkady, meglio implorarlo di essere cieco e sordo. Le voci supplicavano, E sii misericordioso, sii misericordioso, sii misericordioso. La misericordia, se non altro, era l'ultima cosa che il generale avrebbe mai desiderato. Arkady girò intorno all'ippodromo immettendosi in via Gorky, accese la luce azzurra sul tetto della macchina, premette il clacson e partì a gran velocità nella corsia centrale mentre gli agenti addetti al traffico, simili a tanti semafori in tela cerata e manganello, gli facevano strada. Era ricominciata la pioggia, che procedeva a folate lungo la strada facendo volar via gli ombrelli dai disegni a fiori. Non andava in nessun posto in particolare. Erano il rumore dell'acqua sotto le ruote, le figure indistinte che apparivano attraverso il parabrezza senza tergicristalli, il fluire ondeggiante di luci e le macchie indistinte delle vetrine dei negozi che stava rincorrendo. All'Intourist Hotel le prostitute svolazzavano al coperto come colombe. Senza frenare, Arkady svoltò in Marx Prospekt. La pioggia aveva trasformato la grande piazza in un lago che i taxi attraversavano come motoscafi. Bastava muoversi sufficientemente in fretta e ci si poteva spostare nel tempo, pensò. Via Gorky, per esempio, aveva ripreso il vecchio nome di Tverskaya, Marx Prospekt veniva ribattezzata Mokhovaya e Kalinin, di fronte a lui, era ridiventata la nuova Arbat. Immaginò lo spettro di Stalin vagare confuso per la città, perduto, guardando dentro le finestre, spaventando i bambini. Oppure, peggio ancora, vedeva i vecchi nomi e non ne era per nulla confuso. Attraverso la pioggia Arkady vide che un agente del traffico aveva fermato un taxi in mezzo alla piazza. Sulla destra alcuni autocarri gli chiudevano la strada, dalla sinistra vedeva arrivare delle auto. Premette il pedale del freno e lottò per tenere sotto controllo le ruote che stridevano, mentre
sotto la luce dei fari apparivano i volti dell'agente e del taxista. La Zhiguli slittò, fermandosi giusto all'altezza dei loro pantaloni. L'agente aveva coperto il berretto con un foglio di plastica. In una mano teneva una licenza, nell'altra una banconota azzurra da cinque rubli. Il taxista aveva un volto sottile, con le sopracciglia che per lo spavento gli erano quasi arrivate all'attaccatura dei capelli. L'uno e l'altro parevano due persone colpite da un fulmine in attesa dello scoppio del tuono. Il miliziano fissò il paraurti della macchina miracolosamente immobile. «Quasi ci ammazzavi.» Agitò la banconota, che era bagnata e floscia. «D'accordo, è una bustarella. Cinque schifosi rubli. Puoi prelevarmi e spararmi, non c'è bisogno che mi tiri sotto. Dopo quindici anni tiro su duecentocinquanta rubli al mese. Credi che la mia famiglia ci può vivere? Due pallottole in corpo e mi hanno dato un semaforo, come se potesse compensarmi. E adesso mi vuoi ammazzare per una busta? Me ne frego. Ormai non me ne frega più di niente.» «Non ti sei fatto male?» chiese Arkady al taxista. «Nessun problema.» L'uomo prese la licenza e si tuffò nella macchina. «Anche tu?» chiese Arkady all'agente; voleva essere sicuro. «Sì, cazzo, chi se ne frega. Ancora in servizio, compagno.» Gli fece il saluto. Divenne più coraggioso quando Arkady gli voltò la schiena. «Come se tu non l'avessi mai visto un piccolo extra. Più si sale e più si prende. In cima mangiano in un truogolo d'oro.» Arkady sedette nella Zhiguli e accese una Belomor. Era zuppo. Zuppo e probabilmente impazzito. Quando innestò la marcia notò che l'agente aveva bloccato tutto il traffico per lui. Guidò lungo il fiume, con più prudenza. La questione principale era se doveva accostare per mettere i tergicristalli. Valeva la pena di bagnarsi ancora di più solo per vederci? Guidava abbastanza bene perché la cosa facesse differenza? Le nuvole scivolarono verso di lui mentre la strada scendeva in direzione sud passando accanto alla piscina dove un tempo sorgeva la chiesa del Redentore; si trovò costretto a proseguire sul marciapiede e a fermarsi. Era stupido. Stalin aveva fatto abbattere la chiesa. Quanti erano i moscoviti che attualmente ricordavano la chiesa del Redentore? Eppure era così che identificavano la piscina. Una volta sceso per attaccare i tergicristalli, Arkady perse ogni interesse nell'operazione. Da fuori l'auto sembrava un vaso coperto di foglie bagnate e dentro era soffocante come una bara. Aveva bisogno di fare due passi. Era in uno stato di alterazione emotiva? Immaginava di sì. Ma non lo e-
rano tutti e sempre? C'era mai stato qualcuno, sveglio o addormentato, che aveva mai sperimentato uno stato di totale assenza di emozioni? Alla sua destra, un gruppo di alberi si tuffava nel vapore che arrivava dalla piscina. Scese e poi risalì tra gli alberi utilizzando i rami come corrimano finché arrivò a una vera ringhiera di metallo, fredda e appiccicosa al tatto. Si issò su un muretto di cemento. Girò intorno agli spogliatoi chiusi e sbarrati e arrivò al bordo dell'acqua. Dalla superficie il vapore non saliva a folate, ma bianco e denso come fumo. Era la più grande piscina di Mosca, una perfetta fabbrica di nebbia che ora lo avvolgeva e gli faceva bruciare gli occhi per il cloro. Si inginocchiò. L'acqua era riscaldata, più calda di quanto si aspettasse. Aveva pensato che la piscina fosse chiusa ma le lampade erano accese e si vedevano gli aloni delle lampade al sodio sospese nella bruma. Sentì l'acqua schiaffeggiare i bordi e subito qualcos'altro: non tanto una voce, quanto qualcuno che canticchiava a bocca chiusa. Non capiva dove ma gli parve di sentire dei piedi che seguivano il perimetro della piscina. La persona che canticchiava, chiunque fosse, non era stonata ma cantava pigramente, a tratti, come chi crede di essere completamente solo. Dalla leggerezza del passo e dalla voce Arkady immaginò che si trattasse di una donna, probabilmente un'assistente o una bagnina che si sentiva a casa propria. La nebbia confonde. Arkady ricordava che quando era sul peschereccio, un vecchio marinaio che per un'ora aveva creduto di ascoltare una sirena da nebbia in lontananza aveva poi scoperto che in realtà il rumore proveniva da una bottiglia aperta a dieci metri di distanza. "Chattanooga choochoo", ecco che cosa stava canticchiando. Un classico. Ma forse non c'era nessuno, perché all'improvviso la donna non si sentì più. Attendendo che riprendesse, Arkady provò ad accendere una sigaretta, ma il fiammifero venne annegato all'istante e la sigaretta si stemperò in un bolo di carta bagnata e tabacco. Quanto pioveva? La sentì venire nell'altra direzione, di fronte a lui, ma più in alto, quasi all'altezza delle lampade. La voce calò di volume, cessò e Arkady udì l'asse di un trampolino flettersi. Un lampo di goccioline bianche attraversò il vapore e l'acqua accolse con un risucchio un tuffo perfetto. Arkady resistette alla tentazione di applaudire. Era stato un tuffo insolito, dall'inizio alla fine; trovare la scala, salire alla cieca, percorrere il trampolino alto e conservare l'equilibrio fino a trovare la fine dell'asse con la punta dei piedi, finalmente spingere l'asse in giù e volare nel... nulla. Si aspettava di sentirla riemergere; immaginava che fosse un'esperta nuotatri-
ce, abituata a percorrere le vasche in languide bracciate, senza fatica. Ma non sentì nessun altro rumore, eccetto il tambureggiare incessante della pioggia sull'acqua e il traffico irregolare e a malapena udibile del lungofiume. «Ehilà» chiamò Arkady. Si alzò e camminò lungo il bordo. «Ehilà.» 12 Gli altri clienti del "Dream Bar" alla stazione di Kazan avevano tutti valigie, borse, scatole di cartone e di plastica, per cui Arkady con la radio di Jaak non si sentì fuori posto. La madre di Julya era una tarchiata contadina vestita con gli abiti smessi inviati di anno in anno da una figlia chic e slanciata: giacca di lapin, gonna di tessuto jeans, sottoveste di pizzo. Prese una birra e delle salsicce mentre Arkady ordinò un tè. Jaak era in ritardo di mezz'ora. «Julya non vuol venire a prendere sua madre al treno. E non ci manda neanche Jaak, oh, no. Manda uno sconosciuto.» Studiò Arkady. «Lei non ha l'aria di uno svedese.» «Ha l'occhio fino.» «Per andarsene ha bisogno del mio permesso, sa. L'unica ragione per cui sono qui. Ma la principessa è troppo raffinata per venire di persona al treno. E adesso dobbiamo anche aspettare?» «Lasci che le offra un'altra salsiccia.» «Spendaccione.» Attesero altri trenta minuti, quindi Arkady l'accompagnò alla fila dei taxi. Le nubi oscuravano le cupole illuminate delle altre due stazioni ferroviarie all'altro capo di piazza Komsomol. Avvicinandosi alla coda, i taxi rallentavano, esaminavano i potenziali clienti e tiravano dritto. «Forse farà più in fretta col tram» disse Arkady. «Julya mi ha detto di usare questo in caso di emergenza.» Agitò un pacchetto di Rothmans e un auto privata si bloccò slittando. La donna salì sul sedile anteriore e calò il finestrino per dire: «La avverto, non torno a casa in giacca di coniglio. E forse non torno neanche a casa». Arkady tornò al "Dream Bar". Jaak non era ancora arrivato. Non era mai stato tanto in ritardo. La stazione di Kazan era "la Porta dell'Oriente". Nel salone delle informazioni, sotto una cupola di mattoni simile a quella di una moschea, le pareti erano completamente coperte dai cartelli delle destinazioni. Un Lenin
di bronzo in marcia, la mano destra alzata, assomigliava stranamente a Gandhi. Una ragazza tagika indossava una sciarpa a colori vivaci sui capelli raccolti e un impermeabile di colore smorto. Un paio di orecchini d'oro le oscillavano all'altezza del collo. Tutti i facchini erano tartari. Arkady riconobbe i mafiosi di Kazan in giubbotto di pelle nera intenti a sorvegliare le loro prostitute, ragazze russe dai volti flaccidi. Un negozio nell'angolo duplicava musica su cassette. Attirava la clientela a ritmo di lambada. Arkady si sentiva uno sciocco ad andarsene in giro con la radio. Era tornato a casa e l'aveva fissata per un'ora prima di decidersi a restituirla al proprietario, come se fosse l'unica a Mosca in grado di ricevere "Radio Liberty". Se ne sarebbe comprata una tutta sua. Fuori, sulle piattaforme, alcune pattuglie dell'esercito cercavano disertori. Nella cabina di una locomotiva Arkady vide due macchinisti, un uomo e una donna. Lui, muscoloso e a torso nudo, sedeva ai comandi; lei indossava un pullover e una tuta. Non ne vedeva i volti, ma riusciva a immaginare una vita sui binari, con l'intero paese che passava accanto ai finestrini, mangiando e dormendo dietro la spinta del motore. Arkady tornò al "Dream Bar" attraversando una sala d'aspetto talmente affollata e immobile che avrebbe potuto benissimo essere un manicomio o un carcere. I volti, una fila dopo l'altra, erano rivolti verso l'immagine silenziosa di un gruppo folkloristico di danza alla televisione. I miliziani scuotevano gli ubriachi addormentati. Intere famiglie uzbeke dormivano su enormi sacchi a forma di cuscino che contenevano tutti i loro beni. Accanto al bar, due ragazzi uzbeki con berrettini lavorati a maglia giocavano alla "Cassa del tesoro". Per cinque copechi agivano su una maniglia che controllava un braccio meccanico all'interno di un vetro. Sparpagliati sul fondo coperto di sabbia c'erano dei premi che con un po' di fortuna si potevano far cadere su uno scivolo: un tubetto di dentifricio delle dimensioni di una sigaretta, uno spazzolino con un'unica fila di peli, una lama di rasoio, una tavoletta di gomma da masticare, un pezzo di sapone. A turno, ogni oggetto sfuggiva al braccio meccanico. Quando osservò con più attenzione notò che i premi erano da anni nella cassa di vetro. Le setole ingiallite, le confezioni ormai arricciate, le venature del sapone non erano propriamente un tesoro; semmai un rifiuto, che ogni tanto veniva toccato ma non spostato. I ragazzi però giocavano con entusiasmo, senza pessimismo: lo scopo era riuscire a toccare più che a prendere. Dopo un'ora e mezza Arkady rinunciò. Jaak non sarebbe venuto.
La fattoria collettiva "La Via Leninista" era a nord della città, sulla strada per Leningrado. Alcune donne avvolte in scialli per proteggersi dalla pioggia sollevavano mazzi di fiori e secchi di patate verso le macchine e i camion che passavano. Non appena Arkady uscì dall'autostrada, il fondo si trasformò immediatamente in una pista di terra battuta che saliva e scendeva attraversando un villaggio di capanne scure dalle imposte dipinte, di case più recenti in cemento e di orti coltivati a pomodori e girasoli. Mucche bianche e nere vagavano sulla strada e nei cortili. Alla fine del villaggio la strada si divideva in due piste. Arkady scelse quella dove i solchi apparivano più profondi. La campagna intorno a Mosca era tutta coltivata a patate. Il raccolto si faceva ancora curvando la schiena, a mano. Gli studenti e i soldati ricevevano l'ordine di collaborare al raccolto, e arrancavano dietro ai contadini che, instancabili, riempivano un sacco dietro l'altro. Di solito i campi venivano battuti da chi sperava di accaparrarsi qualche patata sfuggita ai raccolti. Ma quella sera non si vedeva nessuno. Solo nebbiolina, terra rivoltata e una luce in lontananza. Seguì il viottolo fino a una catasta ardente di scatole di cartone, sacchi e cartocci di granoturco. Una delle brutte abitudini che si avevano in campagna era quella di eliminare la spazzatura mescolandola con litantrace e bruciandola. Non di sera però, e non quando pioveva. Il fuoco era circondato da stalle, camion e trattori, serbatoi d'acqua e di benzina, un granaio, un garage, una tettoia. I collettivi erano fattorie di piccole dimensioni dove i braccianti dividevano il guadagno in relazione alla quantità di lavoro prestata. Avrebbe dovuto esserci un sorvegliante, ma nessuno rispose al suo colpo di clacson. Arkady scese dalla macchina e, prima ancora di rendersene conto, si ritrovò con i piedi nell'acqua che, uscendo da una fossa aperta, inondava il cortile. Un pungente olezzo di fango copriva gli odori della campagna. Nella fossa, spazzatura, ciarpame e ossa animali scarnificate galleggiavano in una brodaglia butterata dalla pioggia. Le fiamme del falò gli arrivavano quasi alla vita. In alcuni punti il fuoco era intenso, in altre erano rimaste solo braci; le fiamme avviluppavano i giornali mordendo le patate marce. Un barattolo rotolò dalla sommità della pira finendo accanto a due scarpe maschili posate l'una accanto all'altra. Arkady ne prese una e la lasciò cadere immediatamente. Era calda, quasi rovente. L'intera aia era illuminata. I trattori erano di un modello vecchissimo, con volani rugginosi, ma i due camion apparivano nuovi. Da uno di essi
Jaak aveva comperato la radio. I macchinari agricoli - rastrelli, mietilega, aratri - erano disposti lungo la tettoia; intorno a loro erano cresciuti i convolvoli, che si arricciavano intorno ai tini, coi petali chiusi per la notte. Dalle stalle non proveniva alcun suono: non il grugnito di un maiale, né il rintocco nervoso della campanella di una capra. Il garage era aperto. Nessuno degli interruttori della luce funzionava, ma la luce del fuoco bastò ad Arkady per scorgere, stretta tra i bidoni di petrolio e un treno di pneumatici, una Moskvitch a quattro porte con la targa di Mosca. Le portiere erano chiuse a chiave. Il granaio era di cemento, con stalle vuote su un lato. Di fronte c'era il macello. A una parete era appeso un cappotto. Arkady impiegò qualche secondo prima di rendersi conto che si trattava in realtà di un maiale appeso a un uncino. La carcassa era appesa a testa in giù e ronzava non di api ma di mosche. Sotto era stato sistemato un secchio coperto da una carta pergamenata, nera di sangue rappreso. Accanto giaceva un lungo mestolo per rimestare lo strutto. Il pavimento era di cemento, con canaletti per il sangue che correvano verso un pozzetto centrale. A un estremo si trovavano alcuni blocchi da macellaio, dei tritacarne e dei pentoloni appesi ai ganci di fronte a un fuoco. Sui blocchi erano allineate diverse fiale di profumo; le loro etichette vantavano la provenienza da Sumatra e i poteri afrodisiaci del corno di rinoceronte. Per quale ragione di una specie in estinzione venisse propagandato il potere riproduttivo, Arkady non capiva... Le doppie porte del magazzino erano scostate e incurvate nel punto in cui erano state forzate. Arkady le spalancò, facendo entrare la luce del fuoco: accatastata fino al soffitto, c'era una batteria di videoregistratori, riproduttori CD, personal computer, dischi fissi e videogames. Tute sportive e sahariane erano appese alle rastrelliere, una fotocopiatrice giapponese era posata su lastre di marmo italiano: nell'insieme sembrava un magazzino doganale. Da anni il collettivo "La Via Leninista" non era più una fattoria. Sul pavimento era steso un tappeto da preghiera; su un tavolino giacevano un domino e un giornale. Il titolo in prima pagina era in caratteri arabi, ma la testata, per metà in russo, diceva "Grozny Pravda". Arkady tornò fuori verso il fuoco. Le fiamme erano irregolari, si rafforzavano quando incontravano segatura e arrancavano nel fieno bagnato. Stracci di vernice bruciavano in un'aura variegata di colori. Afferrò il manico bruciato di una vanga, lo infilò tra le fiamme e trovò solo marche di prodotti carbonizzati, Nike che cadevano sopra Sony, che a loro volta si accasciavano su Luv, minacciando di crollargli addosso. Si tirò indietro e
nei riverberi del fuoco notò delle orme che andavano dal macello e dal magazzino verso un prato di erba alta che nascondeva due argini, due terrapieni apparentemente senza scopo. Alla fine di uno di essi, alcuni gradini di cemento conducevano a una botola d'acciaio chiusa da un volano a manovella, a sua volta bloccato da una sbarra e da un grosso lucchetto. Il secondo terrapieno aveva una botola simile, ma priva di barra. Arkady l'aprì ed entrò accucciandosi, consapevole del poco spazio a disposizione. L'accendino produsse una debole luce, sufficiente a vedere che si trovava in un bunker dell'esercito. I bunker di comando erano tutti uguali: capsule di cemento armato sotterranee, costruite tutt'intorno a Mosca e poi messe in naftalina quando si era capito che non ci sarebbe mai stato un olocausto nucleare. La botola era circondata da elaboratissimi sistemi di ventilazione e di monitoraggio delle radiazioni. Su un lungo pannello di comunicazione era stata sistemata una dozzina di telefoni. Grazie alla sua esperienza militare, Arkady riconobbe due telefoni a radio frequenza, roba vecchia e superata. C'era persino un sistema Iskra ad alta velocità, con telefono e modem di codifica intatti. Sollevò un ricevitore e udì alcune scariche. Stupefatto, si rese conto che la linea era ancora attiva. Tornò nell'aia. C'era troppa acqua per riconoscere le singole tracce dei pneumatici. Percorse il perimetro dell'aia senza trovarne altre, salvo quelle che portavano alla strada da dove era arrivato. Le gomme del camion e del trattore non erano sporche di fango: l'inondazione era recente e localizzata. E non c'era acqua da nessun'altra parte. Nel riflesso del fuoco l'acqua assumeva il colore dell'oro fuso, ma Arkady sapeva che alla luce del giorno sarebbe sembrata come latte annacquato. Valutò che il pozzo doveva esser più o meno di cinque metri quadrati. Ci calò la vanga: la profondità era almeno di due metri. In superficie galleggiava il muso di un porco, reso liscio e senza peli dalla calce viva. La schiuma si stendeva impastata di penne e peli. Un lezzo più acuto e più profondo della decomposizione impregnava l'aria. Arkady infilò il manico della vanga al centro del pozzo e toccò del metallo e del vetro. Camminando avanti e indietro lungo una fossa riuscì a scorgere il profilo di un'auto sotto la superficie. Il suo respiro era strozzato, non solo per il fetore. Gli pareva di sentire Jaak nella macchina. Picchiava contro il tetto della Volvo di Julya e gridava. Dalla fossa non proveniva alcun suono, ma Arkady riusciva a sentirlo. Si tolse giacca e scarpe e si tuffò. Tenne gli occhi chiusi nel fango e si
immerse tastando lungo la fiancata fino alla portiera. Trovò la maniglia e la tirò senza successo: la pressione dell'acqua era troppo forte. Tornò in superficie, respirò e si tuffò di nuovo. I suoi movimenti smossero l'acqua e strani oggetti si agitarono, toccandolo e tastandolo come per allontanarlo. Riemergendo ancora per prendere fiato, vide che la superficie dell'acqua era coperta dai rifiuti del fondo. Il puzzo di marcio era insopportabile. Alla terza immersione riuscì a puntare le gambe contro la macchina e ad aprire per un attimo la portiera. Fu sufficiente. L'acqua penetrò e dopo qualche secondo la pressione raggiunse l'equilibrio. Trattenne il fiato perché non ce l'avrebbe più fatta a compiere un'altra immersione. Quando lo sportello si era aperto, il flusso dell'acqua lo aveva trascinato. Nuotò senza vedere sul sedile anteriore, poi si spinse verso quello posteriore dove Jaak iniziava a galleggiare. Il risucchio fece chiudere la portiera. Senza aprire gli occhi, Arkady riuscì a trovare la manopola interna, ma la porta rifiutò di aprirsi. Con Jaak che gli ballonzolava intorno non riuscì a trovare lo spazio per puntare i piedi. Che macchina ben costruita, pensò. Abbassò il vetro del finestrino; mentre l'auto si riempiva, lo sportello si aprì e Arkady riuscì, scalciando, a venir fuori tirandosi dietro Jaak. Si issò sul bordo della fossa e sollevò Jaak prendendolo per le spalle. Jaak non sembrava troppo malridotto; era fradicio, con gli occhi spalancati. Ma era freddo, non collaborava, non mostrava pulsazioni né al polso né al collo e le iridi sembravano di vetro. Arkady cercò di fargli la respirazione bocca a bocca, sollevandogli le braccia e soffiandogli la vita nel torace, fino a quando una goccia di pioggia non esplose su un occhio e Arkady si rese conto che non aveva ammiccato. Quasi senza cercare la sua mano trovò il minuscolo foro d'ingresso alla base del cranio. Nessuna ferita di uscita. Piccolo calibro; probabilmente il proiettile era solo rimbalzato all'interno della scatola cranica. Il maiale ballonzolava sulla fossa. No, la testa era più piccola, aveva le orecchie più corte, ed era seguita dalla X delle membra allargate. Arkady si rese conto che la difficoltà a uscire dall'auto era dovuta al fatto che sul sedile posteriore i corpi erano due. Che riserva di pesca questa fossa. Con il manico della vanga trasse a sé il corpo e lo trascinò accanto a quello di Jaak. Era un uomo più anziano, non coreano né ceceno. I lineamenti erano sfatti ma l'aria era familiare. Ucciso nello stesso modo, un buco alla base del cranio in cui era possibile infilare il mignolo. Una fascia nera da lutto sulla manica sinistra permise ad Arkady di riconoscerlo. Era Penyagin.
Che cosa ci faceva il capo delle indagini criminali insieme a Jaak? Come mai Penyagin si trovava alla fattoria "La Via Leninista"? Se era una storia di bustarelle, da quando i generali andavano a ritirarle di persona? Arkady resistette alla tentazione di ributtarlo nella fossa con un calcio. Aprì invece la giacca di Penyagin e tolse il passaporto interno, il tesserino del ministero e la tessera del Partito. All'interno della custodia di plastica trovò un elenco di numeri telefonici premuto contro l'immagine della guancia bagnata di Lenin. Le chiavi nella tasca di Penyagin aprirono la Moskvitch. Sul ripiano del cruscotto vide una borsa piena di quelle cartelline tipiche della burocrazia sovietica: direttive e promemoria del ministero, bozze di relazioni e "analisi corrette", due arance e del prosciutto avvolto in una copia del bollettino ufficiale della Tass. Arkady chiuse a chiave borsa e macchina, cancellò le sue impronte della portiera, infilò la chiave nei calzoni di Penyagin e dalla propria macchina trasmise una richiesta di intervento. Tornò da Jaak e gli tolse tutte le chiavi dalle tasche. Due erano chiavi di casa, una terza, grossa, sembrava fatta per aprire il portone di un castello. Le chiavi della Volvo erano probabilmente ancora nella macchina. Chiunque avesse fatto cadere la macchina nella fossa probabilmente l'aveva semplicemente messa in prima. Guardò Jaak. Ne valeva la pena? Le membra gli dolevano. Si trovò di fronte al fuoco che continuava a bruciare, ai cartoni che ruggivano ignorando la pioggia. Ricordò le parole di Rudy: "Legale in qualsiasi altro posto del mondo". Kim li aveva seminati. Jaak era arrivato vicino. Per cosa? Ora la situazione era decisamente peggiorata. Uno scatolone in fiamme cadde dalla sommità della piramide, si schiantò, andò a pezzi e sfrigolò su una marea di merda russa. "Certe cose non cambiano mai": anche questo aveva detto Rudy. Arkady rovesciò un secchio e si lasciò scorrere l'acqua sulla testa, sul torace e sulla schiena. In attesa dell'arrivo dei soccorsi aveva acceso un fuoco nel camino del macello utilizzando carbone e pezzi di cartone. L'aia era ormai illuminata come un circo: erano giunti un camion completo di gruppo elettrogeno e lampade, carro attrezzi, autopompa, due furgoni della scientifica. Le sagome delle truppe del ministero correvano qua e là in uniforme da combattimento. L'unico a trovarsi all'interno del macello insieme ad Arkady era Rodionov, il procuratore cittadino, che si teneva nell'ombra accanto alla porta. Il fuoco nel camino si agitò e il maiale appeso all'uncino parve farsi irrequieto. L'acqua scorreva in rivoli dai piedi di Arkady se-
guendo i canaletti di scolo sul pavimento. «Kim e i ceceni evidentemente lavorano insieme» disse Rodionov. «Mi sembra chiaro che il povero Penyagin è stato rapito e trascinato qui; gli hanno sparato, poi hanno ucciso l'investigatore. È d'accordo?» «Oh, capisco che Kim possa aver ucciso Jaak» replicò Arkady. «Ma perché qualcuno dovrebbe prendersi la pena di ammazzare il capo delle indagini criminali?» «Si è già dato la risposta da solo. È chiaro, volevano togliere di mezzo una persona pericolosa come Penyagin.» «Penyagin? Pericoloso?» «Un po' di rispetto, per favore.» Rodionov lanciò un'occhiata verso la porta. Arkady andò al tavolo da macellaio dove giacevano un asciugamano e degli abiti borghesi portati dall'ufficio del procuratore. Accanto giacevano le sue scarpe e la giacca. Per quel che lo riguardava, gli altri suoi abiti li potevano benissimo bruciare. Iniziò ad asciugarsi. «Perché ci sono le truppe del ministero là fuori? Dov'è la milizia?» «Ricordi che siamo fuori Mosca» disse Rodionov. «Ci siamo procurati gli uomini disponibili.» «Sono arrivati in fretta, questo è certo; hanno l'aria di andare a fare la guerra. C'è qualcosa di cui non sono al corrente?» «No» disse Rodionov. «Vorrei aggiungere anche questo delitto all'indagine Rosen.» «Assolutamente no. L'assassinio di Penyagin è un'aggressione all'intero edificio della giustizia. Non ho intenzione di dire al Comitato Centrale che abbiamo coinvolto il generale Penyagin nell'indagine su un comune speculatore. Mi pare incredibile che solo stamattina io e Penyagin fossimo insieme a un funerale. Può immaginare il mio choc.» «L'ho vista.» «Lei cosa ci faceva al cimitero?» «Seppellivo mio padre.» «Oh.» Rodionov grugnì come se si fosse aspettato una scusa più fantasiosa. Vista attraverso la porta, l'aia era talmente piena di riflettori che sembrava in fiamme. Con un argano la Volvo venne issata dalla fossa e dalle porte l'acqua sgorgò in fontane di luce. «Infilerò l'indagine Rosen nell'indagine Penyagin.» Arkady si infilò un paio di calzoni asciutti.
Rodionov sospirò come se fosse stato costretto a prendere una decisione difficile. «Vogliamo che ci sia qualcuno che si dedichi a tempo pieno al caso Penyagin. Qualcuno fresco, più obiettivo..» «A chi intende dare l'incarico? Chiunque sia, dovrà essere informato sull'indagine Rosen.» «Non necessariamente.» «Può far entrare qualcuno di nuovo?» «Per il suo bene.» Rodionov si guardò intorno per mostrare la sua solidarietà verso Arkady. «La gente direbbe che se Renko fosse riuscito a trovare Kim, Penyagin sarebbe ancora vivo. Darebbero a lei la colpa per la tragica morte sia del suo investigatore che del generale.» «Non abbiamo nessuna prova che Penyagin sia stato portato qui. Tutto ciò che sappiamo è che era qui.» Rodionov parve addolorato. «Sono allusioni e speculazioni del tutto superflue. Vede, lei è personalmente troppo coinvolto in questo caso.» La camicia era una vela provvista di maniche. Arkady se la mise e poi infilò i piedi nudi nelle scarpe. «Dunque chi intende incaricare delle indagini?» «Una persona più giovane. Qualcuno che ci possa mettere più energia a questa indagine. In realtà, la persona a cui penso conosce molto bene il caso Rosen. Non ci dovrebbero essere problemi di coordinamento.» «Chi?» «Minin.» «Il mio Minin? Il piccolo Minin?» Rodionov assunse un tono più fermo. «Gli ho già parlato. Intendiamo promuoverlo, così diventerà suo pari grado. Sono convinto che abbiamo fatto un errore facendola ritornare a Mosca, Renko, glorificandola e lasciandola libero di scorrazzare per la città. Lei deve stare attento, altrimenti cadrà ancora più in basso della volta precedente. Devo dirle che non solo Minin porterà nuove energie in questa indagine, ma che darà un orientamento più chiaro.» «Sparerebbe anche a quel secchio se glielo ordinasse lei. È qui adesso?» «Gli ho detto di non venire fino a quando lei non se n'è andato. Gli faccia avere un rapporto.» «Ci sarà una sovrapposizione tra le indagini.» «No.» Arkady aveva appena preso la giacca dal tavolo da macellaio. La posò. «Che cosa intende dire?»
Rispondendo, Rodionov si fece avanti badando attentamente a dove metteva i piedi. «Questa è una crisi che richiede iniziative energiche. L'assassinio di Penyagin non è semplicemente la perdita di un uomo, è un colpo sferrato allo Stato. Tutto ciò che facciamo, il nostro ufficio e la milizia, deve avere un solo obiettivo, quello di trovare e di arrestare i responsabili. Tutti noi dovremo fare sacrifici.» «E il mio qual è?» Il procuratore assunse un'espressione di simpatia. Il partito produceva ancora grandi attori, pensò Arkady. «Minin si assumerà la responsabilità dell'indagine Rosen» disse Rodionov. «Entrerà a far parte di questa indagine, come lei ha suggerito. Voglio che entro domani gli vengano consegnate tutte le pratiche e tutte le prove del caso Rosen, oltre alla relazione sui fatti di questa sera, naturalmente.» «Questo caso è mio.» «La discussione è finita. Il suo investigatore è morto. Minin ha un nuovo incarico. Lei non ha una squadra e non ha un'indagine. Sa una cosa? Credo che le abbiamo chiesto troppo. Dopo il funerale di suo padre deve aver avuto una crisi emotiva.» «Ce l'ho tuttora.» «Si prenda un po' di riposo» disse Rodionov. Nel porgere ad Arkady la giacca, una tasca batté contro una mattonella emettendo un rumore metallico. «Mio Dio, un pezzo di antiquariato» disse Rodionov quando Arkady estrasse la Nagant. «Un'eredità» «Non me la punti addosso.» Il procuratore si allontanò dalla pistola. «Nessuno gliela sta puntando addosso.» «Non mi minacci.» «Non la sto minacciando. Mi stavo solo ponendo delle domande. Lei e Penyagin eravate al cimitero per il funerale di...» Si toccò il capo con la pistola per ricordare. «Asoyan. Penyagin è succeduto ad Asoyan.» Il procuratore sgusciò verso la porta. «Giusto. Non ho mai incontrato Asoyan. Ho dimenticato, di cosa è morto?» Il procuratore cittadino era scomparso nelle luci accecanti dell'aia. 13
Tornato in città, Arkady parcheggiò dietro il palazzo accanto allo stadio Dynamo, dove una lampada azzurra segnalava quello che avrebbe potuto sembrare un bar aperto tutta la notte. In strada un ubriaco e la moglie stavano litigando. Lui disse qualcosa e lei lo schiaffeggiò. Lui provò a dire qualcos'altro e la scena si ripeté. L'uomo andava incontro ai colpi come se fosse d'accordo con la donna. Un altro ubriaco, i vestiti in ordine e leggermente impolverati, si muoveva in cerchio, come se avesse un piede inchiodato al pavimento. All'interno del posto di polizia, un agente si dava da fare per calmare un ubriaco che, nudo fino alla cintola e accecato dal metanolo, tentava di volare, battendo le braccia tatuate e dirigendo un coro di ubriachi che urlavano dalle rispettive celle. Passando, Arkady mostrò il tesserino senza darsi la pena di aprirlo. Indossava abiti di taglia sbagliata, ma tra quella gente sembrava comunque elegantissimo. Al piano di sopra, dove tutte le porte erano foderate con una tappezzeria grigia, una bacheca esponeva la fotografia dei veterani dell'Afghanistan arruolati nella milizia. Nella sala Lenin, dove ci si riuniva per le campagne di orientamento politico e morale, alcuni miliziani erano distesi su lunghi tavoli con un asciugamano sul viso. La chiave di Jaak aprì la porta di una stanza con il pavimento di linoleum e le pareti gialle. Dato che queste stanze ospitavano più investigatori distribuiti nei vari turni, i mobili erano ridotti al minimo e l'arredamento era anonimo: due scrivanie una di fronte all'altra sotto la finestra, quattro sedie, quattro massicce casseforti d'anteguerra. Il manifesto di un'auto, uno di calcio e una foto dell'esposizione mondiale erano appesi a una parete. Una porta d'angolo era aperta su un pisciatoio. Sulle scrivanie c'erano tre telefoni: una linea esterna, un interfono e il diretto con Petrovka. I cassetti contenevano vecchi fascicoli di ricercati, descrizioni di automobili "calde" e calendari vecchi di dieci anni. Il linoleum intorno alle gambe delle scrivanie era pieno di bruciature. Arkady sedette e accese una sigaretta. Aveva sempre creduto che un giorno Jaak avrebbe fatto fagotto per tornarsene in Estonia, dove sarebbe rinato come ardente nazionalista e avrebbe difeso eroicamente la nuova repubblica. Era convinto che Jaak sarebbe riuscito a condurre un'altra vita. La differenza tra lui e Jaak non era poi tanto grande, vivi o morti che fossero. La prima telefonata fu per il suo ufficio. La cornetta venne sollevata al secondo squillo. «Parla Minin.»
Arkady riappese. Un ingenuo avrebbe potuto chiedersi come mai Minin non fosse andato al collettivo "La Via Leninista". Per esperienza, Arkady sapeva che esistevano due tipi di indagine: una scopriva delle informazioni e l'altra, di tipo più tradizionale, le copriva. Questo secondo tipo era in realtà il più difficile, in quanto richiedeva che qualcuno coprisse la scena del delitto mentre altri controllavano le informazioni in ufficio. Come superiore di Arkady, Rodionov si stava occupando del collettivo. Minin l'instancabile lavoratore, Minin il promosso, avrebbe ricevuto l'incarico di raccogliere tutte le prove e tutti i dossier che rivelavano contatti tra il martire generale Penyagin e Rudy Rosen. Arkady estrasse la breve lista di numeri di telefono che aveva preso dalla tessera del partito di Penyagin. Nel primo numero riconobbe quello di Rodionov; gli altri due erano numeri di Mosca che non conosceva. Guardò l'orologio: le due di notte, un'ora in cui tutti i bravi cittadini dovevano essere a casa. Prese la linea esterna e fece uno dei due numeri sconosciuti. «Sì?» rispose una voce maschile, senza alcun soprassalto. «Telefono a proposito di Penyagin» disse Arkady. «E cosa c'è da dire sul suo conto?» «È morto.» «È una notizia terribile.» La voce si mantenne educata, morbida, perfino più calma di prima. «Hanno preso il colpevole?» «No.» Ci fu una pausa, poi la voce si corresse. «Voglio dire, come è morto?» «Gli hanno sparato. Alla fattoria.» «Con chi sto parlando?» Il timbro stesso della voce era insolito, betulla russa dipinta con lacca straniera. «C'è stata una complicazione» disse Arkady. «Che complicazione?» «Un investigatore.» «E chi è?» «Non vuole sapere come è morto?» All'altro capo ci fu una pausa. Arkady riusciva quasi a sentire la mente di un uomo che si metteva in allerta. «So con chi sto parlando.» La comunicazione venne interrotta ma non prima che Arkady avesse riconosciuto la voce di Max Albov. Anche se il loro incontro era durato solo un'ora, era avvenuto di recente e in compagnia di Penyagin.
Compose l'altro numero, sentendosi come un pescatore notturno che lancia un amo nell'acqua nera. «Pronto!» questa volta era una donna, sveglissima, che alzava la voce su un sottofondo di chiacchiere televisive. Parlava con un leggero difetto di pronuncia. «Con chi parlo?» «Telefono a proposito di Penyagin.» «Un attimo.» Mentre aspettava, Arkady sentì quel che sembrava un americano intento a raccontare una storia noiosa intercalata da esplosioni e da spari soffocati. «Con chi parlo?» Al telefono era venuto un uomo. «Albov» disse Arkady. La sua pronuncia non era certo fluida come quella del giornalista, ma modulò la voce, aiutato dal fracasso all'altro capo del filo. «Penyagin è morto.» Ci fu una pausa, non un silenzio. Con uno stacco musicale, l'americano sullo sfondo passò a un altro argomento. Gli spari continuarono, con echi che lasciavano supporre un vasto spazio. «Perché mi telefoni?» «Sono sorti dei problemi» disse Arkady. «La cosa peggiore che potevi fare era telefonare. Mi sorprende, da una persona intelligente come te.» La voce era forte, esprimeva l'energia e la fiducia di un leader di successo. «Non bisogna farsi prendere dal panico nel mezzo della partita.» «Sono preoccupato.» Si sentì il clic di una pallina ben colpita, uno scoppio di applausi e una selva di entusiastici "Banzai!". Arkady era in grado di vedere un bar con i colori della Marlboro e golfisti soddisfatti. Poteva sentire lo squillo dei registratori di cassa e, su note più attenuate, il trillo lontano delle slotmachine. Poteva anche vedere Borya Gubenko proteggere la cornetta con una mano. «Quel che è fatto è fatto» disse Borya. «E a proposito dell'investigatore?» «Dovresti sapere che questa non è una conversazione da fare al telefono» disse Borya. «E adesso cosa succederà?» Ormai era notte fonda. La voce americana alla televisione borbottava parole rassicuranti. Il tono internazionale e sempre identico delle notizie che segue dappertutto gli uomini d'affari. Una volta gli americani stavano per
salvare la Russia. Poi i tedeschi stavano per salvare la Russia. Chiunque stesse per salvare la Russia ora andava da Borya con le sue mazze da golf: non aveva detto che i giapponesi erano sempre gli ultimi ad andarsene? «Cosa facciamo?» chiese di nuovo. Udì colpire un'altra pallina. Stava rimbalzando contro uno degli alberi della fabbrica? Oppure veleggiava con una traiettoria precisa verso il telone verde della parete di fondo? «Ma chi parla?» chiese Borya. Poi riappese. Lasciando Arkady con... nulla. Come prima cosa, non aveva registrato la conversazione. Secondo, se anche l'avesse fatto, cosa avrebbe avuto in mano? Non aveva raccolto confessioni, nulla che non si potesse spiegare con la sonnolenza, il chiasso, l'equivoco, un disturbo sulla linea. E se anche Penyagin aveva quei due numeri di telefono? Albov era stato presentato come amico della milizia, e la stessa milizia proteggeva il driving range di Borya Gubenko. E se anche Albov e Gubenko si conoscevano? Appartenevano alla società della nuova Mosca, non erano eremiti. Arkady non aveva dimostrato nulla, salvo che il caso Rosen aveva spinto Jaak ad andare alla fattoria, dove era stato ucciso e poi ritrovato nella stessa macchina con Penyagin. Arkady aveva sciupato il caso Rosen. Non aveva preso Kim e tutte le prove che era riuscito a trovare erano attualmente nelle mani di Minin. D'altra parte, Jaak era sì morto ma non era stato un investigatore scadente. Arkady controllò in tutti i cassetti e sotto di essi, poi tirò fuori l'enorme chiave di Jaak. Ogni investigatore in incognito disponeva di una propria cassaforte riservata, un luogo dove chiudere i risultati del proprio lavoro. A turno provò la chiave in tutt'e quattro le casseforti cercando di sentire lo scatto. L'ultima serratura cedette e lo sportello di ferro si aprì mostrando tre scaffali con i segreti della vita di Jaak. Su quello inferiore c'erano alcune pratiche legate con nastro rosso, una sorta di soffitta dei ricordi professionali. Su quello superiore erano raccolti alcuni oggetti personali: fotografie di un bambino e di un adulto intenti a pescare, dello stesso bambino e dello stesso adulto con un aeromodello, del bambino ormai cresciuto nell'uniforme dell'esercito, in posa con una donna felice ma imbarazzata, intenta a lisciarsi il grembiule. Erano in piedi sui gradini di una dacia. La luce copriva gli occhi di Jaak e l'ombra copriva quelli della madre. Poi una fotografia di soldati in una tenda che cantavano. Jaak era quello con la chitarra. I documenti del divorzio, risalenti a otto anni prima, strappati e poi riattaccati con nastro adesivo. Una istantanea di Jaak con Julya, quando
ancora lei aveva i capelli neri, sfuocata perché erano su una giostra; anche questa strappata e poi riattaccata. Sullo scaffale di mezzo giaceva il codice penale aggiornato con le caotiche appendici di leggi che cambiavano quotidianamente: moduli di protocollo per le indagini, le perquisizioni, gli interrogatori; un elenco rilegato in rosso degli investigatori della regione di Mosca; alcune cartucce Makarov. C'erano foto di Rudy prese di nascosto, un'istantanea di Kim da giovane, le fotografie scattate da Polina al mercato nero e alla carcassa bruciata dell'auto di Rudy. Accanto alle foto Arkady vide una busta per comunicazioni interne. L'aprì e trovò la videocassetta che aveva dato a Jaak con due stampe fotografiche. Dunque le aveva fatte fare. Ritraevano la donna nella birreria all'aperto. Sul rovescio di una Jaak aveva scritto "Identificata da fonte degna di fiducia come 'Rita', emigrata in Israele nel 1985". Un nome romantico, Rita, abbreviazione di un fiore, margherita. Immaginò che la fonte fosse Julya. Se Rita aveva sposato un ebreo ed era emigrata, Julya si sarebbe ricordata di lei. Un israeliano? La combinazione di capelli biondi, pullover nero e catena d'oro parve ad Arkady il classico stile tedesco, che si aggiungeva alla bocca piena e al profilo della guancia, puramente slavi. Ma come mai non era nella cassetta di Gerusalemme? Come mai l'aveva vista nell'auto di Rudy e aveva intercettato il suo sguardo, fisso per un istante su di lui e sulla sua Zhiguli come se fossero un uomo e una macchina fin troppo conosciuti? Come mai aveva visto nel nastro le sue labbra pronunciare le parole "Ti amo"? La seconda fotografia era identica. Sul retro, Jaak aveva scritto "Identificata dalla receptionist del Soyuz Hotel come signora Boris Benz. Tedesca. Arrivata in data 5/8, partita in data 8/8". Due giorni prima. Il Soyuz Hotel non era uno dei migliori di Mosca, ma era il più vicino al punto in cui lui e Jaak l'avevano vista insieme a Rudy. La linea esterna squillò. Sollevò la cornetta. «Chi è?» chiese Minin. Arkady posò il ricevitore sulla scrivania e se ne andò in silenzio. Ormai il suo appartamento era di sicuro sotto sorveglianza. Arkady andò sulla sponda sud del fiume, parcheggiò e si mise a camminare per tenersi sveglio. Mosca di notte era bella. Due giorni prima, quando era al caffè con Polina, aveva recitato una poesia della Achmatova. "Brindo alla nostra casa in
rovina, ai dolori della mia vita, alla nostra solitudine insieme; e a te sollevo il bicchiere, a labbra menzognere che ci hanno traditi, a occhi gelidi e spietati, alle dure realtà: che il mondo è brutale e rozzo, che Dio in realtà non ci ha salvato." Polina, la romantica, aveva insistito perché la recitasse una seconda volta. Mosca era la casa in rovina, un profilo di città che di notte sembrava incendiata. Eppure un lampione stradale illuminava un cancello di ferro e, oltre, un cortile di tigli armoniosi che circondava un leone di marmo su un piedestallo. Un altro lampione proiettava il suo alone sghembo sulla cupola di una chiesa azzurra con stelle d'oro incastonate. Pareva che a Mosca tutto ciò che non era orribile osasse esporsi soltanto di notte. Arkady rimase sorpreso dalla propria amarezza. Si era detto disposto a tollerare un sottofondo di cattiveria e di corruzione, se solo l'avessero lasciato lavorare a un certo livello di efficienza, proprio come un chirurgo poteva essere soddisfatto di aggiustare ossa nel mezzo di un'interminabile catastrofe. L'onestà per lui diventava una sorta di guscio, un metodo sia per negare che per accettare il malgoverno generale. E qui la contraddizione, si disse: la menzogna, per esser concisi. Comunque, se aveva perso Rudy e Jaak, se non era mai riuscito a vedere Kim e se probabilmente aveva avuto una malefica influenza su Polina, fino a che punto era bravo nel suo lavoro? Cosa voleva? Essere lontano. Per anni era stato paziente, ma nel corso dell'ultima settimana, da quando aveva sentito alla radio la voce di Irina, gli era rimasta la sensazione che ogni secondo fosse solo un granellino di sabbia in più che gli sfuggiva tra le dita. Se provava queste sensazioni, forse era nella città sbagliata. Era possibile fuggire dalle rovine della sua vita? Il Telegrafo centrale di via Gorky era aperto ventiquattr'ore al giorno. Alle quattro di notte, lo popolavano indiani, vietnamiti e arabi che telegrafavano a casa, e sovietici altrettanto disperati che cercavano di raggiungere parenti a Parigi, a Tel Aviv o a Brighton Beach. L'aria sapeva di cenere di sigaretta e l'odore rimaneva tra i denti. C'erano uomini che sedevano davanti a un modulo per telegramma componendo messaggi a cinque copechi la parola, altri che appallottolavano tentativi falliti, donne meditabonde davanti ai loro fogli. Gruppi familiari collaboravano in un circolo di teste, solitamente brune con fazzoletti a colori vivaci. Ogni tanto un guardiano entrava per accertarsi che nessuno si sten-
desse su una panca, costringendo gli ubriachi in sala a fare ogni sforzo per tenere le ossa raccolte in posizione seduta. C'era un detto: un russo non è ubriaco fino a quando c'è un filo d'erba a cui appoggiarsi. Chissà, forse era una legge. Dall'altra parte dell'alto bancone, gli impiegati mantenevano un atteggiamento di ostilità. Continuavano le loro telefonate prolungate e sussurrate, voltavano la schiena per leggere indisturbati, scomparivano per fare pisolini discreti. Il broncio era comprensibile ed era dovuto al fatto che con quel turno non avevano la possibilità di fare la spesa in orario di lavoro. Gli orologi sopra il bancone indicavano l'ora: le 04.00 a Mosca, le 11.00 a Vladivostok, le 22.00 a New York. Arkady si fermò di fronte al bancone esaminando due fotografie identiche, una di una prostituta russa in Israele, l'altra di una turista tedesca ben vestita. Una delle due identità era corretta? Non lo erano né l'una né l'altra? Entrambe? Jaak probabilmente sapeva la risposta. Sul retro di un modulo di telegramma Arkady disegnò l'automobile di Rudy, le posizioni approssimate di Kim, di Borya Gubenko, dei ceceni, di Jaak e di se stesso. A fianco, per darle un nome, aggiunse Rita Benz. Su un secondo modulo scrisse "TransKom" ed elencò Komsomol Leningrado, Rudy e Boris Benz. Su un terzo, sotto "Collettivo La Via Leninista": Penyagin, l'assassino di Rudy, forse i ceceni. Dal sangue, forse Kim. Rodionov assolutamente. Su un quarto, sotto "Monaco": Boris Benz, Rita Benz e una "X" per la persona, chiunque fosse, che aveva chiesto a Rudy "Piazza Rossa: dov'è?". Su un quinto, "Slot-Machine": Rudy, Kim, TransKom, Benz, Borya Gubenko. Frau Benz era sia il legame tra il mercato nero e Monaco sia il contatto tra Rudy e Boris Benz. Anche Borya Gubenko possedeva delle slotmachine. Significava che anche lui faceva parte della TransKom? Chi meglio di un ex idolo calcistico per presentare Rudy e i sui improbabili soci alla palestra di un Komsomol? E se Borya faceva parte della TransKom, allora doveva conoscere Boris Benz. Arkady tracciò infine una pianta della fattoria, indicando la strada, l'aia, le stalle, il granaio, il magazzino, il garage, il fuoco, la Volvo, la fossa. La completò con le distanze approssimative e con una freccia a indicare il nord, quindi aggiunse una pianta del granaio, con uno schizzo del secchio e della carta pergamenata. Ripensò al negozio di animali sotto l'appartamento di Kim, allo scaffale con il sangue di drago e al sangue nell'auto di Rudy. Questo gli ricordò Po-
lina. I telefoni pubblici accettavano solo monete da due copechi ma in tasca ne trovò una sola. La chiamò a casa. Polina rispose con il registro basso del sonno, poi si svegliò improvvisamente. «Arkady?» «Jaak è morto» disse. «Hanno dato l'indagine a Minin.» «Sei nei guai?» «Non sono amico tuo. Il mio modo di dirigere le indagini ti è sempre sembrato sospetto. Avevi la sensazione che l'indagine si fosse messa su un binario morto.» «In altre parole?» «Stanne fuori.» «Non puoi ordinarmi di farlo.» «Te lo sto chiedendo.» Sussurrò nel telefono: «Per favore». «Telefonami» disse Polina dopo alcuni istanti di silenzio. «Quando tutto sarà tornato a posto.» «Prenderò il fax di Rudy e lo attaccherò al mio telefono. Potrai lasciare messaggi.» «Fa' attenzione.» Riappese. All'improvviso fu sopraffatto dalla stanchezza. Infilò i moduli nella tasca in cui teneva la pistola e si sistemò in posizione semi-eretta a un'estremità di una panca. Appena chiusi gli occhi, era già mezzo addormentato. Non gli parve tanto di sognare quanto di sentire che stava cadendo lungo una morbida collina, nel buio, rotolando pigramente senza fare rumore, seguendo la forza di gravità. In fondo alla collina c'era uno stagno. Qualcuno prima di lui si tuffò e sull'acqua le onde si allargarono in cerchi bianchi. Cadde nell'acqua senza lottare, affondò, si addormentò davvero. Due occhi in un viso dalle guance cascanti, e mal rasate, lo fissavano da sotto in su. Una mano teneva sollevata una pistola nera. Le dita erano luride, callose e tremanti. L'altra mano reggeva il tesserino di Arkady. Quando si fu completamente risvegliato Arkady vide una piastrina di decorazioni militari cucita su una giacca piena di macchie. Vide anche che l'uomo, privo di gambe, si teneva ritto su un carrettino. Accanto aveva due blocchetti di legno con strisce di gomma che gli servivano per spostarsi. Un'automobile umana, pensò Arkady. «Cercavo solo una bottiglia» disse l'uomo. «Non immaginavo di trovare un generale del cazzo. Mi scuso.» La pistola era la sua Nagant. Cautamente l'uomo la porse ad Arkady dalla parte del calcio. Arkady prese anche il tesserino.
L'uomo esitò. «Hai qualche spicciolo? No?» Prese i blocchetti e fece per spingersi via. Arkady guardò l'orologio: erano le cinque. «Aspetta» disse. Gli era venuta in mente una cosa. Mentre l'idea era ancora fresca, posò pistola e tesserino e tirò fuori lo schizzo della fattoria. Sull'altro modulo disegnò l'interno del magazzino come meglio riuscì a ricordare: porta, tavola, cataste di videoregistratori e di computer, la rastrelliera dei vestiti, la fotocopiatrice, il domino, la "Grozny Pravda" sul tavolino, il tappeto da preghiera sul pavimento. Facendo riferimento allo schizzo della fattoria, aggiunse una freccia che indicava il nord. Ora che ci pensava, il tappeto era nuovo, non appariva consumato nel punto in cui si appoggiano le ginocchia e la fronte; ed era allineato in direzione est-ovest, mentre La Mecca si trova a sud rispetto a Mosca. «Hai due copechi?» chiese Arkady. «Per un rublo?» Il mendicante infilò una mano in una borsa all'interno della camicia e tirò fuori una moneta. «Mi vuoi far diventare un affarista.» «Un banchiere.» Usò il telefono dal quale aveva chiamato Polina. Per una volta si sentì in vantaggio. Rodionov non era abituato ad essere confuso e al buio. Arkady sì. 14 A Veshki, ai margini della città, la Moscova pareva esitare tra carici e giunchi, come riluttante a lasciare un villaggio dove il rumore più caratteristico era il gracidio delle rane. Nell'acqua si riflettevano le rondini in volo e i vapori dell'alba inghirlandavano letti di gigli. Qui da piccolo Arkady andava in barca a vela. Lui e Belov bordeggiavano disturbando le anitre, che seguivano riverenti i cigni giunti al villaggio per l'estate. Tirata la barca a riva, il sergente e Arkady andavano a piedi al villaggio, in un intrico di viottoli e frutteti con alberi di ciliegio, per comprare panna fresca e caramelle di agrumi. Il sole sembrava essere sempre alto nel cielo, dietro i corvi stagliati sul campanile della chiesa. Meglio ancora, il villaggio era circondato dall'intrico lussureggiante e dalla meravigliosa decadenza di una vecchia foresta: file infinite di betulle, frassini, faggi dalle grandi foglie, larici, querce e un cielo da dove penetrava soltanto qualche raggio isolato in cerca di funghi. Tutto era immobile e al tempo stesso tutto si muoveva: i detriti al suolo erano animati dalle tal-
pe, un'esplosione di aghi e di foglie quando un coniglio scappava dalla tana. Uccelli canori e cinciallegre che ripulivano i rami dai bruchi, picchi che perforavano i tronchi, il ronzio su note da violoncello degli insetti. Veshki era la fantasia di tutti i russi, un villaggio di dacie perfette. Nulla era cambiato. Quando scivolò nei boschi, seguì dei sentieri che conosceva anche nella nebbia. Le stesse querce solitarie, non più così scure e grandiose. Una quinta di betulle dalle foglie pallide e tremanti. Qualcuno aveva cercato di fare un vialetto di pini ma tralci e alberelli erano cresciuti, soffocandoli. Dappertutto edera e felci tentavano di nascondere il cammino. Quindici metri a sinistra uno scoiattolo dalle orecchie lanose saltò su un ramo basso, rimanendo a fissare un impermeabile disteso tra le foglie. Minin sollevò il viso, cosa che irritò ancor più lo scoiattolo. Arkady identificò una giacca a vento nascosta tra i cespugli e la gamba di un paio di calzoni alla sinistra di Minin. Si mosse verso destra, nascosto da una cortina di pini. Si fermò quando vide la strada. Era più stretta di quanto non ricordasse. Un patito di jogging lo superò correndo. Era uno zingaro, dalle guance incavate e gli occhi neri. Una donna passò in bicicletta, inseguita da un terrier. Quando fu lontana, Arkady fece gli ultimi passi e si portò all'aperto. Da una parte la strada continuava per cinquanta metri, quindi svoltava a destra lambendo un cancello, un quadrato nero incorniciato da alberi verdi. Nell'altra direzione, a soli dieci metri, lo aspettavano Rodionov e Albov. Il procuratore cittadino sembrava sorpreso di vedere il suo investigatore, sebbene fossero l'ora e il posto stabiliti. A certa gente fa male perdere una notte di sonno, pensò Arkady. Rodionov camminava legnoso, infuriato, come se si trattasse di una giornata fredda e non della piacevole mattinata estiva che si annunciava. Albov invece sembrava ben riposato, con una giacca di tweed, un paio di calzoni comodi e un'aura di dopobarba. «Avevo detto a Rodionov che non saremmo riusciti a vederla» disse a mo' di saluto. «Deve averci trascorso molto tempo in questo posto.» «Avrebbe dovuto tornare in ufficio a stendere il rapporto su ciò che è avvenuto alla fattoria» disse Rodionov. «Invece, prima scompare e poi telefona, pretendendo di incontrarsi chissà dove.» «Si sa benissimo dove» obiettò Arkady. «Facciamo quattro passi.» Si avviò verso il cancello. Rodionov gli rimase accanto. «Dov'è quel rapporto? Dov'è stato?» La strada era ancora immersa nell'ombra. Albov sollevò lo sguardo ver-
so la luce che scendeva da una fila di alberi. «Stalin aveva un certo numero di dacie nei dintorni di Mosca, vero?» chiese. «Questa era la sua preferita» disse Arkady. «Suo padre veniva spesso qui, ne sono sicuro.» «A Stalin piaceva bere e chiacchierare per tutta la notte. Di mattina venivano spesso a passeggiare qui. Vede, gli alberi più grossi sono larici. Dietro ciascun larice c'era un soldato che doveva restare assolutamente silenzioso e invisibile. I tempi sono cambiati, ovviamente.» Rodionov pareva esasperato. «Lei non ha scritto il rapporto.» Fece un balzo all'indietro quando Arkady infilò una mano in tasca. Invece della Nagant, Arkady estrasse alcuni fogli di carta gialla riempiti con una calligrafia ordinata. «Bisognerà farli ribattere sui moduli regolamentari» disse Rodionov. «Non importa. Li esamineremo insieme in ufficio.» «E poi?» chiese Arkady. Rodionov si sentì incoraggiato. Un rapporto, anche se manoscritto, era un segno di resa. «La morte del nostro amico generale Penyagin ci ha sconvolti tutti» disse, «e capisco quanto lei debba essere rimasto colpito dall'assassinio del suo investigatore. Tuttavia, ciò non giustifica la sua scomparsa e le sue incredibili accuse.» «Quali accuse?» Arkady continuò a camminare. Fino a quel momento non aveva fatto cenno alle telefonate ad Albov e a Borya Gubenko. Nemmeno Albov ne aveva parlato. «Il suo comportamento imprevedibile» disse Rodionov. «Imprevedibile in che senso?» chiese Arkady. «La sua scomparsa» disse Rodionov. «La sua riluttanza a collaborare al caso Penyagin per la semplice ragione che non le è stato assegnato. La sua fissazione sul caso Rosen. La pressione del ritorno a Mosca è stata eccessiva. Per il suo bene è necessario un trasferimento.» «Via da Mosca?» domandò Arkady. «Lei non viene degradato» rispose Rodionov. «Il fatto è che, a parte Mosca, si commettono delitti anche nelle altre città. Esistono dei punti davvero caldi. Io ho l'abitudine di prestare i miei investigatori dove servono. Senza il caso Rosen lei è disponibile.» «Dove?» «Baku.» Arkady fu costretto a ridere. «Baku non è semplicemente via da Mosca, è fuori dalla Russia.»
«Mi hanno chiesto il mio uomo migliore. Questa per lei è l'occasione di recuperare un po' di credibilità.» Con la guerra civile in corso tra azeri, armeni e l'armata, oltre agli scontri di mafia sul traffico di droga, Baku era una combinazione tra Miami e Beirut. Non c'era posto migliore sulla terra per far scomparire un investigatore. Venti metri più indietro, Minin tornò sulla strada spazzolandosi le foglie dal cappotto, gesto che segnalava agli altri di uscire allo scoperto. Lo zingaro tornò correndo e gli si mise al fianco. Ad Arkady parve che la passeggiata stesse trasformandosi in una parata. «Una nuova opportunità» disse. «Così va vista» consentì Rodionov. «Penso che lei abbia ragione; è venuto il momento che io me ne vada da Mosca» disse Arkady. «Ma non pensavo a Baku.» «Non dipende da lei il luogo» ribatté Rodionov. «Né il momento.» Erano giunti al cancello. Visto da vicino non era nero ma verde scuro, con una passerella sopra un doppio battente di legno rinforzato da piastre d'acciaio e due garitte ai lati. Di fronte era stata sistemata una barriera per tenere lontani i curiosi, ma come si poteva resistere? Arkady si fece avanti e passò le mani sulla vernice trasparente, sempre ben conservata. Attraverso questo portone un tempo le lunghe berline scivolavano per altri cinquanta metri fino alla dacia: cene di mezzanotte e, subito dopo, compilazione degli elenchi, all'epoca in cui uomini e donne passavano anche dormendo dalla vita alla morte. A volte, alla dacia venivano portati dei bambini per ingentilire una festa all'aperto, o presentare un mazzo di fiori. Sempre di giorno, però, come se fossero al sicuro solo alla luce del sole. Questa era la porta del drago, pensò Arkady. Anche se il drago era ormai morto, la porta avrebbe dovuto essere carbonizzata e la strada segnata dalle zampate. Ai rami avrebbero dovuto essere appese delle ossa. I soldati nei loro pastrani avrebbero dovuto rimanere immobili come statue. Invece, a sorvegliare dalla garitta non c'era altro che una solitaria telecamera con un obiettivo grandangolare. Rodionov non l'aveva notata. «Minin farà...» «Zitto» disse Albov e sollevò lo sguardo verso l'obiettivo. «Sorridi.» Ad Arkady chiese: «Ci sono altre telecamere sulla strada?». «Lungo tutto il percorso. I monitor sono nella dacia. Tutto ciò che succede all'esterno viene osservato e registrato. Dopotutto, è un luogo storico.»
«Naturalmente. Fa qualcosa per Minin» disse Albov sottovoce a Rodionov. «Non vogliamo azioni violente. Togli di mezzo quell'idiota.» Confuso ma pieno di buona buona volontà, Rodionov fece un cenno a Minin. Albov si rivolse ad Arkady con l'espressione di chi è disposto a concedere all'avversario un punto meritato. «Siamo amici preoccupati per il suo benessere. Abbiamo ogni motivo per incontrarla all'aperto. Chi guarda il monitor si chiederà se stiamo facendo del bird watching o se siamo storici dilettanti.» «Temo che Minin non possa passare né per l'uno né per l'altro.» «Ha ragione» consentì Albov. Rodionov tornò sui suoi passi per allontanare Minin. «Dormito?» chiese Albov ad Arkady. «No.» «Mangiato?» «No.» «È deprimente essere in fuga.» Il tono era sincero. Sembrava lui ad aver preso il controllo della situazione, come se a Rodionov fosse stato concesso di presiedere la riunione solo fino a quando l'ordine del giorno fosse stato rispettato. La telecamera al cancello di Stalin aveva cambiato tutto. Albov parlò con la sigaretta in bocca. «La telefonata è stata un'iniziativa intelligente.» «Penyagin aveva il suo numero di telefono.» «Allora è stata ovvia.» «Le mie migliori idee sono ovvie.» Arkady aveva anche chiamato Borya, come Albov doveva sapere. La domanda era implicita: quali altri numeri di telefono aveva scritto Penyagin? Quando Rodionov ritornò, Albov prese la relazione dalla tasca del procuratore. «Moduli di telegramma» disse. «È stato tutta notte all'ufficio telegrafico.» Rodionov lanciò un'occhiata alle telecamere e borbottò: «Abbiamo cercato nelle stazioni ferroviarie, agli indirizzi conosciuti, per strada». «Mosca è una grande città» disse Arkady in difesa del procuratore. «Ha spedito dei telegrammi?» chiese Albov. «Potremmo scoprirlo» fece notare Rodionov. «In un paio di giorni» consentì Arkady. «Ci sta minacciando» disse il procuratore. «Con cosa?» disse Albov. «Questa è la domanda. Se sa qualcosa su Pen-
yagin, sull'investigatore o su Rosen, dal punto di vista legale è tenuto a informare il suo superiore, che è lei, oppure l'investigatore incaricato, che è Minin. Altrimenti viene ritenuto pazzo furioso. Di questi tempi le strade sono piene di pazzi furiosi, per cui nessuno gli darà retta. È anche obbligato a eseguire gli ordini. Se lei lo spedisce a Baku, lui ci deve andare. Può rimanere sotto questa telecamera tutto il giorno. È un vicolo cieco; non ci sono riflettori, per cui stasera lei lo può prelevare e domani mattina lui si sveglia a Baku. Renko, lasci che le dica una cosa che ho imparato a mie spese. Non si smette di correre finché non si ha qualcosa da scambiare. Lei non ha niente, vero?» «No» ammise Arkady. «Ma ho altri progetti.» «Che altri progetti?» «Stavo pensando di continuare l'indagine Rosen.» Rodionov guardò giù per la strada. «Adesso l'incarico ce l'ha Minin» disse. «Non intralcerei Minin» disse Arkady. «E come farebbe a non intralciarlo?» chiese Albov. «Sarei a Monaco.» «A Monaco?» Albov piegò il capo come se nel bosco un uccello avesse emesso una nuova nota. «E cosa cercherebbe a Monaco?» «Boris Benz» rispose Arkady. Preferì non usare il nome della donna poiché non era sicuro della sua identità. Nel silenzio, Rodionov si irrigidì, come qualcuno che avesse mancato un gradino. Albov guardò per terra, poi intorno a sé e finalmente si permise un sorriso di stupore e ammirazione. «Vedi, ce l'ha nel sangue» disse a Rodionov. «Quando i tedeschi ci invasero e arrivarono fino alle porte di Leningrado e di Mosca, e Stalin perse milioni di uomini e l'intera Armata Rossa si ritirò, un comandante di artiglieria corazzata non arretrò. I tedeschi pensavano di avere preso in trappola il generale Renko. Quel che non avevano capito era che lui stava bene dietro le loro linee e quanto più sanguinosa e più confusa era l'azione, tanto meglio. Il figlio è identico. È in trappola? No. È qui, è là. Dio sa dove salterà fuori la prossima volta.» «C'è un volo diretto per Monaco alle sette e quarantacinque di domani mattina» disse Arkady. «Lei crede sinceramente che l'ufficio del procuratore le consentirà di uscire dal paese?» chiese Albov.
«Ne sono assolutamente sicuro» rispose Arkady. Lo era divenuto non appena aveva notato la reazione di Rodionov al nome di Boris Benz, una contrazione istintiva in cui si erano espresse la rabbia e la paura di un maiale infilzato. Fino a quel momento il nome poteva anche non voler dir nulla ma in un istante Arkady si era reso conto, come avrebbe detto Rudy, dell'elevato valore di mercato di Boris Benz. «Anche se il ministero volesse, non dipende da noi» disse Rodionov. «Le indagini all'estero ricadono sotto la responsabilità della Sicurezza dello Stato.» «A Petrovka, l'altro giorno, ha detto che ora che siamo membri dell'Interpol lavoriamo direttamente con i colleghi stranieri. Mi porterò dietro solo un bagaglio a mano. Nessuna ispezione.» «Anche se volessi, nemmeno io potrei andarci domani» disse Rodionov. «Bisognerebbe preparare il passaporto per l'estero e gli ordini del ministero.» «Ci sono dodici stanze al Comitato Centrale. E ci si fanno solo passaporti e visti immediati. Lufthansa volo 84» disse Arkady. «Ricordi, i tedeschi sono puntuali.» «Il modo c'è» disse Albov. «Se non viaggia come investigatore, come funzionario dell'ufficio del procuratore, ma come privato. Se il ministero è in grado di preparare il passaporto e se lei ha dollari americani o marchi tedeschi, allora basta prendere un posto su un aereo e decollare. In realtà, abbiamo appena aperto un consolato a Monaco; lei potrebbe prendere contatto e farsi rimborsare là le spese di viaggio. Il problema è solo quello di trovare la valuta per il biglietto.» «E la soluzione è...?» chiese Arkady. «Potrei prestarglieli io. Me li potrebbe restituire a Monaco.» «Deve essere il procuratore a fornirmi gli anticipi» disse Arkady. «E così sarà fatto» decretò Albov. «Perché?» protestò Rodionov. «Perché questa è un'indagine molto più delicata di quanto non ritenessimo» rispose Albov. «Gli investitori esteri, i tedeschi specialmente, sono molto sensibili agli scandali del nuovo capitalismo sovietico. Vogliamo liberare dal sospetto ogni nome, anche quello di persone che non abbiamo mai sentito. Perché anche se l'investigatore dà la caccia a dei fantasmi, non vogliamo mettere ostacoli sul suo cammino. A parte questo, non sappiamo tutto ciò che l'investigatore sa o quali passi sconsiderati pensa di dover fare per conservare la sua indipendenza.»
«Non ci ha mai detto quello che sapeva.» «Il fatto che sia disperato non significa che sia un idiota. Le ha riempito le tasche di telegrammi e lei non se ne è nemmeno accorto. Io appoggerò Renko. Sono sempre più impressionato dalla sua capacità di adattamento. Mi domando, però» aggiunse Albov rivolgendosi ad Arkady, «mi domando se lei ha considerato il fatto che non appena sarà salito sull'aereo non avrà più alcuna autorità. In Germania sarà un cittadino qualunque: o peggio, un cittadino sovietico. Per i tedeschi lei sarà solo un profugo; perché per loro tutti i russi sono profughi. In secondo luogo, qui lei perderà credibilità. Non sarà più un eroe per i suoi amici. Nessuno crederà agli avvertimenti o alle informazioni che lei si lascerà dietro. Perché anche qui lei verrà considerato un profugo. E i profughi mentono, i profughi sono disposti a dire qualsiasi cosa pur di andarsene, nulla di quel che dicono è ritenuto una verità, in nessun posto. L'unica cosa che le posso promettere è che le dispiacerà di essere partito.» «Ci vado soltanto per questo caso» disse Arkady. «Vede, già sta mentendo.» Albov fissò Arkady con una sfumatura di comprensione. Pareva costringersi a ricordare un uomo meno interessante. «Rodionov, meglio che ti metti al lavoro. Devi fare un sacco di cose per avere la sicurezza che il tuo investigatore non perda il volo. I documenti necessari, i soldi, tutto quello che serve, in un giorno.» Rivolgendosi di nuovo ad Arkady chiese: «Che ne dice di volare Aeroflot?». «Lufthansa.» «Vuole una compagnia dove le fibbie delle cinture funzionino. Sono assolutamente d'accordo.» disse Albov. Escluso, Rodionov si allontanò lanciando occhiate furtive, ancora in attesa di qualche altro segnale da parte di Albov. Lontano, in fondo alla strada, Minin e i suoi uomini si erano raccolti in un gruppo disordinato, di cui gli altri sembravano essersi dimenticati. «Vai» disse Albov. Aprì un pacchetto di Camel Lights e accese un fiammifero per sé e uno per Arkady. Con gesti estremamente meticolosi tenne l'ultima fiammella per il cellofan, che lasciò bruciare e affidò alla brezza del mattino. Poi riportò l'attenzione al cancello. Mentre il sole sorgeva, gli alberi parvero crescere, mettersi a fuoco, farsi ancora più verdi, attraversare fasi di luce e d'ombra. La luce che si insinuava intorno alla passerella era bianca, come quella di un incendio. Nel contempo il cancello entrò nell'ombra e per contrasto sembrò incombere più scuro.
Ad Arkady venne in mente quel che Albov gli aveva detto sulla restituzione del prestito. «La rivedrò a Monaco?» «Alcuni dei miei migliori amici stanno a Monaco» rispose Albov. Parte seconda MONACO 13 agosto - 18 agosto 1991 15 Federov, l'aiuto console che andò a prelevare Arkady all'aeroporto, segnalava i punti caratteristici della città come se Monaco l'avesse costruita di persona. Sembrava che fosse lui a far scorrere l'Isar, che avesse dorato lui l'Angelo della Pace e stabilito lui l'equilibrio delle cupole della Frauen Kirche. «Qui il consolato è nuovo, ma prima ero a Bonn per cui l'ambiente non mi è nuovo» disse. Lo era per Arkady. Il mondo pareva roteargli intorno, pieno di traffico e di segnali incomprensibili. Le strade erano talmente pulite da sembrare di plastica. I ciclisti, in calzoncini corti e perfettamente abbronzati, le percorrevano senza finire sotto le ruote degli autobus di passaggio. Le finestre erano di vetro non di sporco incrostato. Non si vedevano code. Le donne in minigonna non andavano in giro con sporte di corda ma borse dai colori vivaci con i nomi dei negozi stampati; decise e determinate, gambe e borse si muovevano a un ritmo preciso e coordinato. «Tutto qui quello che si è portato dietro?» Federov diede un'occhiata alla borsa di Arkady. «Quando tornerà avrà due valigie piene. Quanto rimane?» «Non lo so.» «Il visto è valido solo due settimane.» Scrutò il volto del passeggero in cerca di qualche riscontro, ma Arkady stava guardando i muri delle case, di un giallo bavarese liscio come il burro, con i balconi senza aloni di umidità, gli stucchi senza crepe, le porte senza graffiti né segni di maltrattamento. Nelle vetrine di una pasticceria alcuni porcellini di marzapane danzavano intorno a torte di cioccolato. Federov alternava l'atteggiamento circospetto del giovanotto mandato a prendere in consegna merci sospette, con manifestazioni di pura curiosità.
«Generalmente per le persone come lei è previsto un comitato di accoglienza e un programma ufficiale. Vorrei avvertirla che nel suo caso non è stato organizzato nulla.» «Ottimo.» I pedoni attendevano ordinati davanti ai semafori, indipendentemente dal traffico. Al verde, le auto balzavano in avanti; era come essere in un alveare di Bmw. La strada si allargò in un viale di palazzi di pietra con scale protette da cancelli di ferro e da leoni di marmo. Le insegne annunciavano gallerie d'arte e banche arabe. Entrarono in una piazza delimitata da una fila di stendardi medioevali con le insegne delle grandi aziende. Arkady vide un uomo che, malgrado il caldo, andava in giro in lederhosen e calzettoni. «Non riesco proprio a capire come abbia fatto a ottenere il visto in così poco tempo» disse Federov. «Amicizie.» Federov gli lanciò un'altra occhiata: Arkady non aveva l'aria di uno provvisto di amicizie. «Bene, comunque ci sia riuscito, è atterrato nella panna montata» disse. Il consolato era un edificio di otto piani in Seydlstrasse. La sala d'attesa pannellata di legno era arredata con sedie di acciaio cromato e pelle nera. Dietro un vetro a prova di proiettile c'era il banco della reception, dotato di tre monitor. Federov posò il passaporto di Arkady sul banco e lo spinse sotto il vetro verso la receptionist, che pareva russa fino alla punta delle unghie, lunghe e lucide come madreperla. Quando la donna fece per sottoporgli un registro, Federov la bloccò: «Non deve firmare». Precedette Arkady sull'ascensore, che li portò al terzo piano; lo accompagnò lungo un corridoio di minuscoli uffici, superando una sala conferenze con scatoloni e sedie ancora avvolti nella plastica. Finalmente lo fece passare oltre una porta metallica la cui targa recitava, in tedesco: AFFARI CULTURALI. All'interno lo attendeva un uomo dai capelli grigi e dall'espressione severa. C'erano solo due sedie nella stanza: con un cenno Arkady venne invitato ad accomodarsi. «Sono il viceconsole Platonov. So chi è lei» disse ad Arkady. Non fece nemmeno il tentativo di stringergli la mano. «È tutto» disse a Federov, che svanì tanto in fretta da sembrare fumo. Platonov stava leggermente piegato in avanti nella posizione tipica degli scacchisti. Sembrava alle prese con un problema, qualcosa di scocciante ma non troppo grave, qualcosa di risolvibile in un paio di giorni. Arkady dubitava che quello fosse il suo ufficio. Le pareti puzzavano ancora di ver-
nice fresca. Alla parete vicina era appoggiata una foto di Mosca al tramonto presa con il grandangolo. Su quella opposta erano appesi dei poster: ballerine del Bolshoi e del Kirov, tesori della sala d'armi del Cremlino, un battello sul Volga. Gli unici altri pezzi di arredamento erano un tavolo pieghevole, un telefono e un portacenere. «Che cosa ne pensa di Monaco?» chiese Platonov. «È bella. Molto ricca» rispose Arkady. «Dopo la guerra era tutte macerie, peggio di Mosca. Questo spiega molto sul conto dei tedeschi. Lei sa il tedesco?» «Un po'.» «Allora lo parla.» Platonov pareva convinto di aver ottenuto una confessione. «Quando ero nell'esercito sono stato due anni a Berlino. Tenevo sotto sorveglianza gli americani, ma un po' di tedesco l'ho imparato.» «Tedesco e inglese.» «Non bene.» Platonov era sulla sessantina, stimò Arkady. Diplomatico fin dai tempi di Breznev? Ci voleva un uomo di gomma e d'acciaio. «Non bene?» Platonov incrociò le braccia. «Lei sa quanti anni ci sono voluti per aprire un consolato sovietico qui? Questa è la capitale industriale della Germania. Questi sono gli investitori che noi dobbiamo rassicurare. Non abbiamo neanche finito di fare il trasloco e ci arriva un investigatore da Mosca. Indaga su qualcuno del consolato?» «No.» «Lo immaginavo. Di solito ci ordinano di tornare a Mosca prima di darci le brutte notizie» disse Platonov. «Ho chiesto se lei in realtà era del Kgb, ma quelli non vogliono neanche vederla. D'altra parte, non intendono fermarla.» «È gentile da parte loro.» «No: è sospetto. L'ultima cosa che chiunque desidera è un investigatore che nessuno controlla.» «Sono d'accordo, per esperienza» fu costretto ad ammettere Arkady. «A parte il nostro personale, non ci sono molti sovietici a Monaco. Direttori di fabbrica e banchieri che fanno corsi di addestramento, una troupe di danza dalla Georgia. A lei chi interessa?» «Non posso dirlo.» Arkady supponeva che ai funzionari del Ministero degli Esteri venisse insegnata un'ampia gamma di espressioni d'incoraggiamento e di sorrisi,
quei piccoli gesti destinati a suggerire che erano ancora esseri umani. Platonov sembrava tuttavia accontentarsi di uno sguardo diretto e ostile. Senza distogliere gli occhi da Arkady, aprì una scatoletta e ne prese una sigaretta. «Tanto perché sia chiaro a tutti e due, non mi importa chi lei sta cercando. Non importa se a Mosca c'è una famiglia massacrata che galleggia nel proprio sangue. Nessun assassino è importante quanto il successo di questo consolato. I tedeschi non daranno centinaia di milioni di marchi a degli assassini. Dobbiamo far dimenticare cinquant'anni di pessimi rapporti. Vogliamo relazioni tranquille e normali che ci facciano ottenere prestiti e stringere accordi commerciali, grazie ai quali salveremo tutte le famiglie di Mosca. L'ultima cosa che vogliamo sono dei russi che si danno la caccia per le strade di Monaco.» «Questo lo capisco.» Arkady cercò di mostrarsi disponibile. «Lei qui non ha nessuna autorità. Se contatta la polizia tedesca, quella ci avverte immediatamente e noi diremo che lei si trova qui come semplice turista.» «Ho sempre desiderato visitare la Baviera, il paese della birra.» «Il suo passaporto lo teniamo noi. Ciò vuol dire che lei non può viaggiare né registrarsi in un albergo. Le abbiamo trovato una sistemazione in una pensione. Nel frattempo io farò tutto il possibile per farla richiamare a Mosca... già da domani, se possibile. Il mio suggerimento è quello di lasciar perdere qualsiasi indagine. Vada a vedere i musei, si compri qualche regalo, si beva la sua birra. Se la spassi.» La pensione si trovava sopra a un'agenzia di viaggi turca, a mezzo isolato dalla stazione ferroviaria. La sistemazione erano due stanze con letto, materasso spoglio, cassettoni, sedie, due tavoli e un armadio che si apriva su una cucina in miniatura. Toilette e doccia erano in fondo al corridoio. «I turchi sono al terzo piano» Federov indicò il pavimento. «Gli Jugoslavi sono al primo. Lavorano tutti alla Bmw. Potrebbe andarci anche lei.» Le luci funzionavano. Quando Arkady aprì lo sportello del frigorifero, la luce interna si accese e non rivelò negli angoli le solite uova di scarafaggio. Persino l'armadio era illuminato; e i muri, aveva notato all'ingresso dell'edificio, odoravano di disinfettante invece che di piscio. «Dunque, ecco il suo paradiso. Non è grandioso come si aspettava, vero?» chiese Federov. «Si vede che è passato un po' di tempo dall'ultima volta che è stato a
Mosca» rispose Arkady. Aprì la finestra sul retro. La camera si affacciava sui binari dello scalo ferroviario, nastri d'acciaio che luccicavano nel sole. Stranamente si sentiva disorientato, come se si trovasse in un altro fuso orario dall'altra parte del mondo, mentre aveva fatto solo quattro ore di volo. Federov indugiò sulla soglia. «Mi rendo conto che il nome Renko è il meno appropriato per fare il turista in Germania. Voglio dire: ho sentito parlare di suo padre. In patria sarà stato un eroe, ma qui è considerato un macellaio.» «No, era un macellaio anche in patria.» «Voglio solo dire che con un nome come il suo forse sarebbe più saggio starsene qui e non uscire affatto.» «La chiave?» Arkady allungò una mano quando Federov fece per andarsene. Scrollando le spalle, Federov gliela consegnò. «Non me ne preoccuperei, investigatore. Una cosa di cui i russi non si devono preoccupare quando sono in Germania è di venire derubati.» Una volta solo Arkady sedette sul davanzale della finestra e accese una sigaretta. Era un'abitudine russa quella di sedersi prima di cominciare un viaggio, per cui perché non farlo all'arrivo? Per prendere formale possesso di una stanza spoglia, senza serratura. Specialmente con una puzzolente sigaretta russa. In lontananza sui binari vide un treno affusolato puntare verso la stazione. Sulla locomotiva il macchinista indossava il berretto grigio di un generale. Ricordò il treno che aveva visto alla stazione di Kazan, l'uomo della locomotiva a torso nudo e il modo in cui la donna in sua compagnia gli teneva posato l'avambraccio sulla spalla. Si chiese dove fossero in quel momento. Trainavano carri merci intorno a Mosca? Filavano nella steppa? Tornò al letto e aprì la borsa. Dalle tasche dei calzoni spiegazzati estrasse i tre numeri telefonici scritti a mano da Penyagin, quello del fax di Rudy e l'istantanea di Rita Benz. Da una giacca arrotolata tirò fuori la videocassetta. Due grucce e un cassetto bastavano per gli abiti che si era portato. Infilò i numeri, il fax e la foto nella custodia della cassetta video. Erano il suo tesoro e il suo scudo. Poi contò i soldi che aveva scucito a Rodionov. Cento marchi. Quanto sarebbero durati a un normale turista? Un giorno? Una settimana? Sopravvivere più a lungo avrebbe richiesto parsimonia e paranoia. Con la cassetta al sicuro sotto la camicia, Arkady uscì e attraversò di
corsa un viale verso la stazione ferroviaria, che dall'esterno aveva le dimensioni gigantesche di un museo. La luce filtrava dai vetri smerigliati e dalle reti contro i piccioni dell'interno. Niente bande di kazani in giubbotto nero, nessun Dream Bar. Invece, librerie, ristoranti, negozi di liquori, un cinema a luci rosse. Al chiosco vendevano guide con traduzioni in francese, inglese, italiano, nessuna in russo. Presa la versione inglese, Arkady tornò in strada e seguì la folla che usciva dall'ingresso principale. Il profumo di caffè e di cioccolata lo fece quasi cadere sulle ginocchia; ma era talmente disabituato ai ristoranti o addirittura a mangiare che continuò a camminare nella speranza di incontrare un carrettino di gelati. Si concentrò non sulle vetrine, ma sui riflessi nei vetri. Per due volte entrò in un negozio uscendo immediatamente per controllare se qualcuno lo aspettava. Un turista vede i monumenti. Arkady possedeva invece quella visione concentrata che esclude le folle, le fontane e le statue per fissarsi su un volto particolarmente significativo, su un certo modo di camminare, su un'abitudine come quella di portare la fede sulla destra. Le voci tedesche intorno a lui ricordavano il rumore della risacca. Fu come se si fosse appena risvegliato ritrovandosi in una grande piazza racchiusa da bei palazzi di mattoni, con cornicioni merlati sotto cupole di mattonelle rosse. Su un lato sorgeva il Municipio in pietra grigia di stile gotico. Centinaia di persone passeggiavano, si rilassavano davanti a boccali di birra, fissavano il carillon del Municipio con i suoi ballerini e musicisti meccanici a grandezza naturale. Arkady si guardò intorno. Gli uomini d'affari indossavano completi e camicie di seta, le donne abiti eleganti, non un nero luttuoso. I ragazzi portavano la T-shirt e lo zaino delle vacanze estive. Il volume delle loro voci salì. Una libreria all'angolo ostentava tre piani di libri. Da un altro negozio usciva l'aroma dolce del tabacco. A momenti, giungeva il profumo di lievito della birra. Da una colonna di marmo, una madonna dorata guardava verso il basso. Comprò un cono gelato comunicando a gesti per evitare di mettere alla prova il suo tedesco. Il gelato era talmente dolce che sapeva di glassa. Spese quattro marchi di sigarette. Eppure si sentiva di essere entrato in rapporto con Monaco. Scese di corsa nella stazione della metropolitana, prese il biglietto e saltò sul primo treno che andava nella direzione da dove era venuto. Aggrappati ai sostegni c'erano due turchi, entrambi con lo sguardo perso nel vuoto. Sul sedile davanti a lui una donna teneva sulle ginocchia, come
un neonato, un prosciutto che dondolava avanti e indietro. Quante probabilità c'erano che qualcuno lo seguisse? Non tante, considerando quant'è difficile seguire qualcuno in una città. Secondo la tecnica sovietica, per sorvegliare un bersaglio mobile attento erano necessari da cinque a dieci veicoli e da trenta a cento persone. Arkady non lo sapeva per esperienza, perché la sua disponibilità di uomini e di macchine non era mai stata sufficiente neanche a pedinare un uomo in una stanza. Raggiunta la sua fermata, tornò nella sala d'attesa dove era stato un'ora prima. Alcuni dei telefoni pubblici erano a vista, ma al piano di sopra trovò delle cabine chiuse e, su un banco d'acciaio, gli elenchi delle varie città. A Mosca gli elenchi telefonici erano talmente rari che venivano conservati in cassaforte, mentre lì non erano nemmeno fissati con una catena. Gli elenchi lo confusero: i nomi tedeschi, già poco familiari, si assomigliavano tutti, pieni com'erano di consonanti rauche, e la pubblicità occupava più di metà delle pagine. Sotto "Benz", l'unico Boris aveva un indirizzo di Koniginstrasse. Non trovò alcuna società chiamata TransKom. La cabina telefonica aveva la porta di plastica trasparente bombata. Arkady decise che il suo tedesco poteva bastare per parlare con il centralino. Gli parve che l'operatrice dicesse di non trovare nessun numero corrispondente alla TransKom. Poi chiamò Boris Benz. Una donna rispose. «Ja?» «Herr Benz?» disse Arkady. «Nein.» La donna rise. «Herr Benz ist im Hans?» «Nein. Herr Benz ist auf Ferien gereist.» «Ferien?» In vacanza? «Er wird zwei Wochen land nicht in Munchen sein.» Via per due settimane? «Wo ist Herr Benz?» chiese Arkady. «Spanien.» «Spanien?» Due settimane in Spagna? Le notizie non facevano che peggiorare. «Spanien, Portugal, Marokko.» «Nein Russland?» «Nein, er macht Ferien in der Sonne.» «Kann ich sprechen mit TransKom?» «TransKom?» Non sembrava conoscere questo nome. «Ich kenne Tran-
sKom nicht.» «Sie ist Frau Benz?» «Nein, die Reinmachefrau.» La donna delle pulizie. «Danke.» «Wiedersehen.» Riappendendo, Arkady pensò che quella appena avuta fosse la conversazione più elementare cui si poteva arrivare senza ricorrere a disegni. Dunque aveva parlato con una cameriera, diceva che Boris Benz sarebbe stato in vacanza per le due settimane successive e che non aveva mai sentito parlare della TransKom. L'unica informazione concreta era che Benz era andato a sud, al sole del Mediterraneo. A quanto si diceva, i tedeschi lo facevano spesso. Al suo rientro a Monaco, Arkady probabilmente sarebbe già stato di ritorno a Mosca. Estrasse il fax di Rudy dalla cassetta, e formò il numero stampato sul bordo del foglio. «Pronto» rispose una donna in russo. «Telefono a proposito di Rudy» disse Arkady. Ci fu una pausa. «Rudy chi?» «Rosen.» «Non conosco nessun Rudy Rosen.» La voce aveva un tono leggermente impastato, come se la donna stesse parlando con la sigaretta in bocca. «Ha detto che eravate interessati a Red Square» disse Arkady. «Siamo tutti interessati a Piazza Rossa. E allora?» «Credevo che voleste sapere dov'è.» «Cos'è, uno scherzo?» La donna riappese. In realtà aveva fatto ciò che qualsiasi persona normale avrebbe fatto, data la stupidità dell'indovinello. Allo stesso piano trovò, per due marchi al giorno, una fila di cassette di sicurezza per i bagagli. Fece un altro giro del salone, tornò, infilò le monete nella fessura, posò il video nell'armadietto vuoto e intascò la chiave. Adesso poteva tornare all'appartamento o in strada senza paura di perdere la sua prova, il che sembrava già un gran successo, considerato lo stato di confusione in cui si trovava. Ma forse era un ben misero successo, considerato quanto poco tempo aveva: un giorno, a sentire Platonov. Tornò al banco degli elenchi telefonici, aprì quello di Monaco, lo sfogliò fino alla "R" e a "Radio Liberty - Radio Free Europe". Quando compose il numero, la centralinista rispose semplicemente: «RL- REE». Arkady chiese in russo di parlare con Irina Asanova e attese quella che gli parve un'eternità.
«Pronto?» Pensava di essere preparato, ma sentirla lo scioccò talmente che non riuscì a parlare. «Pronto. Con chi parlo?» «Arkady.» Lui aveva subito riconosciuto la sua voce, ma aveva ascoltato le sue trasmissioni. Non c'era motivo per cui lei ricordasse la sua. «Arkady chi?» «Arkady Renko. Da Mosca» aggiunse. «Mi stai telefonando da Mosca?» «No, sono qui a Monaco.» Ci fu un silenzio tale che Arkady pensò che fosse caduta la linea. «Incredibile» disse finalmente Irina. «Possiamo incontrarci?» «Ho sentito dire che ti hanno riabilitato. Fai ancora l'investigatore?» Pareva che la sorpresa stesse rapidamente trasformandosi in irritazione. «Sì.» «Come mai sei qui?» «Un'indagine.» «Congratulazioni. Se ti lasciano viaggiare devono avere un sacco di fiducia in te.» «Ti ascoltavo da Mosca.» «Allora saprai che ho una trasmissione tra due ore.» Vi fu un rumore di carte in sottofondo, a sottolineare quanto avesse da fare. «Mi piacerebbe vederti» disse Arkady. «Magari la settimana prossima. Dammi un colpo di telefono.» «Voglio dire presto. Non rimarrò qui per molto tempo.» «È un brutto momento.» «Oggi» disse Arkady. «Ti prego.» «Mi spiace.» «Irina.» «Dieci minuti» disse lei, chiarendo che Arkady era l'ultimo uomo al mondo che desiderava vedere. 16 Giunti in un parco, il conducente del taxi indicò ad Arkady un sentiero che portava a lunghe tavolate, alberi di noce e un padiglione di legno alto
cinque piani a forma di pagoda. Irina gli aveva detto di chiedere della Torre Cinese. All'ombra degli alberi i clienti del ristorante reggevano giganteschi boccali di birra e piatti di carta che si piegavano sotto il peso di polli arrosto, costolette, insalata di patate. Perfino l'odore degli avanzi portato dalla brezza era buono. Il sovrapporsi della conversazione e il ritmo sostenuto del consumo possedevano un imprevisto, sensuale languore. Per Arkady, Monaco era tuttora una città irreale. Ebbe l'improvviso timore non di camminare in un sogno, ma di essere l'incubo di qualcuno in visita nel mondo reale. Aveva temuto di non riconoscere Irina, ma non ci si poteva sbagliare. Gli occhi le si erano fatti leggermente più grandi, forse più scuri, ma aveva ancora il potere di accentrare la luce su di sé. I capelli castani erano più rossi, più corti e incorniciavano in modo più rigido il volto. Portava una croce d'oro sopra un pullover nero a maniche corte. Nessun anello. «Sei in ritardo.» Gli strinse la mano. «Volevo farmi la barba» disse lui. Aveva comprato un rasoio e l'aveva usato alla stazione ferroviaria. I tagli al mento testimoniavano la fretta. «Stavamo per andarcene» disse Irina. «È passato molto tempo» disse Arkady. «Stas e io dobbiamo preparare una trasmissione.» Non sembrava né eccitata né nervosa, semplicemente pressata dagli impegni. «Non ancora.» Un uomo magrissimo, con un maglione largo, un paio di calzoni sformati e gli occhi luminosi del tubercolotico arrivò reggendo tre boccali di birra schiumante. Arkady si rese subito conto che era russo. «Sono Stas. Devo chiamarti compagno investigatore?» «Arkady va benissimo.» Lo scheletro in maglione sedette accanto a Irina e posò una mano sullo schienale della sua sedia. «Posso?» Arkady prese la sedia di fronte a loro e disse a Irina: «Hai un'aria magnifica». «Anche tu stai bene» replicò Irina. «Credo che a Mosca nessuno se la spassi» disse Arkady. Stas sollevò un boccale e disse: «Bevi. I topi stanno abbandonando la nave. Tutti vengono qui in visita. E la maggior parte cercano di rimanere. In realtà, quasi tutti cercano di trovar lavoro a Radio Liberty. Ne vediamo tutti i giorni. D'altra parte, chi gli può dar torto?» Osservò una ragazza massiccia intenta a raccogliere i vuoti. «Serviti da valchirie. Che vita».
Arkady bevve per educazione. «Ho sentito che tu...» «Così, Arkady, hai avuto una carriera piuttosto movimentata» lo interruppe Stas. «Membro della gioventù dorata di Mosca, membro del Partito comunista, stella nascente della Procura, eroe che ha salvato la nostra cara Irina, anni di esilio in Siberia a espiare quest'unico atto di decenza e ora non solo cocco del procuratore ma anche suo ambasciatore a Monaco, capace di rintracciare Irina, l'amore perduto. Questo sì che è un romanzo.» Irina scoppiò a ridere. «Sta solo scherzando.» «Capisco» disse Arkady. Era strano; durante gli interrogatori si era ritrovato denudato, insultato e percosso, eppure non si era mai sentito così imbarazzato come a questo tavolo. Oltre a essere mal rasato, il suo stupido volto era probabilmente rosso come una barbabietola, pensò, visto che le prove parevano indicare la sua follia. Una follia che si portava dentro da anni, immaginando di poter ancora trovare una possibilità di contatto con quella donna, che evidentemente non aveva i suoi stessi ricordi. In che misura era stato un puro prodotto della sua immaginazione... il tempo passato nascosti nel suo appartamento, le sparatorie, New York? Durante l'isolamento psichiatrico, iniettandogli sulfazina nella spina dorsale, i medici gli avevano dato del pazzo; ora, davanti a un boccale di birra, scopriva che avevano ragione. Alla ricerca di una risposta guardò Irina, che pareva ostentare la serenità di una statua. «Non prenderla come una cosa personale. Stas è fatto così.» Senza chiedere il permesso, si accese una delle sigarette di Stas. «Arkady, spero che tu ti diverta un po' a Monaco. Mi spiace ma io non ho tempo di fare nulla con te.» «È proprio un peccato.» Arkady brindò alla sua dichiarazione. «Ma tu avrai degli amici al Consolato, sarai impegnato nella tua indagine. Ti sei sempre impegnato nel lavoro» disse Irina. «Sono sempre andato matto per il lavoro» ammise Arkady. «Dev'essere una grossa responsabilità rappresentare Mosca. Il procuratore ci mostra il suo volto umano.» «Gentile da parte tua.» Era lui il "volto umano"? Questo pensava Irina? «Mi viene in mente» disse Stas «che dobbiamo rivedere il tasso di delinquenza di Mosca.» «Un servizio sul deterioramento della situazione?» chiese Arkady. «Esattamente.» «Lavorate insieme?» domandò Arkady.
«Stas scrive i giornali radio» rispose Irina. «Io mi limito a leggerli.» «In tono suadente» precisò Stas. «Irina è la regina dei rifugiati politici russi. Ha spezzato cuori da New York a Monaco, e in tutti i posti in cui si è fermata tra le due città.» «Davvero?» chiese Arkady. «Stas è un provocatore.» «Forse è questo che fa di lui uno scrittore.» «No» rispose Irina. «No, questo è quello che gli ha fatto prendere le botte alle dimostrazioni sulla Piazza Rossa. Si è consegnato agli americani in Finlandia, cosa per la quale il procuratore generale per cui tu lavori l'ha dichiarato colpevole di reato contro lo Stato e l'ha condannato a morte. Divertente, vero? Un investigatore di Mosca può venir qui ma se Stas andasse a Mosca scomparirebbe. E lo stesso succederebbe a me.» «Anch'io mi sento più sicuro qui» ammise Arkady. «Che cos'è questa tua indagine? Che stai cercando?» chiese Stas. «Non lo posso dire» rispose Arkady. «Stas ha paura che sia io la tua indagine» disse Irina. «Ultimamente abbiamo visto un sacco di visitatori qui a Monaco. Familiari, amici di prima che ce ne andassimo.» «Andassimo?» chiese Arkady. «Prima che fuggissimo» si corresse Irina. «Vecchie nonne e antichi amori che non fanno che dirci che tutto va bene e che possiamo tornare di nuovo a casa.» «Non c'è niente che va bene» disse Arkady. «Non tornate.» «Può darsi che a Radio Liberty abbiamo idee più chiare di te su quel che succede in Russia» osservò Stas. «Lo spero» rispose Arkady. «Chi sta davanti a una casa in fiamme di solito vede le cose meglio di chi si trova dentro.» «Non preoccuparti» disse Irina. «Ho già detto a Stas che non ha importanza quello che dici.» Il sospiro di un bassotuba segnò l'inizio di un valzer. Al primo piano del padiglione erano apparsi dei musicisti in lederhosen. A parte ciò, Arkady vedeva ben poco oltre a Irina. Le donne agli altri tavoli andavano avanti a birra, snelle, brune, bionde platino, in gonna e in calzoni, tutte con un'aria sicura e tedesca. Con i suoi occhi slavi e il suo autocontrollo Irina era unica, un'icona a un picnic, un'icona familiare. Arkady avrebbe potuto tracciare al buio la linea dalle ciglia alla curva della guancia, fino all'angolo delle morbide labbra; ma lei era cambiata, e a questo cambiamento Stas aveva
dato un nome. A Mosca era stata come una fiamma nel vento, una donna così disperatamente schietta da risultare un pericolo per chiunque le stesse vicino. Irina donna adulta era diventata più fredda e più controllata. La regina dei rifugiati politici russi stava solo aspettando che Stas finisse la birra per potersene andare. «Ti piace Monaco?» le chiese Arkady. «A confronto con Mosca, anche rotolarsi nei vetri rotti sarebbe bello. A confronto con New York o Parigi? Piacevole, ma un po' tranquilla.» «Sembrerebbe che tu sia stata dappertutto.» «E a te, piace Monaco?» chiese lei. «A confronto con Mosca? A confronto con Mosca, rotolarsi nei marchi tedeschi è piacevole. A confronto con Irkutsk o Vladivostok è più calda.» Stas posò il boccale vuoto. Arkady non aveva mai visto nessuno così magro bere birra così in fretta. Di colpo Irina si alzò, decisa, pronta a tornare di corsa alla vita vera. «Vorrei rivederti» disse Arkady suo malgrado. Irina lo studiò. «No, quel che tu vuoi è che io dica: mi dispiace che tu sia finito in Siberia, mi dispiace che tu abbia sofferto per me. Arkady, mi dispiace davvero. Ecco, l'ho detto. Non credo di aver nient'altro da dire.» E con questo se ne andò. Stas indugiò un attimo. «Spero che tu sia un figlio di puttana. Non mi va proprio di vedere un fulmine colpire la persona sbagliata.» Alta com'era, Irina sembrava veleggiare tra i tavoli, i capelli la seguivano come uno stendardo. «Dove ti hanno sistemato?» chiese Stas. «Di fronte alla stazione ferroviaria.» Arkady disse l'indirizzo. «Una specie di topaia» disse Stas, sorpreso. Irina scomparve fra un gruppo di clienti in arrivo dall'altro lato della torre. «Grazie per la birra» disse Arkady. «È stato un piacere.» Stas rincorse Irina facendosi strada tra i tavoli e zoppicando in un modo che sembrava più un atteggiamento voluto che un handicap. Arkady rimase seduto: non credeva di riuscire a camminare. Aveva la sensazione di aver fatto un sacco di strada per finire sotto un camion. Le tavolate continuavano a riempirsi e lui desiderava che la birreria all'aperto si chiudesse sopra di lui. In quel luogo, la birra aveva un effetto sedativo che portava a una conversazione ragionevole. Le coppie giovani e
vecchie si godevano boccali di civiltà. Uomini dalle sopracciglia feroci si concentravano sulla scacchiera. La torre con la banda di ottoni era cinese come un orologio a cucù. Non importava; era entrato in un villaggio dove non era conosciuto, dove non era né ben accetto né respinto. Invisibile, ecco la parola giusta. Sorseggiò l'ottima birra. Ciò che era davvero terribile, davvero spaventoso, era il desiderio di rivedere Irina. Si rese conto che per quanto umiliante fosse stata l'esperienza, ne avrebbe accettata anche una peggiore, pur di essere di nuovo con lei; cosa che rivelava una capacità di masochismo a lui ancora sconosciuto. L'incontro era stato talmente grottesco da risultare comico. Questa donna, questo ricordo che aveva portato nel cuore come un ventricolo in più e che aveva trovato dopo così tanto tempo, sembrava a malapena ricordare il suo nome. Ecco, c'era una sproporzione nelle emozioni che era, per usare un aggettivo di Irina, divertente. Oppure era una prova di follia. Se lui sbagliava sul conto di Irina, forse sbagliava anche sulla storia che pensava di aver condiviso. Inconsciamente si sfiorò lo stomaco e sentì il solco della cicatrice attraverso la camicia. D'altra parte, cosa provava? Magari si era punto con un ombrello mentre andava a scuola, oppure era stato colpito da una statua di Lenin che precipitava. In metà delle statue che gli erano state dedicate Lenin indicava il futuro. Un gesto pericoloso, lo sapevano tutti. «Cosa c'è da ridere?» «Pardon?» Arkady si riscosse dal suo sogno a occhi aperti. «Cosa c'è da ridere?» Il posto all'altro lato del tavolo era stato preso da un uomo corpulento, viso florido e camicia immacolata. Sul capo, calvo come un ginocchio, stava in equilibrio un cappellino di lana. In una mano aveva una birra e con l'altra proteggeva un pollo arrosto. Arkady notò che al tavolo la gente sedeva gomito a gomito e trangugiava biscotti, salatini, birre dorate. «Si sta divertendo?» chiese l'uomo del pollo. Arkady scrollò le spalle per non rivelare l'accento russo. Gli occhi dell'altro fissarono la giacca, chiaramente sovietica. «Le piacciono la birra, il cibo, la vita?» disse. «È bello. Abbiamo sgobbato quarant'anni per averli.» Il resto del tavolo non prestò loro attenzione. Arkady si rese conto di non aver mangiato nulla eccetto un gelato. La tavola era talmente sommersa di cibo che quasi non ne sentiva più il bisogno. La banda scivolò da Strauss a Louis Armstrong. Arkady terminò la birra. Anche a Mosca si trovavano delle birrerie, ma non essendoci né boccali né bicchieri i clienti con-
sumavano le loro ordinazioni nei cartoni del latte. Come avrebbe detto Jaak "L'Homo Sovieticus vince ancora". Non che tutti fossero d'accordo. Quando Arkady aprì la mappa della città, l'uomo di fronte annuì. I suoi sospetti erano confermati. «Un altro tedesco dell'est. È un'invasione.» Battendo in ritirata, Arkady si diresse verso i palazzi più vicini al di là degli alberi, che si rivelarono essere gli uffici della IBM e la torre di uno Hilton. L'atrio dell'albergo avrebbe potuto benissimo essere una tenda araba. Tutte le poltrone e tutti i divani erano occupati da uomini in candide, fluenti keffiyeh e jellaba. Molti erano anziani, con bastoni, stampelle e rosari; Arkady immaginò che fossero venuti a Monaco per cure mediche. Ragazzi di carnagione scura in calzoni e camicie all'occidentale giocavano a rincorrersi. Madri e sorelle vestivano alla moda araba; le donne sposate indossavano mascherine di plastica decorate a mostrare solo il mento e le sopracciglia e lasciavano nell'aria pesanti scie di profumo. Nel viale d'accesso dell'albergo, un giovane arabo ne stava fotografando un altro accanto a una Porsche rossa nuova fiammante. Quando il ragazzo in posa sedette sul parafango, l'allarme, una sirena lacerante e luci lampeggianti, entrò in funzione. Mentre i ragazzi si rincorrevano intorno alla macchina battendo sul cofano, un portiere e un facchino li osservavano senza espressione. Arkady ritrovò la via da dove era venuto in taxi, seguendo il lato orientale del parco verso i musei di Prinzregentenstrasse. Le auto filavano via sotto i lampioni. Il cielo era già più buio che a Mosca e la facciata classica della Haus der Kunst sembrava quasi bidimensionale. Ad Arkady venne in mente che il lato occidentale del parco era chiuso da Koniginstrasse, dove viveva Boris Benz. Le case, magnifiche, erano all'altezza di una "Via della regina": grandi costruzioni in pietra in fondo a giardini di rose profumate e cancelli con cartelli che ammonivano: VORSICHT! BISSIGER HUND! L'indirizzo di Benz era tra due case enormi, costruite in un civettuolo Jugendstil, la risposta tedesca all'Art Nouveau. Sembravano un paio di matrone che guardavano dall'alto un pubblico adorante. In mezzo, schiacciato dalla loro mole, c'era un garage, ristrutturato e trasformato in poliambulatorio. Il pulsante del secondo piano era quello di Benz. Le luci erano spente. Arkady premette il pulsante. Nessuna risposta. Ai due lati della porta c'era un pannello di vetro piombato per vedere i
visitatori. All'interno, su un tavolino a parete, giacevano un vaso di spighe secche e tre mucchietti di posta ben ordinati. Arkady premette il pulsante dell'ufficio del primo piano ma non ebbe risposta. A quello del pianterreno rispose una voce. Arkady disse: «Das ist Herr Benz. Ich habe den Schlussel verloren.» Sperò di aver detto di aver perduto le chiavi. Con uno scatto musicale la porta si aprì. Arkady esaminò rapidamente la posta dei medici: riviste di medicina, pubblicità di officine auto e di saloni di abbronzatura. L'unica lettera destinata a Benz era stata spedita dalla Bayern-Franconia Bank. Un certo Schiller aveva scritto a mano il proprio nome come mittente. Chiunque l'avesse lasciato entrare non si era fidato del tutto. La porta del pianterreno si aprì e un volto severo in cuffietta da infermiera guardò fuori e chiese: «Wohnen Sie hier?» Gli occhi osservavano la posta. «Nein, danken.» Si diresse verso la porta, ancora sorpreso che la donna l'avesse lasciato arrivare fin lì. Arkady non era molto al corrente delle abitudini occidentali, ma gli parve strano che una donna delle pulizie dicesse al primo sconosciuto per quanto tempo il padrone sarebbe stato assente. Oppure che mostrasse tanta pazienza verso il suo tedesco primitivo. Come mai faceva le pulizie, se Benz non c'era? Si chiese anche a cosa potesse servire la lettera. A Mosca chi depositava soldi in banca si metteva in coda con il libretto. In occidente le banche spedivano per posta gli estratti conto, ma c'era sempre qualcuno che li firmava personalmente? Fece un paio di centinaia di metri sulla Koniginstrasse, l'attraversò in direzione del parco, tornò indietro lungo un vialetto che correva sotto gli aceri e le querce e sedette su una panchina da cui si vedeva la casa di Benz. Era l'ora in cui gli abitanti di Monaco portano a passeggio il cane. Preferivano cani piccoli: carlini e bassotti non molto più grossi delle loro birre. A quella parata seguì il passeggio di coppie anziane e benvestite, alcune con identici bastoni da passeggio. Arkady non si sarebbe stupito nel vedere alle loro spalle un corteo di carrozze. All'ingresso della casa era un continuo entrare e uscire di persone. I dottori si allontanarono in lunghe automobili di colore scuro. Finalmente, l'infermiera dall'aspetto severo sbucò dalla porta, lanciò alla strada uno sguardo di commiato e si incamminò nella direzione opposta. A un certo punto, Arkady si rese conto che la luce dei lampioni si era fatta più intensa, il vialetto più buio, la notte nera. Erano le undici. Tutto
ciò di cui era sicuro era che Herr Benz non era rientrato. Tornò alla pensione verso l'una di notte. Non riuscì a capire se in sua assenza le stanze erano state perquisite: sembravano spoglie come prima. Si ricordò che avrebbe dovuto comprare del cibo. Erano così tante le cose che dimenticava di fare. Si trovava nel lusso e pareva quasi che volesse morire di fame. Sedette alla finestra con l'ultima sigaretta. La stazione era immobile. I binari erano illuminati da luci rosse e verdi, ma non c'erano treni in movimento. All'angolo della stazione ferroviaria c'era quella degli autobus. Anche questa era chiusa. Gli autobus vuoti si allineavano lungo la strada. Ogni tanto una coppia di luci passava, rincorrendo... rincorrendo cosa? Qual è la cosa che desideriamo di più nella vita? La sensazione che da qualche parte qualcuno ci ricorda e ci ama. Meglio ancora se a nostra volta amiamo questa persona. Si sopporta tutto, finché si crede a questo. E cosa ci potrebbe essere di peggio che scoprire quanto è fatua e sbagliata questa convinzione? Meglio non cercare. 17 Il mattino seguente Arkady ricevette la visita di Federov, che esaminò da cima a fondo le stanze come una cameriera in giro di ispezione. «Il viceconsole mi ha chiesto di controllarla ieri, ma lei non era da queste parti. E neanche ieri sera. Dov'è stato?» «In giro, a passeggiare per la città» rispose Arkady. «Dato che non è stato presentato alla polizia di Monaco, non ha autorità e nessuna idea di come si conducono le indagini qui. Platonov teme che lei si possa mettere nei guai creando grane a tutti.» Guardò il letto. «Niente coperte?» «Me ne sono dimenticato.» «Non me ne preoccuperei, in realtà, fossi al suo posto. Non ci starà molto, qui.» Federov spalancò l'armadio e aprì tutti i cassetti: «Ancora niente valigie? Vuol portarselo dietro in tasca, tutto quello che compra?». «Per il momento non ho ancora comprato nulla.» Federov tornò in cucina ed aprì il frigorifero. «Vuoto. Sa, lei è proprio il tipico sovietico tapino. Ha talmente perso l'abitudine al cibo che non riesce neanche a comprarlo quando ne è circondato. Si rilassi, è tutto vero. Questa è Cioccolatandia.» Lanciò un sorriso ad Arkady. «Ha paura che la prendano per russo? È vero, nutrono un tale disprezzo per noi che stanno dando
un milione di marchi purché l'Armata se ne vada dalla Ddr. Ci costruiscono delle caserme in Russia, basta che ce ne andiamo. Un ulteriore motivo per comprare, finché può.» Chiuse la porta del frigorifero e rabbrividì come se avesse appena guardato in una tomba. «Renko, lei potrebbe essere costretto a partire da un minuto all'altro. Dovrebbe considerarla una vacanza.» «La vacanza di un lebbroso?» «Qualcosa di simile.» Federov diede un colpettino al pacchetto e accese una sigaretta. Arkady non aveva una particolare voglia di fumare al mattino. Ma una cosa poteva dire dei russi in patria, anche di quelli che conducevano gli interrogatori: offrivano sempre una sigaretta. «Deve essere una seccatura per lei, dover controllare che cosa mangio per colazione.» «Questa mattina devo portare all'aeroporto il Coro femminile della Bielorussia, dare il benvenuto a una delegazione di artisti dell'Ucraina e sistemarli, presenziare a una colazione con rappresentanti della Mosfilm e dei Bavarian Film Studios e poi sovrintendere a un ricevimento del Gruppo di danze folkloristiche di Minsk.» «Mi scuso per le complicazioni che posso aver provocato.» Offrì la mano. «Ti prego, chiamami Arkady.» «Gennady.» Con riluttanza Federov gli strinse la mano. «Basta che tu capisca che sei una gran rottura di palle.» «Vuoi che sia io a tenermi in contatto? Potrei telefonarti più tardi.» «No, per favore. Fai cose normali. Fai delle compere. Prenditi dei souvenir. Torna qui alle cinque.» «Alle cinque.» Federov si diresse verso la porta. «Fatti una birra alla Hofbrauhaus» disse uscendo. «Anche due.» Arkady prese un caffè al bar della stazione. Federov aveva ragione: fuori dalla Russia non sapeva come condurre un'indagine. Non aveva a sua disposizione Jaak e Polina. Senza un'investitura ufficiale non poteva chiedere la collaborazione della polizia locale. Di minuto in minuto si sentiva più straniero che in patria. Il bancone era pieno di mele, arance, banane, fette di salame e nervetti di maiale, tutto in vendita, eppure vide che la sua mano stava per portar via una bustina di zucchero. Si fermò. Era la mano di un tapino sovietico, pensò. Alla fine del bar un uomo quasi identico a lui, con lo stesso pallore e la
stessa giacca malconcia, stava rubando sia lo zucchero che un'arancia. Il ladro gli strizzò l'occhio in tono cospiratorio. Alle due estremità del salone centrale stazionavano un paio di soldati in uniforme grigia con mitra H&K. Si rese conto che si trattava di truppe antiterrorismo; anche a Monaco avevano i loro problemi. Si ritrovò insieme a un gruppo di turchi che dal bar si dirigeva verso la metropolitana. Giunto ai gradini, si voltò e si mescolò alla folla che saliva correndo verso l'uscita. Fuori, si fermò in equilibrio sul bordo del marciapiedi aspettando insieme a tutti i bravi cittadini di Monaco che venisse il verde. All'improvviso, approfittando di un intervallo nel traffico, scattò malgrado il rosso verso un salvagente in mezzo alla strada, poi di nuovo di corsa, e sempre da solo, verso altra gente che lo osservava, stupefatta, allineata lungo il marciapiede opposto. Fece una deviazione attraverso un centro commerciale e si ritrovò nell'isola pedonale dove era stato il giorno prima. Continuò a camminare, cercando un elenco in tutte le cabine telefoniche davanti a cui passava, ma senza successo. Finalmente, nel parcheggio di una via laterale, trovò una cabina gialla con un telefono, una panchina e l'elenco. In piedi davanti alla cabina, una donna minuscola con un cappotto lungo fino ai piedi guardava l'orologio, come se Arkady fosse in ritardo. Il telefono squillò e la donna gli scivolò accanto per prendere possesso della cabina. Un simbolo sulla porta indicava che quello era uno dei pochi telefoni pubblici tedeschi in grado di ricevere le telefonate. La conversazione della donna fu esplosiva ma rapida e terminò con un colpo deciso della cornetta sul gancio. La donna tirò da parte la porta, annunciò «Ist frei» e si allontanò. Il telefono era la sua speranza. A Mosca le cabine pubbliche erano tutte incendiate o guaste. I telefoni, quando squillavano, di solito venivano ignorati. A Monaco, le cabine telefoniche erano pulite come stanze da bagno. Quando il telefono squillava, i tedeschi rispondevano. Arkady cercò la Bayern-Franconia Bank e chiese di parlare a Herr Schiller. Aveva immaginato di venir messo in comunicazione con qualche impiegato, ma un certo tono all'altro capo gli fece capire che la telefonata veniva girata a livelli superiori. «Mit wem spreche ich, bitte?» chiese un'altra centralinista. «Das Sowjetische Konsulat» rispose Arkady. Attese di nuovo. Un lato della strada era occupato da un grande magazzino, le cui vetrine offrivano capi di lana, bottoni di corno, cappelli di fel-
tro, il tipico armamentario bavarese. Sull'altro lato, la gente andava e veniva da un garage. Le auto salivano e scendevano le rampe, Bmw e Mercedes paraurti contro paraurti, api d'acciaio in un gigantesco alveare. Una voce autoritaria nel ricevitore chiese in russo: «Parla Schiller. Posso esserle utile?» «Lo spero. Lei è mai venuto al consolato?» «No, mi dispiace...» Dal tono non sembrava provare un grande rimpianto. «Siamo qui da poco tempo, come lei saprà.» «Sì.» Il tono era asciutto. «C'è una certa confusione qui al consolato» disse Arkady. Nel tono della risposta c'era un misto di prudenza e di divertimento. «E come mai?» «Può darsi che si tratti di un malinteso o di qualcosa che è andato perduto nel corso della traduzione.» «Sì?» «Abbiamo ricevuto la visita di una certa ditta che vuole formare una joint venture nell'Unione Sovietica. La cosa ci fa ovviamente piacere; siamo qui per questo. Ciò che appare particolarmente promettente è il fatto che la ditta sostiene di poter anticipare i capitali in valuta pregiata.» «Marchi tedeschi?» «Una somma piuttosto consistente in marchi. La mia speranza è che lei possa darci delle assicurazioni sulla reale disponibilità di questi fondi.» Un profondo sospiro lasciò intendere lo sforzo con cui si spiegano le questioni finanziarie ai bambini. «La ditta può avere un budget sufficiente, capitali propri, può aver ricevuto un prestito da una banca o da un istituto diversi - le possibilità sono numerose - ma la Bayern-Franconia Bank può fornire le informazioni solo se partecipa all'iniziativa. Il mio consiglio è quello di analizzare le loro credenziali.» «Era appunto a questo che stavo arrivando. Ci hanno indotti a credere, se non abbiamo equivocato, che la loro ditta sia associata alla BayernFranconia e che l'intero importo venga anticipato da voi.» All'altro capo il tono si fece grave. «Qual è il nome della società?» «TransKom Services. Si occupa di servizi personali e tempo libero...» «Questa banca non ha consociate attive nell'Unione Sovietica.» «È quello che temevo» disse Arkady. «Ma è possibile che la banca si sia impegnata a finanziare l'operazione?»
«Purtroppo la Bayern-Franconia non è convinta che attualmente la situazione economica dell'Unione Sovietica sia sufficientemente stabile da giustificare investimenti.» «Strano. La persona con cui ho parlato ha utilizzato in tutta libertà il nome della Bayern-Franconia» insistette Arkady. «E questa è una cosa che suscita preoccupazioni alla Bayern-Franconia. Con chi sto parlando?» «Gennady Federov. Vorremmo sapere, oggi se possibile, se la banca appoggia la TransKom oppure no.» «Posso contattarla al consolato?» Arkady fece una pausa sufficientemente lunga per controllare un'agenda. «Sarò fuori per quasi tutto il giorno. Devo incontrare un coro della Bielorussia all'aeroporto, gli artisti dell'Ucraina, andare a colazione ai Bavarian Film Studios, poi altri danzatori.» «Mi pare piuttosto impegnato.» «Potrebbe telefonarmi alle cinque?» chiese Arkady. «Mi tengo libero per parlare con lei. Il numero migliore a cui raggiungermi è il 555-6020.» Stava leggendo il numero della cabina telefonica. «Qual è il nome del rappresentante della TransKom?» «Boris Benz.» Ci fu una pausa. «Controllerò.» «Il consolato apprezza il suo interessamento.» «Herr Federov, sono interessato solo al buon nome della BayernFranconia. La contatterò alle cinque esatte.» Arkady riappese. Immaginava che il banchiere avrebbe fatto una verifica telefonando immediatamente al numero del consolato e chiedendo di Gennady Federov, che ormai doveva esser all'aeroporto a consegnare i bouquet di fiori. Sperava che il banchiere non si dimostrasse tanto sospettoso da chiedere di parlare con qualcun altro del consolato. Quando uscì dalla cabina, avvertì un cambiamento: un piede che si ritirava dallo spiraglio di una porta, oppure qualcuno in giro per acquisti che si fermava all'improvviso davanti a una vetrina. Valutò l'idea di sgusciare nei grandi magazzini finché non si vide riflesso in una vetrina. Era lui quella pallida apparizione in una giacca striminzita? A Mosca poteva benissimo passare per uno spaventapasseri tra tanti; ma in mezzo a robusti mangiatori di salsicce era spaventosamente unico. Non poteva confondersi tra i consumatori e i turisti di Marienplatz più di quanto non potesse nascondersi uno scheletro indossando un cappello.
Tornò al garage e risalì una rampa sulla quale un cartello giallo e nero diceva: "AUSGANG!" Una Bmw che scendeva rombando fece stridere i pneumatici e oscillò mentre Arkady si schiacciava contro la parete. La testa bovina del conducente si girò e urlò: «Kein Eingang! Kein Eingang!». Al primo piano le auto passavano tra le file dei veicoli parcheggiati e i pilastri di cemento alla ricerca di un posto libero. Arkady contava che ci fosse un'uscita sulla strada opposta ma tutti i cartelli indicavano un ascensore centrale davanti al quale attendeva una fila di tedeschi tanto benvestiti da poter andare in paradiso. Trovò le scale di emergenza per il piano superiore, dove si ripeté una situazione simile: raschio incalzante dei motori a benzina, ticchettio insistente dei diesel, auto che giravano in circolo intorno a una fila davanti all'ascensore. Al piano superiore salivano meno macchine. Arkady vide un certo numero di posti liberi e una porta rossa sul lato più lontano. Era a metà strada quando una Mercedes salì dalla rampa e procedette diritta noncurante degli spazi vuoti. Era un modello superato; la vecchia carrozzeria era crepata come avorio antico e la marmitta scoppiettava. L'auto si fermò al buio sotto una lampada spenta. Arkady avanzò con un mano in tasca, come se stesse per prendere le chiavi. Non appena ebbe superato l'ultima macchina, cominciò a correre. Avrebbe dovuto studiare meglio il tedesco, pensò. Il cartello sulla porta rossa diceva: "KEIN ZUTRITT": "Vietato l'ingresso" tradusse, troppo tardi. Trafficò un istante con la maniglia prima di lasciar perdere e di voltarsi per vedere dove fosse la Mercedes. Era scomparsa. Ma non se n'era andata: tra le pareti echeggiava ancora il suo rumore. L'assenza di altre auto pareva amplificarlo. Sentiva i colpi dei cilindri, il sibilo della marmitta forata. L'autista si era spostato dietro l'ascensore, pensò, oppure in uno dei parcheggi laterali. Le rientranze non erano illuminate: ottime per nascondersi. La via per le scale d'emergenza passava attraverso uno spazio aperto, senza colonne né auto per proteggersi. C'era però un'altra via d'uscita, giù per la rampa di salita, sfidando i divieti "KEIN EINGANG" dipinti sulle pareti. Scivolò tra le auto. Si trovava già all'inizio della rampa quando si rese conto dell'errore. La Mercedes bianca lo aspettava. Era scesa dalla rampa per sorvegliarlo. Arkady cercò di correre verso le scale più in fretta della macchina. Non sapeva cosa funzionasse peggio, se i suoi polmoni o l'auto alle sue spalle, sebbene il guidatore paresse tenere il passo di Arkady più che cercare di tirarlo sotto. Quando trovò il primo recesso occupato Arkady si tuffò. La
Mercedes si fermò bloccando l'uscita e il conducente scese. A piedi le probabilità cambiavano. A una parete era appeso un estintore. Arkady lo sollevò dal gancio e lo lanciò facendolo rotolare sul pavimento; il conducente fece un salto goffo per evitarlo. Arkady lo colpì mentre stava per toccare terra con i piedi. Mentre l'uomo cercava di alzarsi, Arkady strappò il tubo di gomma dall'estintore, glielo avvolse al collo e lo trascinò sotto la luce. Pur con il collo raggrinzito, il guidatore della Mercedes si rivelò essere Stas. Arkady lasciò il tubo e Stas si accasciò contro una ruota. «Buona giornata anche a te.» Stas si tastò il collo. «Vuoi vivere all'altezza della tua reputazione.» Arkady gli si accosciò accanto. «Mi dispiace. Mi hai spaventato.» «Io ho spaventato te? Mio Dio» Tentò di deglutire. «È proprio quello che dicono dei dobermann.» Deglutì e si toccò il torace. In un primo momento Arkady temette che Stas fosse sul punto di avere un infarto. Poi lo vide tirar fuori un pacchetto di sigarette. «Hai da accendere?» Arkady gli allungò un fiammifero. «Affanculo» disse Stas. «Prendine una anche tu. Picchiami, rubami le sigarette.» «Grazie.» Arkady accettò l'offerta. «Perché mi seguivi?» «Ti sorvegliavo.» Stas si schiarì la gola. «Mi hai detto dov'eri sistemato. Mi pareva incredibile che facessero venire da Mosca il loro investigatore preferito per ficcarlo in una topaia come quella. Ho visto quella faina di Federov uscire e ti ho seguito fino alla stazione. Non sarei riuscito a starti dietro tra la gente, ma ti sei fermato alla cabina. Quando sono tornato indietro con la macchina eri ancora là.» «Perché?» «Sono curioso.» «Tu sei curioso?» Arkady notò una donna che, uscita dall'ascensore, era rimasta raggelata, con le sue borse oscillanti come pendoli, alla vista di due uomini seduti sul pavimento accanto a una macchina. «Curioso di che?» Stas si appoggiò sull'altro gomito «Di un sacco di cose. Tu dovresti essere un investigatore. Ma a me sembri uno nei guai. Sai, quando quella merda di Rodionov, il tuo capo, era a Monaco, il consolato ha fatto una sarabanda per lui. Ha persino visitato la stazione radio e si è lasciato intervistare. Poi arrivi tu e il consolato vorrebbe seppellirti.»
«Che cosa ha detto Rodionov?» chiese Arkady suo malgrado. «"Democratizzazione del partito... modernizzazione della milizia... sacralità dell'indipendenza degli investigatori." Il solito uccello nella solita mano in movimento. E tu saresti disposto a concedere un'intervista?» «No.» «Potresti parlare di quel che sta succedendo nell'ufficio del procuratore generale. Parlare di qualsiasi cosa tu voglia parlare.» L'ascensore tornò a fermarsi al piano, e la donna con le borse vi rientrò con la precipitazione di chi va a chiamare l'autorità. «No.» Arkady allungò una mano a Stas aiutandolo ad alzarsi. «Mi dispiace per l'errore.» Stas rimase sul pavimento, come se non gli importasse di essere un mucchio di ossa. Come se, in una discussione, potesse avere la meglio da qualunque posizione. «È presto, la gente la puoi ammazzare oggi pomeriggio. Vieni alla stazione con me, adesso.» «A Radio Liberty?» «Non ti piacerebbe vedere il massimo centro mondiale di propaganda antisovietica?» «Quello è Mosca. È da lì che sono appena arrivato.» Stas sorrise. «Solo una visita. Non devi fare interviste.» «Allora perché dovrei venire?» «Pensavo che volessi vedere Irina.» 18 Quando fu nella Mercedes di Stas ad Arkady parve impossibile di aver creduto che fosse un'auto tedesca. Il sedile del passeggero era coperto da un tappeto spelacchiato, quello posteriore era nascosto sotto una cuccia di giornali. A ogni curva, alcune palle da tennis gli rotolavano tra i piedi e a ogni sobbalzo nubi vulcaniche salivano dal portacenere. In una cornice magnetica attaccata al cruscotto occhieggiava la foto di un cane nero. «Laika» disse Stas. «Dal nome del cane che Kruscev ha mandato nello spazio. All'epoca ero bambino e pensavo: "Il nostro primo successo nello spazio esterno è far morire di fame un cane?" Fu allora che capii che me ne dovevo andare.» «Hai defezionato?» «A Helsinki. E avevo così tanta paura che mi sono bagnato le mutande. Mosca sosteneva che ero un'importante spia. Il Giardino Inglese è pieno di
spie come me.» «Il Giardino Inglese?» «Ci sei già stato» disse Stas. Quando emersero su un viale che correva accanto al palazzo della Haus der Kunst, Arkady iniziò ad orientarsi. A sinistra c'era Koniginstrasse, la via della regina dove abitava Benz. Stas girò a destra e percorse il perimetro del parco. Per la prima volta Arkady notò un cartello che diceva "ENGLISCHER GARTEN". Stas si immise su una strada a senso unico che passava tra alcuni campi da tennis e un alto muraglione bianco. Una fila scura di faggi nascondeva qualsiasi cosa vi fosse dietro. Alcune biciclette erano appoggiate a una barriera d'acciaio che correva lungo l'intera lunghezza del marciapiede. «Quando mi sveglio al mattino» disse Stas «chiedo a Laika: "Qual è la cosa più perversa che posso fare oggi?". Credo che oggi sarà una giornata particolarmente interessante.» Il parcheggio, a spina di pesce, era situato davanti ai campi da tennis. Stas prese una borsa, chiuse la macchina e precedette Arkady attraverso un cancello di lastre d'acciaio sorvegliato da telecamere e da specchi. All'interno sorgeva un gruppo di edifici bianchi decorati, con altre telecamere appese ai muri. Come tutti coloro che sono cresciuti in Unione Sovietica, Arkady aveva due immagini contraddittorie di Radio Liberty. Per tutta la sua vita la stampa aveva detto che la stazione era una copertura della Central Intelligence Agency e della sua disgustosa collezione di traditori e di rinnegati russi. Nello stesso tempo tutti sapevano che Radio Liberty era la fonte più affidabile di informazioni sui poeti russi scomparsi e sugli incidenti nucleari. Tuttavia, sebbene Arkady stesso fosse stato accusato di tradimento, si sentì a disagio. Si aspettava quasi di trovare dei marines, ma i sorveglianti nell'atrio erano tedeschi. Stas mostrò il suo tesserino e consegnò la borsa a una guardia, che la infilò in un detector a raggi X. Un'altra guardia indicò ad Arkady di avvicinarsi a un banco protetto da uno spesso vetro antiproiettile. Il banco era più grande, le sedie più lussuose ma, eccettuato questo, esisteva una generica somiglianza tra le reception americane e quelle sovietiche, una logica progettuale internazionale con la quale si accoglieva sia il pacifista in viaggio che il terrorista bombarolo. «Passaporto?» chiese la guardia. «Non ce l'ho» rispose Arkady.
«Ce l'hanno ancora quelli del suo albergo» intervenne Stas. «È la favolosa efficienza tedesca di cui sentiamo tanto parlare. È un visitatore importante. Lo aspettano in studio.» Con riluttanza il sorvegliante accettò di scambiare una patente di guida sovietica con un tesserino da visitatore. Stas lo appiccicò al torace di Arkady. Una porta di vetro ronzò e li fece entrare in un corridoio dalle pareti color crema. Arkady si fermò immediatamente. «Perché fai questo?» «Ieri ti ho detto che non mi piaceva vedere un fulmine colpire la persona sbagliata. Ecco, tu hai senz'altro tutti i segni della vittima.» «Non rischi di finire nei guai facendomi entrare?» Stas scrollò le spalle. «Sei solo uno dei tanti russi. È piena di russi, questa stazione.» «E se incontro un americano?» chiese Arkady. «Ignoralo. È quello che facciamo tutti.» Invece della passatoia sovietica il corridoio ostentava una spessa moquette americana. Metà a passo di marcia, metà zoppicando Stas lo fece passare accanto a bacheche contenenti notizie che Radio Liberty aveva lanciato in Unione Sovietica: il blocco di Berlino, la crisi dei missili a Cuba, Solgenitzyn, l'invasione dell'Afghanistan, l'aereo di linea coreano, Cernobyl, l'intervento nei paesi baltici. Tutte le didascalie delle foto erano in inglese. Arkady ebbe la sensazione di scivolare attraverso la storia. Se le pareti erano americane, l'ufficio di Stas aveva tutta l'anarchia di un'officina russa: scrivania e sedie con rotelle, mobili anonimi, la finestra coperta da uno scialle, un classificatore di legno, un'enorme taglierina per nastro magnetico e una poltrona. Questo era il primo strato. La scrivania era coperta da una macchina per scrivere manuale, un personal computer, un telefono, dei bicchieri e dei portacenere. Davanti allo scialle c'erano due ventilatori, due altoparlanti e una seconda unità video. Sul mobile, una radio portatile e una tastiera di scorta. Sui registratori, bobine in disordine. Dappertutto, sulla scrivania, sul davanzale della finestra, sul classificatore, sulla poltrona, torreggiavano cataste di stampati minacciosamente instabili. Un telefono da parete era appeso a un cavo a spirale. Di primo acchito, Arkady si rese conto che, a parte la macchina per scrivere e il telefono sulla scrivania, nessuno degli altri aggeggi funzionava. Si chinò sulla scrivania e ammirò le foto alla parete. «È grosso, quel cane.» Era lo stesso animale scuro e peloso della cornice sul cruscotto. Qui Laika era stata catturata dall'obiettivo in una macchina,
impegnata a maltrattare un pupazzo di neve, appoggiata alle ginocchia di Stas. «Di che razza è?» «Rottweiler alsaziano. Personalità tedesca. Accomodati.» Liberò la poltrona dai giornali e seguì lo sguardo di Arkady. «Ecco, ci hanno dato tutte queste merdate elettroniche con del software inutile. Io li ho scollegati ma li tengo in vista perché così i capi sono contenti.» «Dove lavora Irina?» Stas chiuse la porta. «In fondo al corridoio. La sezione russa di Radio Liberty è la più grande. Ci sono anche sezioni per gli ucraini, i bielorussi, i baltici, gli armeni, i turcomanni. Trasmettiamo in varie lingue per le varie repubbliche. E poi c'è RFE.» «RFE?» Stas si accomodò nella poltrona della scrivania. «Radio Free Europe, che serve i polacchi, i cechi, gli ungheresi, i rumeni. Liberty e RFE danno lavoro a centinaia di persone. La voce della libertà rivolta al pubblico russo è Irina.» Fu interrotto da qualcuno che bussava alla porta. Una donna dai capelli e dalle sopracciglia bianche, con un fiocco di velluto nero, entrò con una bracciata di bollettini. Il suo corpo aveva ceduto al grasso, ma esaminò l'abito malmesso di Arkady con lo sguardo lento di una civetta avanti con gli anni. «Hai una sigaretta?» la sua voce era più profonda di quella di Arkady. Da un cassetto pieno di stecche Stas aprì un pacchetto per lei. «Ludmilla, sei sempre la benvenuta.» Quando Stas le accese la sigaretta, Ludmilla si piegò in avanti socchiudendo gli occhi. Li riaprì puntandoli su Arkady. «Un visitatore da Mosca?» chiese. «No, l'arcivescovo di Canterbury» rispose Stas. «Il VD vuol sapere chi entra e chi esce.» «E allora sarà accontentato» disse Stas. Ludmilla accarezzò Arkady con lo sguardo e uscì lasciandosi dietro una scia di sospetto. Stas ricompensò se stesso e Arkady con due sigarette. «Quello era il nostro sistema di sicurezza. Abbiamo telecamere e vetri antiproiettile, ma al confronto di Ludmilla non valgono un bel niente. Il VD è il nostro vicedirettore incaricato della sicurezza.» Guardò l'orologio. «A due passi al secondo e trenta centimetri al passo, Ludmilla entrerà nel suo ufficio tra due minuti esatti.»
«Avete problemi di sicurezza?» chiese Arkady. «Il Kgb ha fatto saltare la sezione ceca qualche anno fa. Alcuni dei nostri collaboratori sono morti avvelenati o per una scossa elettrica. Si può dire che abbiamo qualche problema di ansia.» «Ma lei non sa chi sono io.» «Di certo avrà visto i documenti che hai lasciato nell'atrio. Ludmilla sa chi sei. Sa tutto e non capisce niente.» «Ti ho messo in una situazione difficile. E intralcio il tuo lavoro.» Stas diede un colpetto ai bollettini. «Per questi? Questa è la dose quotidiana di notizie d'agenzia, articoli di giornali e rapporti speciali di sorveglianza. Dovrò anche parlare con i nostri corrispondenti di Mosca e di Leningrado. Da tutto questo flusso di informazioni distillerò circa un minuto di verità.» «Il giornale dura dieci minuti.» «Il resto me lo immagino.» Aggiunse in fretta: «Scherzo. Diciamo che faccio estrapolazioni, diciamo che non voglio mettere Irina nella posizione di dover dire al popolo russo che il loro paese è un cadavere putrefatto, un Lazzaro al di là di ogni possibilità di resurrezione, che devono mettersi sdraiati senza neanche tentare di rialzars.». «Adesso non scherzi» osservò Arkady. «No.» Stas si rilassò contro lo schienale della poltrona e soffiò un lungo sospiro di fumo; in realtà, notò Arkady, Stas non era molto più grosso di un tubo di stufa. «Comunque, ho tutto il giorno per lavorare e chissà quali disastri degni di notizia si verificheranno da adesso all'ora della trasmissione.» «L'Unione Sovietica è un terreno fertile?» «Devo esser modesto. Io mi limito a raccogliere, non semino.» Stas rimase in silenzio per qualche istante. «A proposito di verità non mi riesce di credere che il più sanguinario, il più cinico investigatore sovietico possa innamorarsi di Irina, mettere a repentaglio famiglia e carriera, persino uccidere, per lei. Dopo, a quanto ho sentito, hai ricevuto un rimprovero dal Partito, ma l'unica punizione è stato un giro a Vladivostok, dove ti hanno fatto fare il passacarte negli uffici della flotta da pesca. Poi sei stato riportato a Mosca per aiutare le forze reazionarie a soffocare i liberi imprenditori. Ho sentito che l'ufficio del procuratore non era praticamente in grado di controllarti perché sei un membro del Partito dotato di ottimi appoggi. Però quando ieri ci siamo visti alla birreria ho visto che non eri affatto l'apparatchik che mi aspettavo. E ho notato anche un'altra cosa.» Fece
rotolare la sedia verso la scrivania; era più agile sulle rotelle. «Fa vedere la mano.» Arkady ubbidì e Stas gliela aprì per osservare le cicatrici che tagliavano lateralmente il palmo. «Questi tagli non te li sei fatti con fogli di carta.» «I cavi dei pescherecci. L'attrezzatura da pesca è vecchia, i fili si strappano.» «A meno che l'Unione Sovietica non sia cambiata più di quanto io non sappia, alare una rete del cazzo non è la ricompensa che danno a un cocco del Partito.» «È da molto che non godo più della fiducia del Partito.» Stas studiò le cicatrici come se gli stesse leggendo il palmo. Arkady notò che aveva l'intensità di concentrazione tipica di chi per anni è stato storpio o costretto in un letto. «Sei qui per Irina?» «In quello che sono venuto a fare a Monaco lei non c'entra assolutamente.» «E non mi puoi dire di cosa si tratta?» «No.» Il telefono squillò, ma Stas guardò con distacco l'apparecchio, come se stesse gesticolando dall'altra sponda di un fiume. Controllò l'orologio. «Deve essere il vicedirettore. Ludmilla gli ha appena detto che un famigerato investigatore proveniente da Mosca si è infiltrato nella stazione.» Studiò Arkady. «Mi sono appena reso conto che tu hai fame.» Il caffè della stazione si trovava al piano inferiore. Stas guidò Arkady a un tavolo dove una cameriera tedesca con un dirndl bianco e nero prese l'ordinazione: schnitzel e birra. I giovani americani mangiavano in giardino. I tavoli al coperto erano occupati da una clientela più anziana, principalmente di sesso maschile, rifugiati politici che indugiavano avvolti in una costante nebbia di fumo. «E il direttore qui non ti cerca?» chiese Arkady. «Nel nostro caffè? Mai. Di solito mangio alla Torre Cinese. È quello il primo posto dove andrà Ludmilla.» Accese una sigaretta, diede un colpo di tosse preparatorio ed inalò esplorando il locale con il suo sguardo luminoso. «Divento nostalgico a vedere l'impero sovietico. I rumeni sono seduti al loro tavolo, il tavolo dei cechi è dall'altra parte, lì ci sono i polacchi e là in fondo gli ucraini.» Con un cenno del capo indicò i popoli dell'Asia centrale in camicia a maniche corte. «I turcomanni. Odiano i russi, naturalmente. Il guaio è che di questi tempi lo dicono apertamente.»
«Le cose sono cambiate?» «Per tre motivi. Uno, l'Unione Sovietica ha cominciato ad andare a pezzi. Non appena le etnie si salteranno reciprocamente alla gola, qui succederà la stessa cosa. Due, il posto di ristoro ha smesso di servire vodka. Adesso si possono bere solo vino o birra, che non sono carburanti molto potenti. Tre, invece che dalla Cia ora siamo gestiti dal Congresso.» «Così non siete più una copertura della Cia?» «Quelli erano i vecchi tempi. Per lo meno la Cia sapeva cosa stava facendo.» La birra arrivò per prima. Arkady la bevve in sorsi piccoli e reverenti: era diversissima dalla birra sovietica, aspra e pastosa. Stas non sembrava tanto berla quanto versarsela in corpo. Posò il bicchiere vuoto. «Ah, la vita da rifugiato politico. Solo tra i russi ci sono quattro gruppi: New York, Londra, Parigi e Monaco. Londra e Parigi sono più intellettuali. A New York ci sono tanti di quei profughi che si potrebbe passare tutta la vita senza parlare inglese. Ma è quello di Monaco il gruppo che è bloccato nel tempo; è qui che si trova il maggior numero di monarchici. E poi c'è la terza ondata.» «Che cos'è la terza ondata?» «La terza ondata è la più recente generazione di profughi» spiegò Stas. «I vecchi rifugiati non vogliono aver nulla a che fare con loro.» Arkady provò a indovinare. «Vuoi dire che la terza ondata è quella degli ebrei?» «Giusto.» «Proprio come in patria.» «Non esattamente come in patria.» Sebbene il caffè risuonasse di conversazioni slave, il cibo era prettamente tedesco; Arkady sentì il cibo trasformarsi istantaneamente in sangue, ossa ed energia. Una volta sfamato, si guardò intorno con più attenzione. Notò che i polacchi indossavano completi senza cravatte e avevano l'espressione di aristocratici temporaneamente a corto di fondi. I rumeni avevano scelto una tavola rotonda, la migliore per cospirare. Gli americani sedevano per conto loro e scrivevano cartoline come obbedienti turisti. «Davvero avete avuto ospite il procuratore Rodionov?» «Come esempio di pensiero debole, di moderazione politica, del miglioramento del clima per gli investimenti stranieri» disse Stas. «Hai parlato con Rodionov personalmente?» «Io personalmente non lo toccherei neanche con dei guanti di gomma.»
«E allora chi l'ha incontrato?» «Il presidente della stazione crede nel pensiero debole. Crede anche in Henry Kissinger, nella Pepsi Cola, nei Pizza Hut. Sono allusioni che non puoi capire. È perché non hai mai lavorato a Radio Liberty.» Una cameriera portò un'altra birra a Stas. Con gli occhi azzurri e la minigonna, sembrava una ragazzina grossa e un po' sciupata. Arkady si chiese cosa pensasse della sua clientela di americani estroversi e di slavi litigiosi. Un corpulento annunciatore georgiano con i riccioli e il naso adunco di un attore venne al loro tavolo. Si chiamava Rikki. Rispose con un cenno distratto quando Stas gli presentò Arkady e passò immediatamente a esporre i suoi problemi. «È venuta a trovarmi mia madre. Non mi ha mai perdonato di essere passato di qua. Gorbaciov è un uomo splendido, dice; non farebbe mai gassare i manifestanti a Tbilisi. Mi ha portato anche una letterina di pentimento, così la posso firmare e tornare a casa con lei. È così rimbambita che mi farebbe finire dritto in galera. Già che è qui si fa dare un'occhiata ai polmoni. Dovrebbero dargliela al cervello. E lo sai chi è arrivata, anche? Mia figlia. Diciott'anni. Mai vista. Arriva oggi. Mia madre e mia figlia. Io a mia figlia voglio bene, cioè credo di volerle bene perché non l'ho mai conosciuta. Abbiamo parlato ieri sera al telefono.» Rikki si accese una sigaretta con il mozzicone della precedente. «Ho le sue fotografie, naturalmente, le ho chiesto di descriversi così la posso riconoscere all'aeroporto. I bambini cambiano così in fretta. A quanto pare vado all'aeroporto a prendere una ragazzina che assomiglia a Madonna. Quando ho fatto per descrivermi ha detto: "Dimmi com'è la tua automobile".» «È in queste occasioni che ci manca la vodka» disse Stas. Rikki cadde in un baratro di silenzio. «Dimmi» chiese Arkady «quando trasmetti per la Georgia, pensi spesso a tua madre e a tua figlia?» «Certo» disse Rikki. «Chi credi che le abbia invitate qui? Mi ha solo sorpreso che siano venute. E vedere chi veramente sono.» «L'arrivo di una persona a cui si vuole bene sembra una combinazione tra reincarnazione e inferno» disse Arkady. «Sì, qualcosa del genere.» Rikki guardò l'orologio a muro. «Devo andare. Stas, prendi il mio posto, per favore. Scrivi qualcosa. Qualsiasi cosa. Sei un tesoro.» Si sollevò e si diresse con aria tragica verso la porta.
«"Un tesoro"» borbottò Stas. «Tornerà. La metà della gente che è qui tornerà a Tbilisi, a Mosca, a Leningrado. La follia è che, tra tutti, siamo noi quelli che sanno come vanno le cose. Siamo quelli che dicono la verità. Ma siamo russi, per cui ci piacciono anche le menzogne. In questo preciso momento siamo in una condizione di particolare confusione. Avevamo un capo della sezione russa, una persona molto competente, intelligentissima. Era un fuggiasco come me. Circa dieci mesi fa è tornato a Mosca e ha cambiato di nuovo bandiera. Dopo un mese era già il portavoce di Mosca e appariva alla televisione americana per dire che la democrazia sta bene, il Partito è amico dell'economia di mercato, il Kgb garantisce la stabilità sociale. È bravo; per forza, ha imparato qui. Le sue argomentazioni sono talmente credibili che la gente, qui alla stazione, si chiede se è un servizio vero quello che stiamo svolgendo o se siamo fossili della guerra fredda. Perché non marciamo tutti verso Mosca?» «Tu gli credi?» chiese Arkady. «No. Basta che dia un'occhiata a uno come te e che mi chieda: "Come mai sta scappando, quest'uomo?"» Arkady lasciò la domanda aleggiare nell'aria. «Pensavo che avrei incontrato Irina» disse. Stas indicò ad Arkady la luce rossa sopra la porta e lo fece entrare nella cabina di controllo. Un tecnico con le cuffie sulle orecchie sedeva alla console debolmente illuminata. La cabina era silenziosa e buia. Arkady sedette in fondo, sotto le bobine di un registratore a nastro. Gli aghi danzavano sugli indicatori di volume. Dall'altra parte del vetro afonico, Irina sedeva a un tavolo esagonale illuminato dall'alto e con un microfono al centro. Di fronte aveva un uomo con un maglione nero da intellettuale che quando parlava spruzzava saliva come un fuochista spruzza sudore. Scherzava e rideva alle proprie battute. Arkady si chiese cosa stesse dicendo. Irina teneva il capo leggermente piegato, nella posa di un'attenta ascoltatrice. Gli occhi, nell'ombra, apparivano come bagliori in profondità. Le labbra, semiaperte, trattenevano la promessa di un sorriso. La luce non era certo studiata. I bozzi sulla fronte dell'uomo risaltavano, le sopracciglia sembravano due cespugli sopra le fosse degli occhi. Ma la medesima luce, fluendo sui lineamenti regolari di Irina, incoronava d'oro la linea delle guance, i capelli sciolti, il braccio. Arkady ricordò il leggero segno azzurro sotto l'occhio destro, risultato di un interrogatorio: era scom-
parso e lei sembrava intatta. Un portacenere e un bicchiere d'acqua erano posati tra lei e l'intervistato. Disse alcune parole e fu come se avesse soffiato su una brace. All'improvviso l'uomo si animò ancor di più, agitando le mani come fossero asce. Stas si chinò sulla console e attivò il suono. «Esattamente quel che voglio dire!» proruppe l'uomo in maglione. «Lo spionaggio si limita a tracciare i profili psicologici dei leader di un certo paese. È ancor più necessario capire la psicologia del popolo. E questo da sempre rientra nel dominio della psicologia.» «Ci potrebbe fare un esempio?» chiese Irina. «Ma certo! Il padre della psicologia russa è Pavlov. È famoso più che altro per i suoi esperimenti sui riflessi condizionati e particolarmente per il suo lavoro con i cani, che aveva addestrato ad associare il cibo con lo squillo di un campanello. Dopo un certo tempo i cani salivavano semplicemente udendo suonare il campanello.» «Che cosa hanno a che fare i cani con la psicologia di una nazione?» «Semplice. Pavlov riferì che non era assolutamente possibile addestrare certi cani. In realtà, non riuscì ad addestrarli affatto. Lui li definì atavistici, disse che erano legati ai lupi, loro antenati, che in laboratorio erano inutili.» «Lei continua a parlare di cani.» «Aspetti. Poi Pavlov generalizzò il concetto e affermò che questo tratto atavico era un "riflesso di libertà". Disse che il riflesso di libertà esisteva negli umani così come nei cani, sebbene a un livello diverso. Nelle società occidentali il riflesso di libertà era pronunciato; in quella russa invece, secondo Pavlov, il riflesso dominante era il "riflesso di obbedienza". Non si trattava di un giudizio morale, ma semplicemente di un'osservazione scientifica. A partire dalla Rivoluzione d'Ottobre e dopo settant'anni di comunismo lei può immaginare quanto sia diventato perfetto questo riflesso di obbedienza. Quello che sto cercando di dire è che le nostre aspettative di un'autentica democrazia autentica devono essere più realistiche.» «Mi spieghi l'aggettivo "realistiche".» «Basse.» L'uomo trasudava la soddisfazione di chi racconta la morte di un reprobo. Dalla cabina intervenne il tecnico. «Irina, c'è un ritorno quando il professore si avvicina al microfono. Riavvolgo il nastro. Fa una pausa.» Arkady si aspettava di riascoltare la conversazione ma il tecnico ascolta-
va in cuffia, mentre nella cabina arrivavano i suoni dello studio. Irina aprì un pacchetto di sigarette e il professore balzò sul tavolo per accendergliene una. Lei si mosse facendo ondeggiare i capelli che rivelarono il luccichio di un orecchino. Ringraziò l'ospite con lo sguardo e il professore parve pronto a tuffarsi per sempre nei suoi occhi. «È un po' dura, non le pare? Paragonare i russi ai cani?» chiese. Il professore incrociò le braccia, pieno di sé. «No, basta essere logici. Gli individui non disposti a obbedire sono stati uccisi, sono scappati già da molto tempo.» Arkady notò il disprezzo negli occhi di Irina, come una fiamma che si dilatava. Ma subito pensò di essersi sbagliato, perché il tono della risposta fu cortese. «Capisco cosa intende dire» disse Irina. «Ora la gente che lascia Mosca appartiene a un mondo diverso.» «Precisamente! Oggi vengono le famiglie lasciate indietro. Sono seguaci, non leader. Non si tratta di un giudizio morale ma semplicemente di un'analisi delle caratteristiche.» «Non solo le famiglie» disse Irina. «No, no. Ex colleghi che non si vedevano da vent'anni saltano fuori a ogni piè sospinto.» «Amici.» «Amici?» Era una categoria che il professore non aveva considerato. Il fumo si era raccolto sotto la lampada trasformandosi in una sorta di nuvola tattile intorno a Irina. Era il contrasto che colpiva. Una maschera dalla bocca piena, con i capelli scuri tagliati severamente che scendevano ad accarezzarle delicatamente le spalle. Brillava come ghiaccio. «Può essere imbarazzante» disse Irina. «È gente per bene, e per loro vederti è molto importante.» Il professore si piegò in avanti, ansioso di manifestare la sua commiserazione. «Non vorresti ferirli» disse Irina, «ma le loro pretese sono esagerate.» «Hanno vissuto in uno stato di irrealtà.» «Pensano a te giorno dopo giorno, ma il fatto è che è passato troppo tempo. Da anni non pensi più a loro» proseguì Irina. «Ormai tu vivi una vita diversa, in un mondo diverso.» «Vogliono riprendere le cose nel punto in cui si sono interrotte» disse Irina. «Ti soffocheranno.» «Lo fanno con buone intenzioni.»
«Vogliono impadronirsi della tua vita.» «E chi ricorda più dove le cose si sono interrotte?» chiese Irina. «Di qualunque cosa si trattasse, ormai è una cosa morta.» «Bisogna essere gentili ma severi.» «È come vedere un fantasma.» «Minaccioso?» «Più patetico che minaccioso.» «Basta chiedersi come mai vengono, dopo tutto questo tempo.» «Se ti sentono alla radio, puoi immaginare le fantasie che si fanno.» «Non bisogna essere crudeli.» «Non è crudeltà» la rassicurò il professore. «È solo che sembra... mi sembra che in realtà sarebbero più contenti se rimanessero a Mosca, con i loro sogni.» «Irina?» intervenne il tecnico. «Per favore, registriamo di nuovo gli ultimi due minuti. Per favore, ricorda al professore di non avvicinarsi troppo al microfono.» Il professore ammiccò cercando di guardare in cabina. «Capito» disse. Irina schiacciò la sigaretta nel portacenere. Bevve un po' d'acqua stringendo con le lunghe dita il bicchiere argenteo. Labbra rosse, denti bianchi. La sigaretta risaltava come un osso spezzato. L'intervista ricominciò da Pavlov. Vergognandosi, Arkady sprofondò nella sedia cercando di nascondersi il più possibile nell'ombra. Se l'ombra fosse stata acqua sarebbe stato felice di annegare. 19 Il telefono della cabina squillò alle cinque esatte. «Parla Federov» disse Arkady. «Sono Schiller della Bayern-Franconia Bank. Ci siamo sentiti questa mattina. Aveva alcune domande riguardo a una ditta chiamata TransKom Services.» «Grazie per avermi richiamato.» «A Monaco non c'è nessuna TransKom. Non è conosciuta in nessuna banca locale. Ho contattato diversi uffici dello stato e in Baviera la TransKom non è registrata per quanto riguarda previdenza e assistenza.» «Sembra che lei abbia fatto una ricerca approfondita» disse Arkady. «Ritengo di aver fatto tutto il lavoro che avreste dovuto fare voi.»
«E a proposito di Boris Benz?» «Herr Federov, questo è un paese libero. È difficile indagare sul conto di un privato cittadino.» «È un dipendente della Bayern-Franconia Bank?» «No.» «Ha un conto presso di voi?» «No, ma anche se l'avesse, esiste il segreto bancario.» «Ha precedenti penali o è schedato?» «Le ho detto tutto quello che le posso dire.» «Se ha finto di essere in rapporto con una banca, probabilmente l'ha già fatto altre volte. Potrebbe essere un criminale di professione.» «Ci sono criminali di professione anche in Germania. Non so se Benz lo sia. Lei stesso mi ha detto che potrebbe aver capito male.» «Ma adesso il nome della Bayern-Franconia Bank si trova nella documentazione di questo consolato.» «Lo tolga.» «Non è così semplice. Con un contratto così importante ci sarà senz'altro un'indagine.» «Questo riguarda voi.» «A quanto pare Benz ha mostrato dei documenti della Bayern-Franconia Bank che precisavano l'impegno finanziario della banca. I documenti li ha portati con sé ma Mosca vorrà sapere come mai a questo punto la banca si tira indietro.» La voce all'altro capo ripeté, scandendo le parole: «Non c'è stato nessun impegno». «Mosca si chiederà come mai la Bayern-Franconia Bank non è più interessata a Benz. Se c'è stato un tentativo di coinvolgimento della banca da parte di un criminale, come mai la banca non è disposta a collaborare ulteriormente per scoprirlo?» chiese Arkady. «Abbiamo collaborato per tutto ciò che ci è stato chiesto.» Schiller sembrava convincente, salvo il fatto che esisteva una sua lettera indirizzata a Benz. «Allora, se dovessimo mandare da lei un nostro rappresentante sarebbe disposto a sentirlo?» «Lo mandi pure. Basta che la facciamo finita.» «Si chiama Renko.» Le donne che avevano invaso in massa il terzo piano del consolato so-
vietico indossavano camicette dai ricami così intricati e sottane a strisce dai colori così vivaci da sembrare uova di Pasqua rotolate in disordine nel corridoio. Poiché ognuna reggeva un mazzo di rose, per passare nel corridoio furono necessarie una certa decisione e un buon numero di scuse. La scrivania di Federov si ergeva tra secchi d'acqua. Sollevò lo sguardo da una pila di visti con un ringhio mostrando che la dose quotidiana di diplomazia era esaurita. «Cosa diavolo stai facendo qui?» «Bello» disse Arkady. L'ufficio era piccolo e senza finestre, i mobili erano moderni e un po' in miniatura. Forse ogni giorno il titolare provava la sensazione sottile, da incubo, di diventare ogni giorno più grande. E di essere sempre più bagnato. Una chiazza sulla moquette mostrava dove un secchio era stato urtato con un calcio. Arkady notò che Federov aveva maniche e calzoni bagnati, petali rosa sul bavero e la cravatta stretta e storta. «Sembra un negozio di fiorista.» «Se vogliamo parlare con te ti veniamo a trovare. Non devi venire qui.» Oltre ai passaporti, il piano della scrivania ospitava la carta intestata del consolato, un portapenne e un portamatite, una batteria di telefoni, tutti nuovi e luccicanti. «Voglio il mio passaporto.» disse Arkady. «Renko, stai perdendo tempo. Prima di tutto il tuo passaporto ce l'ha Platonov, non io. Secondo, il viceconsole se lo terrà fino a quando non sarai sull'aereo per Mosca, cosa che se tutto va bene succederà domani.» «Magari potrei rendermi utile. Pare che tu sia impegnato.» Arkady accennò al corridoio. «Il coro folkloristico di Minsk? Avevo chiesto che ce ne mandassero dieci, ce ne hanno mandate trenta. Dovranno dormire impilate l'una sull'altra come blini. Farò il possibile per aiutarle ma se insistono a triplicare i loro visti dovranno soffrire.» «È a questo che serve un consolato» osservò Arkady. «Magari posso dare una mano.» Federov trasse un profondo sospiro. «No. Credo che tu sia l'ultima persona che sceglierei come assistente.» «Magari potremmo incontrarci domani, andare a pranzo, andare a prendere un tè, oppure a cena.» «Domani sono di corsa tutto il giorno. Delegazione dei cattolici ucraini al mattino, pranzo con il coro folkloristico, ripresa dei cattolici alla Frauen Kirche nel pomeriggio e alla sera revival di Bertolt Brecht. Completo. Comunque, per allora tu probabilmente sarai già in volo. Ora, se non ti di-
spiace, ho molto da fare. Se vuoi farmi un favore, non tornare più.» «Potrei almeno fare una telefonata?» «No.» Arkady allungò la mano verso il telefono. «Le linee per Mosca sono sempre occupate. Magari da qui riesco a comunicare.» «No.» Arkady sollevò il ricevitore «Ci metto un attimo.» «No.» Mentre Federov afferrava il ricevitore, Arkady lo lasciò andare e l'attaché barcollò all'indietro rovesciando un altro secchio d'acqua. Arkady cercò di prenderlo dal lato sbagliato della scrivania, riuscendo solo a far cadere tutti i passaporti. I libretti rossi atterrarono sulla moquette, nelle pozze, nei secchi. «Idiota!» esclamò Federov. Corse da un secchio all'altro per prendere i passaporti prima che affondassero. Arkady usò la carta intestata per asciugare la moquette. «È inutile» disse Federov. «Sto cercando di dare una mano.» «Non darmi nessuna mano. Limitati ad andartene.» All'improvviso, palpabile come lo stridio di un freno, gli venne in mente qualcosa. «Aspetta!» Senza perdere d'occhio Arkady riunì tutti i passaporti sulla scrivania. Ansimando, li contò accuratamente non una ma due volte, e per essere assolutamente sicuro verificò che il contenuto fosse, per quanto bagnato, intatto. «D'accordo. Puoi andare.» «Mi dispiace moltissimo» disse Arkady. «Vattene.» «Uscendo, devo informare dell'acqua, giù di sotto?» «No. Non parlare con nessuno.» Arkady guardò i secchi rovesciati, la moquette inondata. «Che peccato, un ufficio così nuovo.» «Sì. Arrivederci, Renko.» La porta si aprì e una donna incoronata da un berretto di feltro ricamato di perle scrutò all'interno. «Caro Gennady Ivanovich, cosa stai facendo? Quando mangiamo?» «Tra un attimo» disse Federov. «È da Minsk che non mettiamo niente sotto i denti.» Coraggiosamente, la donna prese posizione nella stanza seguita dalle altre cantanti.
Da un rigattiere polacco di fianco alla stazione trovò una macchina per scrivere manuale coi martelletti simili a zampe di ragno e i caratteri cirillici. La rovesciò: sulla base era verniciato un codice militare. «Armata Rossa» disse il rigattiere. «Se ne vanno dalla Germania, i bastardi, e quello che non si vogliono portar dietro, lo vendono. Venderebbero i carri armati se potessero.» «Posso provarla?» «Faccia pure.» Il rigattiere si stava già allontanando per accogliere un cliente vestito meglio, più appetibile. Dalla giacca Arkady prese la carta intestata del consolato e la infilò nella macchina. Il foglio veniva dalla scrivania di Federov. In alto occhieggiava lo stemma del Consolato sovietico, completo di falce e martello racchiusi tra spighe d'oro. Arkady aveva pensato di scrivere in tedesco ma non pensava di conoscere abbastanza bene i caratteri gotici. A parte questo, per ottenere uno stile di una certa rotondità, poteva usare solo il russo. Scrisse: Caro Herr Schiller Il latore della presente, A.K. Renko, Investigatore capo presso la Procura di Mosca, è incaricato di svolgere indagini riguardanti una proposta di joint venture tra certe entità economiche sovietiche e la ditta tedesca TransKom Services. In particolare, Renko deve verificare le dichiarazioni di Boris Benz, rappresentante della TransKom Services. Dato che i riflessi delle attività della TransKom e di Benz potrebbero gravare sia sul governo sovietico che sulla Bayem-Franconia Bank, credo che sia di mutuo interesse risolvere la questione con la maggiore rapidità e riservatezza possibile. Voglia gradire i miei migliori saluti. G.I. Federov. Ad Arkady la chiusura sembrava splendidamente federoviana. Tirò fuori il foglio e lo firmò con uno svolazzo. «Allora funziona?» chiese il proprietario. «Stupefacente, è vero?» chiese Arkady. «Gliela posso dare a un prezzo eccellente.» Arkady scosse il capo. La verità era che non poteva permettersi di acquistare nulla. «Ne vendete molte?»
Il rigattiere fu costretto a ridere. Nell'appartamento di Benz le luci erano sempre spente. Alle nove di sera Arkady lasciò perdere. La via del ritorno passava attraverso i parchi: Englischer Garten, Finanzgarten, Hofgarten, Botanischer Garten. Si domandò se questo fosse il paradiso dei conigli, con l'intrico di sentieri, le dolci braccia degli alberi, il ristoro dell'ombra. Di quando in quando si fermava nel buio ad ascoltare. Uno studente immerso nella lettura di un libro si affrettava verso la luce del prossimo lampione; una persona che faceva jogging procedeva saltellando al rallentatore. Non udì alcun rumore di passi che si arrestavano bruscamente. Era come se, lasciando Mosca, fosse caduto dall'orlo del mondo. Era scomparso. Era in caduta libera. Chi doveva seguirlo? Emerse dal giardino botanico a un isolato dalla stazione. Stava attraversando la strada per controllare la videocassetta nell'armadietto quando vide un gruppo di pedoni messi in fuga dall'inversione non autorizzata di un'automobile. L'indignazione fu tale che non riuscì nemmeno a scorgere l'auto. Rimase sul salvagente del viale e superò a passi rapidi la stazione, trovandosi accanto allo scalo di smistamento. Non era un esempio di buona pianificazione della sopravvivenza essere al centro di un ampio viale percorso da un traffico veloce. La via più vicina era Seidlstrasse, dove si trovavano la sua stanza e, più avanti, il Consolato sovietico. Sentì il rumore di una frenata, si voltò e vide una Mercedes malridotta e dall'aria familiare. Al volante c'era Stas. «Pensavo che volessi vedere Irina.» «L'ho vista» disse Arkady. «Sei filato prima che finisse l'intervista.» «Avevo sentito abbastanza» rispose Arkady. Stas ignorò i cartelli che dicevano "HALTEN VERBOTEN", limitandosi a rivolgere cenni allegri alle auto che andavano ammassandosi alle sue spalle nella corsia riservata al traffico veloce. «Sono venuto a cercarti perché pensavo ci fosse qualcosa che non andava.» «A quest'ora?» «Avevo del lavoro da fare. Sono venuto quando ho potuto. Ti andrebbe di andare a una festa?» «Adesso?» «Quando, se no?» «Sono quasi le dieci. Perché dovrei aver voglia di andare a una festa?»
Gli automobilisti alle spalle di Stas urlavano, suonavano il clacson e lampeggiavano, in un vano coro. «Ci sarà anche Irina» disse. «In realtà non le hai ancora parlato.» «Ma il messaggio l'ho ricevuto. L'ho ricevuto due volte in un giorno.» «Pensi che non voglia vederti?» «Qualcosa del genere.» «Per essere uno che viene da Mosca sei molto sensibile. Senti, tra un attimo verremo divorati vivi da un branco di Porsche rabbiose. Sali. Facciamo un salto alla festa.» «Per un'altra selva di umiliazioni?» «Hai qualcosa di meglio da fare?» La festa era al quarto piano senza ascensore di un appartamento pieno di quelli che Stas definì "Retronazi". Le pareti erano dipinte a scacchi rossi bianchi e neri con bandiere naziste. Sui ripiani elmetti, croci di ferro, maschere antigas, latte di benzina, munizioni di vario calibro, fotografie di Hitler, la sua dentiera, una fotografia di sua nipote in abito da sera, con il sorriso ironico della donna che sa che le cose non andranno a finir bene. Tema della festa era il primo anniversario della demolizione del Muro di Berlino. Frammenti di cemento grigio erano avvolti in crepe nera, come regali di compleanno. Gli invitati affollavano scale, poltrone e divani, un misto di nazionalità con un numero sufficiente di russi intenti a fumare un numero sufficiente di sigarette da far lacrimare gli occhi. Dalla nebbia uscì Ludmilla, simile a una medusa dalle lunghe ciglia; ammiccò ad Arkady e scomparve. «Quando vedi Ludmilla» lo avvertì Stas «il vicedirettore non è lontano.» Al tavolo delle bibite Rikki versava una Coca Cola a una ragazza in pullover di mohair. «Da quando sono andato a prenderla all'aeroporto, mia figlia ed io non abbiamo fatto altro che spendere. Grazie a Dio, i negozi chiudono alle sei e mezza.» La ragazza aveva circa diciott'anni, un rossetto rosso come un segnale d'allarme e capelli biondi dalle radici brune. «In America, gli shopping center sono aperti tutta la notte» disse in inglese. «Parli un ottimo inglese» disse Arkady. «In Georgia nessuno parla russo» rispose la ragazza. «Sono sempre comunisti; suonano solo un flauto nuovo» disse Rikki. «Ti sei emozionata a vedere tuo padre dopo tanto tempo?» chiese Arkady.
«Quasi non avevo riconosciuto la macchina.» Abbracciò Rikki. «Non ci sono basi americane qui intorno? Non hanno degli shopping center?» Le si illuminò lo sguardo all'avvicinarsi di un giovane atletico americano, con camicia "button clown", cravatta a farfalla e bretelle rosse, che avvolse Arkady e Stas in un'occhiata incriminatoria. Alle sue spalle era tornata Ludmilla. «Questo dev'essere l'ospite a sorpresa venuto oggi alla radio» disse. Diede ad Arkady una stretta di mano ferma, democratica. «Sono Michael Healey, vicedirettore incaricato della sicurezza. Sa, quando il suo capo, il procuratore Rodionov, ha visitato la stazione gli abbiamo steso la passatoia rossa.» «Michael è anche vicedirettore responsabile delle passatoie» spiegò Stas. «Questo mi ricorda, Stas, che mi pare ci sia una direttiva di sicurezza: gli ospiti sovietici sono ammessi solo previa autorizzazione.» Stas scoppiò a ridere. «La sicurezza della stazione è così compromessa che una spia in più non fa la minima differenza. Stasera non è l'esempio perfetto di quello che dico?» «Mi piace il tuo senso dell'umorismo, Stas» disse Michael. «Renko, se vuol tornare a visitare la stazione, telefoni prima.» Si allontanò alla ricerca di vino bianco. Stas e Arkady presero dello scotch. «Cosa c'è di così speciale stasera?» chiese Arkady. «A parte il fatto di essere il primo anniversario della caduta del Muro? Corre voce che stasera verrà qui l'ex capo della sezione russa. Il mio ex amico. Lo amavano persino gli americani.» «È quello che è ripassato a Mosca?» «Lo stesso.» «Dov'è Irina?» «Vedrai.» «Ta-da!» L'ospite entrò dalla cucina reggendo una torta coperta di cioccolato fondente, con un Muro di Berlino di zucchero candito circondato da un gran numero di candeline rosse accese. «Buon compleanno, fine del Muro!» «Tommy, questa volta hai superato te stesso» disse Stas. «Sono uno sciocco sentimentale.» Tommy apparteneva a quel tipo di grassi che devono continuare a infilarsi la camicia nei calzoni. «Ti ho fatto vedere i miei ricordi del Muro?» «Le candeline» gli ricordò Stas.
La prima nota della canzoncina di compleanno venne interrotta da un nuovo rumore proveniente dalle scale, un'ondata di eccitazione che si diffuse nell'appartamento e uno spostamento generale per andare ad accogliere i nuovi arrivati. Il primo ad apparire sulla porta fu il professore intervistato alla radio. Tenne la porta spalancata per lasciar passare Irina, che entrò come scivolando in una bolla d'aria. Arkady capì che aveva mangiato buon cibo e bevuto buon vino in un buon ristorante. Champagne e qualcosa di meglio del borscht. Probabilmente c'era andata direttamente dalla radio, il che spiegava l'eleganza dei suoi vestiti durante la registrazione. Se gli occhi notarono Arkady, non registrarono né interesse né sorpresa. Fu seguita da Max Albov, con la giacca che indossava quando Arkady l'aveva incontrato a Petrovka. Tutti e tre ridevano per una battuta detta mentre salivano le scale. «Una cosa che ha raccontato Max» spiegò Irina. Tutti gli si strinsero intorno, desiderosi di essere messi a conoscenza. Max scrollò modestamente le spalle: «Ho detto solo "Mi sento come un figliol prodigo".» Ci furono immediatamente no di protesta, un'esplosione di risate, applausi di stima. Max aveva le guance arrossate: forse lo sforzo della salita, forse l'eccitazione per quell'accoglienza. Infilò il braccio di Irina sotto il suo. Qualcuno ricordò. «La torta!» Le candeline erano completamente bruciate. Il Muro di zucchero candito era crollato in una pozza di cera. 20 La torta sapeva di cenere e catrame. Ma la festa pareva avere ripreso vita con l'arrivo di Max Albov, che si era sistemato su un divano con Irina al centro. Regnavano insieme, una bella regina e un re cosmopolita. «Quando ero qui dicevano che ero della Cia. Quando sono tornato a Mosca dicevano che ero del Kgb. Per certa gente, queste sono le uniche risposte possibili.» «Forse adesso sarai una star della televisione americana, ma resti il miglior capo della sezione russa che abbiamo mai avuto» intervenne Tommy. «Grazie.» Max accettò un whisky come piccolo tributo di stima. «Ma quelli sono tempi andati. Qui avevo fatto tutto quello che potevo fare. La guerra fredda era finita. Non solo finita, era passata di moda. Era il mo-
mento di smetterla di fare la claque degli americani, per quanto amici potessero essere. Avevo la sensazione che, se davvero volevo aiutare la Russia, era il momento di tornare in patria.» «E come ti hanno trattato a Mosca?» chiese Rikki. «Volevano il mio autografo. Sul serio, Rikki, in Russia tu sei una star della radio.» «In Georgia» lo corresse Rikki. «In Georgia» concesse Max. Disse a Irina: «Tu sei la più famosa radioannunciatrice di Russia». Passò al russo. «Quel che in realtà mi stai domandando è se il Kgb mi ha spremuto, se ho comunicato dei segreti che avrebbero potuto mettere in pericolo la radio o qualcuno di voi. La risposta è no. È un'epoca chiusa. Non ho visto il Kgb, né ho incontrato nessuno di loro. In tutta franchezza, la gente a Mosca non si preoccupa di noi; sono troppo impegnati a cercare di sopravvivere e hanno bisogno di aiuto. Ecco perché ci sono andato.» «Alcuni di noi hanno delle condanne a morte che li aspettano» intervenne Stas. «Quelle vecchie sentenze vengono cancellate a centinaia. Va a chiedere al consolato.» Max ripassò all'inglese per il grande pubblico. «Probabilmente la cosa peggiore che attende Stas a Mosca è un pasto cattivo. Oppure, nel suo caso, una birra cattiva.» Arkady credeva che Irina avrebbe provato repulsione nell'essere toccata da Max, ma non era così. Con l'eccezione di Rikki e di Stas, tutti (russi, americani e polacchi) erano se non convinti per lo meno affascinati. Aveva sofferto nel suo viaggio di ritorno all'inferno? Ovviamente no. Niente capelli bruciati. Piuttosto, il sano colorito della gloria. «E a Mosca cosa fa esattamente per aiutare i russi affamati?» chiese Arkady. «Compagno investigatore» lo riconobbe Max. «Non c'è bisogno che mi chiami compagno. Sono anni che non sono più membro del Partito.» «Da meno tempo di me, comunque» puntualizzò Max. «Da meno tempo di chiunque di noi, a Monaco. Comunque, ex compagno, sono contento che me l'abbia chiesto. Due cose, in ordine inverso d'importanza. Uno, creo delle joint venture. Due, trovo l'uomo più affamato e più disperato di Mosca e gli organizzo un prestito per farlo venire qui. È lecito pensare che quest'uomo dovrebbe essermi più riconoscente. A proposito, come procede l'indagine?»
«Lentamente.» «Non si preoccupi, tornerà a casa molto presto.» Quello che addolorava Arkady, non era tanto l'essere trafitto con uno spillo come un insetto, quanto vedere la propria immagine negli occhi di Irina. Guarda questa zanzara, questo apparatchik, questa scimmia a una festa di persone civili! Ascoltava Max come se Arkady non esistesse. Si rivolse ad Albov. «Max, mi fai accendere?» «Naturalmente. Hai ripreso a fumare?» Arkady si ritirò dal circolo di ammiratori di Max e si ritrovò al bar. Stas lo aveva seguito. Accese una sigaretta e aspirò così profondamente che anche gli occhi parvero infiammarsi. «Hai visto Max a Mosca?» chiese ad Arkady. «Mi è stato presentato come giornalista.» «Max era un giornalista eccellente, ma può essere quel che desidera essere ogni volta che lo desidera. Max è il livello successivo dell'evoluzione. L'uomo del dopo Guerra Fredda. Gli americani volevano qualcuno che conoscesse la Russia. In realtà volevano un russo che avesse un'aria da americano, e lui è esattamente questo. Come mai Max si interessa a te?» «Non lo so.» Arkady trovò della vodka nascosta dietro il bourbon. Perché la gente beve? Un latino per mettersi in un'atmosfera di erotismo, un inglese per sciogliersi. I russi erano più diretti, pensò Arkady; bevevano per ubriacarsi e proprio questo lui intendeva fare quella sera. Ludmilla era già arrivata. Emerse dalla nebbia tutta occhi e velluto e gli rubò il bicchiere. «Danno tutti la colpa a Stalin» disse. «Mi sembra sleale.» Arkady cercò un altro bicchiere tra le bottiglie e il secchiello del ghiaccio. «Sono tutti paranoici» insistette lei. «Io compreso.» Non erano rimasti più bicchieri. Ludmilla abbassò la voce, che era già un sussurro da cospiratrice. «Lo sapevi che Lenin ha vissuto a Monaco sotto il nome di Meyer?» «No.» «Lo sapevi che è stato un ebreo a sparare allo zar?» «No.» «Tutte le porcherie, le purghe e la carestia, sono state organizzate dagli ebrei intorno a Stalin per distruggere il popolo russo. Stalin era ostaggio degli ebrei, era il loro capro espiatorio. È stato quando è cominciato ad andare contro i medici ebrei che è morto.» Stas chiese a Ludmilla: «Lo sapevi che il numero di bagni del Cremlino
è esattamente quello dei bagni del tempio di Gerusalemme? Pensaci su». Ludmilla se ne andò. Stas riempì un bicchiere ad Arkady. «Mi chiedo se lo riferirà a Michael.» Lanciò un'occhiata sardonica nella stanza senza risparmiare nessuno. «Un'insalata mista.» Cominciarono le polemiche. Arkady andò a ripararsi sulle scale con un altro misantropo, un tedesco vestito tutto di nero, da intellettuale. In fondo alle scale una ragazza singhiozzava. In qualsiasi party russo che si rispetti ci devono essere litigi e una ragazza che piange in fondo alle scale, pensò Arkady. «Sto aspettando di parlare con Irina» disse il tedesco. Aveva passato la ventina. Aveva occhi furtivi e un inglese nervoso. «Anch'io» disse Arkady. Ci fu un silenzio, piuttosto piacevole per Arkady, fino a quando il ragazzo sbottò: «Malevich era a Monaco». «Anche Lenin» disse Arkady. «Oppure era Meyer?» «L'artista.» «Oh, l'artista, quel Malevich.» L'artista della rivoluzione russa. Arkady si sentì un po' sciocco. «Tradizionalmente, esistono contatti tra l'arte tedesca e quella russa.» «Certo.» Affermazione indiscutibile, pensò Arkady. Il ragazzo si esaminò le unghie, mangiate fino alla carne. «Il quadrato rosso simboleggiava la rivoluzione, il quadrato nero simboleggiava la fine dell'arte.» «Giusto.» Arkady inghiottì metà della sua vodka in un sorso. Il ragazzo ridacchiò come se avesse ricordato qualcosa che valeva la pena di comunicare. «Malevich ha detto nel 1918 che i palloni da calcio del garbuglio dei secoli sarebbero bruciati nelle scintille delle bollicine di onde luminose.» «Bollicine di onde luminose?» «Bollicine di onde luminose.» «Stupefacente.» Arkady si chiese che cosa fosse solito bere Malevich. Irina non rimaneva mai sola quanto bastava per consentire ad Arkady di avvicinarla. Mentre si faceva strada tra gruppi di persone venne placcato da Tommy e portato davanti a un'enorme mappa dell'Europa Orientale con le posizioni tedesche e russe, indicate da svastiche e stelle rosse, alla vigilia dell'invasione hitleriana.
«Questa è splendida» disse Tommy. «Ho appena saputo chi era tuo padre. Una delle grandi menti della guerra. Mi piacerebbe moltissimo segnare esattamente dov'era tuo padre quando i tedeschi hanno attaccato. Se tu potessi indicarlo, sarebbe fantastico.» Era una mappa della Wehrmacht. I nomi delle località e dei fiumi erano in tedesco. Linee molto spaziate si arrampicavano sulla steppa dell'Ucraina, i trattini inclinati segnalavano la presenza di paludi in Bessarabia, le svastiche erano raccolte per indicare i fronti di Mosca, di Leningrado e di Stalingrado. «Non ne ho idea» rispose Arkady. «Neanche un sospetto? Ti ha raccontato degli aneddoti?» «Solo questioni di tattica» disse Max che li aveva raggiunti. «Nasconditi in un buco e accoltella il nemico alla schiena. Non è male come tattica quando si è sopraffatti e sconfitti.» Si rivolse ad Arkady. «Si sente sopraffatto e sconfitto? Ritiro la domanda. Tuttavia, quel che mi interessa è il fatto che il padre diventa generale e il figlio diventa investigatore. C'è una somiglianza, un'inclinazione alla violenza. Che cosa ne pensi, professore? Sei tu il medico.» Lo psicologo che era arrivato con Max era ancora in circolazione. Azzardò: «Forse uno stato di disagio nei confronti della società normale». «La società sovietica non è una società normale» osservò Arkady. «Allora lo dica lei» disse Max. «Ci spieghi come mai fa l'investigatore. Suo padre ha scelto di ammazzare la gente. È per questo che gli uomini diventano generali. Dire che un generale odia la guerra è come dire che uno scrittore odia i libri. Lei è diverso. Lei ha scelto di arrivare dopo il delitto. Lei ha il sangue senza il divertimento.» «Più o meno come la vittima» commentò Arkady. «E allora che cosa la spinge? Vive in una delle peggiori società della terra e ne sceglie la parte peggiore. Qual è il fascino morboso? Aver a che fare con i cadaveri? Mandare un disperato in galera per il resto della vita? Come direbbe il mio amico Tommy, lei cosa ci guadagna?» Non erano domande stupide. Lo stesso Arkady se le era già poste da solo. «Il permesso» rispose. «Il permesso?» ripeté Max. «Sì. Quando ammazzano qualcuno, per qualche tempo la gente deve rispondere a certe domande. L'investigatore ha il permesso di andare ai vari livelli e vedere com'è costruito il mondo. Un assassinio è un po' come una casa in sezione. Si vedono i piani uno sopra l'altro e da quale porta si entra
in quale stanza.» «Il delitto porta alla sociologia?» «Alla sociologia sovietica.» «Supponendo che la gente sia sincera. Ma io credo che stia mentendo.» «Gli assassini mentono.» Arkady notò che la corte di Max si era raccolta intorno a loro. Stas osservava da un angolo. Irina stava conversando nel corridoio che dava sulla cucina, mostrandogli la schiena. Arkady si pentì di aver aperto bocca. «A proposito di risposte oneste, da quanto tempo ascolta Irina alla radio?» chiese Max. «Da circa una settimana.» Per la prima volta Max sembrò autenticamente sorpreso. «Una settimana? È da molto che Irina fa l'annunciatrice. Mi aspettavo che lei dicesse che da anni sedeva devotamente davanti alla radio.» «Non avevo una radio.» Arkady diede un'occhiata verso il corridoio. Irina era scomparsa. «E l'ha comprata una settimana fa? Ed eccola qui a Monaco! Proprio a questa festa! Una coincidenza stupefacente» disse Max. «Non lo si può spiegare con il caso.» «Forse è stata fortuna.» Stas si inserì nella conversazione. «Max, vogliamo saperne di più sulla tua nuova carriera televisiva. Com'è in realtà Donahue? E vogliamo sapere anche della tua joint venture. Ti ho sempre visto come un leader intellettuale, non come un uomo d'affari.» «Ma Tommy stava per parlarmi del suo libro» disse Max. «Stavamo giusto arrivando alla parte interessante» precisò Tommy. Arkady uscì dal gruppo. Trovò Irina in cucina che prendeva delle sigarette da una stecca aperta sulla credenza. Tommy era un cuoco disordinato; scorza di carote e foglie di sedano traboccavano dall'asse per tagliare e dagli elettrodomestici di plastica. Su uno scaffale di libri di cucina occhieggiava un televisore portatile. A una parete era appeso un poster di una madre ariana. L'orologio segnava le due del mattino. Irina accese un fiammifero. Arkady ricordò che la prima volta che si erano incontrati lei gli aveva chiesto del fuoco, una prova per vedere come lui reagisse. Ora non glielo chiese. Quella prima volta, ricordò, si era trovato a suo agio. Adesso, aveva la bocca secca, il respiro bloccato, non riusciva a parlare. Perché ci provava per la terza volta? Stava esplorando fino a quali livelli di umiliazione fosse in grado di precipitare? Oppure era una sorta di cane di Pavlov che insiste-
va a farsi prendere a calci? Lo strano era che Irina sembrava uguale e diversa. Non era tanto un cambiamento, il suo, quanto la creazione di un amalgama tra una persona conosciuta e una perfetta estranea, trasmigrata in quel corpo familiare da ormai molto tempo. Irina incrociò le braccia. Il cashmere e l'oro che indossava erano lontanissimi dagli stracci e dalle sciarpe di Mosca. L'immagine di lei che Arkady aveva portato con sé le assomigliava sempre, ma solo come maschera. Una maschera attraverso la quale scrutavano occhi diversi. Arkady era stato tra i ghiacci dell'Artico. Non erano freddi come quella stanza. Questo era il guaio quando si conosceva intimamente una donna. Quando non si è più benvenuti si viene respinti nel buio. Si gira intorno a un sole che volge la schiena. «Come hai fatto ad arrivare qui?» gli chiese. «Mi ci ha portato Stas.» Irina si accigliò. «Stas? Ho saputo che ti ha portato anche alla radio. Ti avevo detto che era un provocatore. Questa sera sta andando un po' troppo...» «Ti ricordi di me?» chiese Arkady. «Certo che ti ricordo.» «Non si direbbe.» Irina sospirò. Arkady sembrava patetico perfino a se stesso. «Certo che mi ricordo. Solo che da anni non pensavo più a te. Qui in Occidente è diverso. Dovevo sopravvivere, trovare un lavoro. Ho conosciuto un sacco di gente diversa. La mia vita è cambiata, sono cambiata io.» «Non devi dispiacerti» disse Arkady. Da come lei raccontava la cosa, parevano due placche tettoniche che si allontanavano in direzioni diverse. Era fredda, analitica, corretta. «Non ho danneggiato troppo la tua carriera?» chiese Irina. «Un singulto russo.» «Non farmi sentir male» mormorò lei, sebbene nulla indicasse che lui potesse riuscirci. «No. Avevo aspettative esagerate. Forse la memoria mi ha giocato.» «A dire la verità, quasi non ti riconoscevo.» «Sono così migliorato?» chiese Arkady. Una battuta fiacca. «Mi avevano detto che avevi successo.» «Chi te l'ha detto?» chiese Arkady. Irina accese una seconda sigaretta sulla prima. Chissà come mai i russi
devono bruciare sempre qualcosa, si chiese Arkady. Lei lo fissò, tra il fumo, il volto nascosto dai capelli. Immaginò di tenerla fra le braccia. No, non era immaginazione; era un ricordo. Ricordò il peso della guancia di lei contro la sua mano, la dolcezza delle sopracciglia. Irina alzò le spalle. «Max è stato un amico e un appoggio per anni. È meraviglioso rivederlo qui.» «Si vede che è popolare.» «Nessuno sa come mai sia tornato a Mosca. Ti ha aiutato, per cui non hai motivo di lamentarti.» «Avrei voluto essere qui» disse Arkady. Se la toccassi semplicemente, pensò, potrei forse ristabilire il contatto. No, diceva l'espressione di Irina. «Adesso è troppo tardi. Non mi hai mai seguita. Qui tutti i russi sono emigrati o scappati. Tu sei rimasto.» «Il Kgb aveva detto...» «Avrei capito se tu fossi rimasto un anno o due, ma sei rimasto per sempre. Mi hai lasciata sola. Ho aspettato a New York; non sei mai venuto. Sono andata a Londra per esserti più vicina; non sei mai venuto. Quando ho scoperto dov'eri, stavi facendo esattamente quel che facevi prima, il poliziotto in uno stato di polizia. Adesso finalmente sei qui, ma non per vedere me. Sei qui per arrestare qualcuno.» «Non avrei potuto venire senza ....» obiettò Arkady. «Credevi che ti avrei aiutato?» riprese Irina. «Quando penso al tempo in cui volevo vederti e tu non c'eri, grazie a Dio c'era Max. Max e Stas e Rikki... tutti qui hanno avuto il coraggio, in un modo o nell'altro, nuotando, scappando o saltando da un finestra, di fuggire. Tu non l'hai fatto, per cui non hai il diritto di criticare nessuno, né di interrogarli, né di stare con loro. Per quel che mi riguarda, sei morto.» Prese un pacchetto di sigarette e uscì dalla cucina mentre Tommy entrava danzando, accennando le note di una polka, raccogliendo olive e salatini. Camminava come un ubriaco. In testa si era messo un elmetto tedesco. Nell'elmetto si apriva un buco. Una sensazione che Arkady conosceva bene. 21 La Bayern-Franconia Bank era un palazzo bavarese di blocchi di pietra sotto un cappello di tegole rosse. L'interno era tutto marmi, legni scuri e
ronzio discreto dei computer accesi su misteriosi tassi di interesse e scambi di valuta. Fatto salire in un ascensore e accompagnato lungo un corridoio dalle cornici rococò, Arkady si sentì intimidito, come se fosse entrato nella chiesa di un rito sconosciuto. Schiller sedeva dietro la scrivania, irrigidito e come impagliato. Era sulla settantina, con occhi azzurri in un viso roseo. I capelli d'argento, pettinati all'indietro, partivano dalla fronte bassa. Portava un fazzoletto di lino nel taschino della giacca scura da banchiere. Gli stava al fianco un uomo in giacca a vento e jeans, l'abbronzatura che sfumava nei capelli biondi. Gli occhi azzurri e l'espressione di trattenuto disprezzo erano identici a quelli del vecchio. Schiller esaminò la lettera che Arkady aveva scritto sulla carta intestata di Federov. «E un investigatore speciale sovietico si presenta così?» chiese. «Temo di sì.» Arkady gli porse il tesserino rosso. Non aveva notato quanto gli angoli fossero consunti, la rilegatura malandata. Tenendo il tesserino a distanza, Schiller esaminò la foto. Sebbene si fosse rasato, Arkady sentiva di aver l'aria di chi si era seduto sui suoi vestiti prima di indossarli. Controllò l'impulso di raddrizzare la piega dei calzoni. «Peter, vuoi dargli un'occhiata?» chiese Schiller. «Le dispiace?» domandò l'altro ad Arkady. Era un tipo di cortesia riservata alle persone sospette. «La prego.» Peter accese la lampada sulla scrivania. Mise una pagina sotto la luce e il giubbotto si alzò mostrando una fondina alla cintura con relativa pistola. «Come mai Federov non è venuto con lei?» chiese Schiller. «Si scusa. Stamattina ha un gruppo religioso, poi dei cantanti folk di Minsk.» Peter riconsegnò il tesserino. «Le dispiace se faccio una telefonata?» «Faccia pure» disse Arkady. Peter usò il telefono mentre Schiller teneva d'occhio il visitatore. Arkady sollevò lo sguardo sul soffitto: alcuni grassi cherubini dalle piccole ali si stagliavano in volo contro un cielo di intonaco. Le pareti azzurro di Dresda davano all'aria un tono grigio spento. Tra stampe di navi mercantili spiccavano i ritratti a olio degli antenati banchieri. I bravi borghesi sembravano essere stati imbalsamati e poi dipinti. Su uno scaffale si allineavano dei tomi di diritto internazionale disposti per anno e in una cupola di cristallo
un orologio d'ottone con un pendolo che si avvolgeva intorno a un'asta. Notò una fotografia in bianco e nero di macerie e muri bruciati. Un tetto era crollato come una tenda su una distesa di mattoni. Una vasca da bagno era stata disposta in strada come un truogolo. La circondava un gruppo di persone nelle uniformi grigie dei profughi. «Una foto curiosa per una banca» disse. «È questa banca» spiegò Schiller. «È questo edificio dopo la guerra.» «Impressionante.» «Quasi tutti i paesi si sono ripresi dalla guerra» commentò Schiller in tono asciutto. Peter riuscì finalmente a far venire qualcuno al telefono. «Pronto» disse leggendo la lettera. «C'è Federov? Dove lo posso trovare? Mi può dire esattamente quando? No, no, grazie.» Riappese e fece un gesto ad Arkady. «Qualche gruppo religioso e dei cantanti.» «Federov ha sempre da fare» confermò Arkady. «Il vostro Federov è un idiota» disse Schiller «se pensa che la BayernFranconia Bank si ritenga obbligata a indagare su un cittadino tedesco. E solo un cretino può immaginare che la Bayern-Franconia Bank metta in piedi una joint venture con un socio sovietico.» «Federov è fatto così» consentì Arkady come se gli atteggiamenti dell'attaché fossero una leggenda. «Tutto quello che so è che mi è stato detto di risolvere questa faccenda in silenzio. Mi rendo conto che la banca non è obbligata a collaborare.» «E non ha neanche l'intenzione di farlo» precisò Schiller. «Non vedo perché dovreste» disse Arkady. «Io ho detto a Federov che avrebbe dovuto informare i ministeri e uscire allo scoperto. Far intervenire l'Interpol, presentare una denuncia Più si fa pubblicità e meglio è. Così si protegge la reputazione di una banca.» «Il nome della banca potrebbe essere protetto semplicemente togliendolo dai rapporti su Benz» osservò Schiller. «È vero» concordò Arkady. «Ma dato che la situazione a Mosca è quella che è, nessuno al consolato desidera prendersi questa responsabilità.» «Lei potrebbe?» domandò Schiller. «Sì.» «Nonno, vuoi il mio consiglio?» chiese Peter. «Certamente» disse Schiller. «Chiedigli quanto vuole per lasciare in pace la banca. Cinquemila marchi? Diecimila, se fa a metà con Federov? Tutta questa storia della Tran-
sKom, di Benz e della Bayern-Franconia è pura invenzione. Non ci sono relazioni, non ci sono collegamenti. Basta guardarlo per capire che mente. Lo sento a naso. Si tratta di un racket. Suggerisco di chiamare qualche altra banca per vedere se sono stati avvicinati da Federov e da Renko, se hanno sentito una storia a proposito di joint venture e di indagini. Dovresti chiamare immediatamente il console generale, presentare una protesta ufficiale e poi fare venire un avvocato. Cosa ne pensi?» Il banchiere aveva labbra sottili, e non riusciva a sorridere. Ma non c'era nulla di vecchio né di debole negli occhi. Valutavano Arkady come se fosse una manciata di spiccioli. «Sono d'accordo» disse Schiller. «Non credo di avere mai visto un personaggio meno genuino in vita mia. D'altra parte, Peter, non abbiamo mai incontrato un banchiere sovietico. È vero che la banca non è a conoscenza né può essere messa in relazione con le affermazioni dell'individuo descritto dal consolato sovietico. Certamente non abbiamo l'obbligo di dare assistenza al consolato. Tuttavia, se abbiamo imparato qualcosa dalla storia è che il fango è un'ottima vernice. Meritata o meno, non va mai via del tutto.» Tacque, come se fosse uscito per un attimo dalla stanza. Si riscosse e guardò Arkady. «La banca non parteciperà a nessuna indagine ma, esclusivamente per cortesia, mio nipote Peter si offre di aiutarla. Nella misura in cui la faccenda rimane assolutamente confidenziale.» La collera visibile sul viso di Peter mostrava la sua assoluta mancanza di entusiasmo. «Su base informale» precisò Peter. «In che modo può contribuire?» chiese Arkady. Peter estrasse un tesserino molto più bello di quello di Arkady. Cuoio vero, incisioni in oro, una foto a colori in giacca verde e berretto. Tenente Schiller, Peter Christian, polizia di Monaco. Era molto più di quel che Arkady desiderasse. Si trovava in una trappola da lui stesso costruita: se non accettava l'offerta i tedeschi avrebbero telefonato di nuovo al consolato finché non fossero riusciti a contattare Federov. «È un onore» disse Arkady. L'auto di servizio di Peter Schiller era una Bmw verde e bianca, con radiotelefono sotto il cruscotto e un lampeggiatore azzurro posato sul sedile posteriore. Schiller allacciava le cinture di sicurezza e usava sempre le frecce, cedendo il passo ai ciclisti che uscivano dalla corsia riservata, supe-
rando i pedoni ammassati in docili formazioni che aspettavano il verde anche in assenza di traffico. Sembrava leggermente troppo grosso per la macchina. Aveva anche l'aria della persona pronta a tirar sotto chiunque avesse avuto il coraggio di attraversare con il rosso. «Scommetto che la radio e il telefono funzionano» disse Arkady. «Certo che funzionano.» Irrazionalmente, Arkady provò rimpianto per la guida omicida di Jaak e per gli istinti suicidi dei pedoni moscoviti. Peter aveva l'aria della persona che si teneva in forma facendo sollevamento di buoi. La giacca a vento era gialla. Arkady notò che il giallo era il colore più diffuso a Monaco. Un giallo oro-senape-diarrea. «Tuo nonno parla bene il russo.» «L'ha imparato sul fronte orientale. È stato prigioniero di guerra.» «Anche il tuo russo è ottimo.» «Penso che tutti i poliziotti dovrebbero parlarlo» rispose Peter. Puntavano verso sud. Verso le due cupole della Marienkirche in centro. Peter scalò la marcia per lasciar passare un tram che pareva un giocattolo. Bisognava lavorare sodo per mantenere l'abbronzatura di Peter Schiller, pensò Arkady. Sci d'inverno, nuoto d'estate. «Tuo nonno ha detto che ti saresti offerto volontario. Dammi qualcosa di interessante» disse. Peter lo guardò dritto negli occhi un paio di volte prima di rispondere. «Boris Benz non ha precedenti. In realtà, l'unica informazione che abbiamo è che, secondo la motorizzazione, Benz ha i capelli biondi, gli occhi castani, è nato nel 1955 a Potsdam, fuori Berlino, e non porta occhiali.» «Sposato?» «Con Margarita Stein, ebrea sovietica.» «I dati della donna dove sono?» «A Mosca, a Tel Aviv... chissà.» «È un punto di partenza. Tasse, documenti di lavoro? Servizio militare o assistenza sanitaria?» «Potsdam era nella Ddr. Bisogna capire, adesso siamo una sola Germania, ma molti documenti della Germania dell'Est non sono stati ancora portati a Bonn.» «Ci sono telefonate?» «Oh, oh. Senza ordine del tribunale, non si possono controllare le telefonate. Abbiamo delle leggi.» «Capisco. Avete anche delle dogane. Avete controllato?» «Benz potrebbe essere a casa, o dovunque nell'Europa occidentale. Da
quando c'è la Comunità Europea non esiste più un vero e proprio controllo dei passaporti.» «Che auto guida?» chiese Arkady. Peter sorrise, entrando nel gioco. «A suo nome è registrata una Porsche 911 bianca.» «Targa?» «Non credo di poter comunicare ulteriori informazioni.» «Che informazioni? Telefona a Potsdam e ordina di far venire i suoi documenti.» «Per una questione privata? È assolutamente illegale.» Intorno all'obelisco le auto si mescolavano e si separavano senza il furore degli incroci di Mosca dove, particolarmente d'inverno, autocarri e macchine si gettavano rombando nella mischia con la disciplina degli yak. Qui automobilisti, ciclisti e pedoni parevano aver ricevuto gli ordini per la giornata. Assomigliava a una casa di riposo grande come una città. Peter sorrideva, dimostrando di essere capace di giocare fino a sera. «Ci sono molti delitti?» «A Monaco?» «Sì.» «Delitti da birra.» «Da birra?» «Oktoberfest, Fasching. Ubriachi. Non sono dei veri e propri assassinii.» «Non come gli assassini da vodka?» «Lo sai cosa dicono dei reati in Germania?» chiese Peter. «Che cosa dicono dei reati in Germania?» «Che sono contro la legge.» Arkady riconobbe gli alberi del Botanischer Garten. Quando la Bmw si fermò a un semaforo, scese e si voltò per infilare un pezzo di carta nella giacca a vento di Peter. «Questo è un numero di fax di Monaco. Trova a chi appartiene, se non è contro la legge. Dall'altra parte c'è un numero di telefono. Mi puoi chiamare là alle cinque.» «Il tuo numero al consolato?» «Non sarò al consolato. È un numero privato.» Il mio minuto di privacy in cabina, pensò. «Renko!» gridò Peter mentre Arkady saliva sul marciapiedi. «Stattene lontano dalla banca.» Arkady continuò a camminare. «Renko!» Peter aggiunse un altro avvertimento. «Riferisci a Federov
quel che ti ho detto.» Armato di sapone e di spazzola, Arkady tornò alla pensione, lavò i suoi vestiti e li appese ad asciugare. Dal piano di sotto arrivava un profumo dolciastro di agnello speziato. Non aveva fame. Lo aveva assalito una sonnolenza tale che quasi non riusciva a muoversi. In piedi davanti alla finestra, guardando in strada verso la stazione, osservava i treni che arrivavano e partivano lentamente. I binari avevano il colore argenteo delle tracce lasciate dalle lumache, forse una cinquantina di linee parallele con molti scambi per far passare una locomotiva da un binario all'altro. Con quanta facilità, senza rendersene conto, un uomo si ritrova su un binario parallelo a quello della vita che intendeva fare per poi, anni dopo, arrivare a scoprire che la banda ormai se ne è andata, i fiori sono appassiti, l'amore è scomparso. Dovrebbe essere vecchio, curvo e con la barba, dovrebbe scendere dal treno con un bastone, invece di essere semplicemente in ritardo. Si lasciò andare sul letto e cadde immediatamente in un sonno profondo. Sognò di essere su una locomotiva. Era il macchinista, aveva il torace nudo e sedeva davanti a un pannello di manometri e comandi. Fuori dal finestrino scorreva un cielo azzurro. Una mano di donna gli si posava leggermente sulla spalla. Lui non si guardava indietro per paura che lei non ci fosse. Filavano lungo una spiaggia. Chissà come, senza binari, la locomotiva riusciva ad avanzare sulla sabbia. Le onde lontane riflettevano fasci di luce solare, quelle vicine si arricciavano pigramente una sull'altra per rompersi sulla sabbia, mentre gabbiani dai contorni perfetti si tuffavano. Era la mano di lei o il ricordo della sua mano? Era contento di non guardare e di continuare a far andare il treno con la sola forza di volontà, se necessario. A un certo punto, però, le ruote si bloccarono. Il sole stava calando. Le onde crebbero trasformandosi in muraglioni neri e trascinando con sé dacie, automobili, uomini della milizia, generali, lanterne cinesi e torte di compleanno. In preda al panico, Arkady aprì gli occhi. Era a letto, al buio. Guardò l'orologio. Le dieci di sera. Aveva dormito dieci ore, mancando la telefonata di Peter Schiller alla cabina. Se aveva telefonato. Qualcuno bussava alla porta. Si alzò scostando le camicie e i calzoni appesi ad asciugare. Non riconobbe il visitatore, un americano massiccio dai capelli ispidi e un accenno di sorriso sul volto. «Sono Tommy, ti ricordi? Sei venuto a una festa a casa mia, ieri sera.» «L'uomo con l'elmetto, certo. Come hai fatto a sapere dove abito?» «Stas. L'ho tampinato fino a quando me l'ha detto; per trovare la camera
è bastato bussare a tutte le porte. Possiamo fare quattro chiacchiere?» Fattolo entrare, Arkady si mise alla ricerca di una camicia e delle sigarette. Tommy portava una giacca di velluto che tirava sui bottoni. Si muoveva camminando sulle punte e teneva le mani leggermente serrate. «Ieri sera ti ho detto che ero uno studioso della Seconda guerra mondiale, "La Grande Guerra Patriottica" per voi. Tuo padre è stato uno dei più interessanti generali di parte sovietica. Naturalmente mi piacerebbe discutere ancora un po' di lui con te.» «Non mi pare che ne abbiamo mai parlato.» Arkady sedette per infilare le calze. «Appunto. La verità è che sto scrivendo un libro sulla guerra vista dalla parte dei sovietici. Non c'è bisogno che ti parli dei sacrifici fatti dal popolo sovietico. Comunque, questo è uno dei motivi per cui lavoro a Radio Liberty: per le informazioni. Quando viene qualche persona interessante, la intervisto. Ho sentito dire che forse tra poco riparti, per cui mi sono precipitato.» Arkady cercò le scarpe. Non seguiva attentamente Tommy. «Fai interviste per la radio?» «No, solo per me, per il libro. Non mi occupo esclusivamente della tattica militare, sono interessato anche allo scontro di personalità. Speravo che tu potessi fornirmi qualche approfondimento sul conto di tuo padre.» Fuori dalla finestra, la stazione era una distesa di segnali luminosi. Arkady vide delle torce elettriche muoversi intorno ai carri merci e udì i colpi secchi dei vagoni che venivano attaccati. «Chi ti ha detto che me ne sarei andato tra poco?» «Si dice in giro.» «Chi?» Tommy si sollevò in punta di piedi. «Max.» «Max Albov. Lo conosci bene?» «Max era il capo della sezione russa. Io lavoro agli Archivi Rossi. Abbiamo lavorato insieme per anni.» «Gli Archivi Rossi?» «La più grossa biblioteca di studi russi che ci sia in Occidente. È a Radio Liberty.» «Eri amico di Max.» «Mi piace credere che lo siamo ancora.» Tommy mostrò un registratore a cassetta. «Comunque, quello di cui volevo parlare è la decisione di tuo
padre di rimanere dietro le linee tedesche per mettersi a fare la guerriglia, malgrado fosse stato sopraffatto.» «Conosci Boris Benz?» chiese Arkady. Tommy si piegò all'indietro e disse: «Ci siamo incontrati una volta». «In che situazione?» «Subito prima che Max andasse a Mosca. Naturalmente nessuno sapeva che ci sarebbe andato. Era con Benz.» «E da allora Benz non l'hai più visto?» «No. E stato per puro caso. Quando ci siamo incontrati, sia io che Max siamo rimasti sorpresi.» «Hai incontrato Benz una sola volta e lo ricordi?» «Date le circostanze, sì.» «Chi altri era presente?» Tommy si contorse e sotto la giacca apparvero i lembi della camicia. «Impiegati, clienti. Non ho più rivisto nessuno. Forse questo non è il momento adatto per intervistarti.» «È perfetto. Dove hai incontrato Benz e Max?» «Red Square.» «A Mosca?» «No.» «A Monaco?» «È un night club.» «È aperto, adesso?» «Sicuro.» «Portamici.» Arkady prese una giacca. «Ti dirò tutto sulla guerra e tu mi parlerai di Benz e di Max.» Tommy trasse un respiro di sfida. «Se Max lavorasse ancora a Radio Liberty non riusciresti a tirarmi fuori neanche una parola...» «Hai una macchina?» «Una specie» disse Tommy. Arkady non era mai salito su una Trabant. Era una bagnarola in fibra di vetro dotata di pinne posteriori. Il motore bicilindrico faceva un rumore sincopato. Il fumo usciva non solo dal tubo di scappamento ma anche dalla stufa a petrolio sistemata sul pavimento, tra i piedi. I finestrini anteriori erano abbassati, quelli posteriori erano fissi. Ogni volta che veniva superata da un'Audi o da una Mercedes, la Trabant ondeggiava per lo spostamento d'aria.
«Che te ne pare?» chiese Tommy. «È come viaggiare in sedia a rotelle» disse Arkady. «È più un investimento che una macchina» spiegò Tommy. «La Trabi è un pezzo di storia. A parte il fatto di essere lenta, pericolosa e inquinante, è probabilmente il mezzo tecnologico più efficiente che esista al mondo. Fa ottanta chilometri all'ora e brucia metano o catrame... probabilmente anche tonico per capelli.» «Parrebbe russa.» In realtà la Trabant faceva sembrare lussuosa la Zhiguli di Arkady. Faceva sembrare bella perfino una Fiat Polska. «Tra dieci anni sarà un pezzo da collezione» promise Tommy. Avevano raggiunto la periferia della città, una distesa buia dove file di luci portavano alle varie autobahn. Quando Arkady si voltò per vedere se erano seguiti, il sedile sembrò spezzarglisi sotto. «Storicamente, i rapporti russo-tedeschi sono a dir poco incredibili» attaccò Tom. «Con i tedeschi sempre in moto verso Est e i russi sempre in moto verso Ovest, e in più con le leggi razziali naziste che rendevano tutti gli slavi untermenschen, buoni solo per fare gli schiavi. Hitler da una parte, Stalin dall'altra. Quella sì che è stata una guerra.» Aveva il viso contratto in una smorfia di orgoglio e di cameratismo. Arkady si rese conto che era un uomo solo. Chi altri sarebbe stato disposto ad andare in giro la sera tardi con un investigatore russo? Nella corsia accanto, un'autocisterna si avvicinò, risucchiò l'aria e passò con un rombo facendo vibrare violentemente la Trabi. Tommy ardeva di piacere. «Conoscevo bene Max prima di andare a lavorare agli Archivi Rossi, quando mi occupavo della sezione Analisi Programmi. Io non creavo programmi, avevo del personale che ne valutava il contenuto. Radio Liberty segue determinati criteri. I nostri anticomunisti più accesi sono monarchici. Ovviamente noi dobbiamo propagandare la democrazia, ma a volte entra in gioco un po' di antisemitismo, a volte un pochino di sionismo. È un problema di equilibrio. Inoltre traduciamo i programmi per consentire al presidente della stazione di sapere che cosa viene trasmesso. Comunque, avevo una vita più facile quando Max era capo della sezione russa. Lui capiva gli americani.» «Secondo te, perché è tornato a Mosca?» «Non lo so. Ci ha lasciato tutti a bocca aperta. Ovviamente, doveva avere contatti con i sovietici anche prima di tornare. Loro l'hanno usato come un fiore all'occhiello, quando si è fatto vedere a Mosca. Ma qui nessuno ne
è stato danneggiato. Altrimenti non sarebbe stato accolto così bene alla festa.» «Cosa pensano di lui gli americani della stazione?» «Il presidente Gilmartin, tanto per cominciare, rimase sconvolto. Max era sempre stato il preferito. È stato uno choc pensare che il Kgb fosse penetrato a Radio Liberty. Hai conosciuto Michael Healey alla festa. È il vicedirettore. Ha smontato la stazione per cercare una talpa. Ora pare che Max sia reimpatriato solo per far soldi. Come un capitalista. Non gli si può dare addosso.» «Michael ha parlato a Benz di Max?» «Non credo che Michael sapesse di Benz. Nessuno vuole che Michael vada a ficcare il naso nella sua vita. Comunque, è andato tutto bene. Max è tornato profumato come una rosa.» Tommy rafforzò il concetto: «È andato alla Cnn». Arkady si guardò di nuovo alle spalle. Qualcosa lo rendeva irrequieto, anche se dietro non c'era altro che foschia. Davanti a loro, la strada si biforcava in direzione nord verso Norimberga, a sud verso Salisburgo. Tommy voltò a destra; non appena ebbero superato la curva e un sottopassaggio, Arkady vide quella che appariva come un'isola rosa nel buio. Non aveva idea di ciò che si era aspettato: le mura del Cremlino o le cupole di San Basilio che salivano al cielo come fantasmi accanto all'autobahn? Certo qualcosa di più che una bassa costruzione di stucco bianco incorniciata da un neon rosso, un quadrato di luce rossa che sanguinava nell'aria accanto all'insegna "RED SQUARE" e, in un corsivo più sciolto, "SEX CLUB". Scendendo dalla Trabi pensò che nulla di ciò che si sogna è strano come ciò che si vede. L'interno del club era talmente intriso di luci rosse che era difficile mettere a fuoco lo sguardo, ma Arkady notò alcune donne in bretelle, calze nere, reggiseno a balconcino e corsetto. Il tema russo era evocato da samovar d'ottone sui tavoli e da stelle fluorescenti alle pareti. «Cosa te ne pare?» Tommy s'infilò la camicia sotto la cintura. «Come gli ultimi giorni di Caterina la Grande» rispose Arkady. Era interessante vedere quanto fossero intimiditi gli uomini in un bordello. Avevano i soldi, la possibilità di scegliere, quella di andarsene. Le donne erano serve, schiave, materassi. Eppure il potere, perlomeno di fronte al sesso, era invertito. Le donne ammiccavano, se ne stavano distese a loro agio sui divanetti, come gatte; gli uomini rivelavano i tic della gente nuda.
Intorno al bar a ferro di cavallo erano raccolti alcuni soldati americani. Avvicinati da una prostituta, recitavano nervosamente una messinscena di fascino e seduzione, mentre la donna manteneva un'espressione così indifferente e annoiata che avrebbe potuto benissimo sembrare addormentata. Ciò che sconcertava Arkady era il fatto che le donne fossero veramente russe. Lo sentiva dall'accento e dai sussurri che si scambiavano, lo vedeva dal pallore della carnagione, dalla piega degli occhi. Una donna, vestita di seta rosa, aveva due spalle talmente larghe da sembrare una ragazza di campagna venuta dalla steppa in Occidente con addosso la sola biancheria intima. Stava sussurrando qualcosa a un'amica, più delicata, con enormi occhi da armena e un body di pizzo nero. Osservando, Arkady non poté fare a meno di porsi delle domande. In cosa le prostitute russe erano diverse da quelle tedesche? Per spirito protettivo, per sottomissione, per la capacità di guarire? Vide che lo indicavano. Erano in grado di riconoscerlo; anche lui era russo. Si chiese quanto fosse disperato il suo bisogno d'amore, o almeno di un'imitazione dell'amore. Emanava quel bisogno oppure sembrava morto come un fiammifero bruciato? «Dicevi che Max Albov è tornato a Monaco profumato come una rosa» ricordò a Tommy. Tommy disse: «Adesso lo rispettiamo ancora di più. Scommetto che avrà un grande successo». «In che modo? Te l'ha detto?» «Giornalismo televisivo.» «Ha parlato di una joint venture.» «Beni mobili e immobili. Dice che chi non è in grado di fare soldi a Mosca non è in grado di trovare delle mosche sulla merda.» «Sembra invitante. Forse dovrebbero tornare tutti a Mosca» «L'idea era proprio quella.» Tommy non riusciva a togliere gli occhi di dosso alle prostitute. Era paonazzo e la sola vicinanza delle donne pareva averlo surriscaldato. La camicia gli premeva contro il ventre, si passava le dita spesse nei capelli, manifestando un'eccitazione che Arkady non condivideva. L'amore era una brezza di montagna, era l'aurora e il nirvana; il sesso era come rotolarsi tra le foglie; il sesso a pagamento sapeva di vermi. Ma da tanto ormai non conosceva né il sesso né l'amore. Come poteva giudicare? Per un uomo il sesso a pagamento è una cosa rozza e che ottunde il desiderio, per un altro è un fatto semplice e diretto. Quest'ultimo ha meno fantasia, oppure più soldi?
Ogni razza ha un proprio catalogo di lineamenti. L'ascendenza tartara si nota negli occhi stretti e a mandorla. Gli slavi hanno il viso ovale e le sopracciglia arrotondate. Labbra minuscole, pelle candida come la neve. Ma nessuna delle donne assomigliava a Irina. I suoi occhi erano più grandi e più profondi, più bizantini che mongoli, avevano un'espressione più aperta e al contempo più nascosta. Il volto era meno ovale, la curva della mascella più dolce, la bocca più piena, meglio disegnata. Era curioso; a Mosca la sentiva cinque volte al giorno. A Monaco, il silenzio. A volte gli capitava di pensare alle vite alternative che lui e Irina avrebbero potuto condurre. Essere amanti. Essere sposati. Il modo comune in cui la gente vive e dorme e si sveglia insieme. Forse, addirittura, arriva al punto di odiarsi e decide di lasciarsi, ma in modo normale, non con una vita tagliata a metà. Non con un sogno che degenera in ossessione. La donna in rosa si avvicinò con un'amica e chiese dello champagne. «Sicuro.» A Tommy tutto sembrava una buona idea. Presero posto a un tavolo d'angolo. La donna in rosa si chiamava Tatiana, l'amica con il body era Marina. Tatiana aveva i capelli scuri alla radice e una coda di cavallo bionda molto elaborata. Marina portava i capelli neri pettinati in modo da nascondere dei graffi su una guancia. Tommy, che recitava la parte dell'ospite, fece le presentazioni: «Il mio amico Arkady». «Sapevamo che era russo» disse Tatiana. «Ha un'aria romantica.» «Gli uomini poveri non sono romantici» obiettò Arkady. «È molto più romantico Tommy.» «Potremmo divertirci in questo posto» suggerì Tommy. Arkady osservò una donna camminare davanti a un soldato, diretta verso una tenda che portava alle stanze sul retro, le anche in lento movimento verso un'altra battaglia. «Vi capita di vedere molti russi?» chiese. «Camionisti.» Tatiana fece una smorfia. «Di solito la clientela è più internazionale.» «Mi piacciono i tedeschi» disse Marina, meditabonda. «Si lavano.» «Particolare importante» disse Arkady. Tatiana portò il suo bicchiere di champagne sotto il tavolo e lo irrobustì con liquore versato da una fiaschetta; ripeté l'operazione con gli altri tre bicchieri. Ancora una volta la vodka sovvertiva il sistema. Marina si chinò sul suo bicchiere e sussurrò in italiano: «Molto importante». «Parliamo italiano» disse Tatiana. «Siamo state due anni in giro per l'Italia.» «Eravamo con la compagnia del Bolshoi Piccolo Ballet» spiegò Marina.
«Non necessariamente collegata al nostro Bolshoi.» Tatiana ridacchiò. «Però danzavamo.» Marina si raddrizzò sulla sedia per far risaltare il collo vigoroso. «Piccole città. Ma tanto sole e tanta musica» ricordò Tatiana. «C'erano altre dieci cosiddette compagnie di ballo russe in Italia quando ce ne siamo andati, tutte che ci copiavano» disse Marina. «Credo che possiamo dire di avere diffuso l'amore per la danza» aggiunse Tatiana. Versò di nuovo da bere ad Arkady. «Sei sicuro di non aver soldi?» «La attirano sempre gli uomini sbagliati» osservò Marina. «Grazie» disse Arkady. «Sto cercando un paio di amici. Uno si chiama Max. Russo, ma vestito meglio di me; parla inglese e tedesco.» «Mai visto uno del genere» rispose Tatiana. «E Boris» aggiunse Arkady. «Boris è un nome comune» intervenne Marina. «Di cognome fa qualcosa come Benz.» «Qui anche quello è un cognome comune» disse Tatiana. «Che aspetto ha?» chiese Arkady a Tommy. «Alto, di bell'aspetto, amichevole.» «Parla russo?» chiese Tatiana. «Non so. Con me si parlava solo tedesco» disse Tommy. Benz era una creatura nebulosa, soltanto un nome su un modulo a Mosca e su una lettera a Monaco. Arkady si sentì sollevato nell'incontrare qualcuno che avrebbe potuto conoscerlo di persona. «Perché dovrebbe parlare russo?» chiese Arkady. «Il Boris a cui sto pensando è un tipo molto internazionale» spiegò Marina. «Sto solo dicendo che parla molto bene il russo.» «È tedesco» disse Tatiana. «Tu non sei mica stata a letto con lui.» «E neanche tu.» «Tima ci è stata e ha fatto anche dei commenti.» «Fatto dei commenti?» Tatiana ostentò un tono altero. «Siamo amiche.» «Che vacca. Scusami» aggiunse Tatiana quando vide che Marina era rimasta male. Rivolta ad Arkady disse: «Quella è un salsiccia polacca. Cosa vuoi che ti dica?». «Tima è qui?» «No, ma te la posso descrivere» disse Tatiana. «Rossa, auto a quattro ruote motrici, si fa chiamare anche "Bronco".»
«Ho capito dov'è» disse Tommy desideroso di rientrare nella conversazione. «In fondo alla strada. Ti ci porto io.» «Mi piacerebbe che tu avessi dei soldi» disse Tatiana ad Arkady. Date le circostanze, pensò lui, questo è il più grande complimento che potessi aspettarmi. Una dozzina di Jeep, Trooper, Pathfinder e Land Cruiser occupava una piazzola dell'autostrada. Al volante di ciascuna c'era una prostituta in attesa. Per andare a scegliere, i clienti parcheggiavano sulla banchina. Una volta fissato il prezzo, la donna spegneva la lampada rossa, il cliente saliva sull'auto e insieme si trasferivano in fondo allo spiazzo, lontani dalle luci della strada. Ai margini di un campo buio si vedevano già una trentina di fuoristrada. Tommy e Arkady si diressero a piedi verso le auto illuminate e raggiunsero il centro dello spiazzo, facendosi da parte al passaggio di una Trooper. Tommy era sempre più voglioso. «Prima lavoravano nelle roulotte in città, fino a quando la gente ha cominciato a lamentarsi del traffico notturno. Qui si notano meno. Sono sicure: visita medica una volta al mese.» I finestrini posteriori delle auto più lontane erano chiusi da tendine. Immobile, una Jeep rollava come se fosse lanciata in piena corsa. «Che aspetto ha una Bronco?» chiese Arkady. Tommy indicò una delle auto più grandi, di colore blu. Erano tutte alte sul terreno, l'ideale per attraversare la tundra. «Che te ne pare?» «Mi sembrano tutte ottime macchine.» «Voglio dire le donne.» Arkady capì che Tommy aveva qualcosa in mente. «Tommy, di cosa stai parlando?» «Voglio dire, ti potrei prestare dei soldi.» «No, grazie.» Tommy si bilanciò prima su un piede poi sull'altro, quindi allungò ad Arkady le chiavi della macchina. «Ti dispiace?» «Dici sul serio?» chiese Arkady. «Visto che siamo qui, tanto vale godersela.» Tommy parlava a scatti, cercando di farsi coraggio. «Cristo, ci metterò pochi minuti soltanto.» Arkady ne fu stupefatto e subito si sentì sciocco. Chi era lui per giudicare un altro? Ancora un secondo e Tommy si sarebbe messo a implorare. Prese le chiavi. «Ti aspetto in macchina.»
La Trabi era parcheggiata sul lato opposto della strada. Dalla macchina vide Tommy puntare direttamente verso una Jeep, mettersi d'accordo all'istante sul prezzo e passare dall'altra parte. A marcia indietro la Jeep si immerse nel buio. Arkady accese una sigaretta e trovò un portacenere, ma niente radio. Una perfetta auto socialista, progettata per le cattive abitudini e per l'ignoranza. E lui ne era il conducente perfetto. I fari delle automobili entravano e uscivano dalla piazzola, creando una sorta di deviazione ad hoc. Forse non si trattava del fatto che in Germania non ci fossero reati, quanto di cosa si intendesse per reato. A Mosca la prostituzione era illegale. Qui era un'attività regolamentata. Una Trooper entrò nello spazio lasciato libero dalla Jeep. La donna al volante accese la luce rossa, si assestò i riccioli nello specchietto retrovisore, aggiustò il reggiseno, tirò su i seni come se fossero muscoli, quindi prese un tascabile. La donna nell'auto davanti fissava il vuoto con occhi che sembravano dipinti sulle palpebre. Nessuna delle due sembrava Tima. Pensando che Tima fosse il diminutivo di Fatima, Arkady cercava una donna dall'aria vagamente islamica. A questa distanza, le luci si addolcivano riducendosi al baluginio di una candela. Ogni parabrezza sembrava un'icona distinta, ognuna con una vergine annoiata. Dopo venti minuti cominciò a innervosirsi per Tommy. Gli venne in mente l'immagine delle auto in fondo alla stradina. Un'auto che oscillava con più forza delle altre, con le tendine chiuse ermeticamente. Se mai esisteva un luogo in cui sesso e violenza si potevano confondere era questo. I rumori di una persona strangolata e picchiata? Da fuori poteva sembrare amore. Era un timore irragionevole, ma fu sollevato quando vide Tommy saltar leggero attraverso la strada. L'americano si tuffò in macchina e si infilò al volante. «Sono stato via molto?» domandò respirando a fatica. «Ore» disse Arkady. Tommy si schiacciò contro il sedile per infilare la camicia nei calzoni e abbottonare il giubbotto. Con il suo ritorno l'utilitaria era stata invasa da un tanfo di profumo e di sudore. Come gli odori di un viaggio in un paese esotico. Era talmente inorgoglito che Arkady si chiese quanto spesso riusciva a trovare il coraggio di avvicinare una prostituta. «Vale senz'altro quello che costa. Sei sicuro di non aver cambiato idea?» «Mi fido della tua parola. Andiamo.» Il portello dalla parte di Arkady si aprì. Peter Schiller dovette chinarsi
per portarsi al loro livello. «Renko, non ti sei fatto trovare al telefono.» La Bmw di Peter era ferma al buio, lontano dall'autostrada. Arkady, a braccia e gambe allargate, era appoggiato a una fiancata della macchina mentre Peter lo perquisiva dalla testa ai piedi. Entrambi vedevano l'accesso alla piazzola, le auto lontane sulla strada e Tommy che puntava da solo verso Monaco a bordo della sua Trabant. «Mosca è un mistero» disse Peter. Fece correre le mani sulla nuca di Arkady, poi lungo l'interno delle cosce, poi sui polsi e sulle caviglie. «Non ci sono mai stato e spero di non andarci mai, ma mi pare che un investigatore capo non dovrebbe lavorare da una cabina pubblica. Ho controllato il numero quando non hai risposto.» «Odio lavorare a una scrivania.» «Non ce l'hai una scrivania. Sono andato al consolato e ho parlato con Federov. Sono riuscito a strapparlo a un gruppo di cantanti. Non sa niente della tua indagine, non ha mai sentito parlare di nessun Boris Benz e credo che si possa affermare che vorrebbe non aver mai sentito parlare di te.» «In effetti, non sono riuscito a instaurare un rapporto» concedette Arkady. Quando cercò di voltarsi, Peter gli premette la faccia contro il tetto della macchina. «Mi ha detto dov'era la pensione. Le luci erano spente. Ho aspettato e ho pensato a come potevo trattarti. È evidente che hai scelto la Bayern-Franconia Bank a caso per un'estorsione. È anche chiaro che lo facevi da solo per tirar su un po' di marchi durante la vacanza. Un piccolo esempio di libera iniziativa russa. Ho pensato alle solite proteste ai vari ministeri e all'Interpol fino a quando mi sono ricordato che mio nonno non vuole nessun tipo di pubblicità per la banca. È una banca d'affari, non si rivolge al pubblico e non ha bisogno di pubblicità, tanto meno del tipo che potresti farle avere tu. Per cui ho pensato di portarti semplicemente in qualche posto e di menarti fino a ridurti come carne tritata.» «Non è contro la legge?» «Dartene tante da farti venir la paura di dire a chiunque perché è successo.» «Be', ci puoi sempre provare» disse Arkady. Arkady era disarmato e Peter aveva una pistola. Una Walther, dalla breve occhiata che aveva potuto darle alla banca. Era piuttosto sicuro che Peter Christian Schiller non avrebbe sparato, per lo meno fino a quando non
avesse ordinato ad Arkady di allontanarsi dalla Bmw, perché un proiettile avrebbe potuto benissimo attraversare le parti molli e spargere vetri e sangue per tutto l'interno della macchina. Arkady non sapeva se avrebbe resistito, nel caso Peter avesse voluto picchiarlo. A questo punto che importanza potevano avere un po' di sangue o un dente molle? Si raddrizzò e si voltò. La giacca a vento gialla di Peter si agitava nella brezza che soffiava dal campo. Peter teneva la pistola abbassata. «E poi chi non ti arriva se non l'amico sulla Trabi. Ecco un povero bastardo della Germania Orientale, ho pensato. Nessuno guida più una Trabi, se può evitarlo. Se ne vedono ancora vicino al vecchio confine, ma non qui. Dieci minuti dopo esce con te dalla pensione. Con un Ossie come complice, la faccenda aveva più senso.» «Un Ossie?» «Un tedesco dell'Est. Lui sceglie la vittima e tu ti presenti con una finta lettera del consolato. Ho preso il numero di targa, ma l'auto è di proprietà di un certo Thomas Hall, cittadino americano, residente a Monaco. Perché mai un cittadino americano dovrebbe andare in giro su una Trabi?» «Dice che è un investimento. Ci hai seguiti?» «Non è stato difficile. Non c'era niente di così lento.» «E adesso cosa hai intenzione di fare?» chiese Arkady. Il bello dei tedeschi è che sul loro viso è facile riconoscere la sofferenza del pensiero. Anche alla debole luce proveniente dalla strada, Peter sembrava da un lato sconvolto dalla furia e dall'altro divorato dalla curiosità. «Sei un buon amico di Hall?» «L'ho conosciuto solo ieri sera. Sono rimasto sorpreso vedendomelo in camera.» «Tu e Hall siete andati insieme in un sex club. Mi pare che sia una cosa da amici.» «Tom mi ha detto che ci aveva incontrato Benz. Le donne del club hanno detto che avremmo dovuto dare un'occhiata qui.» «Non avevi mai parlato con Hall prima di ieri sera?» «No.» «Non l'avevi mai contattato prima di ieri sera?» «No. Dove vuoi arrivare?» «Renko, questa mattina tu mi hai dato un numero di fax da trovare. L'ho fatto. Il fax appartiene a Radio Liberty. È nell'ufficio di Thomas Hall.» Alla fine dei conti, c'erano ancora sorprese nella vita, pensò Arkady.
Aveva passato la sera con un uomo dall'aria innocente solo per scoprire la propria stupidità. Perché non aveva controllato di persona i numeri di Radio Liberty? Quante altre informazioni aveva trascurato? «Credi di poter raggiungere Tom?» chiese. Peter tentennò e Arkady lo osservò con interesse per vedere da che parte sarebbe andato. Il tedesco lo fissò con tale intensità che ad Arkady venne in mente il vecchio numero dell'uomo che finge di essere l'immagine speculare dell'altro. «In questo momento, l'unica cosa di cui sono sicuro è che posso raggiungere una Trabi» rispose finalmente. Rifecero lo stesso percorso di Tommy, ma a una velocità diversa. Peter portò la Bmw a duecento all'ora come se stesse correndo al buio su una pista conosciuta. Continuava a lanciare occhiate ad Arkady il quale da parte sua avrebbe preferito che non distogliesse gli occhi dalla strada. «Alla banca non avevi parlato di Radio Liberty. Non sapevo che fosse coinvolta.» «Magari non lo è.» «Non abbiamo bisogno di una guerra civile russa. Preferirei che tornaste tutti a casa e che vi ammazzaste là.» «È una possibilità.» «Se Liberty è implicata, sono implicati anche gli americani.» «Spero di no.» «Non hai mai lavorato con gli americani?» «Tu hai lavorato con gli americani» indovinò Arkady dal tono di Peter. «Ho fatto l'addestramento in Texas.» «Come cow-boy?» «Nell'aeronautica. Caccia.» Arkady pensò che non c'è nulla che fa apprezzare una strada liscia più dell'alta velocità. «Per l'aeronautica tedesca?» «Alcuni piloti vengono addestrati in America. Se gli aerei cadono c'è meno pericolo di colpire qualcosa.» «Mi sembra sensato.» «Sei del Kgb?» «No. Federov ti ha detto che lo ero?» Peter ebbe una risata sardonica. «Federov ha giurato che non eri del Kgb. Dio non voglia. Ma se non lo sei, come mai ti interessi a Radio Liberty?» «Tommy ha spedito un fax a Mosca.»
«Dicendo?» chiese. «"Dov'è Red Square?"» Procedettero in silenzio finché davanti a loro videro emergere una luce rosata. «Dobbiamo parlare con Tommy» disse Arkady. Mostrò una sigaretta. «Ti dà fastidio?» «Tira giù il finestrino.» L'aria entrò fischiando, e con essa un puzzo acre che prendeva alla gola. «Qualcuno sta bruciando della plastica» disse Peter. «E delle gomme.» La luce rosata aumentò, scomparve e riapparve, più grande e più cupa. Scomparve e poi tornò visibile all'inizio di una rampa d'uscita. Era una sorta di torcia alla base di una colonna di fumo spesso e torbido spinto dal vento. Più da vicino, la torcia sembrava una meteora che cercava furiosamente di farsi strada nel terreno. «Una Trabi» disse Peter mentre le passavano accanto. Tornarono indietro a piedi, sottovento, coprendosi naso e bocca con le mani. La Trabant era un'auto piccola: quella lo era ancor di più, a causa dell'impatto contro la base della rampa. Eppure le fiamme erano enormi, rosse con screziature blu e verde chimico, mentre il fumo era nero come petrolio. La Trabi non pareva bruciare dall'interno: si era incendiata tutta insieme. Carrozzeria di plastica, cofano e tettuccio si fondevano bruciando con una pioggia di fiamme sui sedili. I copertoni ardevano come anelli spettrali. Fecero il giro del rottame per controllare se Tommy era riuscito a trascinarsi fuori. «Ho già visto un incendio così» disse Arkady. «Se non è venuto fuori, ormai è morto.» Peter arretrò. Arkady cercò di avvicinarsi ulteriormente, strisciando sulle mani e sulle ginocchia sotto il fumo. Il calore era troppo intenso; una vampata gli fece fumare la giacca. Quando il vento cambiò direzione, vide nell'auto un ritratto come quello che gli artisti di strada ritagliano nel cartoncino. Anche quello bruciava. Peter tornò alla Bmw, a marcia indietro la riportò vicino all'incendio e con una torcia elettrica cercò sulla strada le tracce di una frenata. Si fermò, scese e appoggiò sul tetto il lampeggiatore blu. Probabilmente, pensò Arkady, era un buon poliziotto. Troppo tardi per Tommy. Tra sfumature violette, una portiera di plastica
si dissolse. Mentre il tettuccio si raggrinziva inesorabilmente, un soprassalto di vento agitò le fiamme come i petali di un fiore che appassiva e subito riprendeva a sbocciare. 22 «Sa, ai vecchi tempi l'avremmo avvelenata, legata e spedita a casa in una cassa. Sono cose che non facciamo più, ormai. Adesso i nostri rapporti con i tedeschi sono migliorati, non ne abbiamo più bisogno» disse il viceconsole Platonov. «No?» chiese Arkady. «Sono i tedeschi a farle per conto nostro. Ma per prima cosa la butto fuori di qui.» Platonov prese una camicia dalla corda tesa nella stanza, esaminò una mappa di Monaco aperta sul tavolo, il cornetto e il succo di frutta accanto al lavandino, quindi depositò la camicia nelle mani di Federov. «Renko, lo so che questo è il suo nido, ma dato che l'affitto lo paga il consolato possiamo fare quel che vogliamo. In questo momento voglio denunciarla come vagabondo, la categoria a cui appartiene perché il suo passaporto è in mano nostra e senza passaporto non può registrarsi da nessuna parte.» Federov aprì la lampo della borsa di Arkady trasformandola in una sorta di bocca spalancata, gettò dentro la camicia e disse: «I tedeschi deportano i vagabondi stranieri, specialmente se sono russi». «È una questione di economia» intervenne Platonov. «È già abbastanza, pensano, occuparsi dei tedeschi dell'Est.» «Se hai idea di chiedere asilo politico, puoi scordartelo.» Federov vuotò il cassettone e si diede da fare per la stanza, dimostrando di esser l'assistente pieno di energia che effettivamente era. «Non è più di moda. Nessuno accetta più profughi da un'Unione Sovietica democratica.» Arkady non vedeva il viceconsole da quando era stato accolto la prima volta a Monaco, ma Platonov non si era dimenticato di lui. «Che cosa le avevo detto? Vada a vedere i musei, si compri dei regali. Avrebbe potuto raggranellare un anno di stipendio comprando qualcosa qui e vendendolo al ritorno. L'avevo avvertita che non aveva una posizione ufficiale, l'avevo avvertita di non contattare la polizia tedesca. E lei cosa fa? Non solo fila dritto da loro, ma coinvolge anche il consolato.» «Sei andato vicino a un fuoco?» Federov annusò una giacca. Arkady aveva lavato gli abiti che indossava la sera prima e si era fatto la
doccia, ma dubitava che l'odore di fumo sarebbe mai scomparso dai capelli e dalla giacca. «Renko» disse Platonov «due volte alla settimana io prendo il tè con gli industriali e i banchieri della Baviera per convincerli che siamo un popolo civile, con cui si possono fare affari e al quale si possono prestare in tutta sicurezza milioni di marchi. Un bel giorno arriva lei e comincia a fare pressioni, a chiedere soldi. Federov mi dice che ha avuto difficoltà a convincere un tenente della Polizei di non essere implicato in un complotto per estorcere soldi alle banche tedesche.» «Ti piacerebbe una visita della Gestapo?» chiese Federov. Cacciò portafoglio, spazzolino da denti e dentifricio nella borsa. Confiscò la chiave dell'armadietto della stazione e il biglietto della Lufthansa e li mise in tasca. «Ha menzionato qualche banca in particolare?» chiese Arkady. «No.» Federov guardò nel frigorifero vuoto. «I tedeschi hanno presentato una protesta ufficiale?» «No.» Federov piegò la mappa e la gettò nella borsa. «La polizia vi ha più contattato da allora?» «No.» Nemmeno dopo l'incidente d'auto? Interessante, pensò Arkady. «Mi serve il mio biglietto aereo.» «Non esattamente.» Platonov lasciò cadere sul tavolo un biglietto Aeroflot. «La spediamo a casa oggi. Federov in persona la metterà sull'aereo.» «Il visto è valido ancora una settimana» obiettò Arkady. «Lo consideri annullato.» «Ho bisogno di altri ordini dall'ufficio della procura. Fino a quel momento non me ne posso andare.» «È difficile da raggiungere, il procuratore Rodionov. Mi chiedo come mai abbia mandato qui un investigatore con un visto turistico, senza conferirgli alcuna autorità. La faccenda è troppo strana.» Platonov andò alla finestra e guardò verso la stazione. Al di sopra della sua spalla, Arkady vide i treni scivolare sui binari, con i pendolari del mattino già pronti davanti agli sportelli. Platonov scosse il capo ammirato. «Questa sì che è efficienza.» «Io non parto» ribatté Arkady. «Non ha scelta. O la mettiamo noi sull'aereo, oppure lo fanno i tedeschi. Pensi all'effetto che avrebbe sul suo curriculum. Le sto offrendo la via di uscita più facile» disse Platonov. «E tutto perché vengo sfrattato?»
«Semplicemente per questo» confermò Platonov. «Ed è assolutamente legale. Devo dire che apprezzo davvero le buone relazioni diplomatiche.» «Non sono mai stato sfrattato prima d'ora» disse Arkady. Arrestato ed esiliato sì, ma mai semplicemente sfrattato. La vita stava facendosi sottile, pensò. «È la nuova tendenza.» Federov spazzò via il resto della biancheria appesa e la gettò nella borsa. La porta si aprì. Sulla soglia si stagliò un cane nero che Arkady pensò facesse parte dell'operazione di sfratto; aveva occhi scuri come agate e dalla taglia e dalla densità del pelo sembrava incrociato con un orso. Il cane entrò sicuro di sé e osservò i tre uomini con uguale sospetto. Si sentì un passo zoppicante nel corridoio e Stas fece capolino dalla porta. «Stai andando da qualche parte?» chiese ad Arkady. «Mi ci mandano.» Stas entrò, ignorando Platonov e Federov, sebbene Arkady fosse convinto che sapesse chi erano; era una vita che studiava gli apparatchiki sovietici, e un uomo che per tutta la vita studia i vermi, alla fine li riconosce. Federov stava per lasciar cadere la biancheria che aveva in mano, ma se la strinse addosso non appena il cane si voltò. «Ho mandato qui Tommy ieri sera. L'hai visto?» chiese Stas ad Arkady. «Mi dispiace.» «Hai sentito dell'incidente?» «L'ho visto.» «Voglio sapere cosa è successo.» «Anch'io» disse Arkady. Gli occhi di Stas brillavano più del solito. Quando guardò Platonov e Federov con gli abiti di Arkady fra le braccia, il cane lo imitò. Poi spostò lo sguardo sulla borsa aperta. «Non puoi andartene» disse, come se fosse già deciso. Intervenne Platonov. «È la legge tedesca. Dato che Renko non ha un posto dove stare, il consolato si incarica di reimpatriarlo.» «Vieni a stare da me» disse Stas ad Arkady. «Non è così semplice» obiettò Platonov. «Gli inviti ai cittadini sovietici devono essere sottoposti per iscritto e approvati in anticipo. Il suo visto è stato annullato, e ha già un nuovo biglietto per Mosca. Dunque è impossibile.» «Puoi venire via subito?» chiese Stas ad Arkady. Arkady riprese la chiave dell'armadietto e il biglietto Lufthansa dalla ta-
sca di Federov. «In effetti il bagaglio è già pronto» disse. Stas si immise nel traffico del centro cittadino. Sebbene fosse una grigia giornata estiva, i finestrini erano abbassati per evitare che il fiato del cane si condensasse sui vetri. L'animale occupava l'intero sedile posteriore e Arkady aveva la sensazione che gli fosse permesso stare davanti solo se si muoveva piano. Quando se ne era andato, Platonov e Federov avevano l'aria di due becchini che vedevano il loro cadavere uscire dalla porta. «Ti ringrazio.» «Avevo qualche domanda da farti» disse Stas. «Tommy era uno sciocco e aveva una macchina idiota. La Trabi non era in grado di fare più di settantacinque all'ora e non avrebbe mai dovuto prendere un'autostrada, però non capisco come abbia fatto a perdere il controllo e a urtare con tanta violenza la spalla del cavalcavia.» «Neanch'io» convenne Arkady. «E dubito che quel che è rimasto della macchina permetta alla polizia di accertarlo. Sono sopravvissuti solo il blocco motore e l'assale.» «Probabilmente è stata quella stufetta idiota. Una stufetta a petrolio sul pavimento di una macchina? Una trappola mortale.» «Tommy non ha sofferto a lungo. Se non l'ha ucciso l'urto, l'ha fatto il fumo. Noi vediamo le fiamme, ma muoiono prima per il fumo.» «Avevi già visto un incidente del genere?» «A Mosca ho visto un uomo morire in un auto incendiata. Ci ha messo solo un po' di più perché l'auto era migliore.» Pensando a Rudy, Arkady ricordò Polina, e anche Jaak. Pensò che, se fosse riuscito a tornare vivo a Mosca, avrebbe avuto un atteggiamento meno critico, più aperto verso l'amicizia e terribilmente prudente nei confronti di tutte le auto e di tutti gli incendi. Stas da parte sua guidava da incosciente. Ma per lo meno guardava la strada, soddisfatto di lasciare che fosse il cane a sorvegliare Arkady. «Tommy ti ha portato al Red Square?» «Lo conosci, quel posto?» «Renko, non ci sono molte ragioni per essere su quella strada a quell'ora di notte. Povero Tommy, un caso di russofilia fatale.» «Siamo anche andati nel parcheggio, una specie di bordello mobile.» «Un posto splendido per chi va in cerca di una malattia mortale. Secondo una legge tedesca le donne devono farsi controllare per l'Aids ogni tre mesi, il che significa che i tedeschi hanno un atteggiamento più scientifico
nei confronti della birra che nei confronti delle donne con cui vanno a letto. Comunque, cercare di fare del sesso in una Jeep fa venire il colpo della strega, e il sottoscritto per il momento ha già abbastanza handicap. Pensavo che voi due doveste parlare delle famose battaglie della Grande Guerra Patriottica.» «Un po' ne abbiamo parlato.» «Gli americani vogliono sempre parlare di guerra» disse Stas. «Conosci un certo Boris Benz?» «No, chi è?» Non vi fu, nella risposta, un accenno d'inganno o una pausa per riflettere. L'atteggiamento dei bambini quando mentono è pagliaccesco; gli adulti si rivelano invece nei piccoli gesti, spostando lo sguardo verso i ricordi, oppure abbellendo la menzogna con un sorriso. «Ti puoi fermare alla stazione ferroviaria?» chiese Arkady. Quando Stas si fermò tra gli autobus e i taxi del lato nord della stazione, Arkady balzò fuori, lasciando la borsa in macchina. «Torni?» chiese Stas. «Ho come la sensazione che ti piaccia viaggiare leggero.» «Due minuti.» Federov aveva una rapa al posto del cervello, ma era senz'altro in grado di riconoscere la chiave di un armadietto della stazione; era anche possibile che ne ricordasse il numero. Il tempo dell'armadietto era già scaduto, cosa che lo costrinse a pagare altri quattro marchi per aprirlo e ritirare la videocassetta. Gli rimanevano settantacinque marchi per il resto della permanenza. Quando uscì, un poliziotto addetto al traffico tentava di far spostare la malconcia Mercedes di Stas per far posto ad un pullman italiano. Il pullman era lucido come una gondola e suonava furiosamente le trombe, emettendo note musicali. Quanto più il pullman suonava e il poliziotto urlava, tanto più il cane abbaiava. Stas sedeva al volante, godendosi una sigaretta. «Non è proprio l'opera» disse ad Arkady. «Ma siamo vicini.» Ormai Arkady iniziava ad ambientarsi. Sapeva quando Stas avrebbe svoltato a nord verso i musei e a est verso l'Englischer Garten. Notò che alle loro spalle, sempre a mezzo isolato di distanza, li seguiva una Porsche bianca che aveva già visto alla stazione. «Allora chi è questo Boris Benz?» chiese Stas. «Non lo so, in realtà. È un tedesco dell'Est che vive a Monaco e che è
stato a Mosca. Tommy ha detto di averlo conosciuto. Era lui che cercavamo ieri sera.» «Se tu e Tommy eravate insieme, come mai non avete avuto insieme anche l'incidente? Perché non sei morto anche tu?» «Mi ha fermato la polizia. Stavo tornando indietro su una loro auto quando abbiamo visto l'incendio.» «Non hanno detto che c'eri anche tu.» «Non ce n'era motivo. Il rapporto di un incidente è un modulo semplice e succinto.» Peter aveva identificato Arkady come un "testimone che aveva visto il morto bere alcolici in un club erotico situato sulla strada". Descrizione breve ma pungente, pensò. «Specialmente un incidente in cui viene coinvolta una sola macchina che brucia fino quasi a scomparire» aggiunse. «C'è ben poco da mettere nel rapporto.» «Credo che ci sia dell'altro. Cosa faceva questo Benz a Mosca? Perché non indaghi a un livello più ufficiale? Dov'è che Tommy ha conosciuto Benz? Chi li ha presentati? Perché la polizia ti ha tirato fuori dall'auto? È stato davvero un incidente?» «Tommy aveva dei nemici?» chiese Arkady. «Tommy non aveva molti amici, ma non aveva nessun nemico. Come mai ho il sospetto che chiunque ti aiuti si procuri immediatamente dei nemici? Non avrei dovuto farlo venire da te. Non era in grado di proteggersi.» «Tu sei in grado di proteggerti?» Pur non notando alcun ordine esplicito da parte di Stas, Arkady sentì un caldo fiato canino alla base del collo. «Si chiama Laika, ma è molto tedesca. Le piacciono il cuoio e la birra. Non si fida dei russi. Nel mio caso fa un'eccezione. Siamo quasi arrivati.» Indicò un palazzo che sembrava un giardino verticale di gerani. «A ogni balcone c'è una birreria. Il paradiso bavarese. In effetti, il balcone con il cactus è il mio.» «Grazie, ma non mi fermo» disse Arkady. Stas accostò davanti al palazzo e spense il motore. «Pensavo che ti facesse comodo un posto dove stare.» «Dovevo togliermi di dosso il consolato. Sei generoso. Grazie» ripeté Arkady. «Non puoi andartene così. Senti, la verità è che non hai un posto dove dormire.»
«Giusto.» «E che non hai tanti soldi.» «Giusto.» «Ma sei convinto di poter sopravvivere a Monaco.» «Giusto.» Rivolto al cane, Stas disse: «È così russo». E ad Arkady: «Credi di essere protetto da un destino speciale? Ma lo sai perché la Germania ha un'aria così ordinata? Perché ogni notte i tedeschi rastrellano turchi, polacchi e russi e li sbattono in galera finché non li hanno rispediti in patria». «Magari avrò fortuna. Tu ti sei fatto vedere quando avevo bisogno di te.» «Questa volta è diverso.» Stas non riuscì a dire altro perché la Porsche li raggiunse e si accostò. Andava avanti e indietro tenendo d'occhio Arkady e Stas. Un vetro a comando elettrico si abbassò facendo apparire il conducente. Sembrava sorridere con più di due file di denti. «Michael» disse Stas. «Stas.» Michael aveva quel tipo di voce americana in grado di coprire il rumore di un motore. Arkady ricordò una fredda presentazione alla festa di Tommy. «Hai sentito di Tommy?» «Sì.» «Triste.» Michael osservò un momento di silenzio. «Sì.» L'americano assunse un atteggiamento più concreto. «Stavo appunto venendo a farti delle domande.» «Stavi?» «Perché ho sentito che il tuo amico, l'investigatore Renko di Mosca, ieri sera era in compagnia di Tommy. E cosa non ti vedo se non Renko in persona?» «Me ne stavo giusto andando» disse Arkady. «Ottimo, perché il presidente della radio sarebbe felice di scambiare qualche parola con lei.» Michael aprì lo sportello del passeggero. «Voglio solo lei, non Stas. La riporto indietro, promesso.» Stas disse ad Arkady: «Se pensi che Michael rappresenti la salvezza, sei fuori di testa». Michael guidava la Porsche con un mano e usava il cellulare con l'altra. «Mi sto portando dietro il compagno Renko.» Sorrise ad Arkady. «Portan-
do dietro, signore, portando dietro. Siamo entrati in un buco tra le due stazioni.» Posò il telefono sulla spalla per cambiare marcia. «Saremo da lei tra un secondo, signore. Vorrei che aspettasse il nostro arrivo. Un secondo.» Lasciò cadere il telefono in una tasca tra i sedili. «Per quanto riguarda la tecnica è un incompetente del cazzo. Bene, Arkady, ho fatto dei controlli su di lei; un tipo proprio interessante. Da quel che ho sentito, lei è un isolato. L'ho trovata nel dossier di Irina. E si può dire con sicurezza che adesso sia anche nel dossier di Tommy. I guai le vengono dietro o cosa?» «Stava seguendo Stas?» «Confesso di sì. Mi ha portato direttamente da lei. Ho avuto un attimo di spavento quando avete puntato verso la stazione. Cosa ha preso nell'armadietto?» «Un cappello di pelliccia e un Ordine di Lenin.» «Sembrava una scatoletta di plastica. Una scatoletta di tipo conosciuto. Non riesco a classificarla e la cosa mi fa diventare pazzo. Sa, come vicedirettore incaricato della sicurezza ho rapporti eccellenti con la polizia locale. Posso scoprire che cosa faceva con Tommy ieri sera, oppure me lo può semplicemente dire lei. Solo in un caso otterrà un credito extra.» «Un credito extra?» «Diciamolo in parole povere: soldi. Quello che non ci possiamo permettere sono i misteri sull'omicidio di un nostro dipendente. Speravamo di esserceli lasciati dietro, i brutti vecchi tempi della guerra fredda. E scommetto che è così.» «Perché? Potrebbe perdere il suo lavoro; potrebbero chiudere la stazione.» «Io guardo avanti.» «Anche Max Albov.» «Max è un vincente. È una stella. Come Irina, se ripulisse un po' di più l'inglese e scegliesse un po' meglio gli amici.» Gli lanciò un occhiata. «Il presidente Gilmartin le farà delle domande su Tommy. Gilmartin è il boss di Radio Liberty e di Radio Free Europe. È la voce degli Stati Uniti, ed è un uomo molto impegnato. Per cui se fa il furbo, viene mandato affanculo e può anche mangiare cibo per cani. Se è onesto, le spetta un premio.» «L'onestà rende?» «Esattamente!» La Porsche scivolò nel traffico come un motoscafo e Michael sorrise, come se Monaco ondeggiasse nella sua scia. Attraversarono il settore orientale della città dove sorgevano le case, per
non dire i palazzi, più grandi che Arkady avesse mai visto. Alcune erano moderne, in severo stile Bauhaus tutto intonaco e acciaio. Altre sembravano quasi mediterranee, con porte di vetro e palme in vaso. Alcune erano esempi miracolosamente sopravvissuti o faticosamente ricostruiti di Jugendstil, magioni dall'allegra facciata in stile floreale, con i cornicioni sagomati. Michael entrò nel vialetto della più magnifica tra le ville. Sul prato davanti un uomo era intento a montare un tavolino con un ombrellone. Michael accompagnò Arkady sull'erba. Sebbene non cadesse nemmeno una goccia di pioggia, l'uomo indossava un impermeabile e un paio di stivali di gomma. Sulla sessantina, con l'arco sopraccigliare e la mascella aristocratici, osservò l'arrivo di Michael in un misto di esasperazione e di sollievo. «Signore, questo è l'investigatore Renko. Il presidente Gilmartin» disse Michael. «Piacere.» Gilmartin offrì ad Arkady la mano salda di uno sportivo, quindi frugò in una cassetta di attrezzi ed estrasse un paio di pinze lucidissime. Sull'erba giacevano già una chiave inglese e un cacciavite. Michael tolse gli occhiali da sole e li lasciò pendere dalla cordicella. «Sarebbe stato meglio se mi avesse aspettato, signore.» «Questi maledetti tedeschi non fanno che lamentarsi della mia parabolica. Una sofferenza. Devo avere una parabolica e questo è l'unico posto da dove si vedono chiaramente i satelliti. A meno che non la metta sul tetto, ma chissà quanto strillerebbero i crucchi, in quel caso.» Guardando meglio, Arkady vide che l'ombrello era in realtà una mascheratura, un tessuto a strisce che mimetizzava un'antenna satellitare di tre metri di diametro. Parabola e tavolo erano imbullonati a terra. «Gli stivali sono un'ottima idea» disse Michael. «Mi occupo di trasmissioni da abbastanza tempo per sapere che è meglio essere prudenti» spiegò Gilmartin. Si rivolse ad Arkady: «Sono rimasto fedele al network per trent'anni, e alla fine ho deciso che non mi piaceva la direzione che stavano prendendo. Volevo avere un impatto.» «Tommy» gli ricordò Michael. «Sì.» Gilmartin fissò Arkady. «Tempi bui, Renko. In passato abbiamo avuto guai. Assassini, attentati. Qualche anno fa avete fatto assaltare la nostra stazione ceca. Cercato di accoltellare il capo della sezione rumena nel suo garage. Ammazzato con una scarica elettrica uno dei nostri migliori collaboratori russi. Non abbiamo mai perduto un americano. E quelli erano
i tempi in cui dipendevamo dalla Cia. Preistoria. Adesso i fondi ce li dà il Congresso.» «Siamo una società privata» precisò Michael. «Del Delaware, credo. Quello che intendo dire è che non siamo agenti segreti.» «Tommy era un tipo inoffensivo» disse Michael. «Il tipo più inoffensivo che abbia mai conosciuto» aggiunse Gilmartin. «A parte questo, i tempi del gioco duro dovrebbero essere finiti: allora, cosa ci faceva un investigatore sovietico insieme a Tommy, appena prima della sua morte?» «Tommy aveva un interesse storico per la guerra contro Hitler» rispose Arkady. «Mi ha fatto delle domande su persone di mia conoscenza.» «Non c'è solo questo» dichiarò Gilmartin. «C'è molto di più» concordò Michael. «La stazione è come una famiglia» disse Gilmartin. «Ci teniamo d'occhio l'un l'altro. Voglio sapere l'intera storia, senza veli.» «Come sarebbe a dire?» chiese Arkady. «C'è di mezzo del sesso? Non intendo tra lei e Tommy. Voglio dire: c'erano di mezzo delle donne?» «Il presidente» intervenne Michael «vuole sapere questo: Nel caso Washington passasse al setaccio la biancheria di Tommy, ci troverebbe qualcosa di sporco?» «A loro non importa che la prostituzione in Germania sia legale» spiegò Gilmartin. «Le norme americane vengono fissate a Peoria. Basta un accenno di scandalo qui e arrivano inevitabilmente le accuse di corruzione.» «E riduzioni dei finanziamenti» aggiunse Michael. «Voglio sapere tutto ciò che lei e Tommy avete fatto ieri notte» disse Gilmartin. Arkady si prese qualche istante per scegliere le parole. «Tommy è venuto alla mia pensione. Abbiamo parlato della guerra. Dopo un po' gli ho detto che avevo bisogno d'aria fresca e siamo andati a fare un giro con la sua macchina. Abbiamo visto un gruppo di prostitute vicino alla strada. A questo punto io ho lasciato Tommy che è tornato da solo in città. Per strada ha avuto l'incidente.» «Tommy ha avuto rapporti con una prostituta?» chiese Gilmartin. «No» mentì Arkady. «Ha parlato con una prostituta?» domandò Michael. «No» mentì di nuovo Arkady.
«Ha parlato con qualche russo, tranne lei?» chiese Michael. «No» mentì per la terza volta Arkady. «Perché vi siete divisi?» chiese Gilmartin. «Io volevo andare con una prostituta. Tommy si è rifiutato di aspettarmi.» «Come ha fatto a tornare a Monaco?» domandò Michael. «La polizia mi ha raccolto sul bordo della strada» «Una brutta serata in città» disse Gilmartin. «Tommy non ha nessuna responsabilità» dichiarò Arkady. Michael e Gilmartin si scambiarono delle occhiate che valevano una conversazione; quindi il presidente alzò gli occhi e scrutò il cielo. «È terribilmente debole.» «Ma non è poi così male, se Renko insiste. Dopotutto è russo. Non hanno un anno a disposizione per fargliela sputar fuori. E ricordi, Tommy era al volante di una Trabant della Germania orientale, una macchina che non ha una grande tenuta. Noi puntiamo su questo: l'auto era una trappola mortale.» Michael diede una pacca sulle spalle ad Arkady. «Lei probabilmente è fortunato a essere vivo.» «Perdere Tommy deve essere stato un brutto colpo» disse Arkady rivolto a Gilmartin. «Più una tragedia personale che altro. Non aveva ruoli decisionali. Ricerche e traduzioni, vero?» «Sì signore» confermò Michael. «Anche se sono importanti» si affrettò ad aggiungere Gilmartin. «Il russo di Michael è migliore del mio, ma credo sia giusto affermare che senza i nostri capaci traduttori, i russi dello staff farebbero tutto quel che gli pare.» Gilmartin spostò le sue attenzioni sul satellite. Indicò con le pinze i bulloni che erano rotolati in una piega dello schema elettrico. «Se ne intende di antenne satellitari?» chiese ad Arkady. «No.» «Temo di aver disallineato qualcosa» confessò. «Signore, penseremo alla resistenza al vento, misureremo il segnale e verificheremo che lei non abbia danneggiato nessun cavo» disse Michael. «Sembra un lavoro ben fatto.» «Lo crede davvero?» Rassicurato, Gilmartin fece qualche passo indietro per contemplare l'opera. «Sapete, sarebbe ancor più convincente se portassimo fuori delle sedie e lo usassimo davvero come un ombrellone.»
«Signore, non credo che lei voglia offrire della limonata alla gente sotto un ricevitore a microonde.» «No» approvò Gilmartin. Si grattò il mento con le pinze. «Magari solo ai vicini.» 23 Stas viveva da solo... e in compagnia. Passare nel corridoio significava trovarsi gomito a gomito con Gogol e Gorky. I poeti da Pushkin a Voloshin risiedevano in un ripostiglio. I pensieri elevati di Tolstoy riempivano gli scaffali sopra amplificatore, compact disc e televisore svedesi. Giornali e riviste erano accatastati, divisi per anno. Bastava un piccolo movimento, pensò Arkady, per morire sotto una valanga di notizie stantie, di musica, fantascienza, avventura. «Non mi va di pensare che sia un casino» disse Stas. «Preferisco credere che sia vita vissuta a tutta birra.» «Sembra senz'altro a tutta birra» convenne Arkady. «Gli alberghi non hanno anima» insistette Stas. Laika sedeva accanto alla porta. A malapena Arkady le scorgeva gli occhi, nascosti dal pelo, ma avvertiva che seguivano ogni suo movimento. «Grazie, ho un posto dove andare» disse. Dopo la visita al presidente della radio, Arkady aveva passato la giornata sorvegliando la casa di Benz. Era il tramonto e nella stanza la luce stava calando. Aveva deciso di viaggiare in metropolitana fino alla fine delle corse, oppure di acquistare un biglietto di un treno del mattino seguente per poter stare nella sala d'attesa della stazione. Così si sarebbe presentato più come un emigrante che come un vagabondo. Era tornato a casa di Stas solo per prendere la borsa. Una domanda gli tornava continuamente in testa. Era così ovvia che era difficile non farla. «Dove abita Max?» «Non lo so. Bevi ancora qualcosa prima di andare» disse Stas. «Ho il sospetto che ti aspetti una lunga notte.» Prima che Arkady riuscisse a protestare o ad aggirare il cane e ad uscire dalla porta, il suo ospite era già andato e tornato dalla cucina con due bicchieri e una bottiglia di vodka. La vodka era ghiacciata. «Che lusso» commentò Arkady. Stas riempì a metà i bicchieri. «A Tommy.» Scendendo, la vodka fredda diede una strizzatina al cuore di Arkady.
L'alcol non sembrava aver influenza su Stas. Era un fragile giunco che reggeva alla piena. Riempì di nuovo i bicchieri. «A Michael» propose. «E a qualsiasi cosa lo stia rodendo.» Arkady brindò e posò il bicchiere su una catasta di giornali al di là della portata di Stas. «Per semplice curiosità. Tu ti dai un sacco da fare per provocare gli americani. Perché non ti licenziano?» «Le leggi tedesche sul lavoro. I tedeschi non vogliono avere stranieri negli elenchi dell'assistenza sociale, per cui una volta che uno ha un lavoro è praticamente impossibile licenziarlo. Ci sono riunioni tra i dirigenti americani e il personale russo della stazione. Per legge, le relazioni sono scritte in tedesco. Gli americani diventano matti. Michael cerca di licenziarmi una volta all'anno. È una meraviglia, come far morire di fame un pescecane. Comunque, io scrivo ottimi programmi.» «Ti piace metterlo in imbarazzo?» «Te lo dirò io che cos'è il vero imbarazzo... è stato quando gli ebrei del personale hanno accusato la radio di antisemitismo, l'hanno portata in tribunale e hanno vinto. Questo sì che è imbarazzante. Io non voglio che Michael dimentichi episodi come questo.» «Quando Max è passato di nuovo a Mosca, non è stato imbarazzante?» Stas respirò a fondo. «È stato imbarazzante per me e per Irina. In realtà, ha messo in imbarazzo tutti. Avevamo avuto problemi di sicurezza in precedenza.» «Michael me l'ha detto. Un'esplosione?» «È il motivo per cui adesso ci sono i cancelli e il muraglione. Ma il fatto che il capo della sezione russa ritorni a Mosca è un problema di sicurezza di un altro livello.» «Michael dovrebbe odiare Max perfino più di quanto non odi te.» «Dovrebbe.» Stas guardò il proprio bicchiere vuoto. «Conosco Max da dieci anni. Mi ha sempre colpito il fatto che riuscisse ad andar d'accordo con gli americani e con noi. Cambiava, a seconda di dove era e di con chi era. Tu ed io siamo russi. Max è liquido. Cambia forma. Assume la forma del recipiente, qualunque essa sia. In una situazione fluida lui è re. È tornato da Mosca ancor più uomo d'affari di quanto non fosse prima. Gli americani non possono far a meno di credergli perché è come uno specchio. A loro sembra un americano.» «Di che tipo di affari si interessa?» «Non lo so. Prima di andarsene diceva che si poteva tirar fuori una fortuna dal crollo dell'Unione Sovietica. Diceva che era come un'enorme ban-
carotta. C'erano ancora i beni e le proprietà. Chi è il più grande proprietario dell'Unione Sovietica? Chi è il proprietario dei più grandi palazzi di uffici, dei migliori centri ricreativi, degli unici condomini decenti?» «Il Partito.» «Il Partito Comunista. Max diceva che bisognava solo cambiargli nome, presentarlo come una società, e ristrutturare. Mollare gli azionisti, tenere i beni.» Arkady non sapeva bene quando aveva posato la borsa, ma si ritrovò seduto sul divano. Sul tavolo c'erano del pane, del formaggio e sigarette. Una lampada da pavimento gettava luce in tre direzioni. La porta del balcone si apriva sui rumori provenienti dalla strada e sull'aria della notte. Stas tornò a riempire i bicchieri. «Non sono mai stato una spia. Il Kgb diceva che chi faceva le dimostrazioni e chi gassava dall'altra parte era una spia o un malato di mente. È una cosa che i russi capiscono. La parte che non mi aspettavo era il fatto che gli americani pensassero che si trattasse di un complotto del Kgb per inserire il pericoloso Stas in un Occidente senza sospetti. Alcuni della Cia ne erano convinti. Tutto l'Fbi ne era convinto. L'Fbi non crede a chi cambia bandiera. Gesù potrebbe uscire da Mosca sul dorso di un asinelio e loro aprirebbero un dossier su di lui. «C'erano anche i veri eroi. Non io. Uomini e donne che hanno strisciato sui campi minati per passare in Turchia, o che hanno corso tra le pallottole per entrare nel parco di un'ambasciata. Gente che ha buttato via una carriera e ha perduto una famiglia. Per cosa? Per la Cecoslovacchia, l'Ungheria, Dio, l'Afghanistan. Il che non significa che non fossero compromessi. È una cosa che tu capisci, ma che gli americani non capiscono. Noi siamo cresciuti tra gli informatori. Tra i nostri amici e nelle nostre famiglie ci sono sempre stati degli informatori. Anche tra gli eroi. È una questione complessa. Una donna, una mia vecchia amante di Mosca, viene in visita a Monaco. Michael vuole sapere perché la vedo, dato che tutti sanno che è un'informatrice. Ma questo non vuol dire che io non l'ami ancora. Abbiamo uno scrittore a Radio Liberty la cui moglie lavorava in una base dell'esercito: insegnava il russo agli ufficiali americani per farsi scopare da loro e procurarsi informazioni da dare al Kgb, in modo da poter vivere decentemente come una donna occidentale. Si è fatta due anni in galera. Questo non vuol dire che poi il marito non se la sia ripresa. Tutti noi le parliamo. Che cosa dobbiamo fare, fingere che sia morta? «Oppure arriviamo già compromessi. Un artista, un mio amico, è stato
convocato al Kgb prima di andarsene da Mosca. Gli hanno detto: "Non ti abbiamo mai messo in un campo, per cui non devi avercela con noi. Speriamo solo che non ci diffami sulla stampa occidentale. Dopo tutto, siamo convinti che tu sia un bravissimo artista e probabilmente che non ti rendi conto quanto è difficile sopravvivere in Occidente, per cui vorremmo darti un prestito. In dollari. Noi non lo diremo a nessuno e tu non devi neanche firmare una ricevuta. Tra qualche anno ce lo ripaghi con gli interessi o senza interessi, quando puoi, è semplicemente una cosa fra di noi". Cinque anni dopo lui gli ha mandato pubblicamente un assegno chiedendo una ricevuta, ma gli ci è voluto tutto quel tempo per rendersi conto della facilità con cui si era lasciato compromettere. Quanti altri prestiti sono stati fatti? «Oppure diventiamo pazzi. C'è lo scrittore che è andato a Parigi. Uno scrittore famoso che è sopravvissuto al gulag e che scriveva sotto lo pseudonimo di Teitlebaum. Saltò fuori che era un informatore del Kgb. Scrisse una difesa e disse, che no, no, l'informatore non era lui, era Teitlebaum! «E poi, ogni tanto» proseguì Stas «ci ammazzano. Apriamo una lettera esplosiva, oppure veniamo punti con un ombrello avvelenato, o ci ammazziamo a forza di bere. Anche in questi casi, una volta siamo stati degli eroi.» Laika si allungò come una sfinge nel mezzo della stanza. Più che vedere gli occhi del cane, Arkady ne avvertiva la forza. Magari le orecchie di Laika si voltavano verso il rumore di un'auto particolarmente rumorosa quattro piani più in basso, ma lo sguardo rimaneva concentrato su di lui. «Non mi devi spiegare chi sei» disse a Stas. «Lo faccio, invece, perché tu sei diverso. Tu non sei un dissidente. Tu hai salvato Irina, ma tutti vogliono salvare Irina, non si tratta necessariamente di un gesto politico.» «È stata più una cosa personale.» «Tu sei rimasto. La gente che conosceva Irina sapeva di te. Tu eri il fantasma. Ha cercato di contattarti un paio di volte.» «Non che io sappia.» «Quel che sto cercando di dirti è che noi abbiamo fatto un sacrificio per arruolarci dalla parte giusta. Chi lo sapeva che la storia avrebbe preso una piega diversa? Che l'Armata Rossa in Polonia si sarebbe ridotta a un accampamento di mendicanti? Che il Muro sarebbe caduto? Pensavano che l'Armata Rossa fosse un pericolo? Adesso sono preoccupati perché ci sono duecentoquaranta milioni di russi che puntano verso la Manica. Radio Liberty non è più in prima linea. Non ci disturbano più le trasmissioni; ades-
so abbiamo dei corrispondenti a Mosca; intervistiamo regolarmente personaggi del Cremlino.» «Avete vinto» disse Arkady. Stas terminò la bottiglia e accese una sigaretta. Il viso sottile era smunto, gli occhi brillavano come due fiammiferi accesi. «Vinto? E allora come mai solo adesso mi sento come un rifugiato? Si lascia il paese in cui si è nati perché si è forzati a farlo, o perché si pensava di poter essere più utili da fuori che da dentro? I democratici del mondo applaudono il nostro nobile sforzo. Ma non è stato come conseguenza dei miei sforzi che l'Unione Sovietica è caduta in ginocchio e ha tirato gli stivali. È stata la storia. È stata la gravità. La battaglia non si fa a Monaco, si fa a Mosca. La storia ci ha abbandonato, è andata in un'altra direzione. Non sembriamo più eroi; sembriamo sciocchi. Gli americani ci guardano. Non Michael, né Gilmartin: loro sono preoccupati per il loro lavoro, vogliono solo tenere in piedi la loro stazione. Gli altri americani leggono sui giornali quel che succede a Mosca, ci guardano e dicono: "Avrebbero dovuto rimanere." Non importa se siamo costretti ad andarcene o se abbiamo rischiato la vita o se volevamo salvare il mondo; adesso gli americani dicono che avremmo dovuto rimanere. Guardano uno come te e dicono: "Vedi, lui è rimasto"». «Io non avevo scelta. Ho fatto uno scambio. Avrebbero lasciato in pace Irina solo se io fossi rimasto. E comunque, è successo molto tempo fa.» Stas scrutò nel proprio bicchiere vuoto. «Se tu avessi avuto la possibilità, te ne saresti andato con lei?» Arkady rimase in silenzio. Stas si chinò in avanti e scostò il fumo con una mano per vederlo più chiaramente. «Te ne saresti andato?» «Ero russo. Non credo che avrei potuto andarmene.» Stas rimase in silenzio. «Il fatto che io sia rimasto a Mosca non ha certamente avuto effetti sulla storia. Forse sono stato io lo sciocco» aggiunse Arkady. Stas si alzò, andò in cucina e tornò con un'altra bottiglia. Laika continuava a sorvegliare Arkady, nel caso tirasse fuori una bomba, una pistola o un ombrello appuntito contro il padrone. «Irina ha avuto delle difficoltà a New York. A Mosca lavorava nel cinema?» chiese Stas. «In realtà era studentessa, fino a quando non l'hanno espulsa dall'università. Poi è andata a lavorare alla Mosfilm come costumista» disse Arkady. «A New York si occupava di costumi, di scene e di trucco, si è messa con un giro di artisti, prima là poi a Berlino, non facendo altro che difen-
dersi dai salvatori. Lo stile era sempre lo stesso: un americano si innamorava di lei e poi razionalizzava, vedendo la cosa come un nobile gesto politico. Credo che Radio Liberty sia stata un sollievo per lei. Bisogna dargli credito: è stato Max a rendersi conto di quanto fosse brava. All'inizio non collaborava regolarmente, tappava solo i buchi, ma poi Max disse che la sua voce alla radio aveva una qualità particolare, come se parlasse qualcuno che si conosce. La gente la ascoltava. In un primo momento io ero scettico, perché non aveva la minima preparazione. Max mi incaricò di insegnarle a dare enfasi a quel che diceva e a stare attenta ai tempi. La gente non ha la minima idea della velocità con cui parla. Irina era in grado di leggere un testo una sola volta e ricordarlo a memoria. Dopo un po' di addestramento, era diventata la migliore.» Stas aprì la bottiglia. «E così eccoci lì, io e Max, come due scultori che lavorano alla stessa bella statua. Naturalmente ci innamorammo tutti e due di Irina. Facevamo tutto insieme... Max, Stas e Irina. A cena, a sciare sulle Alpi... le deviazioni musicali a Salisburgo. Eravamo un terzetto inseparabile, ma né io né Max riuscivamo mai ad andare in vantaggio l'uno sull'altro. Io in realtà non sciavo. Me ne rimanevo a leggere alla pensione, sicuro che Max non faceva progressi sentimentali sulle piste perché, in realtà, il nostro terzetto era un quartetto.» Versò la vodka. «C'era sempre quell'uomo nel passato di Irina. Quello che le aveva salvato la vita ed era rimasto, quello che lei aspettava. Come è possibile battere un eroe del genere?» «Magari non ce n'era bisogno. Magari si era semplicemente stancata di aspettare» disse Arkady. Bevvero contemporaneamente, come due uomini incatenati allo stesso remo. «No» rispose Stas. «Non sto parlando di molto tempo fa. Quando l'anno scorso Max è andato a Mosca, ero convinto di essere padrone del campo. Ma venni giocato in una misura che non avevo immaginato, in un modo che dimostra solo la genialità di Max. Perché, sai cosa ha fatto Max?» «No» ammise Arkady. «Max è tornato per lei. Una cosa che io non potevo fare e che tu non hai mai fatto. Adesso l'eroe è lui; io sono stato retrocesso a semplice "caro amico".» Lo sguardo di Stas sembrava alimentato dalla vodka. Arkady si chiese se lo avesse mai visto mangiare. Agitò la vodka nel bicchiere facendola roteare come se fosse mercurio. «Che cosa faceva Max prima di venire in occidente?»
«Il regista. Ha cambiato bandiera a un festival cinematografico. A Hollywood, tuttavia, non si mostrarono interessati al suo lavoro.» «Che tipo di film faceva?» «Film di guerra, stragi di tedeschi, di giapponesi, di terroristi israeliani.. le solite cose. Max aveva i gusti di un regista famoso: abiti su misura, buoni vini, belle donne.» «Dove abita a Monaco?» chiese di nuovo Arkady. «Non lo so. Quel che voglio dire è che tu sei la mia ultima speranza.» «Max ha giocato anche me.» «No, conosco Max. Lui attacca solo quando è costretto. Se tu non fossi una minaccia, saresti il suo migliore amico.» «Non sono una grande minaccia. Per quel che riguarda Irina io sono morto.» Era questa la parola che Irina aveva usato nella cucina di Tom, come un coltello trovato sul tavolo. «Ma ti ha detto di andartene?» «No.» «Quindi in realtà non ha ancora deciso.» «A Irina non importa se me ne vado o se rimango. Non credo che neanche mi veda.» «Irina non fumava da anni. La prima volta che ti ha visto mi ha chiesto una sigaretta. Ti vede.» Laika voltò il muso verso il balcone, si sollevò sulle zampe anteriori, poi si rialzò del tutto, puntando le orecchie. Stas fece cenno ad Arkady di stare zitto, allungò una mano verso l'interruttore e spense la luce. La stanza penetrò nel buio più completo. Dall'esterno giunse il rumore ritmato delle Volkswagen e un campanello che scacciava qualcuno da una pista ciclabile. Più vicino, Arkady udì il cigolio di un paio di suole di gomma e vide una ringhiera che si piegava, un uomo pesante che atterrava leggero sul balcone. Laika era invisibile, ma Arkady ne identificò la posizione dal ringhio. Ci fu un passo sul balcone; il cane si preparò ad attaccare. Si udirono un ansito e un grido di dolore. «Stas, per favore! Stas!» Stas accese la luce. «A cuccia, Laika. Da brava, a cuccia.» Rikki entrò barcollando. Arkady aveva incontrato l'ex attore georgiano alla cafeteria della radio, al bar e poi alla festa di Tommy. Ogni volta gli era sembrato tormentato da qualcosa, o per lo meno un po' istrione. Anche adesso. Aveva il dorso di una mano coperto di spine. «Il cactus» si lamentò.
«Gli ho cambiato posizione» spiegò Stas. Arkady accese la luce sul balcone. Una lampada sospesa illuminava un tavolo di metallo, due sedie, un secchio pieno di bottiglie di birra vuote e un semicerchio di piante grasse di varie forme, alcune simili a cuscini dalle spine corte, altre a baionette inastate. «È un sistema d'allarme» disse Stas. Un onda di dolore attraversava Rikki ogni volta che Stas estraeva una spina. «Tutti tengono i gerani sul balcone. Anch'io tengo dei gerani. I gerani sono fiori bellissimi» gemette. «Rikki abita al piano di sopra.» Stas strappò l'ultima spina. La mano di Rikki era piena di segni rossi. Il georgiano li guardò cupamente. «Fai sempre così quando vai a trovare la gente?» chiese Arkady. «Ero in trappola.» Ricordò qualcosa e scostò Stas e Arkady dal balcone. «Sono alla mia porta.» «Chi?» chiese Stas. «Mia madre e mia figlia. Tanti anni di attesa per vederle e adesso sono qui. Mia madre vuole prendere la televisione. Mia figlia vuol tornare indietro in macchina.» «La tua macchina?» chiese Stas. «La sua macchina, una volta che è arrivata in Georgia.» Rikki spiegò ad Arkady: «In un momento di debolezza ho detto di sì. Ma ho una Bmw nuova. Cosa se ne fa una ragazza di una macchina così in Georgia?». «Se la spassa» rispose Arkady. «Sapevo che sarebbe successo. Questa gente non ha nessun autocontrollo. Sono così avidi che me ne vergogno.» Assunse un'espressione tragica. «Tu non rispondere alla porta e se ne andranno via» suggerì Stas. «Non quelle due.» Rikki alzò lo sguardo al soffitto. «Aspettano fino a quando non esco.» «Puoi uscire da qui» disse Arkady. «Gli ho detto di aspettare un minuto» spiegò Rikki. «Non posso scomparire di colpo. Prima o poi dovrò aprire la porta.» «E allora perché sei sceso?» chiese Stas. «Hai del brandy?» Rikki si esaminò la mano che stava già cominciando a gonfiarsi. «No. Vodka» offrì Stas. «Mi adatterò.» Si lasciò accompagnare a una poltrona e si fece offrire un bicchiere. «Questo è il mio piano: farle prendere un'altra auto.»
«Sei andato a prenderla all'aeroporto» disse Stas. «La conosce, la tua macchina. Ne è innamorata.» «Dirò che è tua... che l'ho presa in prestito da te per farle impressione.» «Ah. E che macchina le faresti portare indietro?» chiese Stas. «Stas.» Rikki sbatté le palpebre. «Stas, siamo amici intimi. La tua Mercedes ha dieci anni, l'hai comprata usata... in tutta franchezza non è altro che una cuccia da cane. Mia figlia è una donna che ha un certo gusto. Basta che dia un'occhiata alla tua macchina e si rifiuta persino di toccarla. Speravo che potessimo scambiarci le chiavi.» Stas versò altri due bicchieri di vodka e disse ad Arkady: «Adesso non lo si direbbe, ma Rikki una volta si è tuffato nel Mar Nero. Aveva la muta subacquea e la bussola. È passato sotto le reti e le mine e sotto le vedette. Una fuga eroica. E adesso eccolo qui, che si nasconde a sua figlia». «Non vuoi far cambio?» chiese Rikki. «La vita ti ha raggiunto. Credo che tua figlia te la farà pagare per anni» disse Stas. «La macchina è solo l'inizio.» La vodka parve bloccarsi nella gola di Rikki. Si rialzò con dignità, uscì sul balcone e sputò oltre la ringhiera. «Che sia maledetta! E anche tu!» disse a Stas. Posò il bicchiere sul tavolo del balcone e si tirò su afferrandosi alla gronda che scendeva lungo la facciata. Per un uomo delle sue dimensioni era ancora agile. Arkady vide le gambe superare con una sforbiciata il balcone del piano di sopra. Piovvero petali di geranio. Arkady si svegliò sul divano. Secondo il suo orologio erano le due del mattino. Non esiste buco più profondo delle due del mattino. L'ora in cui la paura domina il mondo. Stas aveva evitato due volte la domanda. Dove stava Max? Per natura ai russi gli alberghi non piacciono. I visitatori di solito vanno a stare dagli amici. Gli altri amici sanno dove stanno. L'idea che Max fosse disteso accanto a Irina costrinse Arkady a fissare l'oscurità bluastra della stanza. Poteva quasi vederli a letto, come se li avesse davanti, oltre il tavolino del soggiorno. Vedeva il braccio di Max che la stringeva, lo sentiva respirare il profumo dei suoi capelli. Accese un fiammifero. Sedie, scrivanie e scaffali sgusciarono dal buio avvicinandosi alla fiamma. Scostò la coperta. Aveva visto il telefono sulla scrivania. Tastando, trovò un'agendina. Accese goffamente un altro fiammifero con una sola mano, aprì la copertina, trovò "Irina Asanova" e il numero. La fiamma gli era arrivata alle dita. Spense il fiammifero e prese la cornetta. Le avrebbe detto che gli dispiaceva svegliarla ma che dovevano parlare? Aveva già detto
chiaramente che non aveva nulla da dirgli, specialmente con Max disteso accanto. Avrebbe potuto metterla in guardia. Come sarebbe apparso geloso e goffo, con Max lì vicino. Oppure avrebbe potuto chiedere di Max. Così le avrebbe fatto capire che sapeva come stavano le cose. O anche, se lei avesse chiesto con chi parlava, avrebbe potuto dire "Boris", per controllare la sua reazione. Arkady formò il numero ma quando fece per avvicinare il ricevitore all'orecchio, qualcosa gli bloccò il polso. Due file di denti umidicci tenevano bassa la mano che stringeva la cornetta. Se appena tentava di sollevarla, le mascelle si serravano. La prese con l'altra mano e sentì un ringhio risuonargli nel braccio. All'altro capo udì i caratteristici due squilli dei telefoni tedeschi. «Pronto?» disse Irina. Arkady cercò di liberare il braccio. Le mascelle si serrarono. «Con chi parlo?» chiese Irina. L'intera mole del cane pareva aggrappata al suo braccio. Vi fu un clic seguito dal segnale continuo della linea interrotta. Quando Arkady lasciò cadere il braccio, le mascelle si aprirono. Posò la cornetta e i denti mollarono la presa. Sentiva che il cane non si era mosso: si stava accertando che non toccasse il telefono. Salvami, pensò Arkady. Salvami da me stesso. 24 Il segreto era che Stas mangiava solo a colazione. Fegato, salmone affumicato, patate in insalata e caffè. Aveva anche il videoregistratore e l'enorme televisore tipici degli scapoli. Arkady fece partire il video con il telecomando. In avanzamento rapido, sullo schermo correvano monaci, Marienplatz, birreria all'aperto, traffico moderno, altre birrerie, cigni, opera, Oktoberfest, Alpi, birreria all'aperto. Stop. Riavvolse fino all'inizio dell'ultima sequenza. Era un giardino bagnato dal sole e protetto da una spalliera di caprifoglio sulla quale ronzavano le api. I commensali sedevano esausti per lo sforzo di un pasto robusto, ma la donna sedeva da sola a un tavolo. La fermò sul fotogramma in cui sollevava il bicchiere. «Mai vista prima» disse Stas. «Quel che mi stupisce è che non ho mai visto questa birreria. Ero convinto di averle viste tutte.» Lo schermo si rianimò. La donna alzò il bicchiere un poco più in alto. Aveva i capelli biondi pettinati all'indietro quasi con ferocia, una collana
d'oro su un cashmere nero, un paio di ironici occhiali da gatta, unghie rosse e labbra che in russo promettevano "ti amo". Stas scosse il capo. «Me la ricorderei.» «Non a Radio Liberty?» chiese Arkady. «Difficile.» «Con Tommy?» «Possibile, ma non l'ho mai conosciuta.» Arkady provò un'altra pista. «Mi piacerebbe vedere dove lavorava Tommy.» «L'Archivio Rosso? Se riprovo a farti entrare le guardie chiamano Michael. Non che mi importi di dargli fastidio, ma quello dirà di non darti il pass.» «Michael è sempre alla radio?» «No. Tra le undici e le dodici gioca a tennis al club dall'altra parte della strada. Ma si porta sempre dietro il telefono.» «Tu sarai alla stazione?» «Sarò al mio posto fino a mezzogiorno. Io scrivo. Trasformo il declino e la caduta dell'Unione Sovietica in frasi fatte di poche parole.» Quando Stas se ne fu andato, Arkady rassettò il divano, lavò i piatti e stirò gli abiti che il giorno prima Federov gli aveva schiacciato nella borsa. Aveva il polso graffiato, ma la pelle era intatta. Stas aveva visto i segni ma non aveva detto nulla. A ogni passo che Arkady faceva, dal divano al lavello, all'asse da stiro, Laika lo seguiva. Fino a quel momento aveva ritenuto accettabile il suo comportamento. Mentre stirava, Arkady inserì nuovamente la cassetta. Nel momento in cui la telecamera faceva una panoramica si rese conto che forse quello che vedeva era il patio di un ristorante, non di una birreria. Si vedevano persone intente a mangiare all'interno, sebbene la luce fuori fosse troppo intensa per consentire di vedere attraverso le vetrate. Che cosa sapeva di lei? Un tempo poteva essere una puttana di Mosca chiamata Rita. Poteva essere Frau Benz, la giramondo. L'unica prova concreta della sua esistenza era questa cassetta. Questa volta notò che il tavolo era preparato per due. La donna aveva una presenza quasi teatrale. La collana d'oro era tedesca, ma le angolature del volto erano chiaramente russe. Trucco pesante... anche questo era russo. Rimpianse che non si fosse tolta gli occhiali, nemmeno per una sola volta. Lentamente le labbra si atteggiarono in un sorriso e dissero a Rudy Rosen: "Ti amo".
Laika scodinzolò, si avvicinò al televisore e tornò a sedere. Arkady riavvolse e procedette bloccando un'inquadratura sì e una no. Zoom in apertura dagli occhiali. Allontanamento dal tavolo. Stacco dai commensali. Inquadratura di ambiente su api e tralci. Carrello con biancheria, utensili, caraffe d'acqua. Stucchi. Caprifoglio. Finestra con pannello che rifletteva l'operatore in piedi davanti a una parete solida di verde. Ecco un'altra domanda: chi aveva fatto la ripresa? Un uomo dalle spalle decisamente larghe, con un pullover rosso bianco e nero. I colori Marlboro. Fece girare di nuovo il nastro. Le falene galleggiavano nella luce del sole. Le api ronzavano e i commensali ritornavano in vita. La donna con gli occhiali ripeteva "ti amo". Al garage Luitpold, una Mercedes affusolata con radiotelefono rosso era parcheggiata accanto al gabbiotto del sorvegliante. Rammentando gli arabi dell'Hilton Hotel, Arkady salì la rampa fino al piano superiore, trovò una Bmw dall'apparenza leggera e le diede un deciso scossone. L'auto si svegliò all'improvviso lampeggiando e suonando le trombe. Arkady si lanciò ad agitare Mercedes, Audi, Daimler e Maserati finché l'intero piano fu un concerto di sirene. Quando vide il sorvegliante salire di corsa la rampa, scese a sua volta lungo le scale. Nel gabbiotto trovò la macchinetta per forare gli scontrini, il registro, alcuni attrezzi e un lungo coltello per aprire le serrature delle auto. Il coltello richiedeva pazienza e Arkady non aveva tempo. Prese un cric. Quando ruppe il finestrino l'allarme della Mercedes si unì a tutti gli altri, ma nel giro di cinque secondi Arkady uscì indisturbato dal garage con il radiotelefono in mano. A Mosca era investigatore capo dell'Ufficio del Procuratore; qui, dopo meno di una settimana, era un ladro. Sapeva che avrebbe dovuto sentirsi in colpa e invece si sentiva vivo. E persino tanto furbo da spegnere il telefono. Erano le undici passate quando giunse a Radio Liberty. Sul lato opposto della strada, nascosta dalle auto parcheggiate e dal recinto di rete metallica, c'era la sede del club, con alcune tavole sotto un patio e una gradinata che portava ai campi in terra battuta. Che mondo delizioso, pensò Arkady. Avere la possibilità, a metà della giornata, di infilare un paio di calzoncini, dare la caccia a una palla pelosa, sudare come un atleta. Guardò nella Porsche di Michael. Il telefono cellulare rosso, lo scettro di plastica, era scomparso.
Michael giocava in un campo vicino alla sede del club. Indossava un paio di short e un maglione a V. Giocava con l'indolenza di chi conosce il tennis fin da bambino. Il suo avversario, che offriva la schiena ad Arkady, si agitava selvaggiamente muovendosi incerto come un uomo su un tappeto elastico. Alle sue spalle, e sotto gli occhi di Michael, c'era un tavolino con il telefono, che aveva l'antenna completamente allungata. Mentre Arkady valutava il da farsi, notò che la vita gli offriva le sue distrazioni. L'avversario di Michael mandava le palle da ogni parte, sopra la testa di Michael e contro la rete di protezione. Altre volte mancava del tutto la palla. In alcuni casi si ritrovò ingarbugliato nei propri calzoncini. Non solo non sapeva giocare: pareva provenire da un pianeta con un altra gravità. Arkady fu sorpreso di sentire il proprio nome durante uno scambio di parole sotto rete. Quando l'avversario tornò verso la linea di fondo, ebbe la possibilità di vederlo. Federov. Il primo servizio dell'aiuto console volò sopra la rete e rimbalzò in un altro campo dove giocavano due donne. Entrambe indossavano un gonnellino corto che lasciava vedere gambe scattanti e abbronzate; seguirono l'irruzione della palla come una violazione dello stile. Michael si avvicinò alla rete e si scusò in un tono che lasciava intendere quanto le capisse. Mulinando la racchetta e facendo troppo rumore per un campo da tennis, Federov gli corse accanto. Ma a quel punto Arkady si era già avvicinato al tavolo e aveva scambiato i telefoni. All'altro estremo della sede del club c'erano due bidoni per il riciclaggio dei rifiuti, uno arancione per le materie plastiche, l'altro verde per il vetro. Arkady gettò il telefono in quello arancione e tornò indietro passando accanto ai campi, oltrepassando la cancellata della radio, superando la guardiola del parcheggio e salendo i gradini fino alla reception. Chiamarono Stas che venne al banco, un po' stupito di vederlo, mentre le guardie tentavano di contattare Michael. «Il telefono sta suonando.» «Non abbiamo tutta la giornata» disse Stas. Il sorvegliante riappese e accolse Arkady con un'occhiata di fuoco e un lasciapassare. La serratura della porta ronzò e Arkady si ritrovò nel corridoio dalla moquette color crema di Radio Liberty. Gli avvisi nelle bacheche erano cambiati, segno di efficienza organizzativa. Alcune foto mostravano il presidente Gilmartin alla guida di una comitiva di giornalisti ungheresi e mentre applaudiva un gruppo di danzatori popolari di Minsk. Tecnici con nastri audio in mano percorrevano il corridoio in ogni direzione. I capelli grigi di Ludmilla rimbalzavano dentro e fuori la porta del suo ufficio. «Sei venuto a mettere una bomba nell'ufficio del direttore o in quello di
Michael? In che guai sono finito?» chiese Stas. «Da che parte è l'Archivio Rosso?» «Le scale sono tra la macchinetta delle bibite e quella degli snack. Fila via a razzo.» Quando Tommy aveva detto che l'Archivio Rosso era il più grande centro di documentazione sulla vita dei russi fuori di Mosca, Arkady si era immaginato le lampade e le cataste polverose della biblioteca Lenin. Come al solito, non era preparato alla realtà. Non c'erano lampade nell'Archivio Rosso, solo la mezza luce da acquario proiettata da pannelli lunghi quanto tutta la stanza. E non c'erano nemmeno libri, solo microschede in contenitori d'acciaio automatici che scivolavano su binari. Invece della sala di lettura c'era una macchina che ingrandiva le microschede rendendole leggibili. Arkady passò una mano su uno schedario, stupefatto e intimorito. Era come se l'antica Rus, Pietro il Grande, Caterina la Grande e l'assalto al Palazzo d'Inverno fossero stati ridotti alle dimensioni di una capocchia di spillo. Lo sollevò vedere un oggetto primitivo come una scatola di legno contenente delle schede in cirillico. Tutti i ricercatori ai tavoli erano americani. Una donna con una camicetta coperta di fiocchetti sembrò felicissima di vedere un russo. «Dov'era la scrivania di Tommy?» «La sezione "Pravda".» La donna trasse un sospiro e indicò un'altra porta. «Sentiamo la sua mancanza.» «Naturalmente.» «Solo che di questi tempi arrivano troppe informazioni» disse. «Un tempo eravamo abituati a non riceverne, adesso sono troppe. Vorrei che per lo meno rallentassero.» «Capisco quel che vuol dire.» La sezione della "Pravda" era una stanza stretta, ulteriormente rimpicciolita da copie rilegate della "Pravda" da una parte e delle "Izvestya" dall'altra. In fondo alla stanza un videoregistratore registrava le immagini di un televisore a colori. La stazione doveva avere un'antenna satellitare perché, sebbene il volume fosse al minimo, Arkady si rese conto che stava guardando il notiziario sovietico. Sullo schermo, una folla malvestita spingeva un camion per ribaltarlo. Quando il camion atterrò su un fianco, tutti si affollarono sul retro. Ci fu un primo piano dell'autista con il naso sanguinante. Sotto un'angolatura diversa il camion mostrava il nome di una cooperativa per la produzione di sego. La gente uscì dal camion agitando
ossa e carne nerastra. Arkady si rese conto di quanto fosse stato condizionato da alcuni giorni di birra tedesca e di cibo. Andavano così male le cose, si chiese. Andavano davvero così male? Dietro l'apparecchio trovò la scrivania di Tommy, coperta di giornali, cerchi lasciati dalle tazze di caffè e proiettili di mitragliatrice utilizzati come fermacarte. Il cassetto di mezzo rivelò una collezione di matite, fermagli, blocchetti e cucitrici. Nei cassetti laterali, alcuni dizionari russo-inglesi, dei tascabili western, libri più massicci di storia militare, manoscritti e lettere di rifiuto. Non c'era nemmeno la presa per il fax. Arkady tornò in archivio e chiese alla donna addetta allo schedario: «Tommy aveva un fax quando lavorava alla "Rassegna dei programmi"?». «Può darsi. La sezione dove si occupano della rassegna dei programmi è in un'altra sede. Forse l'avrà usato là.» «Quanto tempo ha lavorato qui?» «Un anno. Quanto vorrei che avessimo un fax. Ma è riservato ai dirigenti. Privilegi» disse allegramente, come se annunciasse dei premi. «Qui abbiamo le informazioni. Tutto sull'Unione Sovietica. Qualunque argomento.» «Max Albov.» Respirò a fondo e giocherellò con il colletto. «Be', è roba di casa. D'accordo.» Fece per allontanarsi poi si fermò. «Lei si chiama?» «Renko.» «Chi è venuto a trovare?» «Michael.» «Allora...» sollevò le mani. Il limite era il cielo. Max era una vena d'oro che sembrava correre di schedario in schedario. Arkady sedeva davanti all'ingranditore facendo passare anni di "Pravda", "Stella rossa" e "Cinema Sovietico": la carriera di Max nel cinema, la sua defezione a Occidente, il suo lavoro a Radio Liberty, il suo lavoro come portavoce della disinformazione della Cia, il soprassalto di coscienza, il ritorno in patria e la recente reincarnazione come giornalista e commentatore rispettato alla televisione americana. Uno dei primi articoli di "Cinema Sovietico" attirò l'attenzione di Arkady. "Per il regista Maxim Albov, la parte più importante dell'intreccio è la donna. Si prende una bella attrice, la si mette sotto buone luci e il film è già un successo a metà." Tuttavia, i suoi erano solo d'azione, mostravano le audaci imprese e i sacrifici dell'Armata Rossa e delle guardie di confine contro i maoisti, i sio-
nisti e i mujaheddin. In un altro articolo si leggeva: "C'era un altro effetto speciale, un carro armato israeliano in fiamme, che si era rivelato particolarmente difficile perché non erano disponibili i detonatori o l'esplosivo plastico richiesti. La ripresa venne improvvisata dallo stesso regista. Albov: Stavamo filmando nei dintorni di Baku, vicino a un complesso chimico. Gli spettatori non sanno che a scuola ho ottenuto una specializzazione in chimica. Sapevo che combinando sodio rosso e solfato di rame si poteva ottenere un'esplosione spontanea, senza fusibile né miccia. Dato che il problema era quello di sapere con precisione il momento dello scoppio, provammo quaranta o cinquanta combinazioni prima di filmare, cosa che venne fatta mettendo una cinepresa a distanza dietro uno schermo di plexiglas. Era una ripresa notturna e l'effetto del carro armato israeliano che erutta fiamme è spettacoloso. A Hollywood non avrebbero saputo fare di meglio." Arkady sollevò di scatto il capo quando la porta dell'archivio si aprì di schianto ed entrò Michael accompagnato da Federov. Ancora in calzoncini da tennis, Federov aveva le gambe di un bianco fluorescente. Michael aveva in mano un telefono. Li accompagnavano le guardie della reception e Ludmilla, con l'espressione torva di un botolo ringhioso. «Usa il mio ufficio» disse Ludmilla. «È accanto al tuo. Così la segretaria non lo registra. Scomparirà e basta.» A Michael il suggerimento piacque. Si affollarono in una stanza dai mobili neri e dai portaceneri disposti come urne dei trapassati. Alle pareti erano appese alcune fotografie della famosa poetessa Cvetaeva, emigrata a Parigi con il marito, un assassino. Anche secondo gli standard russi era stato un matrimonio difficile. Le guardie spinsero Arkady su un'ottomana. Federov si lasciò cadere su un divano e Michael si appollaiò su un angolo della scrivania. «Dov'è il mio maledetto telefono?» «Non ce l'ha in mano?» Michael lasciò cadere il ricevitore sulla scrivania. «Questo non è il mio. Lo sa lei dove è il mio. È stato lei a scambiare i telefoni del cazzo.» «Come avrei fatto a scambiare il suo telefono?» chiese Arkady. «È così che sei riuscito ad entrare.» «No, mi hanno dato il pass» rispose Arkady. «Perché non sono riusciti a trovarmi al telefono» disse Michael. «Perché sono degli idioti.» «Come è fatto il suo telefono?»
Michael si sforzò di respirare regolarmente. «Renko, Federov e io ci siamo trovati oggi per discutere di lei. Pare che stia provocando problemi a non finire» «Ha disobbedito all'ordine del console di tornare in patria.» Federov era contento di entrare a far parte della conversazione. «Ha un amico qui alla stazione che si chiama Stanislav Kolotov.» «Stas! Quello lo interrogo dopo. È stato lui a mandarla all'archivio?» chiese Michael ad Arkady. «No, volevo solo vedere dove lavorava Tommy.» «Come mai?» «Mi aveva detto delle cose interessanti sul suo lavoro.» «Le schede su Max Albov?» «Mi sembra un personaggio affascinante.» «Ma ha detto alla ricercatrice che era venuto a trovare me.» «Ero venuto a trovare lei. Ieri, quando mi ha portato dal presidente Gilmartin, mi ha promesso dei soldi.» «A Gilmartin ha rifilato cazzate» disse Michael. «Renko ha bisogno di soldi» disse Federov. «Certo che ha bisogno di soldi. Tutti i russi ne hanno bisogno» intervenne Ludmilla. «È sicuro che non sia suo, quel telefono?» «Questo è un telefono rubato» rispose Michael. «La polizia dovrebbe controllare le impronte digitali» osservò Arkady. «Be', naturalmente ci sono le mie, di impronte. La polizia arriverà tra poco. Il fatto è, Renko, che a lei piace agitar le acque. Il mio lavoro invece è quello di calmarle. Sono arrivato alla decisione che le cose qui sarebbero molto più calme se lei fosse a Mosca.» «Questa è anche l'opinione del consolato» intervenne Federov. Quando Arkady cambiò posizione, sentì le mani delle guardie premergli sulle spalle. «Abbiamo deciso di metterla sull'aereo» disse Michael. «Lo consideri già fatto. Il comunicato ufficiale che il mio amico Sergei spedirà a Mosca dipende in gran parte dal suo atteggiamento, che finora fa cagare. Si potrebbe dire che il suo lavoro è stato così positivo che ha potuto tornare a casa in anticipo. D'altra parte, sono convinto che un investigatore rispedito in patria per aver danneggiato i rapporti tra gli Stati Uniti e l'Unione Sovietica, per aver abusato dell'ospitalità della Repubblica Federale e per aver rubato oggetti di proprietà di questa stazione, riceverà un'accoglienza piut-
tosto fredda. Vuole ritrovarsi a pulire una latrina in Siberia per il resto della sua miserabile vita? Sta a lei scegliere.» «Vorrei collaborare» disse Arkady. «Meglio così. Che cosa sta cercando a Monaco? Perché ficca il naso intorno a Radio Liberty? In che modo Stas la sta aiutando? Dov'è il mio telefono?» «Ho un'idea» suggerì Arkady. «Avanti» disse Michael. «Telefoni.» «A chi?» «A se stesso. Magari sente uno squillo.» Ci fu un attimo di silenzio. «Ah, è così? Renko, lei è peggio di un cazzone; lei è un suicida.» «Non mi potete rimandare indietro» disse Arkady. «Qui siamo in Germania.» Michael saltò giù dalla scrivania. Aveva il passo elastico di un'atleta, una leggera maschera chiara lasciata dagli occhiali da sole intorno agli occhi e un odore di sudore misto a dopobarba. «Ecco perché se ne va. Renko, lei è un profugo. Cosa crede che ne facciano in Germania della gente come lei? Immagino conosca già il tenente Schiller.» Le guardie lo fecero alzare. Rapido come un cane, Federov balzò in piedi. Un portacenere, un telefono e un fax arredavano la scrivania di Ludmilla. Mentre Michael attraversava la stanza per aprire la porta a Peter Schiller, Arkady scorse, accanto al pulsante di trasmissione, il numero da cui era stato chiamato Rudy Rosen. «Dov'è Red Square?» chiese. «Ho sentito che te ne torni a casa» disse Peter. «Controlli il fax» ribatté Arkady. Sembrava l'occasione che il tenente attendeva da tempo. Piegò il braccio di Arkady dietro la schiena e gli torse il polso obbligandolo ad alzarsi in punta di piedi. «Dovunque vado, tu combini casini.» «Dai un'occhiata.» «Furto, violazione di domicilio, resistenza alla forza pubblica. Un altro turista russo.» Peter spinse Arkady verso la porta. «Porti il telefono che ha trovato, per favore» disse a Michael. «Abbiamo lasciato cadere le denunce per sveltire il rimpatrio» dichiarò Michael. «Il consolato ha modificato il visto» intervenne Federov. «Ha prenotato un posto sul volo di oggi. Si può fare tutto in silenzio.»
«Oh, no» disse Peter. Reggeva Arkady come un trofeo. «Se ha commesso reati in Germania, è nelle mie mani.» 25 La cella sembrava un bagno finlandese; quindici metri quadrati di mattonelle bianche sul pavimento, pareti di mattonelle azzurre, un letto di fronte a una panca, una toilette nell'angolo. Per la pulizia, al di là delle sbarre d'acciaio era arrotolata una canna. La cintura e i lacci delle scarpe di Arkady erano in un armadietto accanto alla canna. Un poliziotto in uniforme, poco più anziano di un Giovane Pioniere, si faceva vedere ogni dieci minuti per accertarsi che Arkady non si impiccasse con la giacca. Verso metà del pomeriggio arrivò un pacchetto di sigarette. Stranamente, Arkady si sorprese a non fumare come al solito, quasi il cibo avesse ridotto l'appetito dei polmoni. La cena giunse su un vassoio di plastica a scomparti: manzo in salsa bruna, gnocchetti di farina, carote con aneto tritato, budino alla vaniglia, posate di plastica. Quando aveva telefonato al numero del fax dalla stazione ferroviaria, era stata Ludmilla a rispondere. Anche se conosceva Rudy, quando aveva chiesto "Dov'è Red Square?" non sapeva ancora che fosse morto. Poiché lo spazio vitale concesso all'individuo sovietico era di cinque metri quadrati, la cella parve ad Arkady una vera e propria suite. Inoltre, le celle sovietiche erano dei manoscritti. Le pareti intonacate erano tutte coperte di messaggi personali e di annunci. "Il partito succhia il sangue del popolo!" "Dima ammazzerà gli infami che l'hanno denunciato!" "Dima ama Zeta per sempre!" E disegni: tigri, spade, angeli, donne formose, uccelli in erezione, una testa di Cristo. Le piastrelle che lo circondavano erano smaltate a fuoco, impossibili da scalfire. Il volo dell'Aeroflot era ormai partito, ne era sicuro. C'era forse un volo serale della Lufthansa? Ripiegando la giacca per farne un cuscino, Arkady trovò nella tasca interna una busta spiegazzata e riconobbe il proprio nome scritto con calligrafia tremolante, sottile come un ago. Era la lettera di suo padre consegnatagli da Belov: se l'era portata addosso per più di una settimana, da una tomba russa a una cella tedesca, come una capsula di veleno dimenticata. Appallottolò la busta e la gettò verso le sbarre. Invece di passare, la palla colpì una sbarra e rotolò nel canaletto al centro del pavimento. Arkady la
gettò un'altra volta ma questa rimbalzò e rotolò ai suoi piedi. Con un fruscio. Quali potevano essere le parole di commiato del generale Kyrii Renko? Dopo una vita di imprecazioni, qual era stata l'ultima? In una guerra tra padre e figlio, qual era l'ultimo colpo? Arkady ricordava le frasi preferite del padre. "Lattante" quando Arkady era piccolo. "Poeta, checca, cagasotto ed eunuco" da studente. "Codardo", naturalmente, quando Arkady aveva rifiutato di andare all'Accademia Militare. "Fallito", ovviamente, da quel momento in poi. Qual era la bordata tenuta di riserva? I morti avevano un certo vantaggio. Da anni non aveva più parlato a suo padre. In quel buco foderato di mattonelle, era giunto il momento di consentire al padre di tirargli una coltellata postuma? C'era qualcosa di divertente nella situazione. Anche da morto, il generale continuava ad avere gli istinti di un boia. Arkady appiattì la busta sul pavimento. Aprì un angolo e inserì un dito con cautela: nessuna sorpresa se suo padre avesse lasciato dentro un rasoio. No, il rasoio sarebbe stato la lettera stessa. Quali erano le parole più odiose che poteva udire, quelle che l'avrebbero fatto soffrire di più? Qual era il sibilo che usciva dalla tomba? Arkady soffiò nella busta e il soffio sollevò un mezzo foglio di carta velina. Lisciò la carta e la mise sotto la luce. La scrittura era così debole e così incerta che sembrava più una leggera increspatura del letto di morte che una lettera. La mano che l'aveva scritta a malapena poteva reggere una penna. Il generale era riuscito a tracciare una sola parola: "Irina". 26 Il traffico notturno di Leopoldstrasse era un fluire sinuoso di fari, vetri, caffè sui marciapiedi, cromature. Guidando, Peter accese una sigaretta. «Spiacente per la cella. Dovevo metterti in un posto dove Michael e Federov non potessero venirti a prendere. Comunque li hai fregati proprio per bene. Dovresti essere orgoglioso. Non sono riusciti a capire come hai fatto a cambiare i telefoni. Non facevano che mostrarmi: macchina, campo da tennis, macchina.» Scalò la marcia e serpeggiò veloce tra le auto. A volte Arkady aveva l'impressione che Peter controllasse a fatica l'impulso di salire sui marciapiedi per passare davanti agli altri.
«A quanto pare il telefono di Michael è speciale. Ha uno scrambler di sicurezza. Era sconvolto perché dovrà farsene arrivare uno nuovo da Washington.» «L'ha ritrovato?» «Questa è la meraviglia. Questa è la schlag, la ciliegina sulla torta. Ha seguito il tuo consiglio. Quando se ne è andato Federov, Michael s'è messo un paio di calzoni, ha telefonato al suo numero ed è andato avanti e indietro per la strada finché ha trovato il suo telefono che squillava dentro un bidone della spazzatura. Come trovare un gattino.» «Quindi non ci sono denunce?» «Ti hanno visto andartene dal garage quando è stato rubato il primo telefono, ma il sorvegliante, una volta che ho finito con lui, non sapeva più se eri piccolo o grande, bianco o nero. La cosa principale è che sei ancora qui ed è me che devi ringraziare.» «Ti ringrazio.» Peter sollevò gli angoli della bocca in un sorriso. «Vedi, non è difficile. Siete così permalosi, voi russi.» «Ti senti sottovalutato?» «Ignorato. È bello che russi e americani vadano così d'accordo, ma questo non vuol dire che ti possano rispedire a Mosca quando vogliono.» «Perché non hai dato un'occhiata al fax di Michael quando ti ho detto di farlo?» «Lo sapevo già. Dopo la morte del tuo amico Tommy, ho telefonato a quel numero. Mi ha risposto la donna. Io sono fatto così, quando ammazzano qualcuno divento curioso.» Porse ad Arkady il pacchetto di sigarette. «Sai, mi è piaciuto molto il tuo giochetto con i telefoni. Credo che ci assomigliamo. Se tu non fossi un così gran bugiardo, potremmo formare una bella coppia.» Sull'autostrada, Peter inserì l'overdrive, la marcia che lo rendeva più felice. «Ammetti di esserti inventato la storia della Bayern-Franconia Bank e di Benz. Perché hai scelto la banca di mio nonno? Perché hai telefonato proprio a lui?» «Ho visto una lettera che lui aveva scritto a Benz.» «Ce l'hai, la lettera?» «No.» «L'hai letta?» «No.»
I cartelli dei chilometri filavano via come lampi. I cavalcavia rimbombavano sulle loro teste. «Non hai un socio a Mosca? Non gli potresti telefonare?» «È morto.» «Renko, ma non hai mai l'impressione di essere come la peste?» Peter doveva aver tenuto conto della posizione perché all'improvviso cambiò marcia e frenò ai piedi di una rampa annerita macchiata di bianco. La Trabant di Tommy era scomparsa. Peter arretrò lentamente. «Come puoi vedere, il cemento è scheggiato. Mi sono chiesto come poteva una Trabi così piccola colpirlo con tanta forza. Porte piegate, chiuse con la sicurezza. Sterzo piegato. Ci sono solo i segni delle gomme della Trabi e nessuna traccia di vetri o di luci posteriori rotte. Però quando torniamo sulla strada dà un'occhiata ai segni della frenata.» Due apostrofi scuri si staccavano dalla strada in direzione della rampa. «Li hai fatti analizzare?» «Sì. Gomma artificiale scadente. Non è neanche possibile ricostruire gli pneumatici con roba del genere, non si possono bruciare né riciclare. Le gomme delle Trabi. Gli investigatori sono convinti che Tommy si sia addormentato e abbia perso il controllo della macchina. Gli incidenti mortali in cui è coinvolta una sola persona e una sola macchina sono sempre i più difficili da ricostruire. A meno che non sia stato un incidente di due automobili, con un mezzo più grosso che è arrivato da dietro e ha fatto schiantare la Trabi contro la rampa. Se Tommy avesse avuto familiari o nemici, l'indagine sarebbe ancora aperta.» «È già chiusa?» «In Germania ci sono così tanti incidenti stradali, incidenti terribili sulle autobahn, che non possiamo fare indagini su tutti. Se vuoi ammazzare un tedesco, fallo sulla strada.» «C'erano delle tracce di fiammata nella macchina, segni di incendio doloso?» «No.» Peter accelerò a marcia indietro e con un semplice colpo di freno fece girare l'auto su se stessa. Arkady ricordò che pilotava i jet. In Texas, dove c'erano meno cose da colpire. «Quando Tommy bruciava hai detto che avevi già visto un incendio come questo. Chi?» «Un uomo del racket.» Arkady si corresse. «Un banchiere di nome Rudy Rosen. È bruciato in una Audi. Bruciano bene anche le Audi. Dopo la sua
morte, Rudy ha ricevuto un fax dall'apparecchio che abbiamo visto alla radio.» «Il mittente pensava che fosse vivo?» «Sì.» «Di che tipo di incendio si è trattato? Elettrico? Collisione?» «Diverso da questo. Era doloso. Una bomba.» «Diverso? Ho un'altra domanda. Prima che questo Rosen morisse, tu eri nella sua auto?» «Sì.» «Come mai questa è la prima cosa che credo senza riserve? Renko, tu mi stai ancora mentendo a proposito di qualcos'altro. È una cosa in cui non è implicato solo Benz. Chi altro? Ricorda, c'è un aereo che parte per Mosca domani. Ti ci potresti ritrovare sopra.» «Tommy e io cercavamo qualcosa.» «Che cosa?» «Una Bronco rossa.» Davanti a loro, una fila di luci posteriori si allungava lungo la banchina. Sullo spiazzo si delineava il profilo alto dei fuoristrada. Peter serpeggiò tra le auto e si fermò senza fretta. Alcune figure umane balzarono al riparo con un salto, schermandosi gli occhi con le braccia. Dal cruscotto Peter prese due torce elettriche, una per Arkady e una per sé. Quando scesero vennero affrontati da alcuni uomini, irritati per l'intrusione. Peter ne spintonò uno e ringhiò in tono convincente a un altro, invitandoli a tornare indietro tra le macchine. Parevano esserci due lati nella personalità di Peter Schiller, pensò Arkady. L'ideale ariano e il lupo mannaro... e in mezzo il nulla. Peter si fece strada tra le donne in attesa di clienti mentre Arkady si aggirava tra le auto che si erano portate sull'altro lato della piazzola per farsi i loro affari. Non sapendo che aspetto avesse una Bronco, fu costretto a leggere il nome di tutte le auto. Un bronco non era forse un cavallo imbizzarrito? No, non era quello il suono. Sembrava più un colpo su un tamburo bagnato o, nel guscio dei veicoli, un accoppiamento tra tartarughe. La Bronco rossa non c'era, ma Peter fece ritorno dal lato opposto dello spiazzo con la notizia che una se ne era appena andata. Al volante c'era una certa Tima. Non parve scoraggiato. Forse perché questo gli offriva l'occasione di correre un pochino sull'autostrada. Arkady immaginò la notte che ondeggiava dietro di loro come una sciarpa. Il resto della città viveva tranquillamente secondo i propri orari,
mangiava il proprio muesli, andava al lavoro in bicicletta, pagava per il sesso. Peter si muoveva come se vivesse a un regime di giri più alto. «Credo che quando eri nella Trabi ad aspettare Tommy, qualcuno ti abbia visto. Poi il povero Tommy si è diretto a casa e questo qualcuno l'ha seguito. Non è stato un incidente. È stato un assassinio, ma l'obiettivo eri tu.» «Vuoi continuare a girare finché non cercano di ammazzarci?» «No, per schiarirmi le idee. Sei sulle tracce di qualcuno fin da Mosca? Oppure ti hanno seguito?» «A questo punto seguirei qualsiasi cosa. Sceglierei una stella e la punterei.» «Come mio nonno?» «Forse c'entra anche tuo nonno. Onestamente, non saprei.» «Hai mai conosciuto questo Benz?» «No.» «Hai parlato con qualcuno che lo conosceva?» «Tommy. Rallenta» disse Arkady. Una ragazza con un paio di stivali e una giacca di pelle rossa camminava sulla banchina. Passandole accanto Arkady vide che aveva i capelli neri e tondi lineamenti uzbeki. «Fermati!» La ragazza era furibonda e non era nello spirito di farsi dare un passaggio. Il suo tedesco era un surrogato di russo. «Quell'Arschloch mi ha buttato giù dalla mia macchina. Io lo ammazzo.» «Che macchina avevi?» chiese Arkady. La ragazza pestò i piedi. «Scheisse, c'era dentro tutta la mia roba.» «Magari riusciamo a trovarla.» «Foto e lettere personali.» «Andiamo a cercarla. Che modello è?» La ragazza guardò nel buio e riconsiderò la situazione. L'Uzbekistan è lontano, pensò Arkady. Le gambe snelle sembravano intirizzite. «Lasciate perdere» disse la ragazza. «So badare a me stessa.» «Se qualcuno ti ha rubato la macchina» disse Peter «devi fare denuncia alla polizia.» La ragazza studiò lui e la Bmw, con la seconda antenna e il riflettore. «No.» «Tima è il diminutivo di cosa?» chiese Arkady. «Fatima.» E immediatamente aggiunse «Non ho mai detto di chiamarmi Tima.» «Ti aveva preso la macchina anche due sere fa?»
Fatima incrociò le braccia. «Mi stavate sorvegliando?» «Vieni da Samarcanda o da Tashkent?» «Tashkent. Come fai a sapere tutte queste cose? Con te non parlo.» «Quanto tempo fa ti ha preso la macchina?» La ragazza si irrigidì in volto e riprese a camminare, ondeggiando sui tacchi. Gli uzbeki un tempo appartenevano all'Orda d'Oro di Tamerlano, che aveva imperversato dalla Mongolia a Mosca. Quella ne era l'estrema propaggine. Entrarono nel parcheggio del Red Square e l'attraversarono. Non videro nessuna Bronco rossa. Un contingente di uomini d'affari si trasferiva rumorosamente nel sex club scendendo da alcuni pulmini. «La visita al quartiere del vizio» spiegò Peter. «La buona società di Stoccarda. Qui si limitano a toccare una birra, poi vanno a casa e si scopano le mogli fino a tirarle sceme.» Passando accanto al gruppo, l'auto lo bersagliò con una piccola pioggia di ghiaia. Tornato sulla strada Peter appariva più calmo, come se fosse giunto a una segreta decisione. Anche Arkady si sentiva più rilassato: stava iniziando ad abituarsi alla velocità. Di fronte all'appartamento di Benz era parcheggiata una Bronco rossa. Le finestre erano buie. Passarono due volte davanti alla casa, parcheggiarono vicino all'isolato successivo e tornarono indietro a piedi. Peter si fermò all'ombra di un albero mentre Arkady saliva i gradini e premeva il campanello dell'appartamento. Nessuna risposta al citofono. Nessuna finestra si accese al piano di sopra. Peter gli si accostò. «Se ne è andato.» «L'auto è qui.» «Magari è andato a fare una passeggiata.» «A mezzanotte?» «È un'Ossie» disse Peter «quante macchine può avere? Renko, comportiamoci da investigatori e vediamo quel che riusciamo a trovare.» Diede ad Arkady una torcia elettrica, lo precedette verso la Bronco ed estrasse le pinzette da un coltello multilama. La cromatura del paraurti anteriore era intatta ma, sotto il raggio della torcia, la protezione in gomma scintillò. Peter si accucciò e strappò dalla gomma quelli che sembravano essere fili di vetro. «Uno dei motivi per cui è quasi impossibile riciclare una Trabi è che la
carrozzeria in fibra di vetro quando si rompe forma schegge molto aguzze.» Lasciò cadere alcuni campioni in una busta di carta. «Morta o viva, una Trabi è difficilissima da maneggiare.» Peter comunicò per radio il numero di targa della Bronco. Mentre attendevano la risposta fece cadere nel portacenere alcuni pezzi del materiale messo nella busta, poi li toccò con la fiamma dell'accendino. La fibra di vetro si accese con una fiammella gialla; filamenti di cenere nera salirono con il fumo marrone e l'auto si riempì di un tanfo ormai noto. «Tipicamente Trabi.» Peter spense la fiamma con un soffio. «Il che non dimostra nulla. Della Trabi di Tommy non è rimasto nulla che possa venir confrontato con questo. Ma perfino un avvocato sarebbe obbligato ad ammettere che la Bronco ha urtato qualcosa.» Alla radio parlarono rapidamente in tedesco. Peter scrisse su un taccuino "Fantasy Tours" e l'indirizzo di Boris Benz. «Domanda quante macchine sono registrate sotto il nome della Fantasy» suggerì Arkady. Peter trasmise la richiesta e scrisse sul taccuino il numero "18". Poi "Pathfinder, Navaho, Cherokee, Trooper, Rover". Posò il microfono nel suo alloggiamento. «Hai detto che non hai mai conosciuto Benz.» «Ho detto che l'aveva conosciuto Tommy.» «Hai detto che tu e Tommy eravate su questa strada perché cercavate Benz. Prima siete andati a vedere al sex club.» «Tommy l'aveva visto lì un anno fa.» «Chi li aveva messi in contatto? Come si erano incontrati?» Arkady era riuscito a nascondere a Peter il nome di Max, perché Max era a un solo passo da Irina. Sarebbe stato un amaro risultato, quello di fare tutta questa strada solo per coinvolgerla nell'indagine di Peter. «Perché si sono incontrati?» chiese Peter. «Tommy voleva parlare a Benz della guerra?» «Sono sicuro che Tommy gliene avrà parlato. Stava facendo interviste per il suo libro. Ne era ossessionato. Il suo appartamento è un museo di guerra.» «Ci sono stato.» «Cosa te ne è sembrato?» Gli occhi di Peter erano carichi di energia, come se avesse raccolto elettricità dalla radio. Estrasse una chiave dal giubbotto. «Credo che dovrem-
mo visitarlo ancora, quel museo.» Le svastiche si allineavano lungo due pareti. La mappa della Wehrmacht ne copriva una terza. Sui ripiani si stendeva la raccolta di maschere antigas, carri armati di latta, un coprimozzo dell'auto di Hitler, munizioni assortite, la scarpa rinforzata di Goebbels. Un orologio a forma di aquila segnava le dodici. «Sono già venuto qui» disse Peter. «Dentro e fuori. Normalmente non perquisiamo gli appartamenti delle vittime di incidenti stradali.» Sulla tavola dove si era fusa la torta di compleanno del Muro di Berlino, ora giaceva una macchina per scrivere con appunti, carta e schede. Peter girava qua e là, mettendo a fuoco i binocoli, provando una fascia o un berretto da SS come un attore lasciato libero di curiosare nel magazzino costumi. Prese in mano un elmetto, quello che Tommy indossava al party. «Ahimè, povero Jurgen, lo conoscevo bene.» Posò l'elmetto e prese una dentiera. «Denti di Hitler» disse Arkady. Peter aprì la dentiera. «Sieg heil!» Arkady sentì rizzarsi i capelli in testa. «Lo sai perché abbiamo perso la guerra?» chiese Peter. «Perché avete perso la guerra?» «Mi è stato spiegato da un vecchio. Facevamo un'escursione sulle Alpi. Arrivammo su un prato cosparso di fiori selvatici e ci fermammo a mangiare. Saltò fuori l'argomento della guerra. Mi disse che, sì, i nazi avevano commesso degli "eccessi", ma il vero motivo per cui la Germania aveva perso la guerra era stato il sabotaggio. Nelle fabbriche di munizioni c'erano operai che danneggiavano deliberatamente la polvere da sparo per rendere inefficaci le nostre armi. Se non fosse stato per questo, saremmoriusciti a reggere fino a una pace onorevole. Mi descrisse i nonni e i ragazzi che combattevano a Berlino, accoltellati alle spalle da quei sabotatori. Solo anni dopo sono venuto a sapere che quei sabotatori erano russi ed ebrei, schiavi che venivano fatti morire di fame sul lavoro. Ricordo ancora i fiori, il panorama splendido, le lacrime nei suoi occhi.» Posò la dentiera, si avvicinò ad Arkady accanto al tavolo e scorse le schede, gli appunti, le pagine. «Che cosa stai cercando?» chiese Arkady. «Risposte.» Perquisirono i cassetti della scrivania e del comodino, gli schedari, le agende trovate sotto il letto. Finalmente, su un muro accanto al telefono della cucina, trovarono alcuni numeri senza nomi. Peter proruppe in un ri-
solino divertito, indicò un numero con un dito e lo compose. Considerata l'ora, risposero in fretta. «Nonno, sto venendo con il mio amico Renko» disse Peter Il più vecchio dei due Schiller indossava una vestaglia di seta e un paio di pantofole di velluto. «Ero comunque sveglio. La notte fonda è il miglior momento per leggere.» Il banchiere pareva porre una netta distinzione tra lavoro e vita privata. Sugli scaffali non si trovavano saggi di economia, ma libri d'arte sui più diversi argomenti, dai tappeti turchi alle ceramiche giapponesi. Alcuni oggetti (il bronzo greco di un delfino, dei crani messicani di zucchero e giada, un cane di alabastro cinese) erano posti sotto piccoli riflettori. Un'icona scura di una Madonna era stata sistemata nel suo luogo deputato, l'angolo che nella casa di un contadino di prima della rivoluzione sarebbe stato "l'angolo bello". La spessa tavola di legno era spezzata e il volto della Madonna era oscurato dal fumo, il che ne rendeva ancor più luminosi gli occhi. Schiller versò del tè in una tazza dorata. Arkady si rese conto che sotto la vestaglia portava il busto e che si chinava stando rigido, come se fosse di marmo dalla cintola in su. «Mi dispiace, non ho marmellata. Ricordo che ai russi piace bere il tè con la marmellata.» Peter camminava avanti e indietro. «Cammina» gli disse il nonno. «Fa bene al tappeto.» Si rivolse ad Arkady. «Quando era ancora un ragazzo, Peter faceva chilometri su quel tappeto, avanti e indietro. Ha sempre avuto troppa energia. Non può farne a meno.» «Come mai l'americano aveva il tuo numero?» chiese Peter. «Il suo libro, quel suo libro da idiota. Era uno di quelli che sbirciano nelle fosse e pensano di aver davanti una carriera. Non faceva che insistere, ma gli ho rifiutato l'intervista. Sospetto che abbia dato il mio nome a Benz.» «La banca non era coinvolta?» domandò Arkady. Schiller si concesse un accenno di sorriso. «La Bayern-Franconia non investirebbe in Russia più di quanto non lo farebbe sull'altra faccia della luna. Benz mi ha contattato personalmente.» «Benz è un magnaccia» disse Peter. «Gestisce una banda di prostitute sull'autobahn. A che proposito ti ha contattato?» «Attività immobiliari.» «Affari?» chiese Arkady.
Schiller sorseggiò il tè. La tazza era di porcellana, con l'orlo dorato. «Prima della guerra avevamo una nostra banca a Berlino. Non siamo bavaresi.» Lanciò un'occhiata preoccupata al nipote. «Questo è il guaio di Peter; non è stato allevato per essere uno zotico ubriacone. Comunque, la nostra famiglia viveva a Potsdam, fuori città. Avevamo anche una villa sulla costa. Le ho descritte molte volte a Peter. Posti molto belli. Li abbiamo perduti tutti. Banca e case, sono finite tutte nel settore sovietico e poi nella Repubblica Democratica. Ce le hanno soffiate prima i russi e poi i tedeschi dell'Est.» «Pensavo che con la riunificazione le proprietà private venissero restituite» intervenne Arkady. «Oh sì. Oggi l'ex Germania Orientale è perseguitata dallo spettro degli ebrei. Ma a noi non è andata bene perché la nuova legge faceva eccezione per le proprietà confiscate tra il '45 e il '49, cioè nel periodo in cui le abbiamo perdute noi. Almeno così pensavo, fino a quando Benz apparve alla mia porta.» «Con quale messaggio?» chiese Arkady. «Si presentò come una specie di agente immobiliare. Mi disse che c'erano dei dubbi sulla data esatta del sequestro della casa di Potsdam. Sotto il controllo dei russi, molte proprietà sono rimaste semplicemente vuote per anni. I documenti sono andati perduti o sono stati bruciati. Benz mi disse che avrebbe potuto fornirmi la documentazione per sostenere le mie pretese.» Schiller si mosse rigido sulla poltrona. «L'ho fatto anche per te, Peter. Disse che avrebbe potuto aiutarci anche per quanto riguarda la fattoria e la villa. Potrebbero ritornare nostre.» «Per quanto?» chiese Peter. «Non voleva soldi. Informazioni.» «Informazioni di tipo bancario?» Schiller assunse il tono dell'offeso. «Storie personali.» Con un calcio il banchiere si tolse le pantofole. I piedi erano di un bluastro maculato, le unghie ingiallite. Mancavano due dita. «Congelamento. Dovrei vivere in Spagna. Peter, lo sai dov'è il brandy. Mi è venuto freddo.» «Che cosa faceva sul fronte orientale?» chiese Arkady. Schiller si schiarì la gola. «Facevo parte di un distaccamento speciale.» «Quanto speciale?» «Capisco cosa intende dire. Altri distaccamenti speciali rastrellavano gli ebrei. Io non ho fatto nulla del genere. Il mio distaccamento rastrellava opere d'arte. Mio padre voleva tenermi lontano dal fronte, per cui mi fece
aggregare a un gruppo di SS che seguivano l'avanzata. Ero un ragazzo, più giovane di voi. Mi disse che avrei potuto proteggere delle opere d'arte. Aveva ragione: senza di noi, migliaia di dipinti, gioielli e libri insostituibili sarebbero scomparsi. Letteralmente, preservavamo la cultura. Gli elenchi erano già pronti. Goering aveva preparato una lista, Goebbels un'altra. Avevamo una squadra di carpentieri, di imballatori, i nostri treni. La Wehrmacht aveva l'ordine di tenere sgombre le linee ferroviarie per i nostri carichi. Fu un autunno di grande attività. Quando arrivò l'inverno, ci fermammo nelle vicinanze di Mosca, ma arrivò anche la guerra, per quanto noi non ce ne rendessimo conto.» Con il brandy il tè migliorò. Il banchiere cambiò posizione. Arkady si rese conto che per quell'uomo ogni movimento era una fitta di dolore. «Sono queste le cose di cui Tommy voleva parlare?» chiese Arkady. «Alcune delle domande erano le stesse» rispose Schiller. «Mi hai sempre raccontato che ti avevano fatto prigioniero nelle vicinanze di Mosca» disse Peter, «e che avevi trascorso tre anni in un campo di prigionia. Hai sempre detto che vi eravate arresi quando i fucili si erano gelati.» «I piedi mi erano gelati. Per essere sincero, quando sono stato catturato ero nascosto in un carro merci. Quelli delle SS vennero fucilati sul posto. Sarei stato fucilato anch'io se i russi non avessero aperto alcune casse e non ci avessero trovato delle icone. Dovetti subire un interrogatorio, che non fu delicato. Accettai di preparare gli elenchi di ciò che avevamo preso. Poi la guerra cominciò ad andare a rovescio. Non venni mai messo in un campo, nemmeno per un giorno. Giravo con l'Armata Rossa, in un primo momento cercando gli oggetti che le SS avevano requisito. Poi, man mano che ci si spostava verso occidente, diventai consigliere delle truppe speciali del ministero della Cultura Sovietica, per aiutare a trovare e a spedire a Mosca le opere d'arte tedesche. Stalin aveva preparato un elenco, Beria ne aveva preparato un altro. Spedimmo in Russia anche di più, perché trovammo ciò che le SS avevano sottratto in altri paesi: i disegni Koenigs dall'Olanda, i dipinti di Poznan dalla Polonia. Saccheggiammo il Museo di Dresda, la Biblioteca Reale di Prussia, le collezioni dei musei di Aachen, Weimar e Magdeburgo.» «In altre parole, collaborasti» disse Peter. «Ho seguito la storia. Sono sopravvissuto. Non ero affatto il solo. Quando i russi giunsero a Berlino, dove credi che siano andati? Mentre la città bruciava, con Hitler ancora vivo, scivolarono nei musei. I Rubens, i Rem-
brandt, l'oro di Troia sparirono. Tesori che non sono stati più visti.» «C'era anche lei?» chiese Arkady. «No, ero ancora a Magdeburgo. Quando finimmo, i russi mi diedero una vodka. Eravamo stati insieme per tre anni. Ormai portavo persino la giacca dell'Armata Rossa. Mi tolsero la giacca, mi fecero fare qualche passo in un vicolo, mi spararono alla schiena e mi diedero per morto. Vedi, Peter, è storia personale.» «E qual era l'aspetto che più interessava a Benz?» domandò Arkady. «Nulla in particolare.» Schiller si corresse. «In realtà, avevo l'impressione che stesse comparando la sua lista con la mia. A livello umano era un uomo rozzo, un vero bastardo da caserma. Alla fine parlammo solo di come si costruiscono gli imballaggi. Le SS avevano arruolato i carpentieri della ditta Knauer di Berlino, i più esperti spedizionieri di opere d'arte dell'epoca. Gli feci dei disegni. Era più interessato ai chiodi, al legno e alla documentazione che agli oggetti d'arte.» «Cosa intendi dire con "bastardo da caserma"?» «È un modo di dire» spiegò Schiller. «Quante sono le ragazze tedesche che hanno avuto figli da soldati stranieri?» «Benz è nato a Potsdam» disse Arkady. «Intende dire che il padre di Benz era russo?» «L'accento era quello» rispose Schiller. «Tutte quelle storie che mi hai raccontato sulla difesa della Germania» disse Peter. «Eri un ladro, prima da una parte e poi dall'altra. Perché non me ne hai parlato prima? Perché me lo dici adesso?» Il banchiere infilò i piedi nelle pantofole. Si voltò verso Peter come poté. Possedeva quella tremenda combinazione data dall'età: la fragilità di un guscio d'uovo e una brutale franchezza. «Non ti riguardava. Il passato è passato. Adesso invece ti riguarda. Tutto ha un prezzo. Se possiamo riavere la nostra casa e la nostra proprietà, se possiamo tornare a casa, Peter, questo è il prezzo che ho pagato per te.» Peter depositò Arkady davanti all'appartamento di Stas e filò via nel buio. Arkady aprì la porta con la chiave lasciatagli da Stas. Laika lo annusò in silenzio e lo lasciò entrare. Andò in cucina e preparò uno spuntino: biscotti duri per il cane, tè, marmellata e sigarette per sé. Udì dei passi irregolari nel corridoio. Stas si appoggiò allo stipite. Aveva la giacca di un pigiama e i pantaloni di un altro. Guardò Laika e i biscotti.
«Troia.» «Ti ho svegliato» si scusò Arkady. «Non sono sveglio. Se fossi sveglio, ti chiederei dove diavolo sei stato.» Con passo da sonnambulo barcollò verso il frigorifero e ne estrasse una birra. «Evidentemente tu credi che io sia il facchino, il portiere, l'elfo che ti pulisce le scarpe, insomma dove sei stato?» «Con il mio nuovo socio tedesco. È entusiasta di me. In cambio, ho fatto del mio meglio per metterlo fuori strada.» Stas sedette. «Non puoi mandar fuori strada un tedesco più di quanto tu non possa guidarlo.» Quale che fosse l'opinione di Stas, Arkady aveva messo fuori strada Peter per omissione, tacendo di Max a causa di Irina. Ormai Peter era convinto che suo nonno fosse l'unico legame tra Tommy e Benz. «Ho sfruttato il suo senso di colpa nazionale.» «Se trovi un tedesco con un senso di colpa, devi sfruttarlo. Generalmente, a quanto ho visto, questo è un paese di amnesie diffuse; ma se sei riuscito a trovare un tedesco del genere, ti posso garantire che nessuno al mondo ha mai avuto un senso di colpa più grande. Sbaglio?» «Ci sei piuttosto vicino.» Stas rovesciò la bottiglia fino a farla sembrare in equilibrio sulle labbra, poi la posò completamente vuota. «Ero sveglio, comunque. Stavo pensando che se fossi rimasto in Russia, probabilmente sarei morto in un campo. Oppure sarei stato semplicemente spianato come un blini.» «Hai fatto bene ad andartene.» «E come risultato ho avuto un'enorme influenza sugli eventi mondiali. Io prendo in giro Radio Liberty, ma il suo budget è inferiore al costo di un bombardiere strategico.» «Davvero?» «Per non parlare del fatto che non pago le tasse.» «Mi pare un'ottima cosa.» Stas fissò l'orologio della cucina. La lancetta dei secondi scendeva con una serie di scatti percettibili, un suono simile a quello di una chiave che gira e rigira in un toppa. Laika gli si avvicinò e posò il muso sulle sue ginocchia. «Forse avrei dovuto rimanere» disse Stas. 27
Al mattino una fitta nebbia fece accendere i fari delle auto. Le biciclette apparivano e sparivano come spettri. Irina viveva a un isolato dal parco, in una via di abitazioni private, atelier di artisti e boutique. Tutti gli edifici erano decorati in un lezioso Jugendstil tranne la casa dove viveva lei, che era semplice e moderna. Le finestre erano arretrate rispetto alla strada ma Arkady riuscì a vedere il suo balcone, con la ringhiera cromata davanti a una spalliera di tralci lussureggianti e lucidi d'acqua. Si piazzò alla fermata dell'autobus in fondo alla strada, il posto più logico e meno visibile per aspettare. Il balcone dava direttamente sulla cucina? Immaginava il tepore delle luci, il profumo del caffè. Poteva anche immaginare Max che beveva una seconda tazza, ma dovette eliminare Max dal quadro per non farsi prendere da una pericolosa gelosia. Irina avrebbe potuto andare in macchina alla radio. Peggio, avrebbe potuto uscire con Max. Si concentrò sulla speranza che fosse sola, che stesse asciugando la tazza e il piattino, che indossasse l'impermeabile e prendesse l'autobus. Un furgone parcheggiò a metà dell'isolato. L'autista scese, aprì gli sportelli posteriori e con una piattaforma idraulica fece scendere alcuni attaccapanni carichi di vestiti, spingendoli in un negozio di abbigliamento. I tergicristalli del furgone scandivano il tempo, sebbene la pioggia sembrasse non cadere ma rimanere sospesa nell'aria in minuscole goccioline. Le auto luccicavano. Arkady scese dal marciapiedi per vedere meglio la casa di Irina, ma venne costretto a risalire dall'autobus che stava arrivando. I passeggeri salirono e infilarono il biglietto nella macchinetta obliteratrice. Tutti, dal primo all'ultimo... era questa la cosa stupefacente. L'autobus proseguì e il furgone se ne andò via. Ci volle un minuto prima che Arkady notasse come i tralci sul balcone di Irina fossero di un verde più scuro: le luci dell'appartamento erano spente. Osservò la porta per un altro minuto prima di rendersi conto che lei se n'era andata proprio mentre il furgone gli bloccava la visuale. Aveva pensato che con un tempo simile avrebbe preso l'autobus; invece era andata nell'altra direzione, verso il parco, e lui l'aveva mancata. Fece di corsa tutta la strada fino al parco. Nello stato di miopia che accompagna le emozioni, vedeva gli ombrelli ballonzolare da ogni parte. Un turco con in testa un cappello di carta di giornale passava in bicicletta tra i paraurti delle limousine. Dall'altra parte della strada, un muro di faggi giganteschi segnava l'inizio dell'Englischer Garten. Più avanti, una donna in impermeabile bianco stava entrando nel parco.
Saettò fra le auto. La sede della radio si stendeva diagonalmente sull'altro lato del parco. Varcato il cancello, vide due sentieri che andavano in opposte direzioni. L'Englischer Garten era chiamato il "polmone verde" di Monaco. Aveva un fiume, dei ruscelli, un bosco, dei laghi, ora tutti velati dalla nebbia. Nel parco soffiava una brezza fredda che costrinse Arkady a stringersi il bavero della giacca. Riusciva a sentirla; per lo meno sentiva una persona camminare. Ricordava il ritmo dei suoi passi? Passi lunghi, sempre sicura di sé. Odiava l'ombrello, odiava la folla. Rincorse l'eco, rendendosi conto che ogni esitazione faceva crescere il distacco. Posto che si trattasse proprio di lei Sopra, i faggi si perdevano nella bruma. Le querce erano più piccole, curve come mendicanti. Nel punto in cui il sentiero attraversava un ruscello, dall'acqua saliva un vapore spettrale. Una specie di enorme bruco fiutava tra le foglie bagnate. Da vicino si rivelò un dachshund a pelo bianco. Dietro di lui procedeva il padrone, con impermeabile giallo, paletta e sacchetto. Davanti a lui Irina era scomparsa. Ma era Irina? Dopo tanti anni, da lontano, a quante donne aveva dato i suoi lineamenti? Era un'illusione, un incubo. Arkady aveva il parco tutto per sé. Udiva il lento condensarsi della nebbia sulle foglie, il tonfo delle bacche che cadevano dai faggi, il volo di uccelli invisibili. In un punto in cui le ombre si indebolivano, scoprì di aver raggiunto il margine di un grande prato, completamente isolato in un cerchio di alberi. Per un attimo, all'altro estremo vide un lampo bianco. Si mise a correre sull'erba con il respiro affannato e i piedi pesanti di un cavallo da tiro. Quando raggiunse il punto in cui aveva visto il bianco, eradi nuovo scomparsa. Ora però sapeva in che direzione. Un sentiero si addentrava in una quinta di aceri, verso i languidi vapori di un altro ruscello. Sentì di nuovo dei passi e la vide in fondo alla fila di aceri, borsa in spalla. L'impermeabile in realtà era più argento che bianco, e pareva riflettere la luce. Era a capo scoperto, con i capelli scuriti dalla pioggia. Irina si guardò indietro, poi continuò a camminare, più veloce. Tenevano lo stesso passo, a dieci metri di distanza, lungo un viale scuro di abeti. Giunta a un punto in cui il viale si riduceva a un sentierino che si inoltrava in un boschetto di betulle, Irina rallentò, poi si fermò e si appoggiò alla bianca colonna di una betulla aspettando che lui la raggiungesse. Procedettero in silenzio. Arkady si sentiva come se fosse riuscito ad avvicinare un cervo. Una parola sbagliata, pensò, e lei sarebbe schizzata via. Quando lo guardò non ebbe il coraggio di ricambiare lo sguardo o di leg-
gere l'espressione dei suoi occhi. Per lo meno stavano camminando fianco a fianco. Di per sé era già una vittoria. Gli dispiaceva di avere un aspetto così miserando. Le scarpe erano sporche, gli abiti fradici e appiccicati alla schiena. Era troppo magro e probabilmente i suoi occhi tradivano la luce di chi è cronicamente affamato. Arrivarono sulla sponda di un lago. L'acqua era nera e immobile. Irina guardò il riflesso, l'uomo e la donna che li guardavano dall'acqua. «È la cosa più triste che abbia mai visto» mormorò «Io?» chiese Arkady. «Noi.» Si avvicinarono degli uccelli. Ce n'erano molti nel parco: anitre selvatiche dalla testa di velluto, anitre comuni, fischioni e alzavole uscirono dalla bruma, colorando la superficie dell'acqua. Sedettero sulla panchina. «C'è della gente che viene qui tutti i giorni a dar da mangiare agli uccelli» disse Irina. «Portano dei pretzel grossi come ruote.» Il freddo faceva condensare il respiro. «Io simpatizzo con questi uccelli» proseguì. «La differenza è che tu non sei mai venuto. Non ti perdonerò mai.» «Lo vedo.» «E adesso che sei qui mi sento di nuovo una profuga. È una sensazione che non mi piace.» «Non piace a nessuno.» «Ma è da anni che sono in Occidente. Mi sono guadagnata il diritto di rimanerci. Arkady, tornatene a casa. Lasciami in pace.» «No. Non me ne andrò.» Temeva che lei si alzasse e se ne andasse dalla panchina. Ma l'avrebbe seguita; che altro poteva fare? Irina invece rimase. Lasciò che Arkady le accendesse un'altra sigaretta. «Un brutto vizio» disse. «Come te.» La disperazione saturava l'aria, il freddo penetrava nella giacca. Udì il suo cuore riecheggiare sull'acqua. Una raccolta ambulante di vizi, ecco che cos'era. Ignoranza, insubordinazione, mancanza di allenamento, rasoi spuntati. Arrivò un numero tale di uccelli, alcuni insieme, a stormi, altri uscendo individualmente dalla nebbia, che ad Arkady venne in mente la nave sulla quale aveva trascorso una parte del suo esilio. Ricordò come i gabbiani si affollavano nell'aria, sopra la prua, per raccattare quel che usciva dalle reti
o ciò che veniva buttato. Ricordò la volta in cui, sulla rampa di prua, mentre si preparava una sigaretta stando in piedi nel vento, un gabbiano in volo gli aveva strappato la cartina, portandosela via come trofeo. «Trova l'anatra russa» disse. «Dove?» «Quella con le penne sporche e il becco storto che si fuma una sigaretta.» «Non esiste.» «Ma hai guardato, ti ho vista. Immagina quando le anitre russe sentiranno davvero parlare di questo lago, un lago pieno di pretzel: verranno qui a milioni.» «Anche i cigni?» Una fila di cigni avanzava imperiosa sull'acqua. Quando un'anitra resisteva, il primo cigno della fila allungava il collo e spalancava il becco, grugnendo come un maiale. «Russo. Si è già infiltrato» disse Arkady. Irina si scostò un attimo da Arkady per studiarlo. «Hai un aspetto terribile.» «Non posso dire lo stesso di te.» Irina attirava la luce su di sé. Le goccioline di nebbia sembravano gioielli posati sui suoi capelli. «Mi avevano detto che le cose a Mosca ti stavano andando bene» disse. «Da chi hai sentito una cosa del genere?» Irina esitò. «Non sei quello che mi aspettavo. Sei quello che ricordavo.» Camminavano piano. Arkady si rese conto che Irina si era avvicinata di un importantissimo millimetro, e che ogni tanto le loro spalle si toccavano. «Stas ha sempre avuto molta curiosità per te. Non mi sorprende che siate diventati amici. Max dice che siete tutti e due dei sottoprodotti della Guerra Fredda.» «Lo siamo. Io sono come uno di quei pezzi di marmo che si trovano nelle antiche rovine. Lo si prende in mano, lo si gira e ci si domanda: "E questo cos'era? Un pezzo di abbeveratoio per i cavalli o un frammento di una nobile statua?". Voglio farti vedere una cosa.» Tirò fuori una busta, l'aprì e le mostrò il foglio con quell'unica parola scribacchiata. «Il mio nome» disse Irina. «È la scrittura di mio padre. Non lo sentivo da anni. Dev'essere stata più o meno l'ultima cosa che ha fatto prima di morire. Gli avevi parlato?»
«Volevo mettermi in contatto con te senza fare danni, per cui tentai prima con tuo padre.» Arkady provò a figurarsi la cosa. L'immagine era quella di una colomba che vola in una fornace, sebbene negli ultimi anni suo padre si fosse piuttosto raffreddato. «Mi disse che eri un grande eroe, che avevano tentato di spezzarti ma che tu avevi costretto l'ufficio del procuratore a riprenderti, che ti davano i casi più difficili e che non perdevi mai. Era orgoglioso. Non faceva che dirlo. Mi disse che ti vedeva spesso e che tu mi avresti scritto.» «E che altro?» «Che avevi troppo da fare per le donne, ma che le donne ti correvano dietro.» «E niente di tutto questo ti sembrò falso?» «Disse che l'unico problema era il tuo fanatismo, e che a volte ti mettevi al posto di Dio. Disse che certe cose solo Dio può giudicarle.» «Se io fossi stato il generale Kyrii Renko, non avrei avuto tanta voglia di vedere Dio in faccia.» «Disse che pensava sempre di più a te. Hai avuto delle donne?» «No. Sono stato per un po' in una cella di un istituto psichiatrico, poi in giro per la Siberia, poi a pesca. Le occasioni erano molto limitate.» Irina lo fermò. «Ti prego. La ricordo, la Russia. Ci sono sempre occasioni. E quando sei tornato a Mosca, ti sarai trovato una donna.» «Ero innamorato. Non cercavo le donne.» «Innamorato di me?» «Sì.» «Sei proprio un fanatico.» Camminarono lungo un laghetto sulla cui superficie scivolavano piume simili a fiocchi di neve e goccioline di pioggia che sembravano perle. Era lo stesso lago di prima? «Arkasha, cosa faremo?» Uscirono dal parco e finirono nel bar dell'Università. Le macchine da caffè di acciaio inossidabile sibilavano in caraffe di latte. Alle pareti erano appesi manifesti dell'Italia: piste di sci sulle Dolomiti, pittoresche case di Napoli. Gli altri frequentatori erano studenti con libri aperti e tazze di caffè grandi come scodelle. Scelsero un tavolo accanto alla vetrata. Arkady raccontò di come aveva attraversato la Siberia lavorando, da Irkutsk a Norilsk alla Kamciatka fino al mare.
Irina raccontò di New York, di Londra, di Berlino. «Era bello lavorare in teatro a New York ma non potevo iscrivermi al sindacato. È come il sindacato sovietico, se non peggio. Ho fatto la cameriera. A New York le cameriere sono fantastiche. Così incartapecorite e così vecchie da farti credere che abbiano servito Alessandro il Grande e i faraoni. Lavoratrici instancabili. Poi una galleria d'arte. Volevano una persona con l'accento europeo. Facevo parte dell'ambiente. Ho ripreso a interessarmi d'arte. L'avanguardia russa allora non interessava nessuno. Capisci, tu aspettavi di vedermi in Russia e io aspettavo di vederti entrare in una galleria di Madison Avenue, vestito bene, belle scarpe, cravatta.» «La prossima volta dovremo coordinare i sogni.» «Comunque, Max era venuto a visitare l'ufficio di Radio Liberty a New York. Organizzava una mostra di arte russa e per caso gli capitò di intervistarmi. Mi disse che se mai fossi andata a Monaco e avessi avuto bisogno di lavorare avrei dovuto chiamarlo. Un anno dopo l'ho fatto. Anche ora ogni tanto collaboro con delle gallerie di Berlino. L'arte rivoluzionaria ha raggiunto prezzi fenomenali.» «Vuoi dire l'arte della nostra defunta e discreditata rivoluzione?» «Li vendono all'asta da Sotheby's e da Christie's. I collezionisti non ne hanno mai abbastanza. Sei nei pasticci, vero?» «Lo sono stato. Non lo sono più.» «Voglio dire nel tuo lavoro.» «Il lavoro ha i suoi alti e bassi. La gente per bene muore e le persone sbagliate se ne dividono le spoglie. Pare che io stia attraversando un momento brutto della carriera, ma sto pensando di prendermi una vacanza, di lasciar perdere i successi professionali.» «Per fare cosa?» «Potrei diventare tedesco. Per gradi, ovviamente. Prima mi trasformo in un polacco, poi in un tedesco orientale e finalmente in un bavarese fatto e finito.» «Non scherzare.» «Non scherzo. Indosserò ogni giorno un vestito diverso e rientrerò nella tua vita. Finché dirai: "Ecco, è così che dovrebbe essere Arkady Renko; questo è il vestito adatto".» «Non ti tireresti indietro?» «Non ora.» Arkady le descrisse il fiato delle renne che si cristallizzava e cadeva co-
me la neve. Le parlò delle migrazioni dei salmoni a Sakhalin, delle aquile con la testa bianca delle Aleutine e delle onde anomale che danzavano nel Mare di Bering. Non aveva mai pensato all'insieme di esperienze che aveva tratto dall'esilio, a quanto fossero uniche e belle, la prova evidente che non esiste giorno in cui un uomo possa dirsi sicuro di non dover aprire gli occhi. Mangiarono una pizza cotta in un forno a microonde. Deliziosa. Le raccontò che nella taiga il primo vento del giorno faceva rabbrividire milioni di alberi, come uccelli neri che prendono il volo. Parlò delle fiamme dei campi petroliferi che bruciano per tutto l'anno, visibili fin dalla luna. Le spiegò come si cammina da un peschereccio all'altro sul ghiaccio dell'Artico. Rumori e immagini che non molti investigatori si erano potuti permettere. Bevvero vino rosso. Le disse degli operai alla "catena viscida", la buia stiva delle navi appoggio dove si sventrano i pesci, e di come ciascuno fosse davvero un individuo, con una fantasia che andava oltre i confini delle murate e del ponte: un difensore del Partito che aveva scelto il mare in cerca di avventura, un botanico che sognava le orchidee siberiane, ognuno una lampada su un mondo distinto. Dopo il vino presero del brandy. Le descrisse la Mosca che aveva trovato al suo ritorno. Al centro della scena, un drammatico campo di battaglia tra signori della guerra e imprenditori; sullo sfondo, immobili come una quinta dipinta, otto milioni di persone in coda. Eppure c'erano momenti - un'alba col sole tanto basso da illuminare un fiume d'oro e una distesa di cupole azzurre - in cui l'intera città sembrava degna di riscatto. Il calore dei clienti e il vapore delle macchine avevano fatto appannare la vetrata, da cui filtravano indistinti i colori e le luci della strada. Attirata da qualcosa, Irina pulì il vetro. Fuori c'era Max. Da quanto tempo li stava guardando? «Per come vi comportate sembrate una coppia di cospiratori» disse Max avvicinandosi al tavolo. «Prenda una sedia» lo invitò Arkady. «Dove sei stata?» chiese Max a Irina. «Per tutto il giorno non ti sei fatta vedere alla radio. Eravamo preoccupati; siamo anche andati in giro a cercarti. Non dovevamo andare a Berlino?» «Ho parlato con Arkady» rispose Irina.
«E avete finito?» «No.» Irina prese una sigaretta di Arkady e la accese lentamente, con noncuranza. «Max, se hai fretta vai pure a Berlino. Lo so che hai degli affari da sbrigare.» «Tutti e due abbiamo affari a Berlino.» «I miei possono aspettare» disse Irina. Per un istante Max rimase assolutamente immobile, studiando Irina e Arkady insieme, poi lasciò perdere il tono brusco con la rapidità con cui si era tolto il cappello. Arkady ricordò la definizione di Stas: liquido, padrone delle situazioni in movimento. Max sorrise, prese una sedia e rivolse un cenno ad Arkady. «Renko, mi stupisce che lei sia ancora qui.» «Arkady mi stava spiegando cosa ha fatto negli ultimi anni» spiegò Irina. «È diverso da quel che avevo sentito.» «Probabilmente ha voluto fare il modesto» disse Max. «La gente sostiene che fosse il cocco del Partito. Una posizione meritata, ne sono sicuro. Chissà a chi credere?» «Io lo so» ribatté Irina. Soffiò il fumo della sigaretta verso Max, che lo allontanò con una mano e guardò Arkady. «Allora, come va la sua indagine?» «Non bene.» «Arresti imminenti?» «Tutt'altro.» «Le deve essere rimasto ben poco tempo.» «Stavo pensando di abbandonare il caso.» «E poi?» «Restare.» «Veramente?» domandò Irina. «Sta scherzando» disse Max. «È venuto fino a Monaco per poi lasciar perdere? Dove sono finiti il dovere patriottico e l'orgoglio?» «Di patria ne è rimasta ben poca e di orgoglio neanche un po'.» «Non è detto che Arkady debba essere per forza l'ultimo baluardo della Russia» osservò Irina. «Be', c'è chi torna indietro, chi coglie delle opportunità» sottolineò Max. «È un momento in cui bisogna contribuire, non scappare.» «Interessante» disse Irina «tanto più detto da uno che è scappato due volte.» «Questa è bella» disse Stas. Chiuse la porta del caffè e vi si appoggiò di
schiena, facendo finta di crollare a terra. «Irina, la prossima volta che scompari, lascia l'indirizzo. Non faccio tanto movimento da quando Laika ha imparato a riportare.» Rimase in piedi e concentrò la sua attenzione su Max. «Stai bene?» chiese Irina. «Potrei vomitare. O magari farmi una birra. Max, stavi tenendo una lezione di etica politica? Mi spiace di averla mancata. Era una lezione breve?» «Stas non mi perdona di essere tornato in patria» spiegò Max. «Non ha accettato il fatto che il mondo è cambiato. È triste. A volte le persone intelligenti si tengono aggrappate alle risposte più semplici. Anche il fatto che tu ti trovi a Monaco dimostra in che misura sono cambiate le cose. Non ti dichiari profugo politico, non è vero?» Si chinò verso Irina. «Qualsiasi cosa Renko stia facendo, non vedo cosa ha a che fare con noi due.» Irina tacque. Come un uomo che sente un abisso allargarsi all'improvviso, Max avvicinò la sedia e abbassò la voce. «Voglio sapere con che razza di storie Renko ti ha intrattenuto. Sembra che all'improvviso si sia conquistato un pubblico.» «Probabilmente erano più felici senza di noi» commentò Stas. «Voglio solo ricordare che Renko non è un eroe senza macchia. Rimane quando dovrebbe andare, se ne va quando dovrebbe rimanere. È un maestro di intempestività.» «A differenza di te» disse Irina. «Voglio anche sottolineare» riprese Max «che probabilmente il tuo eroe è venuto da te solo perché era spaventato.» «Perché dovrebbe essere spaventato?» chiese Irina. «Domandalo a lui» disse Max. «Renko, non si trovava con Tommy quando ha avuto l'incidente, l'altra notte? Non era con lui immediatamente prima?» «È vero?» chiese Irina ad Arkady. «Sì.» «Stas, Irina ed io» incalzò Max «non abbiamo la minima idea della sgradevole faccenda in cui si trova coinvolto. Non potrebbe darsi che Tommy sia morto perché lei lo ha tirato dentro la sua storia? E pensa che sia il caso di coinvolgere anche Irina?» «No» ammise Arkady. «Sto solo suggerendo» disse Max, alzando una mano per soffocare le proteste di Stas, «sto solo suggerendo che si è messo in contatto con Irina
semplicemente perché si vuole nascondere.» «Max, sei una vera merda» sibilò Stas. «Voglio sentire la risposta» insistette Max. L'acqua gocciolava dal mento di Stas. Max appariva inossidabile. Per un attimo, l'unico rumore fu il tintinnio della porcellana sul bancone e il lento sibilo del vapore. «Ho sentito Irina alla radio, da Mosca» rispose Arkady. «Ecco perché sono venuto.» «Un fan devoto» commentò Max. «Si faccia dare un autografo. Torni a Mosca: la potrà sentire cinque volte al giorno.» «Possiamo portarlo con noi a Berlino» propose Irina. La voce di Max calò di colpo. «Cosa?» «Se tu hai ragione» spiegò Irina «Arkady deve andarsene da Monaco. Nessuno lo collega a noi. Con noi sarà al sicuro.» «No» mormorò Max, incredulo. Arkady vide che era giunto a una conclusione completamente diversa; aveva costruito con cura un'argomentazione inattaccabile che offriva una sola via d'uscita, la prospettiva di Arkady che scompariva all'orizzonte. E Irina l'aveva completamente ignorata. «No, non porto Renko a Berlino.» «Allora ci andrai senza di me» dichiarò Irina. «Arkady ed io ce la caveremo.» «Non ci fermiamo in albergo» obiettò Max. «Andremo nel nuovo appartamento.» «È grande» disse lei. «Se vuoi lo puoi avere tutto per te.» Max riprese il controllo di sé, ma in un istante Arkady aveva capito uno dei motivi per cui era tornato da Mosca. Il peggiore. L'amore si avvolge come un serpente e stritola contemporaneamente due uomini. Parte terza BERLINO 18 agosto - 20 agosto 1991 28 Max era al volante di una Daimler, una berlina dagli interni in legno, come un mobile antico, e dal rumore di una tromba con sordina. Aveva un
atteggiamento amichevole, come se fossero in gita di piacere e come se fosse stata sua l'idea di quel triangolo. Il paesaggio tedesco si stendeva dietro una cortina di pioggia. Seduta davanti, Irina era una tangibile fonte di calore. Quando parlava, si girava appoggiando la schiena alla portiera per far partecipare anche Arkady, e come se volesse escludere Max. «La mostra ti piacerà. È una mostra russa, ma alcune delle opere non sono mai state esposte a Mosca, per lo meno in pubblico.» «Il catalogo l'ha curato Irina» spiegò Max. «Per questo non può assolutamente mancare.» «Ho parlato solo della provenienza, ma il quadro in sé è bello.» «I critici d'arte sono autorizzati a usare l'aggettivo bello?» chiese Arkady. «In questo caso è perfetto» promise Irina. Ad Arkady piaceva sentir parlare della nuova vita di Irina, di quella mescolanza di conoscenze e di opinioni. Lui si era fotto un'esperienza con le reti da pesca e aveva imparato a sventrare pesci. Perché mai lei non doveva essere un'esperta d'arte? Max sembrava altrettanto orgoglioso. Stando sul sedile posteriore, Arkady non si accorse quando superarono il vecchio confine della Germania Est. La strada divenne più stretta e li costrinse a rallentare, perché la carreggiata era occupata da macchine agricole che apparivano e scomparivano nella nebbia. Quando la strada si liberò, ripresero a correre, come se tutti e tre fossero chiusi in una bolla su un fiume gonfiato dalla pioggia. Il tempo pareva come sospeso. Arkady pensava che, a Mosca, Max avesse avuto l'intenzione di ucciderlo; ma alla fine l'aveva lasciato scappare a Monaco. Era convinto che lo volesse morto anche qui, eppure lo stava portando a Berlino. Da parte sua, Arkady non poteva nemmeno toccarlo. Con quale autorità? Come profugo? Non poteva neanche fare domande senza che Irina lo accusasse di volerla ancora strumentalizzare, e senza perderla per la seconda volta. «Visto che domani Irina è impegnata» disse Max, «l'accompagno io a visitare la città. È già stato a Berlino?» «Quando era sotto le armi. Ha prestato servizio a Berlino» rispose Irina. Arkady rimase stupito del fatto che lo ricordasse ancora. «Cosa faceva?» «Ascoltavo il comando americano» rispose Arkady. «Traducevo per il comando sovietico.»
«Come te a Radio Liberty, Max» disse Irina. Sempre più spesso Irina aggrediva Max con battute sarcastiche, e in quei momenti la superficie della bolla tremava. Eppure si facevano portare nella sua auto lussuosa, ed erano diretti a casa sua. «Ti farò vedere la nuova Berlino» disse Max ad Arkady. Quando, a tarda sera, raggiunsero la città, aveva smesso di piovere. Si immisero nell'Avus, il vecchio circuito che attraversava il Berliner Wald, poi puntarono direttamente verso Kurfurstendamm. A differenza dell'omogenea ricchezza di Marienplatz, la Ku'damm era una caotica collisione di negozi tedesco occidentali e clienti tedesco orientali. La folla vestita in smorti colori socialisti si aggirava davanti alle vetrine che esponevano sciarpe di seta italiane e macchine fotografiche giapponesi. I volti tradivano l'espressione chiusa e imbronciata dei parenti poveri. Una falange di skinheads marciava indossando giubbe di pelle e scarponi. «È terribile, un casino, ma è una città viva» disse Irina. «Per questo il mercato dell'arte è sempre stato qui. Berlino è l'unica città internazionale che ci sia in Germania.» «La città tra Parigi, Mosca e Istanbul» commentò Max. Indicò un venditore sul marciapiede, accanto a uno stendino pieno di abiti militari. Arkady riconobbe il petto grigio e le spalline azzurre di un'alta uniforme da colonnello dell'Aeronautica sovietica. Il venditore era coperto di medaglie militari e di nastrini sovietici. «Avrebbe dovuto conservare la sua uniforme» disse Max. Stas aveva costretto Arkady ad accettare cento marchi prima di partire da Monaco; non era mai stato così ricco, né si era mai sentito tanto povero. Passarono davanti alle macerie illuminate della Kaiser Wilhelm Kirche, su cui incombeva una torre di vetro sormontata dalla stella della Mercedes. Max abbandonò il viale e seguì una via buia, che costeggiava un canale. La bussola interna di Arkady entrò in azione. Prima ancora di raggiungere Friedrichstrasse sapeva che erano in quella che un tempo era Berlino Est. Max svoltò e scese lungo la rampa di un garage. Entrando, le luci si accesero automaticamente. L'odore di cemento bagnato gli colpì le narici, come il cloro di una piscina. «È nuovo questo palazzo?» chiese Arkady. «È ancora in costruzione» rispose Max. «Credimi, nessuno saprà che sei qui» disse Irina. Max aprì l'ascensore con una chiave. All'interno, il soffitto era di cristal-
lo e il pavimento a parquet, senza un graffio. Max reggeva la ventiquattrore di Irina. Con la sua borsa, Arkady aveva l'impressione di essere un operaio che porta i suoi attrezzi. Si fermarono al quarto piano, dove Max aprì la porta di un loft con soggiorno su due piani. «È solo uno studio. Purtroppo non è ammobiliato, ma l'acqua e l'elettricità ci sono e non costa nulla.» Consegnò cerimoniosamente la chiave ad Arkady. «Noi siamo due piani più su.» «La cosa più importante è che tu sia al sicuro» disse Irina. «Grazie.» Max fece entrare Irina nell'ascensore. Aveva lei e questa era già una ricompensa sufficiente. Le dentellature della chiave erano nuove e taglienti. Perfetta per aprire il cuore, pensò Arkady, trafficando con diligenza tra le costole. Niente letto, coperte, sedie, cassetti. Le pareti terminavano senza la minima imperfezione sui pavimenti di teak. Il bagno era tutto piastrelle splendenti. La cucina era dotata di un fornello ma non degli utensili. Avesse avuto del cibo avrebbe potuto tenerlo sulla fiamma tra le mani. Ogni volta che si muoveva i suoi passi suscitavano un'eco sproporzionata. Ascoltò se da sopra provenissero dei rumori. A Monaco aveva temuto la possibilità che Irina andasse a letto con Max. Ora ne era sicuro. Com'era l'appartamento di Max? Estrapolando poteva dedurre la finitura delle pareti, la lucentezza dei pavimenti. Il resto doveva immaginarlo. Si chiese se non sarebbe stato meglio rimanere a Monaco. Scegliere era il lusso di votare, provare un paio di scarpe, indugiare su un menu tra caviale rosso o nero. Era stato obbligato a venire a Berlino. In caso contrario avrebbe perduto Irina, per non parlare di Max. In questo modo li aveva tutti e due. Come un uomo orgoglioso di avere molta corda intorno al collo. L'ascensore era chiuso a chiave. Arkady scese lungo le scale di emergenza fino al garage. Forzò la porta e uscì in strada. Friedrichstrasse era una via importante ma debolmente illuminata. Oltre a lui sui marciapiedi non c'era anima viva. Chi era sveglio si trovava a ovest. Riconobbe la torre di un'antenna televisiva e capì immediatamente di avere Alexanderplatz a sinistra, e Berlino Ovest a destra. La sua mappa mentale era vecchia di una decina d'anni, ma nessuna grande città europea aveva subito meno cambiamenti di Berlino Est negli ultimi quarant'anni. Il vantaggio del modello sovietico stava nel fatto che le costruzioni e la ma-
nutenzione erano ridotti al minimo, per cui i ricordi tendevano a essere precisi. A Monaco Arkady si muoveva in territorio sconosciuto, ma non a Berlino. Da militare era stato incaricato di controllare le pattuglie radio americane nei loro spostamenti da Tiergarten a Potsdamer Platz, lungo Stresemann e Koch fino a Checkpoint Charlie, proseguendo poi lungo Prinzenstrasse e ritorno. Le seguiva dal momento in cui uscivano dall'autoparco. Era la sua passeggiata quotidiana. Qualunque fosse il suo ritmo, la gelosia gli stava accanto come un'ombra, precedendolo a passi giganteschi, rimpicciolendo sotto ogni lampione per poi balzare di nuovo in avanti. Sulla Unter den Linden, i palazzi per uffici apparivano grandiosi e fragili, esattamente come l'architettura sovietica. La struttura più imponente era in effetti quella dell'Ambasciata sovietica. Le Trabi erano parcheggiate con il muso rivolto al marciapiede. Sotto i tigli si vedevano scivolare figure umane. Un uomo uscì dall'ombra e offrì una sigaretta alzando una mano. Arkady accelerò il passo, stupito che qualcuno lo ritenesse attraente. Stava avvicinandosi ai riflettori della Porta di Brandeburgo e alla sagoma familiare della Vittoria sul carro quando la città si aprì improvvisamente su una spianata di stelle e di erba. Non era un parco ma un'ampia catena di collinette verdi che si estendeva da nord a sud. Sopra le collinette la brezza sollevava sciami di insetti. Si rese conto che in quel luogo, un tempo sorgeva il Muro. Un po' come dire "Questo è il punto in cui si trovavano le Piramidi" pensò. In realtà, attorno alla Porta di Brandeburgo erano stati eretti due Muri, che la isolavano come un pezzo di Grecia antica, rendendola non tanto una porta quanto un capolinea, da dove era impossibile vedere ai lati. Il Muro era stato un orizzonte bianco alto quattro metri. Oltre a quello, una terra di nessuno fatta di torri di avvistamento rotonde o rettangolari, di mine antiuomo, di cariche esplosive, di ostacoli anticarro, di piste, di campi minati e di ammassi di filo spinato. Dappertutto, riflettori che parevano crepitare come una continua scarica elettrica. Il vuoto lasciato dalla distruzione del Muro pareva più immenso di quanto non fosse stata la sua presenza. Gli ritornò in mente un'immagine che era più un'associazione di idee che un ricordo. Molti anni prima, una sera d'estate si era trovato in questo stesso punto. Non era successo nulla di speciale, se non che aveva notato un addestratore con una muta di cani che trottavano eccitati lungo la base del Muro. L'addestratore era un tedesco,
non un russo, e il modo in cui teneva i cani al guinzaglio riproduceva esattamente il gesto sciolto con cui la Vittoria sul suo piedistallo teneva le redini dei cavalli. I cani annusavano il terreno, ma a un tratto si voltarono e allungarono il collo in direzione di Arkady. A quel tempo lui era un giovane ufficiale e non aveva fatto nulla di male; ma provò l'irrazionale terrore che lo stessero inseguendo, che potessero fiutare la sua mancanza di fervore. Rimase immobile e i cani cambiarono direzione. Da quel momento non aveva mai più guardato la Porta senza vedere nella silhouette del carro un addestratore con la sua muta di cani. Entrò nella zona illuminata e la attraversò a passi lunghi e prudenti. Dall'altra parte si stendeva il Tiergarten, un parco con aiuole ben tenute e vialetti bene illuminati. Impiegò venti minuti ad attraversarlo, girando intorno al Giardino Zoologico e alla stazione della metropolitana. In quel punto le rotaie emergevano per trasformarsi in sopraelevata. Era l'unica fermata che gli abitanti di Berlino Ovest erano un tempo autorizzati a usare per passare a Est. Era anche la stazione in cui venivano portati i russi quando passavano a Ovest. Nelle strade, la maggior parte di ciò che Arkady ricordava era coperto di vernice spray. Le vetrine dei cambiavalute erano chiuse, anche se nei portoni si svolgeva un fiorente traffico notturno di droga. In alto, al contrario, i cambiamenti non erano molti. Gli stessi binari a scartamento ridotto correvano accanto alle medesime piattaforme sotto la stessa tettoia di vetro. Gli armadietti erano ancora accessibili ventiquattr'ore al giorno. Vi depositò la videocassetta che aveva portato da Monaco. In strada, sotto la stazione, trovò una fila di telefoni pubblici. Aprì un foglietto e fece il numero che gli aveva dato Peter Schiller. Peter rispose all'ottavo squillo, apparentemente irritato. «Dove sei?» «A Berlino. E tu?» chiese Arkady. «Lo sai che sono a Berlino. Mi hai telefonato oggi pomeriggio per dirmi che dovevo guidare tutto il giorno sotto una pioggia maledetta per venire qui. Lo sai che questo è un numero di Berlino. Con chi sei?» Nella stazione arrivò un treno. Il rumore venne trasmesso dalla colonnina che sosteneva il telefono. «Bene» disse Arkady. «Riprovo domani a mezzogiorno allo stesso numero. Forse allora ne saprò di più.» «Renko, se credi di poter condurre...» Arkady riappese. Era un piacere sapere che Peter stava bollendo di rabbia nelle vicinanze, più vicino che a Monaco, ma non a contatto diretto. Ripercorse il cammino attraverso il parco. Di nuovo si sorprese ad aspet-
tarsi la presenza di una barriera di cemento. Di nuovo oltrepassò macerie coperte d'erba e di fiori ondeggianti. Si disse che avrebbe dovuto avere più fiducia. 29 Era una mattinata luminosa, asciutta, senza una nuvola in cielo. Arkady e Max stavano percorrendo la medesima strada che Arkady aveva fatto la sera prima. Irina era andata alla galleria per aiutare ad allestire la mostra. Max era il tipo di animale che amava stare al sole. Indossava un completo color panna. Nelle vetrine davanti a cui passavano pareva che l'uomo che gli camminava accanto lo stesse importunando per qualche spicciolo, un pasto, un'occasione. A quel punto Max posava la mano sulla spalla di Arkady come per dire: "Guardate che razza di amico mi sto tirando dietro". Incrociavano lo sguardo e nei suoi occhi Arkady riusciva a leggere che Max non aveva fatto l'amore con Irina la notte precedente e che nel suo letto non aveva dormito meglio di Arkady sul nudo pavimento. «È il sogno di uno speculatore immobiliare» disse Max. «C'è sempre stata grandeur in questa parte di Berlino. L'università, l'opera, la cattedrale, i grandi musei sono sempre stati a Berlino Est. Noi sovietici abbiamo costruito tutte le mostruosità che ci è stato possibile costruire, ma non abbiamo mai avuto né i soldi né l'energia degli speculatori capitalisti. Il prezzo al metro quadrato di certi negozi a Berlino Ovest è il più alto del mondo. Immagina che valore può avere Berlino Est. Vede, senza saperlo, noi russi l'abbiamo salvata. È letteralmente una metamorfosi, è Berlino Est che esce dal bozzolo.» Di giorno Friedrichstrasse era diversa. Al buio, Arkady non aveva visto che molti edifici statali erano sbarrati. Uno addirittura non era che una facciata di legno con le finestre dipinte, davanti alle fondamenta di una Galerie Lafayette che avrebbe preso il suo posto. Un altro era avvolto da teloni pesanti per un'altezza di cinque piani. La strada era relativamente vuota a paragone di Ku'damm, ma da tutte le direzioni giungeva il rumore di un'attività nascosta di scavatrici, ruspe, gru. «Il palazzo dove abbiamo dormito la notte scorsa è suo?» chiese Arkady. Max rise. «Lei è troppo sospettoso. Io cerco visioni, lei impronte digitali.» Sotto i tigli c'erano ancora alcune Trabi, ma messe in minoranza da Volkswagen, Volvo, Maserati. Dagli edifici in costruzione uscivano la polvere
della lana di roccia e l'urlo dei trapani elettrici. Le finestre imbiancate annunciavano i futuri uffici della Mitsubishi, dell'Alitalia, dell'Ibm. Sul lato opposto, i gradini dell'ambasciata sovietica erano vuoti e le finestre buie. In una via laterale un caffè aveva disposto sedie e tavolini bianchi sul marciapiedi. Sedettero e ordinarono un caffè. Max controllò l'orologio, un cronometro subacqueo col cinturino d'oro. «Ho un appuntamento tra un'ora. Sono l'agente del palazzo dove ha dormito. Per chi è stato cittadino sovietico, gli immobili rappresentano quasi il riscatto di una vita. Ha qualche investimento?» «Libri a parte?» chiese Arkady. «Libri a parte.» «Radio a parte?» «Radio a parte.» «Ho ereditato una pistola.» «In altri termini, no.» Max tacque. «Si può fare qualcosa. È intelligente, parla inglese e un po' di tedesco. Con abiti decenti diventa presentabile.» Arrivò un bricco di caffè con cornetti ai semi di papavero e marmellata di fragole. Max versò. «Il problema è che non credo lei capisca in che misura il mondo è cambiato. È un esemplare del passato. È come se fosse arrivato dall'antica Roma per rintracciare qualcuno che ha offeso Cesare. Il suo concetto di criminale è, per non dire di peggio, datato. Per rimanere deve lasciar perdere tutto, cancellarselo dalla mente.» «Cancellarlo?» «Come i tedeschi. Berlino Ovest era stata rasa al suolo: hanno ricominciato da zero e l'hanno ricostruita come vetrina del capitalismo. La nostra risposta? Abbiamo costruito il Muro che ovviamente si è rivelato un piedistallo per Berlino Ovest.» «Come mai non investe a Berlino Ovest?» «Perché è un'idea che appartiene al passato. Francamente, Berlino Ovest non è nulla. È un'isola, un club per liberi pensatori e per renitenti alla leva. Ma Berlino unita diventerà la capitale del mondo.» «Mi sembra un'affermazione visionaria.» «Lo è. Mi perdoni se glielo dico, ma il Muro era una realtà molto più importante della sua indagine. Ora il Muro è caduto e Berlino è finalmente libera di fiorire. Ci pensi: più di duecento chilometri di muro cancellati, mille chilometri quadrati in più da sviluppare. È la più grande opportunità immobiliare della seconda metà del ventesimo secolo.» C'era una tale convinzione negli occhi di Max che Arkady si rese conto
di aver incontrato un venditore. Max vendeva l'idea del futuro, ed era convincente. Le dimostrazioni del futuro si allineavano lungo la strada. I suoi suoni incalzanti echeggiavano ovunque. L'unico palazzo silenzioso era quello dell'ambasciata sovietica, incombente come un mausoleo. «Michael condivide questa sua visione?» chiese Arkady. «Per essere il vicedirettore responsabile della sicurezza, ha accolto piuttosto bene il suo ritorno.» «Michael è un po' disperato. Se gli americani chiudono la stazione lui si ritrova con uno stile di vita europeo e nessuna competenza particolare. Non ha una laurea in economia aziendale, ha semplicemente una Porsche. Se lui può adattarsi a una situazione nuova, può farlo anche lei.» «E come?» «La sua indagine l'ha portata qui. Quel che farà da questo punto in poi è una questione del tutto diversa. Prosegue o torna indietro?» «Lei cosa pensa?» «Sarò onesto» rispose Max. «A me non importerebbe, se non fosse per Irina. Irina fa parte di Berlino. È pronta a trarne ogni beneficio. Perché vuole portarle via tutto questo? Non ha mai avuto l'occasione di godersi i soldi.» «È quello che può fare con lei, godersi i soldi?» «Sì. Non dico di essere completamente innocente, ma le fortune non si fanno con i grazie e con i per favore. Scommetto che la ruota, appena inventata, passò sopra a qualcuno.» Max si asciugò la bocca. «Capisco la presa che ha su Irina. Ogni rifugiato si sente colpevole di qualcosa.» «Davvero? E lei di cosa?» Un buon venditore non si lascia scoraggiare da modi rudi. «Non si tratta di una questione di moralità» disse Max. «E nemmeno di una questione di personalità: io e lei. È solo che io ho la capacità di cambiare e lei no. Sarà anche un eroico investigatore, ma è una figura del passato. Qui non c'è niente per lei. Voglio che sia onesto e si chieda cosa è meglio per Irina: andare avanti o tornare indietro?» «Questo sta a Irina deciderlo.» «Vede, Renko, questa è la prova che lei conosce la risposta. Certo che la decisione spetta a Irina. Il fatto è che lei e io sappiamo dove sta il meglio. Siamo appena tornati da Mosca. Sappiamo entrambi che, nel caso che ritorni, io posso proteggerla meglio di lei. Dubito che lei riuscirebbe a sopravvivere un giorno a Mosca. Per cui stiamo parlando di una forma di regressione, non è vero? Voi due, profughi poveri ma innamorati? Con l'am-
basciata sovietica che cerca di deportarla? Io credo che lei abbia bisogno di uno sponsor influente e, francamente, non mi viene in mente nessuno salvo me. Il momento in cui decide di rimanere dovrà lasciar perdere la sua indagine. Irina la lascerebbe subito se sapesse che è rimasto per un motivo diverso da lei.» «Se lo sa, perché non le ha detto che era lei che inseguivo?» Max gli rese omaggio con un sospiro. «Disgraziatamente, Irina ha ancora un'elevata opinione delle sue capacità. Potrebbe pensare che abbia ragione. Siamo le due estremità di un dilemma... lei su una, io sull'altra. Coesistiamo. Ecco perché la moralità non c'entra affatto. Ecco perché dovremo trovare un qualche tipo di accordo.» Dopo che Max ebbe pagato il conto e se ne fu andato, Arkady si allontanò tra gli alberi verso la Porta di Brandeburgo, dove la Vittoria indossava il colore diurno del verderame. Scivolò tra i turisti fino al prato. Le scarpe e il risvolto dei pantaloni erano bagnati, ma il terreno emanava un tepore estivo. Nell'erba si aprivano ciuffi di fiori bianchi e piccole increspature di insetti che fuggivano dalle impronte lasciate dagli uomini. Le api si tuffavano fra i trifogli per rifarsi del tempo perduto a causa della pioggia. Era stata tracciata una pista ciclabile; ciclisti con casco e tute aderenti procedevano in fila, tesi come bandiere in un corteo automobilistico. Sapevano di invadere i lotti della nuova Berlino di Max? Visto che aveva tempo, Arkady andò a piedi da Ku'damm alla stazione dello Zoo. Gli pareva di essere finito in mezzo a un esercito di berlinesi dell'Est: avevano invaso la città in buon ordine ma si erano scompaginati davanti alla prima esposizione di scarpe da ginnastica sul marciapiede. I berlinesi dell'Ovest si ritiravano dietro le transenne dei caffè, ma anche lì venivano perseguitati da zingari con tamburelli e neonati. Una paio di russi spingevano uno stendino di uniformi. Arkady riconobbe un assortimento di frammenti di muro con documenti che ne attestavano l'autenticità. Su un altro banchetto trovò un pilota automatico e l'altimetro di un elicottero dell'Armata Rossa. Pensò che se avesse esplorato Ku'damm per un tempo sufficiente, sarebbe riuscito a trovare l'intero elicottero. Giunse a Zoo a mezzogiorno preciso e chiamò il numero di Peter. Questa volta non rispose nessuno. Sopra di lui era arrivato un altro convoglio che aveva riversato altri reggimenti di Ossie giù dai gradini e sulla strada. Indeciso, Arkady si lasciò trascinare dalla folla e attraversò la strada fino alla base delle rovine della
chiesa, grigia e schiantata come il tronco di un albero colpito dal fulmine, dove un gruppo di turisti con sacco a pelo si erano accomodati sui gradini per osservare un mago. Un pullman di giapponesi puntò sulla scena una bordata di macchine fotografiche. La vecchia Berlino era stata divisa in due e governata di fatto da russi e americani. Ora non vedeva quasi nessun turista americano. Pensò che forse avrebbe potuto rimanere come statua: L'ultimo dei russi, in posa nel tentativo di vendere un distintivo di Lenin. Stava tornando indietro attraverso il prato quando vide quattro pezzi di Muro rimasti in piedi come pietre tombali. Dunque Max aveva torto, pensò; non tutti volevano cancellare il Muro e passare senza soluzione di continuità al registratore di cassa. Qualcuno pensava che fosse il caso di lasciare un monumento. Accanto ai resti si stagliava una gru a doppio braccio. A una settantina di metri di altezza, all'estremità del braccio superiore, una gabbia quadrata era appesa al paranco. Stagliata nel cielo, Arkady vide una figura umana uscire dalla gabbia e gettarsi. A braccia e gambe aperte, l'uomo precipitò nel vuoto e scomparve tra i ruderi del Muro. Arkady si avvicinò a passi rapidi. Visti più da vicino, i ruderi si rivelarono lunghi circa quattro metri, elaboratamente dipinti con tutti i colori del simbolo della pace e aerografati con Cristi, occhi gnostici, sbarre di prigione, nomi e messaggi in varie lingue. Dietro le lastre di cemento la gente sedeva ai tavoli in uno spiazzo coperto di ghiaia. Un'insegna diceva "JUMP CAFE". Da un furgone vendevano sandwich, sigarette, bevande gassate e birra. I clienti erano una banda di motociclisti, qualche coppia anziana con il cane legato alla sedia, un paio di uomini d'affari dalla carnagione sufficientemente scura da sembrare turchi e un cerchio di teenager le cui giacche borchiate brillavano al sole. Il saltatore, un ragazzo in giaccone da carrista e divisa da combattimento, oscillava a testa in giù a pochi metri da terra. Arkady si rese conto che non aveva toccato terra perché due corde elastiche lo legavano alla gru. La gru si abbassò per consentirgli di toccare il suolo, mani in avanti. Il ragazzo si liberò dalle corde e si raddrizzò barcollando, accolto dagli applausi dei motociclisti e dalle urla tribali degli amici. Ad Arkady interessavano i due uomini d'affari. Indossavano abiti di buon taglio, ma sulla tavola avevano ammassato avidamente una gran
quantità di bottiglie di birra. Erano tarchiati e sedevano stravaccati con la testa in un atteggiamento che gli era familiare. Sebbene fossero distanti, uno dei due aveva un taglio di capelli davvero orrendo, lungo dietro, corto ai lati e con una cresta arancione sopra. Non battevano le mani ma osservavano con molta attenzione. Nella gabbia, alta sopra i tavoli, era rimasta una seconda figura. Lo si vide ritirare i cavi e accucciarsi. Un attimo dopo, montò sul bordo della gabbia e si tenne in equilibrio reggendosi a uno dei cavi. Uno schnautzer si mise ad abbaiare e il proprietario gli tappò la bocca con un wurstel. Sembrava che la figura sulla gru stesse scegliendo il punto di atterraggio. «Dvai!» gridò stufo di aspettare il tipo dall'orrenda pettinatura. «Avanti!»... lo stesso grido dei pescatori quando qualcuno è lento a ritirare una rete. La sagoma saltò e cadde facendo mulinare gambe e braccia. Questa volta Arkady vide che i cavi, allentati, ne seguivano la caduta. Immaginò che con calcoli precisi si tenesse conto del peso della persona, della distanza dal suolo, dell'estensione massima dei cavi. Il volto di chi precipitava era bianco, gli occhi sporgenti, la bocca spalancata. Arkady non aveva mai visto nessuno così pieno di ripensamenti. Udì una vibrazione sonora quando il cavo entrò in tensione, facendo risalire il tuffatore per un quarto della traiettoria. Ricadde nuovamente, più piano e in modo più scomposto. Ora il viso era rosso e l'ovale della bocca aveva ripreso una forma umana. Due ragazze in giubbotto di pelle corsero ad aiutare il loro eroe. Tutti applaudirono salvo i due uomini d'affari che ridevano così forte da tossire. Quello con la pettinatura si rovesciò all'indietro per riprendere fiato. Era Ali Kashbulatov. Arkady l'aveva visto l'ultima volta con il nonno Makhmud al mercato delle auto del Porto Sud di Mosca. Ali batté una mano sul tavolo e ricominciò a sganasciarsi. Una bottiglia rotolò dalla tavola cadendo sulla ghiaia, ma lui non si degnò di raccoglierla. Anche l'altra persona al tavolo, con le sopracciglia spazzolate come pinne, era ceceno. I ragazzi in giubbotto di pelle trovarono offensivo l'uomo che rideva ma dopo alcuni sguardi cauti lasciarono perdere sia lui che il suo compagno. Ali allargò le braccia come ali, fingendo prima di volare, poi di cadere. Con un cenno declinò le lodi del secondo uomo, sollevò il bicchiere e accese soddisfatto una sigaretta. Nessun altro desiderava saltare per il divertimento di Ali. Dopo un quarto d'ora, lui e gli altri ceceni si alzarono e andarono a piedi fino a Potsda-
mer Platz, dove salirono su una Volkswagen cabriolet nera e si allontanarono. A piedi Arkady non poteva seguirli; ma quando si voltò e ritornò verso Ku'damm, il suo sguardo era illuminato da una nuova consapevolezza. Di fronte ai grandi magazzini Ka-De-We trovò due ceceni appoggiati al parafango di un'Alfa Romeo. Sulla Ku'damm, davanti al grande rettangolo di vetro dell'Europa Centre, quattro mafiosi di Lyubertsy si stringevano in una Golf. In una via laterale, Fasanenstrasse, vide alcuni ristoranti di lusso, ma anche dei piccoli ceceni infilati in un separé. All'isolato successivo un mafioso dello Stagno Lungo pattugliava le boutique. Arkady tornò a Zoo. Nella guida del telefono non erano elencati né la TransKom né Benz. Non risultavano nemmeno alle informazioni. C'era il numero di una certa Margarita Benz. Arkady lo fece. Al quinto squillo rispose Irina. «Sono Arkady.» «Come stai?» «Io bene. Mi dispiace di averti disturbato.» «No, sono contento che tu mi abbia chiamato» disse Irina. «Volevo sapere a che ora è l'inaugurazione. E se si tratta di un'occasione formale.» «Alle sette. Vieni con me e Max. Non preoccuparti dell'etichetta. Fai come gli intellettuali tedeschi: nel dubbio, in nero. Sembrano tutti delle vedove. Arkady, sei sicuro di star bene? Non sei confuso da Berlino?» «No, in realtà comincia a sembrarmi familiare.» L'indirizzo di Margarita Benz era in Savigny Platz, a due soli isolati di distanza. Arkady passò davanti a una breve fila di negozi di elettronica che esponevano cartelli in polacco. Davanti erano parcheggiate alcune automobili polacche da cui venivano scaricati sacchi di economiche salsicce socialiste in cambio di videoregistratori. L'indirizzo corrispondeva a un portone signorile nelle immediate vicinanze della piazza. Sotto il pulsante del terzo piano era scritto "GALLERIE BENZ". Arkady esitò, poi si allontanò. Savigny Platz era un quadrato con due giardinetti gemelli, entrambi circondati da un'alta siepe di bosso. All'interno crescevano calendule e viole del pensiero, mentre le siepi delimitavano dei rientri che parevano fatti apposta per gli incontri clandestini. Qualcosa nella barriera ben potata della siepe lo spinse ad attraversare il
parco fino all'angolo. Sul lato opposto della via, i tavoli all'aperto di un ristorante si stendevano sotto l'ombra di un faggio. Attraversando il giardino, Arkady udiva il rumore delle posate. Su un mobile di servizio incorniciato da una spalliera di caprifoglio un cameriere stava versando il caffè. Quattro tavoli erano occupati, due da tipi con l'aria da dirigenti intenti a mangiare, due da studenti che si tenevano la mano. I tavoli all'interno erano nascosti dai riflessi provenienti dalla via. Nella vetrate, la siepe di bosso del parco appariva come una solida muraglia verde. Era la birreria all'aperto della videocassetta di Rudy. Arkady aveva pensato che fosse a Monaco perché era stata inserita in un video riguardante quella città, un'ipotesi così sciocca che a ripensarci sentì una fitta alla stomaco. Aveva fame, ma era la stupidità che bruciava. Un cameriere lo stava fissando. «Ist Frau Benz hier?» chiese Arkady. Il cameriere diede un'occhiata al tavolo in fondo, quello dove la donna era stata ripresa. Il suo solito tavolo, evidentemente. «Nein.» Per quale ragione Margarita Benz era stata inserita nella cassetta? L'unica spiegazione a cui Arkady poteva pensare era che servisse come identificazione, perché la donna non aveva mai incontrato Rudy e non voleva fargli sapere come si chiamava. Era però il tipo di donna che aveva un suo tavolo presso un bel ristorante in una piazza elegante di Berlino. Che tipo di affari poteva fare con lei un cambiavalute di Mosca? Il cameriere continuava a fissarlo. «Danke.» Allontanandosi, Arkady colse la propria immagine nella vetrina, come se anche lui fosse entrato nella videocassetta. Di ritorno all'appartamento, Arkady comperò delle coperte, un asciugamano, del sapone e un maglione nero da intellettuale. Alle sei del pomeriggio Max e Irina passarono a prenderlo mentre scendevano al garage. «Lei è magro; le è consentito vestirsi così» disse Max. Fasciato da una giacca coi bottoni d'ottone, pareva appena sceso da uno yacht. Irina indossava un completo verde smeraldo che dava risalto al rosso dei capelli. Era talmente nervosa ed eccitata che nell'ascensore splendeva come una luce supplementare. Arkady era affascinato dalla nuova vita che lei conduceva. «Ha l'aria dell'occasione importante» disse. «Non vuoi dirmi di cosa si tratta?» «È una sorpresa» rispose lei. «Ne sa qualcosa di arte?» chiese Max, come rivolto a un bambino.
«Questo lo riconoscerà» garantì Irina. Sulla Daimler percorsero il Tiergarten fino a Kantstrasse. Irina si voltò verso Arkady. Nell'ombra dell'abitacolo i suoi occhi erano enormi. «Va tutto bene? Mi sono preoccupata quando hai telefonato.» «Ha telefonato?» chiese Max. «Sono molto curioso di vedere di cosa si tratta, qualunque cosa sia» disse Arkady. Irina si sporse verso di lui e gli prese una mano. «Sono contenta che tu sia venuto» disse. «È perfetto.» Parcheggiarono in Savigny Piatz. Dirigendosi verso la galleria, Arkady si rese conto che stava per partecipare a un avvenimento culturale di una certa importanza. Uomini dall'aspetto talmente distinto che avrebbero potuto essere scambiati per il kaiser scortavano signore ingioiellate, e coperte di lustrini. Accademici in nero procedevano con mogli in giacchina lavorata a maglia. I fotografi si accalcavano davanti all'anonimo ingresso della galleria. Arkady scivolò all'interno mentre Irina subiva una breve doccia di flash. Nell'atrio si era formata una coda davanti a un ascensore di ottone. Max fece strada sulle scale tenendosi accanto alla ringhiera e superando la gente che saliva lentamente. Al terzo piano una voce gutturale chiamò Irina. Man mano che arrivavano, le persone mostravano l'invito, ma Irina venne fatta passare con un cenno da una donna col volto largo da slava, e gli occhi scuri che contrastavano la capigliatura bionda. Indossava un abito lungo viola che sembrava la tunica di una setta particolare. Quando sorrideva il trucco pareva muoversi. «E anche i tuoi amici.» Baciò Max tre volte, alla russa. «Lei deve essere Margarita Benz» disse Arkady. «Lo spero, altrimenti significa che ho sbagliato galleria.» Consentì ad Arkady di toccarle la mano. Valutò se era il caso di dirle che si erano già incontrati, in due auto affiancate, lei con Rudy e lui con Jaak. No, si disse, non si sarebbe dimostrato un ospite educato. Le porte vennero aperte. La galleria era un loft dal soffitto alto, con divisori mobili posti in modo da creare una sezione aperta da una parte, un teatro dall'altro e, nel mezzo, di orientare lo sguardo in una certa direzione. Arkady era consapevole della presenza di Irina, di Max, delle cameriere, dei volti attenti delle guardie, di quelli ansiosi del personale. Un sostegno al centro della galleria reggeva una cassa di legno rettango-
lare segnata dal tempo. Gli spigoli erano logori, ma era chiaro che era stata costruita con perizia. Tra le macchie, Arkady vide un timbro confuso con l'aquila, la corona di foglie e la svastica delle poste del Terzo Reich. La sua attenzione venne però attratta dal quadro appeso, da solo, sulla parete in fondo. Era una minuscola tela quadrata dipinta di rosso. Non era né un ritratto, né un paesaggio, né un "quadro". Non c'erano altri colori, solo il rosso. A Mosca Polina ne aveva dipinti sei quasi uguali per far saltare in aria delle automobili. 30 Arkady lo riconobbe: era Red Square, uno dei dipinti più famosi nella storia dell'arte russa. Non era grande e non era nemmeno un vero quadrato, perché l'angolo superiore destro saliva in un modo che lasciava disorientati. E non era semplicemente rosso; avvicinandosi, si rese conto che il quadrato galleggiava su un fondo bianco. Kazimir Malevich, figlio di un fabbricante di zucchero, era forse il massimo pittore russo del secolo e senza dubbio il più moderno, nonostante fosse morto quando era ancora sulla trentina. Era stato accusato di idealismo borghese e i suoi quadri erano stati nascosti nelle cantine dei musei ma, con il perverso orgoglio che la Russia allora provava per la qualità delle sue vittime, i suoi quadri erano conosciuti da tutti. Come ogni altro studente di Mosca, Arkady aveva osato dipingere un quadrato rosso, un quadrato nero, un quadrato bianco... ottenendo porcherie. In qualche modo, Malevich, che l'aveva fatto per primo, aveva creato un'opera d'arte e ora il mondo gli si genufletteva davanti. La galleria si riempì rapidamente. In una stanza separata erano appese le opere di altri artisti dell'avanguardia russa, la breve esplosione culturale che, iniziata durante gli ultimi giorni dello zar, aveva preannunciato la rivoluzione, era stata soffocata da Stalin e sepolta insieme a Lenin. Erano esposti esempi di schizzi, di ceramiche, di copertine di libri, sebbene non vi fossero le confezioni di chewing-gum cui Feldman aveva accennato. La stanza era quasi vuota, poiché tutti venivano attratti dal semplice quadrato rosso in campo bianco. «Ti avevo promesso che sarebbe stata una bella mostra» disse Irina. In russo "bello" e "rosso" sono la stessa parola. «Cosa te ne pare?» «L'adoro.»
«Hai detto la cosa giusta.» Il quadro rifletteva Irina. Irina irradiava luce. «Congratulazioni.» Max arrivò con tre bicchieri di champagne. «È un gran colpo.» «Da dove viene?» chiese Arkady. Non riusciva a immaginare il Museo di Stato Russo prestare una delle sue opere più preziose a una galleria privata. «Da una gran pazienza» rispose Max. «La domanda è: quanto se ne può tirar fuori?» «Non ha prezzo» disse Irina. «Se si parla di rubli» obiettò Max. «Qui la gente ha in tasca marchi, yen e dollari.» Trenta minuti dopo le porte si aprirono e le guardie spinsero tutti nel teatro, dove l'artista video che Arkady ricordava di aver visto al party di Tommy attendeva dietro a un videoregistratore e a un videoproiettore con schermo parabolico. Le sedie non bastavano per tutti, per cui molti spettatori sedettero sul pavimento e si accalcarono lungo i muri. Tenutosi alle spalle di tutti, Arkady riuscì a sentire alcuni commenti. Erano appassionati e collezionisti, molto più esperti di lui, ma una cosa sapeva: Red Square di Malevich non avrebbe dovuto trovarsi fuori dalla Russia. Irina e Margarita Benz si trasferirono nel teatro, davanti agli spettatori, mentre Arkady si avvicinava a Max. Solo quando il silenzio fu completo, la proprietaria attaccò a parlare. Aveva una voce rauca dall'accento russo e sebbene il tedesco di Arkady non fosse tale da consentirgli di afferrare tutte le parole, capì che la donna poneva Malevich al livello di Cézanne e di Picasso come fondatore dell'arte moderna e forse a un livello lievemente superiore, in quanto era un artista più importante e più audace, il genio della sua epoca. Da quel che ricordava Arkady, il problema di Malevich era stato l'altro genio, quello del Cremlino, Stalin; un genio che aveva decretato che gli artisti e gli scrittori sovietici dovevano essere "ingegneri e tecnici dell'animo umano": per i pittori significava dunque dipingere realistici ritratti del proletariato che costruiva dighe e dei contadini delle fattorie collettive che mietevano il grano, non misteriosi quadrati rossi. Margarita Benz presentò l'autrice del catalogo, Irina. Arkady notò che mentre veniva avanti il suo sguardo superava gli spettatori e si fissava su lui e Max. Persino nel suo nuovo maglione, Arkady si rendeva conto di aver più l'aria di un ospite clandestino che di un patrono delle arti. Max era
il contrario, praticamente un ospite. Oppure lui e Max erano come dei reggilibri, nati per funzionare in coppia? Le luci si spensero. Sullo schermo apparve Red Square, quattro volte la dimensione originale. Irina parlava in russo e in tedesco. Arkady sapeva che il russo era per lui, il tedesco per tutti gli altri. «I cataloghi sono in vendita all'ingresso e sono molto più dettagliati di quanto non possa essere io in questa sede. È importante, tuttavia, capire dal punto di vista visivo a quali analisi è stato sottoposto questo dipinto. Vi sono certi dettagli, visibili sullo schermo, che non sarebbero rilevabili se anche vi consentissimo di prendere in mano il dipinto e di esaminarlo.» Era bello e strano al tempo stesso udire la voce di Irina nel buio. Era come sentirla alla radio. Sullo schermo, il quadrato rosso venne sostituito da una foto in bianco e nero di un uomo dall'aria seria, con basette e giacca nera, in piedi di fronte a una intatta chiesa Kaiser Wilhelm, quella che ormai era un monumento di guerra sulla Ku'damm. «Nel 1927» proseguì Irina «Kazimir Malevich fece visita a Berlino per una retrospettiva delle sue opere. A Mosca era già caduto in disgrazia. All'epoca a Berlino si trovavano duecentomila rifugiati russi. A Monaco c'era Kandinsky, a Parigi c'erano Chagall, la poetessa Cvetaeva e il Ballet Russe. Malevich stava prendendo in considerazione l'idea di fuggire. La mostra presentava settanta sue opere. Inoltre, Malevich aveva portato con sé un numero imprecisato di altre opere... in altre parole, metà dell'intera sua produzione. Tuttavia, quando venne richiamato in patria nel mese di giugno, decise di tornare. In Russia erano rimaste la moglie e la figlia piccola. Inoltre, le pressioni sugli artisti della sezione agit-prop del Comitato Centrale del Partito stavano aumentando, e gli studenti di Malevich avevano fatto appello a lui perché li proteggesse. Quando salì sul treno per Mosca, diede istruzioni affinché nessuna delle sue opere venisse fatta tornare in Russia. «Alla fine della mostra berlinese del 1927, tutte le opere vennero imballate dalla ditta di Gustav Knauer, specializzata nel trasporto di opere d'arte, e depositate al Provinzialmuseum di Hannover, che attendeva ulteriori istruzioni da parte di Malevich. Il museo espose alcune delle opere, ma quando nel 1933 i nazisti presero il potere e denunciarono la cosiddetta "arte degenerata", che ovviamente comprendeva anche l'avanguardia russa, le opere di Malevich vennero rimesse nelle casse della ditta Knauer e na-
scoste nei sotterranei del museo. «Sappiamo che erano ancora depositate lì nel 1935, quando Albert Barr, direttore del Museum of Modern Art di New York, visitò Hannover. Acquistò due dipinti e li esportò clandestinamente dalla Germania avvolti nel suo ombrello. Il museo di Hannover decise che essere in possesso del resto della raccolta Malevich era troppo pericoloso e la rispedì a una delle persone che avevano ospitato Malevich a Berlino, l'architetto Hugo Haring, il quale la nascose prima in casa sua e poi, durante i raid aerei su Berlino, nella città natale di Biberach. «Diciassette anni dopo, a guerra finita e quando Malevich era ormai morto, i curatori dello Stedelijk Museum di Amsterdam seguirono il percorso delle casse, le rintracciarono da Haring, che era ancora vivo a Biberach e acquistarono i dipinti che attualmente costituiscono la più importante raccolta di opere di Malevich in Occidente. Ma dalle fotografie prese alla mostra di Berlino sappiamo che mancano quindici opere importanti. Sappiamo anche dalla qualità della collezione di Amsterdam che alcuni dei più bei dipinti che Malevich aveva portato con sé non vennero affatto esposti a Berlino. Non sapremo mai quante di queste opere private siano scomparse. Sono bruciate durante il blitz contro Berlino? Sono state distrutte da qualche zelante ispettore postale che aveva scoperto degli esempi di "arte degenerata"? Oppure, nella confusione della guerra, sono state semplicemente imballate, riposte e dimenticate ad Hannover o nel magazzino della ditta di trasporti Gustav Knauer, a Berlino Est?» Malevich venne sostituito sullo schermo da una malconcia cassa coperta di bolli e di documenti ingialliti. Era quella esposta alla galleria. «Questa cassa» spiegò Irina «è arrivata alla galleria un mese dopo la caduta del Muro. Legno, chiodi, tecnica costruttiva e polizze di spedizione sono identici a quelli delle casse Knauer. All'interno c'era un dipinto a olio di cinquantatré centimetri per cinquantatré. La galleria si rese conto immediatamente di aver trovato o un Malevich o un falso magistrale. Quale delle due ipotesi è giusta?» La cassa scomparve in dissolvenza e sullo schermo riapparve il quadro in dimensioni reali, come una sorta di faro ipnotico. «Attualmente esistono meno di centoventicinque quadri a olio di Malevich. La loro rarità, oltre alla loro importanza nella storia dell'arte, giustificano le quotazioni elevatissime, specialmente quando si tratta di capolavori come Red Square. Per cinquant'anni in Russia molti dei dipinti di Malevich sono stati tacciati di essere "ideologicamente scorretti". Oggi vengono liberati, come ostaggi
politici che finalmente vedono la luce del giorno. Tuttavia, la situazione è complicata dal numero di contraffazioni che hanno invaso il mercato occidentale. Gli stessi falsari che un tempo producevano icone medievali oggi producono falsi moderni. In Occidente, ci basiamo sulla provenienza: cataloghi di mostre e fatture che forniscono le date in cui le opere sono state esibite, vendute e rivendute. Nell'Unione Sovietica la situazione è diversa. Quando un artista veniva arrestato, le sue opere venivano confiscate. Quando gli amici venivano a sapere dell'arresto, si affrettavano a nascondere o a distruggere le opere in loro possesso. Le opere d'arte dell'avanguardia russa tuttora esistenti sono come dei sopravvissuti, con le improbabili storie tipiche dei sopravvissuti: sono state messe in qualche doppio fondo, oppure nascoste dietro la carta da parati. Molte opere originali non hanno provenienza, in senso occidentale. Chiedere secondo i criteri occidentali la provenienza di un'opera d'arte sopravvissuta allo stato sovietico, significa negare del tutto il fatto che sia sopravvissuta.» Il videotape mostrava un paio di mani coperte da guanti di gomma che rovesciavano delicatamente Red Square e ne asportavano una scheggia, che veniva analizzata: il materiale da cui era costituita era tedesco, del periodo giusto. Irina fece notare che gli artisti russi, avendone la possibilità, usavano sempre materiali tedeschi. C'erano dei dipinti sotto i dipinti. Esaminato ai raggi X, Red Square appariva in negativo e rivelava un altro rettangolo. Sotto luce fluorescente, lo strato esterno di bianco di zinco si stemperava dolcemente in una sfumatura color crema. Sotto luce ultravioletta, le pennellate di bianco diventavano azzurre. Sotto luce obliqua, le pennellate ingrandite apparivano come rapide virgole orizzontali con alcune varianti: una nuvola di tocchi qui, una marea di tocchi là, in un mare di rossi diversi, spezzati dalla cosiddetta "craquelure", dove la vernice rossa non aveva coperto la pittura gialla nascosta sotto. «L'opera non è firmata» disse Irina «ma ogni pennellata è una firma. Pennello, scelta delle pitture, ridipinture, assenza di firma, persino la "craquelure", sono elementi tipici di Malevich.» Ad Arkady piaceva la parola craquelure. Aveva il sospetto che, sotto una luce adatta, anche lui avrebbe mostrato una propria craquelure. Lo schermo ritornò bianco poi si mosse e mostrò la trama ingrandita del tessuto evidenziata dall'illuminazione radente, fermandosi sulla presunta granulosità di un'impronta digitale a malapena riconoscibile attraverso la vernice. «Di chi è la mano che ha lasciato questa impronta?» chiese Irina.
Un volto dagli occhi infossati, tristi, riempì lo schermo. La telecamera arretrò rivelando la divisa blu e il volto sofferente del defunto generale Penyagin. Difficilmente Arkady si sarebbe aspettato di rivederlo, e meno che mai in un circolo artistico. Con una penna il generale indicò dei riccioli e dei delta simili negli ingrandimenti di due impronte digitali: una presa dal quadro esposto nella galleria, l'altra da un quadro autenticato del Museo di Stato della Russia. Una voce fuori campo traduceva. Ad Arkady venne fatto di pensare che un tecnico tedesco avrebbe fatto perdere meno tempo, ma un generale sovietico faceva più impressione. Riconobbe che la voce fuori campo era quella di Max. La voce chiese: «La sua conclusione è che queste impronte appartengono alla stessa persona?» Penyagin guardò in macchina e raccolse un po' di energia e di autorevolezza, come se avvertisse quanto poco sarebbe durato il suo ruolo di protagonista. «A mio avviso» disse «queste impronte appartengono al di là di ogni dubbio alla stessa persona.» Le luci nel locale si riaccesero e quello che tra gli invitati era più simile al kaiser si alzò e chiese aggressivo: «È stato pagato un Finderlohn?». «Premio di ritrovamento» tradusse Max per Arkady. Fu Margarita a rispondere. «No. Sebbene un Finderlohn sia perfettamente legale, abbiamo trattato direttamente fin dall'inizio con il proprietario.» «Questi premi» ribatté l'uomo «sono notoriamente delle taglie. Lei saprà che mi riferisco ai premi pagati in Texas per il tesoro Quedlinburg, rubato dopo la guerra in Germania da un soldato americano.» «Non sono coinvolti cittadini americani.» Margarita ebbe quasi un sorriso. «È solo uno dei numerosi esempi di arte tedesca depredata dalle forze di occupazione. Come il dipinto del sedicesimo secolo custodito nel castello di Reinhardtbrunn e rubato dalle truppe russe. Dov'è, ora? All'asta da Sotheby's.» «Non sono coinvolti nemmeno cittadini russi» lo rassicurò Margarita «eccettuato Malevich. Ovviamente, io stessa ho una certa preparazione riguardo alle cose russe. Per sua conoscenza, è assolutamente illegale esportare dall'Unione Sovietica opere d'arte di questo periodo e di questo livello qualitativo.» L'amante dell'arte si addolcì, ma lanciò un'ultima frecciata. «Dunque proviene dalla Germania orientale.» «Sì.»
«Allora è una delle poche buone cose di quel paese.» Il consenso fu generale. Chissà se era davvero un Malevich, si chiese Arkady. Lasciando perdere la dilettantesca esibizione di Penyagin, poteva essere vera la storia dell'imballo? Era vero che la maggior parte delle opere di Malevich esistenti erano state nascoste o esportate clandestinamente per raggiungere i musei dove ora regnavano. Era l'artista fuorilegge del secolo. Per quanto lo riguardava, quali documenti poteva presentare Arkady per certificare la propria provenienza? Nemmeno un passaporto sovietico. Margarita Benz, ospite severa ma generosa, teneva gli invitati a distanza dal quadro, proibiva l'uso di macchine fotografiche, indirizzava gli ospiti verso il buffet di caviale, storione affumicato, champagne. Irina passava da un ospite all'altro rispondendo a domande che assomigliavano più a ostili interrogatori. Era solo l'impressione che un nuovo venuto si faceva della lingua tedesca, pensò Arkady; se il pubblico non fosse stato soddisfatto se ne sarebbe già andato. Ciononostante, guardandola gli venne in mente l'immagine di una cicogna bianca tra i corvi. Una coppia di americani in abito da sera simpatizzava di fronte ai vassoi pieni di cibo. «Non mi è piaciuto quell'accenno agli Stati Uniti. Ricorda, l'asta dell'avanguardia russa di Sotheby's è stata una grossa delusione.» «Erano quasi tutte opere minori e in gran parte falsi» disse l'altro. «Un pezzo importante come questo potrebbe stabilizzare il mercato. Comunque, anche se non lo prendo io, avrò sempre fatto una bella gita a Berlino.» «Jack, proprio di questo ti volevo avvertire. Berlino è cambiata. È definitivamente pericolosa.» «Pericolosa adesso che è venuto giù il Muro?» «È piena di...» Alzò gli occhi, prese per il braccio l'amico e sussurrò: «Sto pensando di trasferirmi a Vienna». Arkady si guardò in giro per vedere che cosa poteva averli impauriti. Oltre a lui, non c'era nessun altro. Dopo un'ora, un livello sonoro costantemente elevato e una fitta nebbia da sigarette rivelavano il successo della mostra. Arkady si ritirò nella saletta teatro e guardò un video della Berlino anteguerra realizzato in parte con riprese di carretti a cavalli e in parte con fotografie di profughi russi. Giocherellò con il videoregistratore, facendo andare avanti e indietro il nastro. I personaggi sullo schermo erano ovviamente i profughi più esotici e più
attraenti della loro epoca. Tutti, autori, danzatori e attori, parevano emettere una sorta di fluorescenza. Pensava di essere solo finché non udì la voce di Margarita Benz: «Irina è stata brava stasera, non le pare?». «Sì» rispose. La proprietaria della galleria era sulla soglia con un drink in mano e una sigaretta nell'altra. «Ha una voce splendida. Le è parsa convincente?» «Del tutto» rispose Arkady. La donna scivolò nella saletta. Udì la sua spalla strisciare contro la parete mentre gli si faceva vicina. «Volevo vederla bene.» «Al buio?» «Non riesce a vedere al buio? Lei dev'essere stato un pessimo investigatore.» Il suo comportamento era una strana combinazione: rozzo e allo stesso tempo imperioso. Ricordò le due contraddittorie identificazioni che Jaak aveva fatto delle sue foto: la moglie di Boris Benz, tedesca, con stanza al Soyuz, e Rita, prostituta per stranieri, emigrata in Israele cinque anni prima. Margarita lasciò cadere la sigaretta nel suo bicchiere, lo posò sul videoregistratore e porse ad Arkady la scatola di fiammiferi per farsene accendere un'altra. Le punte delle unghie erano dure come quelle di una forchetta. Quando Arkady l'aveva vista per la prima volta nella macchina di Rudy aveva pensato che fosse una vichinga. Ora gli parve più una Salomè. «L'ha venduto?» le chiese. «Max dovrebbe averle detto che un quadro come questo non lo si vende in un minuto.» «E quanto ci vuole?» «Settimane.» «Chi è il proprietario? Chi lo vende?» Margarita rise esalando il fumo della sigaretta. «Che brusche domande.» «È la mia prima mostra. Sono curioso.» «Solo chi compra deve poter conoscere chi vende.» «Se è russo...» «Sia serio. In Russia, nessuno sa chi è proprietario di che cosa. Se è russo, è di chiunque ce l'abbia in mano.» Arkady accettò l'obiezione. «Quanto pensa di tirarne fuori?» Margarita sorrise, e lui capì che gli avrebbe risposto. «Ci sono altre due versioni di Red Square. Tutt'e due sono valutate cinque milioni di dollari...» Pareva che i numeri le rotolassero in bocca. «Dammi pure del tu. I
miei amici intimi mi chiamano Rita.» Malevich apparve sullo schermo in un autoritratto con abito nero, colletto alto e ansiose sfumature di verde. «Pensi che avesse davvero l'intenzione di andarsene?» chiese Arkady. «Aveva perso il controllo dei nervi.» «Ne sei sicura?» «Ne sono sicura.» «Tu come hai fatto a uscire?» «A forza di scopate, tesoro. Ho sposato un ebreo. Poi un tedesco. Bisogna essere disposti a fare cose del genere. Per questo volevo vederti, per vedere cosa sei disposto a fare.» «Secondo te?» «Non abbastanza.» Interessante, pensò Arkady. Forse Rita sapeva giudicare un carattere meglio di lui. «A sentire alcuni dei tuoi invitati» disse «avevo l'idea che avessero visto troppi russi da quando è caduto il Muro.» Rita ebbe un'espressione di disprezzo. «Non troppi russi, troppi altri tedeschi. Berlino Ovest era abituata a essere una specie di club particolare, adesso è solo una città tedesca. Tutti i ragazzi di Berlino Est sono cresciuti sentendo parlare degli stili di vita occidentali, così adesso vengono qui e vogliono fare i punk. I loro padri sono nazisti non riciclati. Quando è caduto il Muro si sono riversati qui. Non c'è da meravigliarsi che gli abitanti di Berlino Ovest tirino su le sottane e scappino.» «Tu pensi di scappare?» «No. Berlino è il futuro. È quello che sarà la Germania. Berlino è spalancata.» In quattro, cenarono tardi sotto il patio del ristorante di Savigny Platz. Max si godeva il lento dissiparsi dell'eccitazione come un regista teatrale assapora la sera della prima; si dimostrava premuroso verso Irina ed estasiato, come se lei fosse la sua protagonista. Irina aveva ancora addosso la luce della festa: pareva circondata da candele e da cristalli. Rita sedeva sulla stessa sedia dove Arkady l'aveva vista nella videocassetta. Guardava Max, Irina e Arkady e sembrava concentrata su un semplice problema di aritmetica. Per Arkady, Max e Margarita sembravano svanire; vedeva solo Irina. I loro sguardi si incontravano in modo quasi palpabile, consentendogli di sostenere la sua parte di conversazione anche in silenzio. Il cameriere posò il vassoio vicino a Max e indicò con un cenno del capo
due uomini dagli abiti lustri che si avvicinavano attraverso i giardini. Camminavano lentamente, come se stessero portando a passeggio il cane; ma non c'era nessun cane. «Ceceni. La settimana scorsa hanno fatto a pezzi un ristorante nella via più tranquilla di Berlino. Hanno ammazzato un cameriere con un'ascia davanti ai clienti.» Si strofinò un braccio. «Con un'ascia.» «E dopo cos'è successo?» chiese Arkady. «Dopo? Sono tornati e hanno detto che avrebbero protetto il ristorante.» «Vergognoso» disse Max. «Comunque, voi siete già protetti, non è vero?» «Sì» convenne subito il cameriere. I ceceni attraversarono la strada puntando verso il ristorante. Uno dei due, Arkady l'aveva già visto mangiare con Ali al Jump Cafè; l'altro era suo fratello minore Beno, dalla taglia e dalle movenze di un fantino. «Sei l'amico di Borya, vero? Abbiamo sentito che hai un posto, qui.» «E voi l'avete, un posto?» Max si finse stupito. «Un'intera suite.» Arkady si rese conto che Beno aveva ereditato lo sguardo acuto e la forza di concentrazione del nonno. Era lui, non Ali, il prossimo Makhmud. Da come si concentrava su Max, Arkady dubitava che avesse notato le altre persone al tavolo. «State festeggiando? Possiamo unirci a voi?» «Non avete l'età.» «Allora ci si vede poi.» Beno precedette il ceceno più anziano lungo la strada. Sembravano due viaggiatori del mondo, perfettamente a loro agio. Quando Rita fece per firmare il conto, Max insistette per pagare, sia per generosità sia per dimostrare che era lui ad avere il controllo della situazione. Ma non ce l'aveva, pensò Arkady. Non ce l'aveva nessuno. 31 Si risvegliò in piena notte avvertendo la presenza di Irina nella stanza. Nel chiarore lattiginoso della luna vide che aveva addosso un impermeabile ed era a piedi nudi. «Ho detto a Max che lo lascio» disse lei. «Bene.» «Per niente. Ha detto che non appena tu sei arrivato a Monaco ha capito che sarebbe potuto succedere.»
Arkady si rizzò a sedere. «Dimenticati di Max.» «Max mi ha sempre trattato bene.» «Domani andremo in qualche altro posto.» «No, tu qui sei al sicuro. Max vuole aiutarci. Non sai quanto possa essere generoso.» La sua presenza lo sopraffaceva. Dalla sua ombra sarebbe riuscito a tracciare il suo viso, gli occhi, la bocca. Avvertiva il suo odore e ne sentiva il sapore nell'aria. E nello stesso tempo si rendeva conto di quanto fosse tenue la presa che aveva su di lei. Se avesse colto, anche in minima misura, i sospetti che lui aveva nei confronti di Max, l'avrebbe perduta in un attimo. «Perché Max non ti piace?» «Sono geloso.» «È lui che dovrebbe essere geloso di te. Con me è sempre stato buono. Mi ha dato una grossa mano per il quadro.» «In che modo?» «Ha messo in contatto il venditore e Rita.» «Lo sai chi è il venditore?» «No. Max conosce un sacco di gente. Ti può aiutare, se glielo permetti.» «Come vuoi tu» disse Arkady. Irina si chinò e lo baciò. Prima che Arkady riuscisse a rialzarsi, era scomparsa. Orfeo era disceso nel mondo degli inferi per salvare Euridice. Secondo la leggenda greca l'aveva trovata nell'Ade e l'aveva guidata verso la superficie lungo interminabili caverne in lenta ascesa. L'unica condizione posta dagli dei era di non guardarsi indietro fino a quando non avesse raggiunto la superficie. Durante la risalita, Orfeo la sentì trasformarsi da spettro in un corpo caldo, vivo. Arkady pensò ai problemi logistici. Orfeo, ovviamente, era davanti. Le teneva la mano mentre si facevano strada lungo le rocce del percorso sotterraneo? Euridice aveva legato il suo polso a quello di lui, pensando che fosse il più forte? Eppure nel fallimento la colpa non era stata di Euridice. Quando si stavano avvicinando all'uscita della caverna, era stato Orfeo a voltarsi e con quello sguardo all'indietro aveva condannato Euridice a morire nuovamente. Certi uomini erano costretti a voltarsi.
32 In un primo momento Arkady non fu sicuro che la visita di Irina fosse avvenuta davvero, poiché in superficie nulla pareva cambiato. Max li portò a far colazione in un hotel di Friedrichstrasse, lodò la ristrutturazione del ristorante, versò il caffè e dispose i giornali secondo l'importanza delle recensioni alla mostra. «La scelta dei tempi è stata buona e la mostra è stata recensita sia su "Die Zeit" che sul "Frankfurter Allgemeine". Prudenti ma positive, attente al vecchio debito che l'arte russa ha nei confronti degli appoggi tedeschi. Una recensione negativa su "Die Welt" al quale non piacciono né l'arte moderna né i russi. Una ancora peggiore su "Bild", un fogliaccio di destra che preferisce le notizie sugli steroidi o il sesso. È un buon inizio. Irina, oggi pomeriggio hai delle interviste con "Art News" e "Stern". Con la stampa sai trattare meglio di Rita. Cosa più importante, stasera ceniamo con dei collezionisti di Los Angeles. Gli americani sono solo l'inizio; poi ci vogliono parlare gli svizzeri. Il bello degli svizzeri è che non sfoggiano i pezzi che comprano, preferiscono tenerli in un caveau. Il che mi fa venire in mente che toglieremo il quadro dalla mostra alla fine della settimana per renderlo accessibile a gente più seria.» «La durata della mostra doveva essere di un mese per consentire alla gente di vedere il quadro» obiettò Irina. «Lo so. È un problema di assicurazione. Rita aveva addirittura paura di far vedere il quadro, ma le ho detto che tu ci tenevi molto.» «E per quanto riguarda Arkady?» «Arkady.» Max tirò un sospiro per comunicare che l'argomento era di importanza minore. «Vediamo che cosa possiamo fare. Quando scade il suo visto?» chiese ad Arkady. «Tra due giorni.» Era sicuro che Max lo sapesse. «È un guaio, perché la Germania non accetta più profughi politici dall'Unione Sovietica. Non c'è nulla di politico di cui aver paura.» Si rivolse a Irina. «Mi spiace, davvero. Puoi tornare indietro quando vuoi. Anche se ti hanno accusato di tradimento, la cosa non importa più a nessuno. Alla peggio, non ti lasciano entrare. Se tu fossi con me, non ci sarebbe la minima difficoltà.» Tornò a rivolgersi ad Arkady. «Il fatto è, Renko, che lei non può disertare, per cui dovrà farsi dare un prolungamento del visto dall'Ufficio Stranieri. L'accompagno io. Avrà anche bisogno di un permesso
di lavoro e di un permesso di residenza. Il tutto, ovviamente, nell'ipotesi che il consolato sovietico sia disposto a collaborare.» «Non collaborerà» replicò Arkady. «Oh, ma allora la faccenda è diversa. Che cosa ne dice Rodionov a Mosca? Vuole che lei rimanga ancora?» «No.» «Strano. Chi sta puntando, Renko? Me lo può dire?» «No.» «A Irina l'ha detto?» «Max, piantala» intervenne Irina. «C'è qualcuno che vuole uccidere Arkady. Hai detto che avresti dato una mano.» «Non sono io» disse Max. «È Boris. Gli ho parlato al telefono ed è molto dispiaciuto che tu e la galleria abbiate a che fare con un personaggio come Renko, specialmente adesso che l'obiettivo di tutti i nostri sforzi è vicino.» «Boris è il marito di Rita» disse Irina ad Arkady. «Il tipico tedesco.» «L'hai mai incontrato?» chiese Arkady. «No.» Max sembrava addolorato. «Boris teme che il tuo Arkady sia nei pasticci perché è coinvolto con la mafia russa. Basterebbe un accenno e la mostra finirebbe in un disastro.» «Non ho nulla a che fare con la galleria» disse Arkady. Max insistette. «Boris è convinto che Renko ti stia strumentalizzando.» «A che scopo?» chiese Irina. Era davvero venuta quella notte, pensò Arkady, non era un sogno. A Max non ne lasciava passare una. Erano stati tracciati nuovi confini e Max si ritirava dietro di essi con la massima prudenza. «Per rimanere, per nascondersi... non lo so. Ti riferisco solo quello che pensa Boris. Finché tu vuoi che Renko stia qui, io farò del mio meglio perché resti. È una promessa. In fondo, pare che finché avrò qui lui avrò anche te.» Recitarono la parte della coppia occidentale. Avrebbero potuto chiamarsi George e Jane, Tom e Sue. Fecero acquisti e comperarono una camicia sportiva per Arkady che la indossò immediatamente. Passeggiarono nel Tiergarten diretti allo zoo, dove ignorarono i leoni e guardarono le carrozzelle trainate dai pony. Non videro né ceceni né collezionisti d'arte. Nessuno dei due si sforzò di dire cose eccezionali. La normalità era un incante-
simo che si rompeva troppo facilmente. Alle due Arkady la accompagnò alla galleria e andò alla fermata Zoo. Provò a telefonare a Peter ma non ebbe risposta. Peter si era stancato, o aveva perduto interesse. In entrambi i casi Arkady aveva perduto il contatto. Non appena riattaccò sentì squillare il telefono. Arkady fece un passo indietro. Sul marciapiede, alcuni africani vendevano ai tedeschi orientali quelle che sembravano valigie francesi. Davanti a un cambiavalute si allungava una coda di giovanotti assonnati, con lo zaino e i capelli lunghi. Nessuno si fece avanti per rispondere al telefono. Fu lui a farlo. «Renko» disse Peter, «saresti una spia da quattro soldi. Una buona spia non chiama mai due volte dallo stesso posto.» «Dove sei?» «Guarda dall'altra parte della strada. Lo vedi quel tipo con una bella giacca di pelle che sta parlando al telefono? Sono io.» Con il bel tempo, uscire dalla città in macchina era come fare una gita estiva. Puntarono verso sud attraverso i boschi sempreverdi di Grunewald, poi seguirono il corso dello Havel, punteggiato da centinaia di piccole barche che si muovevano al sole e al vento, simili a gabbiani. «Essere tedesco offre qualche vantaggio. A metà della tua prima telefonata ho sentito il rumore di un treno. Nella loro efficienza, quelli dei trasporti pubblici hanno saputo dirmi l'ora esatta in cui arrivano i treni in tutte le stazioni sotterranee e di superficie. Ho ridotto le possibilità a Zoo perché, naturalmente, tu sei russo e Zoo è l'unica stazione che eri sicuro di conoscere.» «Sei in gamba. È innegabile.» Peter non contestò l'affermazione. «Ieri, quando hai telefonato da Zoo, ero già lì che ti aspettavo. Ti ho seguito in giro per Berlino. Hai visto quanto è cambiata?» «Certo.» «Quando è venuto giù il Muro, i festeggiamenti sono stati incredibili. Berlino Est e Berlino Ovest tornavano insieme. È stato come una notte d'amore sfrenato. E dopo è stato come svegliarsi e scoprire che la donna che avevi desiderato per tanto tempo ti aveva frugato nel portafoglio e ti aveva preso le chiavi della macchina. L'euforia era scomparsa. Non è stato l'unico cambiamento. All'Armata Rossa eravamo preparati. Non eravamo preparati alla mafia russa. Ero dietro di te ieri. Li hai visti.»
«È come a Mosca.» «Proprio questo mi spaventa. Al confronto dei vostri gangster, i nostri sono un coro salisburghese. Gli assassini tedeschi puliscono dopo essere passati. Le mafie russe si sparano per le strade. I negozi tengono le porte chiuse, assumono guardie private, si trasferiscono ad Amburgo o a Zurigo. Non è bello per gli affari.» «Non mi sembri sconvolto.» «A Monaco non sono ancora arrivati. La vita era noiosa prima che arrivassi tu.» Arkady ebbe di nuovo la sensazione che Peter fosse partito in volo e che lui non potesse fare altro che vedere dove sarebbe atterrato. Non sapeva per quanto Peter lo avesse pedinato e aspettava di sentire i nomi di Max Albov, Irina Asanova, Margarita Benz. Da qualche parte nei boschi, tra le casette e le stradine di campagna, si attraversava il confine con l'ex Germania Orientale e si cominciava a scorgere Potsdam. Almeno quella parte di Potsdam in cui sorgevano case popolari che sembravano promettere bene dal punto di vista architettonico ma che in realtà si rivelavano essere solo dieci piani di balconi anonimi e di intonaco coperto di crepe. La vecchia Potsdam era nascosta dietro una cortina di tigli. Peter parcheggiò in un viale pieno di verde di fronte a una villa di tre piani. Era una palazzina che sarebbe piaciuta al kaiser, con il cancello in ferro battuto, un portico sufficientemente ampio da consentire il passaggio di una carrozza, una scalinata di marmo che portava a una doppia porta, una facciata di pietre in stile classico, volute scolpite sopra le finestre, tanto alte da mostrare i soffitti a volta, una torre che si innalzava dal tetto di tegole. Ma la maggior parte dell'intonaco si era staccata dai mattoni e il secondo piano era coperto da un'approssimativa impalcatura Un lato della scalinata era delimitato da un corrimano di legno, l'altro era rotto. Alcune finestre erano chiuse da mattoni, altre sbarrate da assi. Sulla torretta crescevano un albero contorto e l'erba alta. Il giardino era stato abbandonato da lungo tempo alle macerie e alle erbacce. Una polvere ferrosa costituita da ruggine, sporcizia e dai resti sbriciolati dei mattoni copriva il cancello. Ma la casa era abitata; a tutti i piani, i balconi e le finestre sopravvissute erano abbelliti da gerani rossi, mentre dietro i vetri si notavano fievoli luci e lenti movimenti. Accanto al cancello un'insegna diceva "CLINICA MEDICA". «Casa Schiller» disse Peter. «Eccola qui. Ecco per cosa si è svenduto mio nonno. Per questo rudere.»
«Lui l'ha vista?» chiese Arkady. «Boris Benz gli ha portato una fotografia. Adesso il nonno ci si vuole trasferire.» Ai due lati, l'isolato era formato da palazzine simili per stile e stato di conservazione a casa Schiller. Alcune erano in condizioni ancora peggiori. Una era nascosta dall'edera come una tomba antica. Su un'altra era appeso il cartello "VERBOTEN! KEIN INGANG!" «Questa un tempo era la via dei banchieri» spiegò Peter. «Andavano tutti a Berlino ogni mattina e tornavamo ogni sera. Erano persone colte, intelligenti. Avevano un ritratto del Fuhrer, ma piccolo. Chiudevano gli occhi quando i Meyer scomparivano da questa palazzina o quando la famiglia Weinstein scompariva da quella casa laggiù. Dopo avrebbero potuto assicurarsi le loro case a buon prezzo. Oggi non si può più dire dove vivessero gli ebrei, non è vero? E adesso mio nonno vuole che per questa roba riprendiamo a trafficare con il diavolo.» Si aprì una porta-finestra e una donna in vestaglia e cuffietta bianche uscì, camminando a ritroso, con una carrozzella per invalidi. La fece girare, tirò il freno e sedette a fumare una sigaretta, padrona di tutto ciò che ricadeva sotto la sua sorveglianza. «Che cosa hai intenzione di fare?» chiese Arkady. Peter spinse il cancello. «Dovrei dare un'occhiata, non ti pare?» Il vialetto, un tempo lastricato, conduceva a un portico sorretto da colonne. Ora due piste tagliavano le erbacce mentre una delle colonne, vittima di una collisione, era stata sostituita da un tubo di fogna. Sull'ingresso occhieggiavano una croce rossa e il cartello "RUHIG!" - silenzio. La porta era aperta, dall'interno uscivano i suoni di una radio e l'odore di disinfettante. Non c'era il banco della reception. L'ispezione di Peter li portò in un salone di mogano scuro, in una sala da ballo trasformata in mensa e in una cucina enorme trasformata da divisori di mattoni grigi in una cucinetta dai pentoloni fumanti e in una seconda area di bagni piastrellati. Peter assaggiò la minestra. «Mica male. Nella Germania Orientale hanno delle ottime patate gialle. Ero a Potsdam anche ieri sera, ma qui non sono venuto.» «Dov'eri?» «All'archivio municipale, alla ricerca di Boris Benz.» Lasciò cadere il mestolo e proseguì. «Non ci sono abbastanza informazioni» disse. «Mi sono collegato al computer federale e ho visto la sua patente di guida, la residenza a Monaco, il certificato di matrimonio. Ho visto che a suo nome è
registrata una ditta chiamata "Fantasy Tours"; la documentazione di lavoro, previdenziale e sanitaria è in ordine perché le sue dipendenti, per legge, vengono visitate una volta al mese per il controllo delle malattie veneree. Quelli che non compaiono sono gli studi fatti e il libretto di lavoro.» «Mi avevi detto che Benz era nato qui a Potsdam e che una gran parte della documentazione non era stata ancora trasferita.» Peter balzò sulle scale. «Per questo sono venuto qui. Ma qui non ci sono documenti sul conto di Boris Benz. Una cosa è infilare un nome nei file di un computer: si aggiunge semplicemente un segnale sullo schermo. Più difficile è inserire un nome in un vecchio registro scrupolosamente compilato. Il libretto di lavoro o lo stato di servizio militare non servono se non si cerca lavoro o non si intende chiedere un prestito a una banca. La cosa dimostra solo che Boris Benz ha più denaro che storia personale. Ah, questa doveva essere la camera da letto padronale.» Era un reparto con cinque letti lungo una parete. Alcuni erano occupati da pazienti collegati al tubetto dell'ipodermoclisi. Alle pareti erano incollate foto di famiglia e disegni fatti con matite colorate. Le lenzuola erano pulite e il parquet luccicava. Quattro donne anziane in vestaglia stavano giocando a carte. Una alzò gli occhi. «Wir haben Besucher!» Visite! Peter rivolse un cenno di approvazione a ognuna delle ricoverate. «Sehr gut, meine Damen. Schönen Foto. Danke.» Le donne si illuminarono mentre Peter rivolgeva loro un cenno e se ne andava. Le altre camere da letto erano state trasformate in reparti con altri bagni. Del fumo di sigaretta usciva dalla porta aperta di un ufficio. Salirono al terzo piano. Nel soffitto della tromba delle scale, dove una volta era appeso un lampadario di cristallo, ora brillava un anello di luce fluorescente. «Se Benz non è cresciuto qui» riprese Peter, «mi sono chiesto: come faceva a sapere di mio nonno e di quel che aveva fatto durante la guerra? Lo sapevano solo le SS e i russi. Quindi le risposte possibili sono due: è russo oppure tedesco.» «E cosa pensi che sia?» chiese Arkady. «Tedesco» rispose Peter. «Tedesco dell'est. Per essere più preciso della Staatssicherheit. Stasi. Il loro Kgb. Per quarant'anni la Stasi ha creato false identità per le spie. Lo sai in quanti lavoravano per loro? Due milioni di informatori. Più di ottantamila funzionari. La Stasi era proprietaria di palazzi per uffici, abitazioni, centri ricreativi, e di conti in banca per miliardi. Dove sono finiti tutti gli agenti? Le settimane precedenti la caduta del Muro, gli agenti della Stasi si sono dati da fare come pazzi per crearsi nuove i-
dentità. Quando la gente ha preso d'assalto i loro uffici, li ha trovati vuoti. I registri si erano volatilizzati. Una settimana dopo Boris Benz ha affittato quell'appartamento a Monaco. È allora che è nato.» Il terzo piano era stata la sede dei quartieri della servitù; ora vi si trovavano il deposito dei medicinali e le stanze delle infermiere. A una corda tesa da un angolo all'altro erano appese ad asciugare delle mutandine. «Dove potevano andare quelli della Stasi?» proseguì Peter. «Se erano importanti sarebbero finiti in galera. Se non lo erano, ma si ritrovavano scritto "Stasi" sui documenti, nessuno gli avrebbe dato lavoro. Non potevano scappare tutti in Brasile come una seconda ondata di nazisti. La Russia non sa cosa farsene di migliaia di agenti tedeschi. E questo cos'è?» Erano giunti di fronte a una scaletta bloccata da secchi. Peter li spostò, salì la scala e provò la maniglia di una botola sul soffitto. La serratura scattò; aprendosi, la botola lasciò cadere una sottile cascata di polvere sui gradini. Si issarono ambedue nella torretta. Le finestre erano sbarrate, una parte del tetto era caduta e in un angolo cresceva un tiglio contorto, prigioniero a vita della torre. La vista era meravigliosa: laghi e collinette che si stendevano fino a Berlino, campagna verde in tutte le altre direzioni. Due piani sotto c'era la terrazza con l'infermiera in carrozzella. La donna si era tolta i sandali e si era abbassata le calze arrotolandole sulle caviglie. Sollevò le gambe e orientò la carrozzina per prendere meglio il sole, poi si stese pigramente all'indietro in un gesto da Cleopatra, una sigaretta in bocca, simile a un punto esclamativo a sottolineare un completo benessere. «Prova a chiederti dove li trova un Ossie i soldi per comprarsi diciotto auto nuove» disse Peter. «O per vivere a Monaco. Per essere un uomo senza storia, Benz è nato con contatti stupefacenti.» «Ma perché andare a seccare tuo nonno?» chiese Arkady. «Che cosa ne ha ottenuto, salvo racconti di guerra?» «Quelli della Stasi non erano solo spie, erano anche ladri. Identificavano la gente che aveva beni di valore. La gente non veniva solo arrestata: i loro beni venivano confiscati come "indennizzo" per lo Stato. I loro quadri e le loro collezioni di monete andavano a finire nella casa di qualche colonnello. Magari Benz, quando è scomparso, ha preso qualcosa e non sa bene di cosa si tratta. Ci sono ancora tante cose nascoste in questo paese. Tante cose.» Quella di Peter era una risposta perfettamente tedesca, e squisitamente logica, ai quesiti sull'identità di Boris Benz. Non era la risposta che avreb-
be dato Arkady, ma era comunque ammirevole. «Chi è Max Albov?» chiese bruscamente Peter. «Mi ha offerto un posto dove stare a Berlino.» Sorpreso, Arkady cercò di passare all'offensiva. «Era per questo che ti telefonavo. Il mio passaporto ce l'hai tu, e senza non posso prendere una stanza in albergo. Inoltre vorrei un'estensione del visto.» Peter saggiò un sostegno prima di appoggiarvisi. «Il passaporto è il mio guinzaglio. Se te lo do non ti rivedo più.» «E ti pare brutto?» Peter rise, poi gettò un'occhiata sopra le chiome degli alberi. «Posso vedermi crescere qui. Correre nel corridoio, salire sul tetto, rompermi il collo. Renko, sono preoccupato per te. Ieri ti ho seguito fino a quell'appartamento di Friedrichstrasse. Albov è arrivato prima che io andassi a Potsdam; l'ho identificato dalla targa della macchina. Dai controlli che ho fatto, è un viscido. Ha cambiato due volte bandiera, senza dubbio è collegato al Kgb, è un affarista ruspante. Cosa vi ha messi insieme?» «L'ho conosciuto a Monaco. Si è offerto di darmi una mano.» «Chi è la donna? Era in macchina con lui.» «Non lo so.» Peter scosse il capo. «La risposta corretta è: "quale donna?". Adesso mi rendo conto che non avrei dovuto andarmene, avrei dovuto accamparmi in Friedrichstrasse e osservare. Renko, sei in pericolo?» «Non lo so.» Peter accettò la sua risposta. Trasse un profondo respiro. «L'aria di Berlino. Si presume che faccia bene.» Arkady accese una sigaretta. Peter ne prese una. Dal balcone sotto arrivava il rumore di qualcuno che russava, misto al ronzio delle mosche in giardino. «Lo Stato dei Lavoratori» disse Peter. «E per la casa?» chiese Arkady. «Hai intenzione di diventare un proprietario di immobili, di traslocare qui?» Peter si appoggiò prima a una ringhiera, poi a un'altra. «Io preferisco essere in affitto» rispose. 33 Il giorno stava calando quando Peter lasciò Arkady alla fermata Zoo. Sulla città era sceso un momentaneo silenzio, una pausa fra il pomeriggio e la sera. A ogni minuto, Arkady capiva cosa sarebbe stato disposto a fare
per rimanere con Irina. La risposta pareva essere qualsiasi cosa. Sarebbe andata a cena con dei collezionisti americani. Arkady comprò dei fiori e un vaso e attraversò il Tiergarten puntando verso la Porta di Brandeburgo. Si rese conto di quanto impressionante fosse una passeggiata del genere, un viale che attraversa per tutta la lunghezza la metà occidentale della città e continua attraverso la porta fino ai vecchi quartieri imperiali dell'est. Ora era praticamente tutta sua. Quando il Muro era ancora in piedi, quei cento metri di asfalto erano il punto più attentamente osservato della terra... da una parte le torri di avvistamento, dall'altra i turisti che salivano su una piattaforma per gettare un'occhiata oltrecortina. Alla base delle colonne vide una Mercedes bianca; accanto, un uomo palleggiava di testa con un pallone da calcio. Indossava un soprabito di cammello legato distrattamente come se fosse una vestaglia, teneva in equilibrio il pallone sulla fronte, lo lasciava cadere sul ginocchio, sul collo del piede, lo passava sull'altro piede e lo rigettava in aria. Un calciatore professionista come Borya Gubenko non perdeva la sua abilità se si teneva in allenamento. Fece rimbalzare il pallone da un ginocchio all'altro. «Renko!» Fece cenno ad Arkady di raggiungerlo, continuando a palleggiare. Quando Arkady si fu avvicinato, Borya calciò il pallone in alto. Con le braccia in fuori come un equilibrista, lo prese sul piede, lo tenne in equilibrio e lo lanciò di nuovo all'altezza del capo. «A Mosca non mi sono limitato a tirare palle da golf» disse. «Cosa te ne pare? Credi che sia pronto a correre di nuovo là, a difendere la porta per l'Armata Centrale?» «Perché no?» Quando Arkady fu abbastanza vicino, Borya fece un passo indietro per far rimbalzare a terra il pallone, poi con uno scatto lo calciò violentemente nello stomaco di Arkady. Arkady cadde. Atterrando, sentì il vaso andare in frantumi. Le gambe scivolarono in due direzioni opposte. Vedeva la terra girare e non riusciva a ritrovare l'equilibrio neanche stando disteso. La visione si riduceva a un cerchio e nel cielo apparivano delle macchioline. Borya si inginocchiò e gli puntò una pistola all'orecchio. Una pistola italiana, pensò Arkady. «E non ti devo solo questo» disse. La pistola era inutile. Borya si rizzò, aprì la portiera di destra, sollevò Arkady per il colletto e la cintura, la tecnica con cui venivano buttati fuori gli ubriachi dalle partite di calcio, e lo scaraventò sul sedile anteriore. Lanciò il pallone dietro e si infilò al volante. Fu l'accelerazione a chiudere lo sportello di Arkady.
«Se dipendesse da me» disse Borya, «saresti morto. Non te ne saresti mai andato da Mosca. Se anche qualcuno ci avesse visto ammazzarti, cosa sarebbe successo? L'avremmo pagato. Credo che Max abbia delle tendenze autodistruttive.» Arkady respirava a singhiozzi. Era da molto che non gli capitava di ritrovarsi senza respiro, e aveva dimenticato la sensazione di impotenza totale che quella condizione provocava. Fiori e vaso erano andati persi. Si sentiva ancora lo stomaco concavo. Si rendeva conto che Borya aveva preso una strada panoramica lungo il fiume Stree, più o meno nella direzione del tramonto e che procedeva a una velocità appena sufficiente da impedirgli di saltar giù. Borya avrebbe già potuto ucciderlo. «Certe volte la gente intelligente complica troppo le cose» riprese Borya. «Piani grandiosi e poi nessuna esecuzione. Qual è l'esempio classico?» Fece schioccare le dita. «In quella commedia.» «Amleto?» disse Arkady. «Amleto, perfetto. Non si deve rimanere in eterna ammirazione della palla, la si caccia via.» «Come hai cacciato fuori strada la Trabi a Monaco?» «Avrebbe potuto risolvere i nostri problemi. Avrebbe dovuto. Quando Rita mi ha detto che eri ancora vivo e che Max ti aveva portato qui, onestamente non riuscivo a crederlo. Cosa c'è tra te e Max?» «Credo che voglia dimostrare di essere il più bravo dei due.» «Senza offesa, ma Max ha tutto e tu non hai niente.» Borya sorrise. «In Occidente è così che si calcolano i punti. È lui il migliore dei due.» «E chi è il migliore» chiese Arkady «Borya Gubenko oppure Boris Benz?» Il sorriso di Borya si allargò nel ghigno di un bambino sorpreso a rubare biscotti. Tirò fuori un pacchetto di Marlboro e ne offrì una ad Arkady. «Come dice Max, dobbiamo essere uomini nuovi per tempi nuovi.» «Ti serviva un socio estero per la joint venture ed era più facile crearne uno che trovarlo» disse Arkady. Borya accarezzò il volante. «Mi piace il nome Benz. Ha un suono più rassicurante di Gubenko. Benz è l'uomo con cui la gente vorrebbe fare affari. Come hai fatto a scoprirlo?» «Ovvietà. Tu eri il socio di Rudy, ma sulla carta il socio di Rudy era Benz. Quando ho saputo che Benz era una finta identità, il candidato più probabile eri tu. E mi è sembrato strano che alla clinica presso il tuo indi-
rizzo di Monaco quando ho detto di essere Benz, per un attimo mi hanno creduto facendomi entrare. Io non ho un buon accento tedesco. Poi hai fatto l'errore di riprendere anche la vetrina nella videocassetta di Rita al ristorante. Il tuo riflesso era un ritratto perfetto, perché anche con in mano la telecamera, sullo schermo un vecchio eroe del calcio si riconosce sempre.» «Quel nastro è stata un'idea di Max.» «Allora è lui che devi ringraziare.» Puntando verso Sud, verso la Ku'damm, passarono davanti a una stazione di servizio con cartelli in polacco. «Sai cosa fanno i polacchi?» chiese Borya. «Rubano una macchina, una bella macchina, le tolgono il motore, e le mettono su un motore legale, magari un rottame che riesce appena a girare e andare al confine. Alla dogana controllano la matricola del motore e li lasciano passare. È come un barzelletta: quanti polacchi ci vogliono per rubare una macchina? Se hai soldi, basta pagare il doganiere e avanti.» «E far passare il confine a un quadro è molto più difficile?» domandò Arkady. «Vuoi sapere la verità? Mi piace quel quadro. È un'opera d'arte rara. Ma non ci serve. Su questo c'è una divergenza di opinioni. Ce la cavavamo benissimo con le slot-machine, le ragazze...» «È quello il compito dell'Ufficio Personale della TransKom? Portare prostitute da Mosca a Monaco?» «È legale. È un'opportunità. Il mondo si sta aprendo, Renko.» «E allora perché contrabbandare quadri?» «È la democrazia. Sono stato messo in minoranza. Max vuole il quadro e a Rita piace l'idea di essere Frau Margarita Benz, gallerista, invece di una tenutaria di bordello, cioè quello che era in realtà. Dopo averti mancato sulla Trabi volevo stenderti qui. Mi hanno messo di nuovo in minoranza. Non ho niente contro di te, ma volevo lasciarmi Mosca alle spalle. Quando ho sentito che eri qui, sono esploso. Max dice che starai zitto, che sei coinvolto a livello sentimentale e che non ti metterai di mezzo. Dice che fai parte della squadra. Mi piacerebbe crederlo, ma poi ti seguo e ti vedo salire su una macchina della polizia tedesca e fare un giro a Potsdam. Mettimi in qualunque posto al mondo e io ti riconosco la milizia locale. Stai facendo il doppio gioco, Renko, ed è uno sbaglio. Questo è un mondo nuovo sia per me che per te e dovremmo approfittarne invece che cercare di farci a pezzi. Non possiamo fare i Neandherthal per il resto della vita. Io sono felice di imparare dai tedeschi o dagli americani o dai giapponesi. Il problema sono i ceceni. Rovineranno Berlino come hanno rovinato Mosca. Pun-
tano sulle imprese dei russi. È una vergogna che facciano venir qui la loro gente. Se ne vanno in giro con il mitra come se fossero a casa loro, entrano a calci nei ristoranti, rapinano i negozi, rapiscono i bambini... storie orrende. Finora la polizia tedesca non ha ben capito cosa fare perché non ha mai visto niente del genere. Non si possono infiltrare perché nessuno dei loro potrebbe passare per ceceno. Neanche da lontano. Ma questo è un atteggiamento miope da parte dei ceceni, perché con tutti i soldi che hanno, se li investissero legalmente potrebbero fare una fortuna. Gli potrei far vedere come entrare nel lato positivo degli affari. Rudy era un economista, Max è un visionario, ma io sono un uomo d'affari. E ti posso dire per esperienza che gli affari si basano sulla fiducia. Al golf, io ho fiducia che i miei fornitori mi vendano liquori buoni, non veleno. I fornitori sanno che io li pago con soldi veri, non rubli. A questo mondo l'idea che meglio promuove la civiltà è la fiducia. Se Makhmud fosse disposto a starmi a sentire, potremmo vivere in pace.» «È tutto quello che vuoi?» «È tutto quello che voglio.» Passarono accanto alle orde ormai familiari del Ku'damm, sotto le insegne al neon Aeg, Siemens, Nike e Cinzano in un cielo color lavanda pallido. Le rovine della chiesa Kaiser Wilhelm, l'unico edificio che non era stato costruito di recente, sembravano fuori posto. Alle spalle si innalzava la dura parete di vetro di Europa Center, che iniziava ad accendersi con le luci dei singoli uffici. Borya parcheggiò nel garage del centro commerciale. L'Europa Center contava più di cento tra negozi, ristoranti, cinema e cabaret. Borya guidò Arkady tra i sushi bar, i western in prima visione, le perle coltivate, gli orologi svizzeri e gli istituti di bellezza. C'era un riflesso da speculatore nello sguardo, quasi stesse valutando l'opportunità di espandere il suo campo-pratica di golf. «Makhmud si fida di te. In tua compagnia magari ci dà retta.» «È qui?» chiese Arkady. «Max dice che sei così bravo che è come se facessi parte della squadra. Se fai questo per me, questa cosina, allora mi convincerò che sei a posto. È qui di sopra. Lo sai come ci tiene alla sua salute.» Salirono tre piani. Arkady si era immaginato che l'incontro con Makhmud Kashbulatov sarebbe avvenuto sui sedili posteriori di un'auto o in un angolo di un ristorante dalle luci basse. Invece, in cima alle scale vide un atrio coperto di moquette e fortemente illuminato, con un banco sul quale era allineata una varietà di shampoo naturali, di occhiali da sole e di
vitamine chelate. Per sessanta marchi un assistente consegnò loro asciugamani, ciabatte di gomma e una catenina metallica con la chiave di un armadietto. «Un bagno pubblico?» chiese Arkady. «Una sauna» disse Borya. Lo spogliatoio era dotato di armadietti, docce, asciugacapelli e schiuma da bagno omaggio. Arkady appese agli attaccapanni i suoi quattro miserabili stracci, chiuse l'armadietto e si infilò la catena al polso come un braccialetto. Borya fu costretto a schiacciare tutta la sua roba per farla stare nell'armadietto. Molti uomini, quando si spogliano, sembrano deformi o più piccoli. Un atleta come Borya Gubenko si era spogliato per tutta la vita in presenza di altri. Ostentava una sorta di scioltezza fisica: accanto a lui Arkady aveva l'aria di un morto di fame. «Makhmud viene qui?» chiese Arkady. «Makhmud ha il pallino della salute. Dovunque sia, qui o a Mosca, passa un'ora al giorno in una sauna.» «Quanti altri ceceni ci sono?» Al mercato delle auto del Porto Sud, Makhmud non ne aveva mai intorno meno di mezza dozzina. «Qualcuno. Rilassati» disse Borya. «Voglio solo che tu gli parli faccia a faccia. Qualunque sia il motivo, gli piaci. E voglio che tu veda che tutto quel che faccio qui è legale.» «Questo è un locale pubblico?» Borya aprì con una spinta la porta della sauna. «Non potrebbe essere più pubblico.» Arkady era abituato agli spartani bagni pubblici, ai torsi pallidi e al sudore alcolico dei russi. Quel luogo era diverso. Una veranda con una foresta tropicale di piante di plastica dava su una piscina circolare interna circondata da gradini di marmo. Intorno, intenti a nuotare, a galleggiare, oppure distesi su lettini, c'erano dei corpi nudi così rosei che sembrava si fossero appena rotolati nella neve. Maschi, femmine, bambini e bambine. La scena sarebbe apparsa edonistica se non avesse avuto un'aria così seria. Sembravano tutti in forma come atleti olimpici e rigidi come mummie, alcuni coperti da un asciugamano, altri senza. Un uomo dalla barbetta a punta e dal ventre coperto di peli grigi saliva i gradini della piscina con la gravità di un senatore. I ceceni erano facili da individuare. Due erano piegati sulla balaustra per osservare una donna che nuotava lentamente avanti e indietro in cuffia da bagno e occhiali, nient'altro. I ceceni non avrebbero mai consentito alle loro mogli di andare nude in pubblico, ma non avevano
nessuna obiezione se le tedesche erano disposte a farlo. Alcuni bambinetti con i capelli così biondi da sembrare piumino d'oca uscirono di corsa dalla zona ristorante. I loro strilli echeggiavano sulle modanature di rame sopra la piscina. Arkady udì i colpi secchi delle pedine del domino posate con forza su un tavolo del ristorante. Probabilmente altri ceceni. Borya portò Arkady nella direzione opposta. Passarono accanto a due minuscole, basse piscine e superarono la porta di legno di una sauna finlandese. All'interno trovarono il tedesco dall'aria senatoriale. Salirono di panca in panca fino a dove l'aria era più calda. Il tedesco non prestò loro attenzione. Sedeva accanto al termometro da parete e si strofinava sul corpo il sudore come se fosse sapone. A distanza di qualche secondo controllava la temperatura. Pareva completamente assorbito dal sudore. Le palline metalliche della catenella di Arkady erano già bollenti. La sauna era isolata molto bene. Non si udivano i rumori della piscina. «Dov'è Makhmud?» «Qui, da qualche parte» disse Borya. «E Ali dov'è?» Se Makhmud era nelle vicinanze, doveva anche esserci la sua guardia del corpo preferita. Borya posò un dito sulle labbra. Avrebbe potuto essere una scultura, non fosse stato per le goccioline di sudore che cominciavano ad apparire sulle tempie, sul labbro superiore, nell'incavo dove il collo si legava all'armatura di muscoli che era il torace. Sussurrò: «Con il caldo secco ci si mette troppo. Proviamo il bagno russo». Scese ed Arkady lo seguì. Fuori, i ceceni alla balaustra stavano osservando la nuotatrice intenta ad asciugarsi sul bordo della piscina. Non era giovane, ma vista da dietro aveva un corpo sodo e atletico del quale poteva andare orgogliosa. La donna si voltò per asciugarsi in basso con un'elaborata procedura. Si tolse la cuffia, sciogliendo i capelli biondi e spessi che fece roteare e poi pettinò ferocemente con le dita, quindi li scostò dal viso largo, slavo, per nulla tedesco. Con occhi audaci e diffidenti fissò e congedò immediatamente con un lampo di disprezzo sia i ceceni che Arkady. Era Rita Benz. Borya spinse una porta sulla quale si stagliava il cartello "RUSSISCH DOMPFBADEN" e Arkady lo seguì, tuffandosi in una nube aromatica. La panchina dalla sua parte era vuota. Sedette, allungò una mano e toccò un bordo di pietra. Una fontana. L'unica fonte di luce era il riflesso fumoso che usciva da quattro piastrelle di vetro sul pavimento intorno al piedistal-
lo della fontana. Non vedeva Borya dalla parte opposta. Una sauna era un forno che faceva uscire il sudore con lentezza. Il bagno russo era talmente saturo di vapore che la traspirazione sgorgava in un attimo. L'aroma di cipresso aiutava ad aprire i pori. Il sudore scendeva a ruscelli dalla fronte di Arkady, correva sul torace e si accumulava negli interstizi tra le dita dei piedi, riempiendo ogni piega del corpo; Arkady si sentiva come una sola grande conduttura di sudore. Pensò a Rita e alla prima volta che l'aveva vista nell'automobile di Rudy. Il modo in cui ora l'aveva guardato era lo stesso con cui lo aveva guardato allora. «Ali?» da un angolo giunse la voce di Makhmud. Arkady stava già avvicinandosi alla porta quando Borya lo colpì. La testa gli rimbalzò contro la parete. Cadde dalla panca sul pavimento. Non perse conoscenza: ebbe piuttosto una sorta di breve eclissi. Quindi aprì gli occhi e, trascinandosi e annaspando, si staccò dal pavimento e si appoggiò incerto al bordo della panca. A parte il capogiro e un problema di compressione alle orecchie, era ancora tutto intero. La domanda che tutte le vittime di un colpo si chiedono è "Cos'è successo?" Un attimo prima era nel bagno russo con Borya e con Makhmud, ora pareva essere rimasto da solo. Il vapore era rosa. Arkady pensò di avere un taglio alla testa e che il sangue gli stesse colando sugli occhi. Ma sul cuoio capelluto trovò solo un bernoccolo, nessun taglio. Si asciugò il volto con un asciugamano. Il bagno russo era sempre un cubo di vapore rosato. Guardò in basso. Le piastrelle erano rosse. Girò intorno alla fontana e vide un piede rosso pendere dalla panca della parete opposta. Il piede portava a un corpo minuscolo e rinsecchito che Arkady trascinò verso la luce. Makhmud sembrava aver inghiottito un asciugamano. Sul collo e sul torace c'era un numero tale di fori sanguinanti che si sarebbe detto che fosse stato colpito da un'arma automatica. Ma dallo stomaco usciva il manico di un coltello. Arkady ricordò di essersi avvolto pudicamente l'asciugamano intorno alla vita. Borya invece lo reggeva in mano. Si tastò il polso. Catenella e chiave erano scomparse. Qualcuno bussò alla porta. Arkady non rispose, la porta si aprì e Ali entrò fermandosi sulla soglia. Il vapore fuggì fuori. Ali sembrava grasso e robusto; intorno agli occhi i capelli gli cadevano a riccioli. «Nonno, non ti pare di essere rimasto dentro abbastanza?» Arkady tacque. Avvertì che la mente di Ali stava registrando il fatto che il vapore avrebbe dovuto essere bianco. Ali entrò del tutto e chiuse la por-
ta. Una mano tozza annaspò nella nebbia. Arkady era salito in piedi sulla panca per evitare che Ali scorgesse i piedi. Si spostò portandosi all'estremità opposta. «Dove sono...» Per un attimo si sentì solo il rumore dell'acqua che cascava dal bordo della fontana. Poi udì Ali sollevare il morto e il risucchio del coltello estratto dallo stomaco. Allontanando il corpo di Makhmud dalle piastrelle illuminate, nel bagno russo la luce aumentò. Arkady vide i piedi di Ali voltarsi verso di lui. «Chi c'è lì?» chiese Ali. Arkady rimase in silenzio. Fuori dalla porta c'erano altri due ceceni. E altri ancora erano appostati in vari settori della palestra. Ali non doveva far altro che chiamare. «So che sei lì» disse. Il vapore vibrò in una specie di ventata, uno spruzzo di goccioline mentre Ali tirava una coltellata al vapore. La fontana gli bloccava parzialmente i movimenti. Arkady cercò di sgusciare verso la porta e sentì sulla schiena un brivido ardente. Si ritrasse. Anche Ali aveva sentito il contatto. Il movimento successivo fu un affondo nel legno, accanto alla mano di Arkady. Arkady allungò un calcio e Ali barcollò. Anche la fontana oscillò. Una mano afferrò il piede di Arkady trascinandolo prima sulla panca, poi sul pavimento. Ali gli afferrò i capelli e gli tirò indietro il capo, ma il movimento lo fece scivolare sul pavimento e perse il coltello. Arkady lo udì tintinnare in fondo al bagno. Annasparono l'uno sull'altro puntando verso il suono. Il peso di Ali era sufficiente a schiacciare Arkady e a lasciarlo tramortito. Si rizzò, simile a un Buddha che ascendeva tra le nubi, con il coltello in mano. Era un coltello da scalco dalla lama lunga e sottile. Arkady lo colpì. Ali scivolò all'indietro ma gli si gettò di nuovo addosso. Arkady finse di tirargli un altro pugno e Ali si chinò in avanti per reggere il colpo. Il pugno non arrivò e Ali cominciò a scivolare. Tirò un'altra coltellata e afferrò Arkady cadendo. Scivolarono tutti e due goffamente per qualche istante e si fermarono contro la fontana. Ali riuscì a liberarsi e sedette contro la panca. Guardò in basso lo stomaco attraversato da uno squarcio che andava dall'anca sinistra alle costole a destra. Cercò di tenere insieme lo stomaco, ma le sue interiora si riversarono fuori come il contenuto di una tazza rovesciata. Ali risucchiò aria. Non riuscì a ispirarne abbastanza per parlare. Aveva l'espressione di un uomo gettatosi di propria volontà dall'alto per scoprire atterrito e incredulo la mancanza della corda di sicurezza. Pensò che Arkady lo stesse aiutando ad
alzarsi, ma si rese conto che gli stava solo prendendo la catenella dal polso. Arkady raccolse asciugamano e pantofole e uscì dal bagno. I due ceceni si erano trasferiti accanto alla piscina, anche se Rita se n'era ormai andata. Si rendeva conto di essere coperto di sangue. Si tuffò nella piscina bassa più vicina, che era ghiacciata, e ne uscì lasciando nell'acqua spirali rossastre. Si risciacquò nella seconda piscina, riscaldata, e si asciugò mentre si dirigeva verso gli spogliatoi. Nell'armadietto di Ali trovò l'abito lucido, una borsa Louis Vuitton con un mitra, tre caricatori e un portafoglio gonfio di banconote tedesche di grosso taglio. Arkady si vestì senza fretta; sulle scale incrociò alcuni impiegati che, ansiosi di rilassarsi dopo il lavoro, non parvero sorprendersi di quanto male potevano essere tagliati gli abiti russi. Uscendo restituì le ciabatte al cassiere. 34 In Friedrichstrasse la porta del garage era ancora aperta. Arkady salì al quarto piano servendosi delle scale. Lasciò le luci spente, prese la borsa e si cambiò d'abito. Le scarpe di Ali gli andavano strette; avrebbe dovuto procurarsene un paio nuove il giorno dopo. La tempestività era fondamentale. Borya si sarebbe rassicurato se fosse venuto a sapere che nel bagno russo erano stati trovati due corpi. Se avesse saputo che erano tutti e due ceceni, si sarebbe messo in allarme. La polizia avrebbe presto ricostruito i connotati dell'uomo che era uscito indossando l'abito di Ali. Beno e gli altri ceceni dovevano già essere in giro a cercarlo. Arkady non era esperto di armi leggere, ma vide che la mitraglietta era una Skorpion cecoslovacca, un'automatica con una minuscola canna che spuntava da un corpo massiccio. Ognuno dei caricatori teneva venti colpi, che venivano scaricati in due secondi. Perfetto per i fuochi artificiali di Ali: con la Skorpion non serviva mirare. La porta si aprì alle sue spalle. Arkady infilò un caricatore e si voltò pronto a sparare. Sulla soglia vide Irina. Era talmente immobile da sembrare in equilibrio tra la luce del corridoio e il buio della stanza. Arkady controllò che non ci fosse nessuno fuori, la tirò dentro afferrandola per il polso e chiuse la porta. «Mi pareva di averti sentito» disse lei. La voce le usciva esile come un nastro preregistrato.
«Dov'è Max?» «Perché hai quella pistola?» «Dov'è Max?» «La cena è finita presto. Gli americani dovevano prendere l'aereo. Max è andato alla galleria per vedere Rita. Io sono venuta per vedere te.» Si liberò il polso. «Perché questo buio?» Quando cercò di premere l'interruttore, Arkady le scostò la mano. Provò ad aprire la porta e lui la richiuse con il piede. «Non posso crederci, Arkady. Di nuovo. Non sei tornato per me, sei tornato per qualche altra cosa. Mi stai usando di nuovo.» «No.» «Sì, mi hai usato. Chi stai inseguendo?» Arkady tacque. «Chi, questa volta?» chiese Irina. «Max. Rita» rispose. «Boris Benz, tranne che il suo vero nome è Borya Gubenko.» Irina lo respinse. «Pensavo che il giorno in cui ti avevo lasciato fosse stato il giorno peggiore della mia vita. Mi sbagliavo. È questo. Sei tornato indietro e hai rifatto le stesse cose. Ho distrutto la mia vita in questi due giorni.» «Tu...» «Cinque minuti fa ero tua. Sono corsa giù. E cosa vedo? L'investigatore Renko.» «Hanno ammazzato un cambiavalute a Mosca.» «Cosa me ne frega delle leggi sovietiche?» «Hanno assassinato il mio socio.» «Perché dovrei preoccuparmi della polizia sovietica?» «Hanno assassinato Tommy.» «La gente intorno a te viene ammazzata. Max non mi farebbe male. Max mi ama, farebbe qualsiasi cosa per me.» «Ti amo.» Irina lo colpì. Prima con il palmo della mano, con la maggior forza possibile, poi con i pugni. Arkady rimase immobile come un uomo che resiste al vento, con la pistola automatica appesa al braccio. La lasciò scivolare lungo la gamba, sul pavimento. «Voglio vederti in faccia» disse Irina. Trovò l'interruttore e accese. Arkady si rese immediatamente conto che qualcosa non andava dall'espressione scioccata che le vide negli occhi. Al-
zò una mano e sentì il gonfiore che dalla tempia gli arrivava al sopracciglio. Era aumentato da quando era uscito dalla sauna. Irina guardò la camicia di Ali sul pavimento. La schiena era intrisa di sangue, rossa come una bandiera. Sbottonò la camicia che Arkady aveva indossato, gliela tolse e lo fece girare su se stesso. Sentì che le si fermava il respiro. «Hai un taglio.» «Non è profondo.» «Sanguina ancora.» Accesero la luce del bagno. Nello specchio dell'armadietto Arkady vide che il taglio inferto da Ali scendeva dalla scapola destra fino alla vita. Irina cercò di tamponare il sangue, ma l'asciugamano non bastava. Arkady posò la mitraglietta nel lavandino, si spogliò ed entrò nella doccia. Irina aprì l'acqua fredda e ripulì i lembi di quel lungo squarcio rosso. I muscoli gli si contrassero per il freddo, poi si rilassarono sentendo la mano di lei toccargli la schiena. Le dita trovarono la cicatrice sul torace e, come se si trattasse di un ricordo tattile, come se Arkady fosse una mappa con quattro membra, scesero fino al segno sulla gamba e risalirono fino al leggero rilievo al centro dello stomaco. Arkady chiuse l'acqua. Uscì dalla doccia mentre Irina si toglieva la sottana e le mutandine. La sollevò. Lei gli si aggrappò al collo, gli strinse le gambe intorno alla vita e si inarcò per accoglierlo. Si aprì a lui nonostante lo tenesse stretto. La sua bocca era ardente, gli occhi spalancati come se temesse di non vedere. All'esterno erano allacciati, stretti l'uno all'altro; all'interno lui le arrivò al cuore. I loro corpi oscillavano all'unisono, la schiena di Arkady appoggiata alla parete. Irina gridò aspirando convulsamente. Nello specchio Arkady vide la parete macchiata di sangue. Pareva che, insieme, stessero salendo da un buio pozzo verso la luce, reggendosi su due sole gambe che non erano mai state così forti. Irina continuò a tenerlo stretto, passandogli le mani nei capelli. «Arkasha!» Irina si rovesciò all'indietro mentre, dentro di lei, Arkady si avvicinava al cedimento finale. Irina gli si aggrappò, passando ancora la bocca sulle sue labbra, sulla guancia, sull'orecchio, sussurrando con voce rauca fino a quando l'ultima resistenza interna si dissolse. Le gambe di Arkady cedettero e i due scivolarono lentamente in ginocchio sul pavimento. Arkady si rovesciò sulla schiena con Irina sopra, a cavalcioni. Fu un attimo di estrema dolcezza. Irina si sfilò la maglietta dalla testa. Aveva il seno nudo, i capezzoli scuri e gonfi. Arkady avvertì una nuova
erezione. Si riempì la bocca di un seno. I capelli di lei le nascondevano il volto come una cortina. Le lacrime le scendevano sul collo e tra i seni piovendogli addosso, con un sapore misto di sale e tenerezza. E di perdono. Era l'assoluzione da e per se stessa. Quando lei lasciò cadere la testa all'indietro, sotto l'occhio destro Arkady vide una leggera striatura azzurra, la cicatrice di Mosca. Irina lo cavalcava serrando gli occhi come se, lungo la spina dorsale, lui le stesse salendo fino alla gola. Si contorse per passare sotto di lui, allargandosi per accoglierlo ancor più in profondità, le gambe sollevate, come in volo. Lui la fece scivolare sulle mattonelle. Dentro, Irina lo attrasse ancora più in fondo, quasi potessero nascondere i loro corpi, nascondere gli anni perduti, il dolore, quasi potessero salvarsi l'un l'altra. Due persone in una sola pelle. Rimasero distesi sul pavimento del bagno come su un letto, Irina con il capo appoggiato al suo torace. Arkady sentiva i peli che gli si strofinavano contro la coscia, un tenue contatto di fiducia. Cosa importava se i fianchi erano arrossati dal sangue caduto sulle mattonelle? Che aspetto avrebbero avuto Orfeo ed Euridice se fossero emersi intatti dall'inferno? Anche nell'ombra, Irina appariva molto stanca. «Credo che tu ti sbagli. Max non è un assassino, è intelligente. Quando in Russia sono cominciate le riforme, ha detto che in realtà era iniziato il crollo. Si sentiva infelice perché il nostro rapporto non si era sviluppato nel modo che lui sperava. Voleva tornare indietro da eroe.» «Cambiando di nuovo bandiera?» «Facendo soldi. Mi ha detto che la gente di Mosca aveva bisogno di lui più di quanto lui non avesse bisogno di loro.» «Deve aver avuto ragione.» Se avesse avuto torto, Max non sarebbe mai potuto tornare in Germania. «Vuole dimostrare che è più intelligente di te.» «Lo è.» «Oh no, tu sei straordinario. Avevo detto che non ti avrei mai consentito di avvicinarti di nuovo a me, eppure eccomi qui.» «Credi che Max e io possiamo risolvere i nostri malintesi?» «Ti ha aiutato ad arrivare a Monaco, ti ha aiutato ad arrivare a Berlino. Ti aiuterebbe di nuovo, se glielo chiedessi. Aspetta e vedrai.» Sedettero sul pavimento accanto alle finestre del soggiorno tenendo
spente le luci. Erano i classici profughi, pensò Arkady, lui in pantaloni, lei in camicia. Fermata l'emorragia, il taglio sulla schiena sembrava una cerniera lampo. Dove potevano andare? La polizia stava cercando l'assassino di Makhmud e di Ali. Se il loro modo di procedere era identico a quello della milizia, i tedeschi avrebbero diffuso alla radio i suoi connotati, sorvegliato l'aeroporto, le stazioni ferroviarie, allertato ospedali e farmacie. Nel frattempo, gli agenti di Borya e i ceceni si sarebbero messi in caccia per le strade. I ceceni, naturalmente, ne avrebbero approfittato per liberarsi dello stesso Borya. Dopo mezzanotte il traffico era scarso. Arkady era in grado di riconoscere le auto dal rumore prima ancora di vederle passare. Lo scoppiettio asmatico delle Trabi, il ticchettio regolare delle Mercedes diesel. Una Mercedes bianca procedeva lentamente alla velocità di una barca da pesca. «Vuoi darmi una mano?» chiese. «Sì.» «Vestiti e sali al tuo piano.» Gli diede il numero di telefono di Peter. «Alla persona che risponde spiega dove siamo, poi rimani lì finché non ti raggiungo.» «Perché non saliamo insieme? Puoi telefonare tu.» «Sarò da te fra un minuto. Continua a telefonare finché non risponde. A volte non lo fa subito.» Irina non stette a discutere. Indossò la sottana e a piedi nudi uscì nel corridoio. Il breve lampo di luce fu accecante. In strada, la Mercedes bianca ripassò davanti all'edificio. Arkady udì la nota d'organo della Daimler prima di vederla avvicinarsi dalla direzione opposta. Max e Borya dovevano proteggersi reciprocamente dai ceceni, oltre che dar la caccia lui. Sarebbe stato Max a salire, ma Irina aveva ragione: non le avrebbe fatto del male. Le due auto si incrociarono di fronte al palazzo e proseguirono. Di lì a qualche anno, una volta chiusi tutti i cantieri, Friedrichstrasse avrebbe pulsato come una vera e propria arteria, con grandi magazzini, fastfood e bar dove si sarebbe servito caffè espresso. Arkady aveva la sensazione di fare la guardia al cimitero della vecchia Berlino Est. Le due automobili si ripresentarono. Dovevano aver fatto il giro dell'isolato. La Mercedes parcheggiò sul lato lontano della strada. La Daimler svoltò nel garage del palazzo. In un appartamento non arredato non c'era modo di proteggersi. Arkady
posò la borsa davanti alla porta: chiunque l'avesse aperta, come prima cosa sarebbe stato costretto a concentrare l'attenzione su di essa. Si distese sul pavimento vicino alla parete di fronte alla porta per offrire un bersaglio minimo. Dal pavimento gli giunse il rumore dell'ascensore. Dubitava che Max fosse solo. La pistola automatica era dotata di un calcio pieghevole che Arkady estrasse e appoggiò alla spalla. Portò la leva di sicurezza sul fuoco automatico e dispose davanti a sé gli altri tre caricatori, come se fossero carte. La luce del corridoio incorniciava il rettangolo nero della porta, che sembrava vibrare. L'ascensore si arrestò. Arkady udì le porte aprirsi scivolando, fermarsi un istante, poi richiudersi. L'ascensore salì al sesto piano. Bussarono. Irina scivolò dentro chiudendo la porta alle sue spalle. Gli occhi cercarono Arkady. «Lo sapevo che non saresti salito.» «Hai telefonato?» «Ha risposto la segreteria. Ho lasciato un messaggio.» «Hai mancato Max» disse Arkady. «Sta salendo in questo momento.» «Lo so. Ho usato le scale. Non cercare di farmi andar via senza di te. L'ho già fatto una volta. È stato il mio errore.» Arkady non staccava gli occhi dalla porta. Vedendo che Irina era scomparsa, si disse, Max sarebbe rimasto momentaneamente confuso. L'ascensore rimase dieci minuti al sesto piano, più di quanto avesse senso, a meno che Max non stesse scendendo in silenzio per le scale. Ma quando l'ascensore ripartì, proseguì fino al garage; e qualche secondo dopo, Irina disse di aver visto la Daimler andarsene, seguita dalla Mercedes. 35 «Mi sono sempre immaginata la donna con cui stavi» disse Irina. «Chissà perché la vedevo molto giovane. Piccola e bruna, intelligente, appassionata. Pensavo ai posti dove sareste andati a passeggiare, alle cose che vi sareste detti. Quando volevo torturarmi, immaginavo un giorno alla spiaggia: teli, sabbia, occhiali da sole e rumore delle onde. Lei accende una radio a onde corte cercando della musica romantica e invece sente me. Si ferma, perché dopotutto è una stazione russa. Poi sposta la sintonia e tu la lasci fare, non dici una parola. Così mi sono immaginata la mia vendetta. Lei fa un viaggio in Germania. Per coincidenza, siamo nello stesso scompartimento del treno; visto che il viaggio è lungo chiacchieriamo e naturalmente io scopro chi è lei. Di solito finiamo su un pianoro ghiacciato sul-
le Alpi. È una brava donna. Ma io la spingo giù perché ha preso il mio posto.» «Ammazzi lei, non me?» «Sono pazza di rabbia, non pazza del tutto.» Dal pavimento dell'appartamento, i rumori della strada sembravano quelli della risacca. Sul soffitto si muovevano i riflessi dei fari delle macchine. Arkady vide un'auto parcheggiare in Friedrichstrasse, a un isolato verso nord. Non riusciva a scorgere la marca, ma vedeva che nessuno era sceso. Una seconda macchina parcheggiò un isolato più a sud. Le ore passavano. Le parlò di Rudy e di Jaak, di Max e di Rodionov, di Borya e di Rita. Ricordò la passeggiata con Feldman, il professore di storia dell'arte che descriveva la Mosca rivoluzionaria di un tempo. «Le piazze saranno le nostre tavolozze!» Noi stessi siamo tavolozze, pensò Arkady. Possibilità. In Borya Gubenko si celava un Boris Benz. In una prostituta dell'Intourist di nome Rita era nascosta una gallerista berlinese che si chiamava Margarita Benz. «La domanda è cosa potremo essere?» disse Irina. «Se ne usciamo vivi. Russi? Tedeschi? Americani?» «Tutto quello che vuoi. Sarò malleabile.» «Malleabile non è l'aggettivo che ho in mente quando penso a te.» «Posso fare l'americano. Imparerò a fischiare e a masticare chewinggum.» «Una volta volevi vivere come gli indiani.» «Per quello è ormai troppo tardi, ma posso vivere come un cow-boy.» «Lazo e corse a cavallo?» «Guidare il bestiame. Oppure rimanere qui. Guidare sull'autobahn, fare ascensioni sulle Alpi.» «Essere tedeschi? È più facile.» «Più facile?» «Non puoi fare l'americano se non smetti di fumare.» «Posso fare anche quello» disse Arkady, ma accese un'altra sigaretta. Esalò e osservò il fumo. Spense la sigaretta sul pavimento. Posò un dito sulle labbra e le fece cenno di spostarsi. Gli ci era voluto un attimo per rendersi conto che il cambiamento di direzione del fumo era dovuto all'aria che penetrava da
sotto la porta. Le trombe delle scale aspirano l'aria, ma non se ne sarebbe accorto se non fosse stato disteso. Posò l'orecchio sul pavimento. Ecco, poteva davvero vivere come un indiano. Udì un ticchettio di scarpe lungo il corridoio. Irina era in piedi contro la parete. Non cercava né di nascondersi, né di farsi piccola. Intorno alla borsa Arkady vide la luce che filtrava da sotto la porta, simile a una barra bianca che si stemperava a un estremo. Premette lo stomaco sul pavimento. Se si fosse appiattito ancora un po' sarebbe potuto scivolare sotto la porta. Lanciò un'occhiata a Irina. Gli occhi di lei lo seguivano come mani che cercano di trattenere. La porta si spalancò. La luce invase il locale e una sagoma familiare superò la soglia. «In questo modo ti potresti fare ammazzare, Peter» disse Arkady. Peter Schiller scostò la borsa con un calcio. «Che cos'è, un poligono di tiro?» «Stavamo aspettando altri ospiti.» «Lo vedo.» Peter notò Irina, che gli restituì lo sguardo senza la minima timidezza. «Renko, i russi stanno imperversando a Berlino. Abbiamo due mafiosi morti all'Europa Center, fatti a pezzi da qualcuno che somiglia a te. Cosa ti è successo alla schiena?» «Sono scivolato.» Arkady si alzò e chiuse la porta. «Arkady è stato con me» disse Irina. «Per quanto?» chiese Peter. «Tutto il giorno.» «Balle» replicò Peter. «Questa è una guerra tra bande. Benz ha rapporti con una di esse. Sto imparando molte cose sull'Unione Sovietica, ma mi sembra solo un'eterna guerra di bande.» «In un certo senso» concesse Arkady. «Oggi pomeriggio hai detto che non conoscevi questa donna. E stasera è la tua testimone.» Peter si aggirò per la stanza. La taglia e il vigore erano quelli di un Borya, ma era più wagneriano, pensò Arkady. Un Lohengrin finito nell'opera sbagliata. «Dov'è Benz?» chiese Arkady. «Filato» disse Peter. «Ha preso un aereo per Mosca un'ora fa.» Non era un brutto momento per andarsene da Berlino. Forse Borya stava addirittura abbandonando la sua seconda identità, pensò Arkady. Dopo
questa storia, Boris Benz sarebbe potuto sparire per sempre. L'eliminazione di Makhmud era di certo un successo più importante che i risultati dell'attività della Fantasy Tours in Germania. Ma Arkady era ugualmente sorpreso: Borya non era il tipo che si accontentava. «Benz ha preso l'aereo con Max Albov» li informò Peter. «Se ne sono andati tutti e due.» «Max stava venendo qui» disse Irina. Arkady ricordò che l'ascensore si era fermato al suo piano prima di proseguire fino al sesto. Max doveva aver fatto le valigie. «Perché dovrebbe essersene andato a Mosca?» «Hanno preso un volo charter» spiegò Peter. «E come hanno fatto a prendere un charter di sera, all'ultimo minuto?» «C'erano un sacco di posti liberi all'ultimo minuto» rispose Peter. «Come mai?» Peter guardò sia Arkady che Irina. «Non avete sentito? Non avete la radio o la televisione? Dovete essere egli unici al mondo che non lo sanno. C'è stato un colpo di stato a Mosca.» Irina scoppiò in una risatina sommessa. «È successo, alla fine.» «Chi ha preso il potere?» chiese Arkady. «Un cosiddetto Comitato di Emergenza. È entrato in azione l'esercito. È tutto quello che si sa.» Un colpo di stato era la catastrofe prevista, la somma da lungo attesa dei timori russi, la notte di Mosca che seguiva il giorno. Eppure Arkady fu stupito del suo stesso stupore. Anche Max e Borya erano stati evidentemente presi di sorpresa. «Con tutta quella confusione, perché Max dovrebbe tornare in Russia?» «Non importa, basta che non vengano qui» disse Irina. «Dunque questa non ti serve più.» Peter prese la mitraglietta di Arkady, raccolse i caricatori dal pavimento e se li infilò nella cintura. «Siamo salvi» disse Irina. «Per niente.» Con la pistola Peter fece loro cenno di spostarsi in un angolo. Arkady aveva messo la sicura, Peter la tolse. La stanza era sempre al buio. Contro la debole luce delle finestre, Peter li vedeva meglio di quanto loro non vedessero lui, ma Arkady notò che faceva loro segno di non muoversi. Nel corridoio, la porta dell'ascensore si aprì. Irina strinse la mano di Arkady. Peter fece loro segno di distendersi, poi si voltò e sparò attraverso la parete. La Skorpion non era un'arma particolarmente rumorosa, sebbene i
proiettili da 7,62 mm bucassero la parete come carta. Peter camminò lungo il muro, sparando all'altezza della vita e ricaricando senza fermarsi. Un paio di colpi fecero sprizzare scintille dai chiodi e dall'armatura del cemento. Dal corridoio esterno risposero grida di rabbia e confusione. Peter sparò il secondo caricatore tenendosi all'altezza delle ginocchia. Qualcuno nel corridoio finalmente capì quel che stava succedendo e rispose al fuoco. Un pezzo di muro dalle dimensioni di un piattino esplose nella stanza. Peter lo usò come bersaglio. Voltò le spalle al muro, fece uscire il caricatore vuoto e inserì l'ultimo. Sulla parete si aprì un arco di fori. Peter si avvicinò al punto più elevato dell'arco, mirò basso e sparò, circondato da lampi di luce. Si spostò di lato e rispose un unico colpo, poi riprese posizione, infilò la canna nel buco e lo allargò con altri quattro colpi. Passò da automatico a manuale e ascoltò se da fuori provenissero lamenti, poi tirò un colpo attraverso il muro, all'altezza dei piedi. Rimise la pistola sull'automatico e terminò il caricatore con una raffica. In dieci secondi Peter aveva sparato ottanta colpi. Dirigendosi verso la porta, lasciò cadere la Skorpion e allungò una mano verso la fondina che portava sulla schiena, nel caso dovesse usare la sua pistola. Non fu necessario. Nel corridoio erano distesi quattro ceceni. Coperti di sangue e di intonaco, sembravano le vittime di un crollo. Peter li esaminò uno a uno, puntando per prudenza la pistola contro la testa e controllando la carotide. Anche un paio di ceceni avevano una Skorpion, ma non gli era servita a nulla. Arkady riconobbe l'amico di Ali che aveva visto nel caffè vicino al Muro. Fissava il soffitto attraverso uno strato di polvere. Non vide Beno. «Quando sono arrivato erano parcheggiati fuori» disse Peter. «Due per macchina.» «Grazie» disse Arkady. «Bitte.» Peter assaporò la parola, come un boccone di soddisfazione. La gente non si rende ben conto di cosa è successo quando si sveglia al suono di un'arma automatica. In una zona della città piena di cantieri edili, la prima reazione è l'indignazione borghese per il fatto che qualcuno sta infrangendo la legge e pianta un chiodo prima dell'alba. Guardando in strada, Arkady scorse le luci azzurre delle auto della polizia arrivare dal fondo di Friedrichstrasse, avvicinandosi senza sirene, dato che era notte fonda. Seguendo Peter, lui e Irina girarono l'angolo diretti verso l'automobile. Appena partito, Peter accese la radio di polizia.
Gli agenti che avevano risposto alla chiamata dovevano individuare la casa e far passare quattro piani prima di trovare i cadaveri. Nel palazzo non c'erano testimoni. Arkady sapeva che forse qualcuno, da un appartamento sul lato opposto della strada, li aveva visti uscire, ma cosa avrebbe potuto descrivere se non che si trattava di due uomini e una donna, a centinaia di metri di distanza, di sghembo e al buio? «Per quanto riguarda le impronte digitali e quelle delle scarpe non possiamo fare nulla» disse Peter. «Sono dappertutto, ma sarà difficile sapere di chi sono. La tua amica dice che qui in Germania non ha precedenti penali, e nessuno ha le tue impronte.» «E tu?» «Ho pulito l'automatica e i caricatori. Non ho usato la mia pistola.» «Non è quello che intendevo. E tu?» Per qualche istante Peter continuò a guidare in silenzio. «Ogni volta che un poliziotto usa un'arma viene svolta un'indagine» rispose infine. «Non voglio stare a spiegare perché ho sparato a quattro uomini che non avevo identificato e avvertito secondo le regole. Attraverso una parete? Potevano benissimo essere quattro persone che chiedevano informazioni, o che facevano una colletta per Greenpeace.» Peter aveva le dita sporche di polvere. Se le pulì sulla camicia. «E non voglio necessariamente spiegare come mai stavo aiutando mio nonno. Questa è una guerra tra bande russe. Non ho nessuna intenzione che si trasformi in uno scandalo pubblico e che lo coinvolga.» «Se riescono ad arrivare a me, Federov sa il tuo nome» fece notare Arkady. «Con il colpo di stato credo che il consolato di Monaco abbia ben altro a cui pensare.» Sulla frequenza della polizia, uno smistatore ordinò delle ambulanze per Friedrichstrasse. Il tono di urgenza contrastava con la calma del Tiergarten, con le masse tondeggianti sotto le stelle del mattino. «Mi hai raccontato balle fin dall'inizio» disse Peter. «Ma devo ammettere che sono riuscito a scoprire di più con le tue balle, che con quelle che avevo sentito prima. Mi chiedo cos'hai in testa. Aspetto ancora la verità.» «Se andiamo a Savigny Platz, forse riuscirò a fartela vedere» rispose Arkady. Seduto su una panchina in un recesso della siepe, Arkady sentì la schiena contrarsi. Aveva bisogno di un'aspirina o di nicotina, ma non aveva pil-
lole e non voleva che si vedesse la brace della sigaretta: le siepi intorno a lui erano ancora buie e il cielo cominciava lentamente a diventare grigio. Dalla panchina non vedeva Irina e Peter, che aveva parcheggiato a un isolato di distanza. Poteva però vedere le luci della galleria che sembravano essere rimaste accese tutta la notte. A Mosca, sotto lo stesso tetto di nuvole, i carri armati percorrevano le strade. Era un putsch militare? Oppure il Partito reclamava il suo ruolo di avanguardia del popolo? L'operazione di salvezza nazionale era in pieno corso? Proprio come, nel passato, il Partito aveva protetto Praga, Budapest e Berlino Est. Per lo meno si sarebbe dovuto sentire il rombo di un tuono lontano. Eccettuata Friedrichstrasse, i tedeschi parevano aver dormito sodo tutta la notte. La televisione tedesca aveva chiuso gli occhi all'ora consueta. Arkady immaginò che chi aveva pianificato il colpo avrebbe, come minimo, incarcerato un migliaio dei principali riformatori, preso il controllo della televisione e della radio, chiuso gli aeroporti e tagliato le linee telefoniche. Non aveva il minimo dubbio che il procuratore Rodionov avrebbe deplorato la necessità del colpo, ma come ogni russo sapeva, è meglio portare a termine rapidamente le operazioni sgradevoli. Quel che Arkady non capiva era come mai Max e Gubenko fossero accorsi. Come poteva atterrare un volo internazionale se gli aeroporti erano chiusi? Sarebbe stato il momento buono per ascoltare Radio Liberty. Si chiese cosa ne avrebbe detto Stas. Scese una leggera pioggerella. Quindi il trapestio di uccelli invisibili nelle siepi, come se volessero liberarsi dell'eccesso di energia nelle ali. Sopra le siepi si accesero le finestre dei più mattinieri, si alzò la marea del traffico e si fece sentire il lento girovagare dei camion della nettezza urbana. Dall'altra parte della siepe giunse il ritmo regolare di un paio di tacchi alti. Apparve Rita. Indossava un impermeabile e un cappello rosso e camminava di buon passo tra le aiuole quadrate che formavano la piazza, tenendo la mano destra in tasca. Arkady l'aveva vista firmare il conto del ristorante e sapeva che non era mancina. La vide aprire la porta del piano terra. Con la mano sempre in tasca, Rita si guardò alle spalle prima di entrare. Dieci minuti dopo uscì una guardia armata che sbadigliò, si stiracchiò e a passi stanchi puntò nella direzione da dove Rita era venuta. Passarono altri dieci minuti e le luci della galleria si spensero. Rita riapparve, chiuse a chiave la porta e puntò nella stessa direzione. Nella sinistra
reggeva i manici di una borsa di tela. Arkady la raggiunse in mezzo alla piazza e la affiancò dalla parte della borsa. «Non è questo il modo di trattare un quadro da cinque milioni di dollari» disse. Sorpresa, Rita si fermò. Arkady apprezzò la sincerità della sua prima reazione, che era di rabbia. Il contenuto della borsa era avvolto in plastica. «Spero che sia impermeabile» disse. Rita riprese a camminare e Arkady afferrò un manico della borsa. «Urlo, chiamo la polizia» minacciò lei. «Grida pure. Credo che la vita dei poliziotti tedeschi sia incredibilmente noiosa, o perlomeno lo sarebbe senza i russi. Alla polizia piacerebbe moltissimo sentire la storia di te e di Rudy Rosen, ma forse i particolari non gioverebbero ai tuoi affari. Così, Max e Borya ti hanno abbandonata?» Arkady rimase ammirato dalla sua flessibilità. Era abituata a trattare con gli uomini. Il viso assunse un'espressione più dolce, più disponibile. «Non ho intenzione di stare qui ad aspettare che arrivino i ceceni.» Gli rivolse un sorriso neutro. «Possiamo toglierci da sotto la pioggia per parlare?» Arkady pensava di andare sotto un albero, ma Rita lo portò sul lato opposto della via, verso alcuni tavoli riparati da un patio. Era il ristorante del nastro, e Rita puntò verso il tavolo dove aveva alzato il bicchiere per dire «Ti amo.» L'interno del ristorante era buio. Patio e piazza erano a loro esclusiva disposizione. Malgrado l'ora, il trucco di Rita era una maschera feroce ed esotica. L'impermeabile rosso si accoppiava bene con le sue labbra. Arkady glielo aprì. «Perché l'hai fatto?» chiese Rita. «Diciamo che sei una bella donna.» Sedettero, ognuno con una mano sulla borsa sotto il tavolo. Aprendo l'impermeabile, le tasche si piegarono verso terra, fuori dalla portata delle mani. «Ricordi una ragazza russa che si chiamava Rita?» chiese Arkady. «La ricordo bene» rispose Rita. «Una ragazza che lavorava sodo. Una cosa che ha imparato è che con la milizia si poteva sempre trattare.» «E Borya.» «Quelli del Laghetto Lungo proteggevano le ragazze dell'hotel. Borya era un amico.» «Ma per far soldi davvero, Rita doveva andarsene dalla Russia. Ha sposato un ebreo.»
«Non è un reato.» «Non ci sei poi andata, in Israele.» Margarita sollevò una mano per mostrare le unghie lunghe. «Le vedi queste a costruire un kibbutz nel deserto?» «E Borya ti è venuto dietro.» «Borya mi ha fatto una proposta più che lecita. Aveva bisogno di qualcuno che lo aiutasse a reclutare ragazze disposte ad andare a lavorare in Germania e che le tenesse d'occhio una volta che erano qui. Io avevo esperienza.» «Ma non è tutto. Borya si è procurato dei documenti falsi e ha creato Boris Benz, per la ricerca di un socio straniero a Mosca. In questo modo poteva essere l'uno e l'altro. Quando hai sposato Boris Benz, hai potuto stare qui.» «Tra me e Borya c'è una relazione speciale.» «E se chiamava la persona sbagliata potevi recitare la parte della cameriera, dicendo che Herr Benz era in vacanza in Spagna.» «Una brava puttana sa fingere bene.» «Credi che l'identità Boris Benz sia stata una buona idea? Era un punto debole. Troppe cose dipendevano da quello.» «Ha funzionato bene fino a quando non sei arrivato tu.» Arkady guardò i tavoli vuoti senza mollare la presa sulla borsa. «È qui che hai girato la videocassetta che hai spedito a Rudy. Come mai?» «Come identificazione. Rudy e io non ci eravamo mai incontrati. Non volevo dargli un nome.» «Non era una cattiva persona.» «Stava aiutando te. Quando Rodionov ce lo fece sapere, si trattò solo di trovare il modo migliore per sbarazzarsene. Era al corrente del quadro. Gli abbiamo fatto credere che se lo avesse fatto autenticare l'avrebbe potuto vendere direttamente. Gli ho dato un quadro leggermente diverso. Borya aveva detto che se ci fosse stata un'esplosione sufficientemente forte avremmo eliminato Rudy e dato a Rodionov la scusa per spazzare via i ceceni, tutto in un colpo solo.» «Credevi che a un certo punto Borya si sarebbe fermato qui e sarebbe diventato definitivamente Boris Benz?» «Tu dove preferiresti stare, a Mosca o a Berlino?» «Allora quando nel nastro dicevi "Ti amo", lo dicevi a Borya.» «Eravamo felici, qui.» «E tu per Borya eri disposta a fare cose che sua moglie non avrebbe mai
fatto, come andare a Mosca e consegnare una bomba incendiaria a Rudy. Mi ero chiesto come mai una turista evidentemente benestante come te avesse scelto di stare in un posto scalcinato e fuori mano come il Soyuz Hotel. La risposta è che era il più vicino al mercato nero e quindi permetteva di fare il percorso più breve con una bomba incendiaria senza timer. Hai avuto molto coraggio ad affrontare il rischio di saltare in aria anche tu. Questo è amore.» Rita si inumidì le labbra. «Sei così bravo a fare domande. Posso fartene una io?» «Avanti.» «Perché non fai domande sul conto di Irina?» «Che tipo di domande?» Rita si chinò in avanti come se stesse sussurrando in mezzo a una folla di gente. «Che cosa ne ha cavato Irina. Credi che Max le pagasse i vestiti e tutti gli altri regalini solo perché aveva una bella conversazione? Prova a chiederti che cosa era disposta a fare per lui.» Arkady sentì un'onda di calore diffondersi sulla pelle. «Sono stati insieme per anni» disse Rita. «Praticamente sposati, come me e Borya. Non so cosa ti racconti Irina. Sto solo dicendo che quel che sta facendo a te l'ha fatto a lui. Qualunque donna l'avrebbe fatto.» Arkady si sentiva ardere le orecchie. «Cosa stai cercando di dire?» Rita piegò il capo da un lato, in un gesto di comprensione. «Sembra che non ti abbia detto tutto. Per tutta la vita ho incontrato uomini come te. Ci deve essere una che è una dea mentre tutte le altre sono puttane. Irina andava a letto con Max. Lui si vantava di quel che lei gli faceva.» Lo invitò a farsi più vicino e abbassò ulteriormente la voce. «Se vuoi, te lo racconto, così puoi fare dei confronti.» Non appena sentì allentarsi la tensione sul manico, Arkady sollevò la borsa di tela. «Se spari adesso fai un buco nel quadro. Non credo che sia assicurato contro questo genere di danni» disse. «Stronzo.» Arkady afferrò la rivoltella quando lei la sollevò sul tavolo. Era la 22 di Borya. Le torse il polso e gliela strappò di mano. «Sei un rotto in culo» disse Rita. Borya l'aveva tradita, era scappato a Mosca abbandonandola con quella minuscola pistola. Arkady tolse i proiettili dal caricatore, poi le gettò l'arma scarica in grembo. «Anch'io ti amo» disse.
36 In un negozio di souvenir dell'aeroporto, Arkady acquistò un vassoio e uno scialle di cotone ricamato con i topi di Hamelin. Alla toilette, avvolse il quadro nello scialle e il vassoio nella plastica da imballaggio; infilò il vassoio nella borsa di Rita e tornò da Peter e Irina, in un angolo della sala d'attesa. «Pensate a tutti i quadri e a tutti i manoscritti confiscati ad artisti, scrittori e poeti per settant'anni e nascosti dal Ministero dell'Interno e dal Kgb» disse. «Non è stato buttato via nulla. Magari i poeti ricevevano una pallottola nella nuca, ma le poesie venivano messe in una scatola e sepolte in una cantina. Poi, in un momento magico, quando la Russia entra a far parte del resto del mondo, tutti questi materiali diventano oggetti di valore.» «Ma non possono venderli» obiettò Irina. «Non è possibile esportare legalmente dall'Unione Sovietica opere d'arte che abbiano più di cinquant'anni.» «Però è possibile contrabbandarli» suggerì Peter. «Basta qualche bustarella» riprese Arkady. «Sono stati contrabbandati carri armati, treni e petrolio. Contrabbandare un quadro è relativamente facile.» «Ma anche in questo caso» insistette Irina «la vendita non è valida se si viola la legge russa. Ai collezionisti e ai musei non piace ritrovarsi implicati in dispute internazionali. Rita non avrebbe potuto vendere Red Square se fosse davvero uscito dalla Russia.» «Magari è un falso fatto in Germania» disse Peter. «A Berlino Est c'erano dei falsari fantastici e adesso sono tutti disoccupati. Il quadro è stato esaminato sul serio?» «Sono stati fatti esami completi» rispose Irina. «È stato datato, passato ai raggi X e analizzato. È stata persino individuata l'impronta del pollice di Malevich.» «Tutte cose che si possono falsificare» disse Peter. «Si» ammise Irina «ma con i falsi succede una cosa curiosa. Possono essere i migliori esistenti, realizzati con il legno, le vernici e la tecnica giusti, ma non hanno l'aria dell'originale.» Peter si schiarì la gola. «Sta diventando una faccenda spirituale.» «È come conoscere le persone» disse Irina. «Dopo un po' si distinguono quelle fasulle da quelle vere. Un dipinto è un'idea del pittore e falsificare le
idee è impossibile.» «Quanto hai detto che può valere il quadro?» chiese Peter. «Forse cinque milioni di dollari. Non è molto, qui in Germania» rispose Arkady. «Ma in Russia sono quattrocento milioni di rubli.» «A meno che non sia un falso» sottolineò Peter. «Red Square è autentico, e viene dalla Russia» disse Arkady. «Ma l'hanno trovato in una cassa Knauer» obiettò Irina. «È la cassa ad essere falsa» spiegò Arkady. «La cassa?» Peter si rizzò a sedere. Arkady poteva quasi vederlo rimettere in ordine le idee. «Non avevo pensato a questa possibilità.» «Ricorda» disse Arkady, «Benz non era interessato agli oggetti d'arte rubati da tuo nonno. Ne aveva già uno tutto suo. Era interessato alle casse che tuo nonno aveva costruito... con i falegnami Knauer, se ricordi.» «Ottima intuizione» commentò Peter. «Davvero ottima.» Arkady posò lo scialle sulle ginocchia di Peter. Peter raddrizzò la schiena. «Cosa stai facendo?» «Al momento l'atmosfera culturale di Mosca è un po' burrascosa.» «Non lo voglio.» «Sei l'unica persona a cui posso lasciarlo» dichiarò Arkady. «Come fai a sapere che non vedrai più né me né il quadro?» «C'è una sorta di giustizia nel fare di te un custode dell'arte russa. E a parte questo, è uno scambio.» Arkady diede un lieve colpetto alla tasca della giacca con il passaporto e il visto che Peter gli aveva restituito, e il biglietto che aveva comprato con i soldi di Ali. Non c'era stata la minima difficoltà a trovare un posto sul volo della Lufthansa. Nulla come un colpo di stato militare nel luogo di arrivo era in grado di decimare una lista passeggeri. Quel che Arkady ancora non capiva era come mai i leader del nuovo Comitato di Emergenza consentissero agli aerei di atterrare. Stas scese zoppicando dall'aereo proveniente da Monaco con un registratore e una macchina fotografica. Traboccava di una perversa allegria. «Che spettacolosa idiozia. Il Comitato di Emergenza non ha arrestato nessuno dei leader democratici. Adesso è in una situazione di stallo. A Mosca sono arrivati i carri armati ma non fanno che girare in tondo. Bisogna proprio dirlo: gli standard dell'oppressione non sono più quelli di una volta.» «Come fai a sapere quel che sta succedendo?» chiese Arkady. «La gente ci telefona da Mosca» rispose Stas.
Arkady rimase sconcertato. «Le linee telefoniche funzionano?» «È per questo che parlo di idiozia.» «Michael sa dove stai andando?» «Ha tentato di fermarmi. Ha detto che se ci arrestano è un rischio per la sicurezza ed è imbarazzante per la radio. Dice che Max ha telefonato da Mosca per dire che tutto funziona come al solito e che non è il caso che io mi scaldi troppo.» «Sa che a Mosca ci sta andando anche Irina?» «Non me l'ha chiesto. Non lo sa.» Sebbene l'imbarco fosse già cominciato, Arkady si tuffò in una cabina telefonica. Il messaggio registrato ripeteva continuamente che le linee internazionali erano impegnate. L'unico modo di passare era quello di chiamare e richiamare. Stava per rinunciare quando notò un posto telefonico dotato di fax. Polina gli aveva detto che avrebbe preso il fax di Rudy. Alla scrivania, scrisse il suo numero di telefono e il messaggio "Spero di vederti. Se hai un quadro di zio Rudy, ti dispiace portarlo con te? Guida con molta prudenza." Aggiunse il numero del suo volo e l'ora d'arrivo e firmò "Arkady". Poi chiese un elenco dei numeri fax e scrisse un secondo messaggio a Federov: "Seguito consiglio. Prego informare procuratore Rodionov mio ritorno in data odierna. Renko". L'impiegata spalancò gli occhi come una bambola. «Deve essere ansioso di tornare in patria» disse. «Sono sempre ansioso quando torno in patria» rispose Arkady. Irina gli fece cenno dall'uscita, dove Stas e Peter Schiller si scrutavano a vicenda come due esemplari di specie diverse. Peter afferrò Arkady e lo tirò da parte. «Non puoi lasciarmi con questa roba.» «Mi fido di te.» «La breve esperienza che ho avuto con te mi suggerisce che questa è una maledizione. Che cosa ne devo fare?» «Appendila in un posto con temperatura costante. Donalo, fa' il benefattore anonimo, solo non darlo a tuo nonno. Sai, la storia di Malevich non era falsa. Aveva portato i suoi quadri a Berlino per conservarli al sicuro. Per il momento, fa' quel che ha fatto lui.» «A me pare che l'errore di Malevich sia stato quello di tornare indietro. Cosa succede se Rita telefona a Mosca e dice che tu hai preso il quadro?
Se Albov e Gubenko sanno che stai arrivando, ti aspettano.» «Lo spero. Non sarei in grado di trovarli, per cui devono essere loro a trovare me.» «Forse dovrei venire con te.» «Peter, tu sei troppo bravo. Li faresti scappare dalla paura.» Peter lasciò perdere con riluttanza. «La vita non è tutta auto veloci e armi automatiche» disse Arkady. «Finalmente hai un compito degno di te.» «Ti ammazzeranno all'aeroporto o sulla strada per la città. Le rivoluzioni sono degli enormi regolamenti di conti. Che importanza ha un cadavere in più? Per lo meno qui ti posso sbattere in galera.» «Sembra invitante.» «Possiamo tenerti vivo e far estradare Albov e Gubenko.» «Nessuno è mai riuscito a ottenere un'estradizione dall'Unione Sovietica. E poi chissà quale governo ci sarà al potere domani? Max potrebbe essere il Ministro delle Finanze e Gubenko quello dello Sport. A parte questo, se faranno delle indagini decenti sul conto di Ali e amici, credo che tu sarai contento della mia lontananza.» Un soffice gong elettronico annunciò l'ultima chiamata per l'imbarco. «La Germania precipita ogni volta che spuntano i russi.» «E viceversa» disse Arkady. «Ricorda, c'è sempre una cella che ti aspetta a Monaco.» «Danke.» «Sta' attento.» Quando Peter raggiunse Stas e Irina, Peter rimase a osservare la coda all'imbarco. A metà della scaletta, Arkady riuscì a vedere la testa di Peter sopra la folla, ancora intento al suo ruolo di retroguardia. L'ultima cosa che vide fu Peter che stringeva lo scialle e scivolava via. La borsa di tela stava nello scomparto sopra il sedile. Il posto di Arkady era sul corridoio, Stas accanto alla finestra e Irina in mezzo. Quando decollarono, il volto di Stas assunse un'espressione più ironica del solito. Irina si afferrò al braccio di Arkady. Sembrava esausta, vuota, ma non scontenta. Di sicuro, pensò Arkady, avevano l'aria di profughi talmente confusi da viaggiare nella direzione sbagliata. Diversi passeggeri erano probabilmente giornalisti e fotografi sommersi dai bagagli a mano. Con una rivoluzione in corso, nessuno voleva perdere due ore per farsi riconsegnare le valigie.
«Il Comitato di Emergenza entra in scena dicendo che Gorby è ammalato» disse Stas. «Tre ore dopo, uno dei membri del comitato crolla morto per ipertensione. È un colpo molto strano.» «Voi non avete i visti. Cosa vi fa pensare che vi lasceranno scendere dall'aereo?» chiese Arkady. «Credi che i giornalisti siano a posto con il visto?» replicò Stas. «Irina e io abbiamo il passaporto americano. Vedremo cosa succede una volta arrivati. Questa è la più grossa storia della nostra vita. Come possiamo farcela sfuggire?» «Colpo di stato o meno, sei in un elenco ufficiale di criminali. E lo stesso vale per Irina. Vi potrebbero arrestare.» «Tu stai tornando» disse Stas. «Io sono russo.» La voce di Irina era soffusa, ma il tono era perentorio. «Vogliamo andare.» Sotto di loro si stendeva la Germania. Non le strade diritte e gli appezzamenti di terreno quadrati dell'Occidente ma le stradine più strette, più tortuose e i campi mal coltivati della parte orientale. Irina teneva il capo appoggiato a una spalla di Arkady. La sensazione dei suoi capelli contro la guancia pareva sopraffarlo, come se stesse facendo un breve viaggio in una vita possibile e perduta. Avrebbe voluto che l'aereo non atterrasse mai. Stas discorreva nervoso, come una radio a basso volume. «Storicamente, nelle rivoluzioni si ammazzano quelli ai vertici. E di solito i russi esagerano. I bolscevichi hanno ammazzato la classe dominante, poi Stalin ha ammazzato i bolscevichi. Questa volta, però, l'unica differenza tra il governo di Gorby e quelli del Comitato è che Gorby non c'entra. Avete sentito la dichiarazione del Comitato di Emergenza? Stanno prendendo il potere per proteggere il popolo da - tra le altre cose - "sesso, violenza e manifesta immoralità". Nel frattempo le truppe continuano a entrare a Mosca e la gente prepara barricate per proteggere la Casa Bianca.» La Casa Bianca era il palazzo del parlamento russo lungo il fiume, sull'argine del quartiere Krasnaya Presnya - Presnya Rossa. Era un antico quartiere di Mosca al quale era stato concesso il titolo onorifico "Rosso" per aver costruito barricate contro lo zar. «Questo non fermerà i carri armati» proseguì Stas. «I fatti di Vilnius e Tbilisi erano prove generali. Aspetteranno che scenda la notte. Prima man-
deranno avanti le truppe antisommossa con i lacrimogeni e i cannoni ad acqua per disperdere la folla, poi le truppe del Kgb prenderanno d'assalto il palazzo. Il comandante di Mosca ha stampato trecentomila moduli d'arresto, ma il comitato non vuole usarli. Pensano che quando il popolo vedrà i carri armati se ne andrà da solo.» «Cosa sarebbe successo se Pavlov avesse fatto suonare un campanello e i suoi cani lo avessero ignorato?» chiese Irina. «I cani avrebbero cambiato la storia.» «C'è anche un'altra cosa strana» riprese Stas. «Non mi è mai capitato di vedere tanti giornalisti rimanere sobri così a lungo.» La Polonia si stendeva buia come il fondo di un oceano. I carrelli del cibo bloccavano i corridoi. Il fumo di sigarette circolava insieme alle teorie. L'esercito si stava già muovendo per presentare al mondo il fait accompli. L'esercito avrebbe atteso il buio per attaccare, in modo che ci fossero meno fotografi. Il comitato aveva i generali dalla sua parte, i democratici avevano i veterani dell'Afghanistan. Nessuno sapeva da quale parte si sarebbero messi i giovani ufficiali appena tornati dalla Germania. «A proposito» disse Stas, «in nome del Comitato, il procuratore cittadino Rodionov ha arrestato uomini d'affari e confiscato merci. Non tutti gli uomini d'affari: solo quelli contrari al Comitato.» Quando Arkady chiuse gli occhi, si chiese in che tipo di Mosca stesse per tornare. Era uno di quei rari giorni che offrivano innumerevoli possibilità. «Manco da tantissimo tempo» proseguì Stas. «Ho un fratello che non vedo da vent'anni. Ci telefoniamo una volta all'anno per capodanno. Mi ha telefonato stamattina per dirmi che andava a difendere il palazzo del parlamento. È un ometto grasso con dei bambini. Come farà a fermare un carro?» «Pensi di riuscire a trovarlo?» chiese Arkady. «Mi ha detto di non venire. Riesci a immaginarlo?» Stas rimase a fissare a lungo fuori dal finestrino. Tra le due lastre di plexiglas il vapore si era condensato in minuscole sfere d'acqua. «Ha detto che avrebbe indossato un berretto da sci rosso.» «Che cosa sta facendo Rikki?» «Rikki è andato in Georgia. Ha messo mamma, figlia, tv e videoregistratore nella sua Bmw nuova e via. Sapevo che l'avrebbe fatto. È un uomo adorabile.»
Più si avvicinavano a Mosca, più Irina assomigliava alla ragazza che l'aveva lasciata, come una persona che ritorna verso un fuoco mostrando una particolare luce interna. Come se il resto del mondo fosse un limbo buio. Come se tornasse con rabbia. Arkady pensò che avrebbe potuto farsi trascinare da lei e seguirla. Volentieri, dopo aver fatto i conti con Borya e con Max. Quanto c'era di privato, in quel desiderio, per compensare almeno in parte le morti di Rudy, di Tommy e di Jaak? E morti a parte, fino a che punto lo faceva per Irina? Risolvere la questione con Max non avrebbe cancellato gli anni in cui lei era stata con lui. Avrebbe potuto chiamarli anni da profuga. Ma vista dall'alto la Russia era una nazione di profughi, dentro e fuori. Tutti erano compromessi in un modo o nell'altro. C'era tanta confusione nella storia della Russia che quando giungevano i rari momenti di chiarezza tutti si precipitavano ad assistere all'evento. In ogni caso, Max e Borya sarebbero stati con ogni probabilità gli esemplari della nuova epoca. Più di lui. Quando entrarono nello spazio aereo sovietico Arkady pensò all'eventualità che l'aereo ricevesse l'ordine di tornare indietro. Avvicinandosi a Mosca, si aspettava di atterrare in una base militare, dove li avrebbero riforniti e rispediti indietro. Quando si accese l'avviso di allacciare le cinture tutti spensero in un attimo le sigarette. Dal finestrino si scorgevano i boschi bassi e familiari, le linee ad alta tensione e i campi verde grigio che portavano a Sheremetyevo. Stas tratteneva il respiro come se si stesse tuffando. Irina strinse la mano di Arkady, quasi fosse lei a riportarlo in patria. Parte quarta MOSCA 21 agosto 1991 37 L'arrivo a Mosca non era mai un sentiero cosparso di petali di rosa, ma quel mattino anche il normale squallore pareva accentuato. Dopo le luci dell'Occidente, l'area bagagli sembrava scura e cavernosa. Arkady si chiese se ci fosse sempre stato un tale intorpidimento nei volti della gente, un'e-
spressione così chiusa negli sguardi. Michael Healey attendeva alla dogana con un colonnello della polizia di frontiera. Il vicedirettore di Radio Liberty indossava un trench e osservava i passeggeri da dietro un paio di occhiali scuri. Il personale della polizia di frontiera faceva parte del Kgb; indossavano divisa verde con bordure rosse e avevano un volto atteggiato a un'espressione di perpetuo sospetto. «Quella merda deve aver preso il volo diretto da Monaco. Maledizione» mormorò Stas. «Non ci può toccare» disse Irina. «Sì che può» ammise Stas. «Una sola parola e il meglio che ci può capitare è essere rimessi sull'aereo.» «Non lascerò che vi rimandi indietro» promise Arkady. «Che cosa intendi fare?» chiese Stas. «Lascia che gli parli. Mettetevi in coda.» Stas esitò. «Se riusciamo a passare, c'è un auto che ci aspetta per portarci alla Casa Bianca.» «Ci troviamo là» disse Arkady. «Promesso?» chiese Irina. In questo ambiente il russo di Irina sembrava diverso, più morbido e più ricco di dimensioni. Ecco perché una bella icona ha una cornice semplice. «Ci sarò.» Arkady si diresse verso Michael, che lo osservò avvicinarsi come un uomo soddisfatto nel constatare che la gravità lavora a suo favore. Il colonnello sembrava puntare a bersagli più prosperosi; ad Arkady concesse solo un'occhiata distratta. «Renko» disse Michael. «Bello tornare a casa? Temo però che Stas e Irina non potranno rimanere. Ho già i biglietti del loro volo di ritorno per Monaco.» «Sarebbe capace di denunciarli?» chiese Arkady. «Ignorano gli ordini. La radio li ha pagati, gli ha dato da mangiare, gli ha trovato una casa: abbiamo diritto di ricevere in cambio un minimo di lealtà. Mi limiterò a dire in tutta chiarezza al colonnello che Radio Liberty rifiuta qualsiasi responsabilità. Non sono assegnati a questo servizio.» «Vogliono essere qui.» «Allora ci stanno per conto loro e corrono i loro rischi.» «Sarà lei a fare il servizio?» «Non sono giornalista, ma sono dell'ambiente, posso dare una mano.» «Conosce Mosca?»
«Ci sono già stato.» «Dov'è Red Square?» chiese Arkady. «Tutti sanno dov'è la Piazza Rossa.» «Non credo, e rimarrebbe stupito anche lei nello scoprirlo» replicò Arkady. «Solo due settimane fa un uomo qui a Mosca ha ricevuto un fax. Chiedeva: "Dov'è Red Square?"». Michael scrollò le spalle. Davanti a Stas e a Irina, i fotografi carichi di attrezzature e di bagagli a mano avanzavano tra rumori metallici. Stas infilò qualche banconota da cinquanta marchi nel proprio passaporto e in quello di Irina. «Il fax veniva da Monaco» proseguì Arkady. «Più precisamente da Radio Liberty.» «Ne abbiamo tanti, di fax» ribatté Michael. «Quello proveniva dalla macchina di Ludmilla. È stato inviato a uno speculatore del mercato nero che per caso era morto. Sono stato io a riceverlo. Era scritto in cirillico.» «Immagino, dato che la cosa riguardava due russi.» «È stato quello che mi ha messo fuori strada» disse Arkady. «Pensare che, essendo tra due russi, riguardasse la Piazza Rossa.» Michael sembrava aver trovato qualcosa in bocca da masticare. Gli occhiali scuri continuavano a garantirgli un'espressione imperscrutabile, ma la mascella pareva molto occupata. «Ma proprio quando uno meno se lo aspetta i russi sanno essere precisi» proseguì Arkady. «In inglese la parola "square" indica sia una piazza, luogo fisico, che un quadrato, figura geometrica; mentre in russo la figura geometrica è "quadrai". In inglese, Malevich ha dipinto Red Square, in russo ha dipinto Krassny Quadrat. Ho capito il significato del messaggio solo dopo aver visto il quadro.» «Dove vuole arrivare?» «"Dov'è Piazza Rossa, luogo fisico?" non ha senso. "Dov'è Red Square, il dipinto?" invece sì, se è una domanda fatta a una persona convinta di avere il quadro da vendere. Ludmilla non avrebbe potuto usare la parola sbagliata, e come lei nessun russo. L'ufficio di Ludmilla è accanto al suo, se ricordo bene. È la sua assistente. Come se la cava con il russo, Michael?» I siberiani hanno l'abitudine di ammazzare i conigli di notte servendosi di torce e bastoni. I conigli rimangono immobili a fissare con gli occhi il raggio di luce fino a quando cala la bastonata. Anche attraverso gli occhia-
li, Michael aveva l'attenzione ipnotizzata di un coniglio. «Tutto questo» disse «dimostra che chi ha spedito il fax era convinto che il destinatario fosse vivo.» «Assolutamente» consentì Arkady. «Dimostra anche che cercava di trattare con Rudy. È stato Max a metterla in contatto con Rudy?» «Non c'è niente di illegale nell'inviare un fax.» «No, ma nel suo primo messaggio chiedeva a Rudy una percentuale. Stava tentando di tagliar fuori Max.» «Non dimostra nulla» protestò Michael. «Questo lo lasceremo decidere a Max. Gli farò vedere il fax. Con il numero di Ludmilla.» La coda al controllo passaporti riprese a scivolare in avanti. Stas Kolotov, criminale di stato, fissò direttamente il funzionario dall'altra parte del vetro, il quale confrontò occhi, orecchie, attaccatura dei capelli e altezza con i dati del passaporto e poi fece scorrere le pagine. «Lo sa cosa è successo a Rudy» continuò Arkady. «Non che in Germania sarebbe più al sicuro. Basta pensare a quel che è successo a Tommy.» Stas si vide restituire il passaporto. Irina fece passare il suo attraverso la fessura con un tale sguardo di sfida da invitare all'arresto. Il funzionario non se ne accorse. Dopo un'occhiata professionale restituì il passaporto e la coda avanzò. «Michael, non mi pare che sia il momento di richiamare l'attenzione su di lei» riprese Arkady. «È il momento di domandarsi: Cosa posso fare per Renko, per evitare che lo dica a Max?» Malgrado le sollecitazioni di Stas, Irina si fermò in fondo ai banchi del controllo passaporti. Arkady pronunciò con le labbra la parola "Vai" e insieme a Michael rimase a guardare Stas precederla verso l'uscita. Ma Michael aveva qualcosa da dire. «Congratulazioni. Adesso che è riuscito a farla entrare, probabilmente la ammazzeranno. Ricordi solo una cosa, è stato lei a riportarla qui.» «Lo so.» Una troupe televisiva tedesca stava negoziando il prezzo per l'ingresso di una telecamera. Il Comitato di Emergenza, li informò un colonnello, quella stessa mattina aveva proibito la trasmissione di immagini video da parte di giornalisti stranieri. Il colonnello accettò un deposito informale di cento marchi a garanzia del fatto che la troupe non avrebbe violato le leggi del Comitato. Le altre troupe furono costrette a trovare accordi finanziari e poi correre alle rispettive macchine. Il passaporto sovietico di Arkady si rivelò
una delusione: non aveva valore commerciale. Il funzionario della dogana lo fece passare con un muto cenno da cassiere. Una porta a due battenti si apriva sulla sala d'attesa e su una barriera di famiglie commosse, con mazzi di fiori avvolti nel cellofan. Arkady controllò che non vi fossero uomini con gli occhi asciutti e borse sportive pesanti. Poiché i metal detector di Sheremetyevo venivano azionati con grande irregolarità, gli unici ad offrire la garanzia di non essere armati e senza protezione erano i passeggeri in arrivo. Strinse la borsa di tela al petto sperando che fosse già arrivata la telefonata di Rita con la notizia che il quadro era nelle sue mani. Arkady riconobbe una figuretta in impermeabile, seduta da sola in una fila di sedie in mezzo alla sala d'attesa. Polina stava leggendo il giornale... dall'aspetto sembrava la "Pravda". Non era difficile indovinarlo, ammise, visto che molti dei giornali erano stati banditi il giorno prima. Si fermò per accendere una sigaretta vicino ai tabelloni dei voli. Stupefacente. Ecco un'intera nazione che poteva continuare i propri affari senza smettere di tenere gli occhi bassi. Forse la storia era solo un microscopio. Quante erano le persone che in realtà avevano assalito il Palazzo d'Inverno? Tutti gli altri cercavano pane, o un po' di calore; o si ubriacavano. Polina scostò i capelli dagli occhi per lanciargli un'occhiata tagliente, lasciò cadere il giornale e uscì a passo di marcia. Attraverso la vetrata, Arkady la vide raggiungere un amico su uno scooter fermo accanto al marciapiedi. L'uomo si accorse del suo arrivo e passò sul seggiolino posteriore. Polina sedette davanti, calò il pedale dell'avviamento con più furia che energia e si allontanò. Arkady percorse la sala, sedette al posto di Polina e guardò il giornale il cui titolo era "Le misure adottate sono temporanee e non segnalano affatto una rinuncia della linea di profonde riforme..." Sotto il giornale c'erano le chiavi della macchina e un biglietto: "Zhiguli bianca targa X65523MO. Non saresti dovuto venire". Tradotto dal polinese significava: "Bentornato". La Zhiguli era parcheggiata in prima fila nel posteggio. Sul pavimento Arkady trovò una tela quadrata ricoperta di vernice rossa. Tolse il vassoio dall'involucro di plastica, mise al suo posto il dipinto e lo infilò nella borsa di Margarita. Prese la strada in direzione sud verso Mosca. Quando si trovò sotto l'ombra di un cavalcavia, abbassò il finestrino del passeggero e fece volar via il vassoio.
In un primo momento la strada gli parve normale. Le stesse auto malandate correvano ad alta velocità sulle stesse buche, come se fosse stato assente solo una mattinata. Ma presto notò, arretrati rispetto alla strada, dietro una fila di ontani, i profili scuri dei carri armati. Identificatone uno, vide tutti gli altri, macchie scure contro una cortina di verde. Sulla strada di carri non ce n'erano; in realtà Arkady non notò la minima presenza di militari fino a quando non giunse in una via laterale di Kurkino, dove la corsia di destra era occupata da una fila interminabile di mezzi per il trasporto truppe. I soldati, attrezzati di tutto punto, viaggiavano con i portelli aperti. Erano ragazzi, e i loro occhi lacrimavano al vento. All'incrocio tra la via principale e la tangenziale, la colonna uscì puntando verso la città. Arkady accelerò e subito rallentò quando notò che una moto blu metallico, con due persone a bordo si manteneva a cento metri da lui. Potevano tranquillamente tirargli una pallottola in testa passandogli accanto. Ma c'era di mezzo il quadro, sul quale non avrebbero voluto vedere nemmeno un graffio. La pioggia leggera ripuliva la strada. Arkady guardò sul cruscotto. Nessuna traccia di tergicristalli. Accese la radio e dopo la musica di Ciajkovskij udì alcune istruzioni su come mantenere la calma. "Riferite le attività dei provocatori. Consentite agli organismi responsabili di svolgere il loro dovere. Ricordate i tragici eventi di Piazza Tienanmen, dove agenti pseudodemocratici hanno provocato un inutile bagno di sangue." L'accento pareva essere sul termine inutile. Trovò anche una stazione che trasmetteva dalla Casa dei Soviet e che denunciava il colpo di stato. A un semaforo rosso, la motocicletta si avvicinò. Era una Suzuki, lo stesso modello che lui e Jaak avevano ammirato davanti alla cantina di Lyubertsy. Il conducente indossava casco nero e giacca di pelle neri e dei calzoni scolpiti come un'armatura. Nell'attimo in cui Minin saltò giù da dietro, con l'impermeabile svolazzante e il cappello in mano, Arkady premette l'acceleratore a tavoletta, sgusciò nel traffico dell'incrocio e seminò la moto. La stazione del metro di Voikovskaya era circondata da moscoviti scesi dai treni dell'ora di punta per studiare le nubi, infilare gli impermeabili e decidersi a correre verso casa. I più tranquilli indugiavano all'ingresso per comprare rose, gelati, piroshki. Era una scena surreale proprio per la sua normalità. Arkady cominciò a chiedersi se il colpo non fosse per caso avvenuto in un'altra città. Dietro la stazione c'erano delle cooperative non più grandi di un barac-
chino. Si mise in coda davanti a uno che vendeva Gauloises, lamette, Pepsi, ananas in scatola e acquistò una bottiglia di acqua minerale gassata e una bomboletta di deodorante "Romantico" alla lavanda. Entrò da un rigattiere che vendeva orologi senza lancette e forchette senza punte e comprò due assortimenti di chiavi spaiate infilate su un anello di filo di ferro. Gettò le chiavi e tenne il filo di ferro, che infilò nella borsa di tela insieme all'acqua minerale e al deodorante. Risalito in macchina, Arkady girò senza meta per le strade finché non ritrovò la motocicletta davanti al Dynamo Stadium. Il traffico si andava facendo più congestionato. Quando la circonvallazione Sadovaya venne bloccata da una colonna di blindati, svoltò a sinistra e li seguì finché, sulla Fadayeva, riuscì a sgusciare via. Preceduto dall'odore, vide il fumo nero dei carri armati fermi in Piazza del Maneggio lungo i bastioni occidentali del Cremlino. Attraversando Tverskaya, vide per un attimo la Piazza Rossa, con la spianata di ciottoli bloccata da truppe della Guardia Nazionale, fitte come siepi. Da "Il Mondo dei Piccoli" i clienti emergevano abbracciando grandi animali di pezza. Sui marciapiedi alcune donne offrivano calze e scarpe usate. Un colpo di stato? Avrebbe potuto essere in Birmania, nell'Africa Nera, sulla luna. La maggior parte della gente era troppo esausta. Sarebbero rimasti in coda anche se avessero sparato per strada. Sonnambuli. Sul lato opposto della piazza la Lubyanka sembrava ugualmente immersa nel sonno. Ma sul retro del palazzo una fila di furgoni usciva dal portone riservato agli automezzi. Arkady entrò nel cortile di casa, inserì la Zhiguli tra le casse di vodka depositate intorno alla chiesa e aprì il cancello di un vicoletto che finiva su una scarpata, oltre la quale scorreva il canale. Sempre con la borsa di Rita in mano, entrò dalla porta posteriore di un condominio e salì al quarto piano, da dove poteva scorgere il cortile e la motocicletta blu, seminascosta dietro un furgone a un isolato di distanza. Arkady provava comprensione per Minin. In qualunque altro giorno avrebbe avuto a disposizione un'auto e la radio. Che cosa ricordava del suo aiutante? Impazienza, la tendenza a buttarsi. Minin scese dalla moto, aggrottando la fronte in preda ai dubbi. Il conducente lo seguì, togliendosi il casco: era Kim, anche lui alla ricerca di Arkady. Uscì dalla porta posteriore e attraversò uno spiazzo incolto che finiva in una stradina di terra battuta sul retro di alcuni laboratori. Giunse al punto
in cui Kim aveva lasciato la moto. Si volse verso casa e vide Minin premere i pulsanti di apertura del portone. La Suzuki era appoggiata sulla stampella, con la ruota anteriore piegata. Aveva una carrozzeria di plastica azzurra che correva dal parabrezza allo scappamento, come la culla di un motore a reazione. Non era facile arrivare ai tubi di scappamento; ma per la stessa ragione sarebbe stato difficile accorgersi di qualsiasi manomissione. Arkady si sdraiò per terra e sentì aprirsi la lunga cicatrice che gli attraversava la schiena. Lo scappamento della Suzuki era del tipo quattro-due-uno. Scosse la bottiglia e spruzzò l'acqua sui tubi, che reagirono sfrigolando. Nonostante avesse vuotato la bottiglia, si scottò ugualmente infilando le mani per far passare il filo di ferro intorno ai tubi e fissare la bomboletta di deodorante. Riuscì comunque a stringere il filo. Jaak sarebbe stato orgoglioso di lui. Quando si fu rialzato, Minin e Kim erano scomparsi. Ripulì le mani sul giubbotto, si caricò in spalla la borsa di tela e fece la loro stessa strada verso casa. Vide le tendine della finestra scostarsi leggermente. Minin aveva un ghigno trattenuto. Lasciò che Arkady entrasse e chiudesse la porta prima di saltar fuori dal corridoio della camera da letto con l'enorme Stechkin che aveva imbracciato davanti all'appartamento di Rudy. Lo Stechkin era un mitragliatore come lo Skorpion, ma non altrettanto brutto, e ora sembrava la parte migliore di Minin. Alle spalle di Arkady l'armadio si aprì e comparve Kim. Aveva una faccia piatta come quella di un fante di picche e impugnava un Malysh, la stessa arma che aveva usato per proteggere Rudy. Doveva averlo nascosto sotto il giubbotto di pelle. Arkady rimase impressionato. Era come trovarsi di fronte all'artiglieria. «Dammi la borsa» disse Minin. «No.» «Dammela o ti ammazzo» minacciò Minin. Arkady sollevò la borsa al petto. «Il quadro che c'è dentro vale milioni di dollari. Non vorrai riempirlo di buchi. È fragile. Anche se ci casco addosso non vale più niente. Come farai a spiegarlo al procuratore? Non vorrei minare la tua autorità, Minin, ma non riesco a pensare a niente di più stupido che mettere un bersaglio tra due armi automatiche.» Poi, rivolto a Kim: «Tu ci riesci?». Kim si spostò di lato. «Te lo dico per l'ultima volta» ripeté Minin. Arkady tenne la borsa stretta al petto mentre apriva il frigorifero. Qual-
cosa che assomigliava a del muschio era uscito dall'imboccatura della bottiglia di kefir. Chiuse la porta per non sentire il puzzo. «Sono curioso, Minin. Come fai a pensare che, impadronendoti di questo quadro, difendi la sacra causa del Partito?» «Il quadro appartiene al Partito.» «Come tante altre cose. Allora, tiri il grilletto o no?» Minin lasciò pendere il mitragliatore dalla spalla. «Non ha importanza se ti sparo o meno. Ormai sei già morto.» «Lavori con Kim. Non ti imbarazza un po' andare in giro in moto con un maniaco omicida?» Minin non rispose e Arkady si rivolse a Kim. «E a te, non ti imbarazza portare in giro un investigatore? Uno dei due dovrebbe pure essere imbarazzato.» Kim sorrise, ma Minin pareva letteralmente trasudare odio. «Minin, mi sono sempre chiesto che cos'hai contro di me.» «Il tuo cinismo.» «Cinismo?» «Riguardo al Partito.» «Be'.» Non aveva tutti i torti. «Pensavo: "L'investigatore capo Renko, figlio del generale Renko". Credevo che tu fossi un eroe. Credevo che sarebbe stata una grande esperienza lavorare con te, finché mi si è schiarita la vista e ho visto che razza di corrotto sei.» «In che senso?» «Noi dovevamo indagare sul conto dei criminali, ma tu giravi sempre le indagini contro il Partito.» «Le cose andavano così per conto loro.» «Ti ho tenuto d'occhio per vedere se ti facevi dare soldi dalla mafia.» «Non me li facevo dare.» «No. Eri ancora più corrotto perché non ti importava dei soldi.» «Sono cambiato» disse Arkady. «Adesso li voglio. Telefona ad Albov.» «Chi è Albov.» «Altrimenti esco di qui con il quadro e tu avrai perduto cinque milioni di dollari.» Minin non rispose. Arkady alzò le spalle e fece un passo verso la porta. «Aspetta» disse Minin. Andò al telefono nel corridoio, fece un numero e trasferì l'apparecchio in soggiorno. Arkady esaminò la libreria e tirò fuori il Macbeth. La pistola che avrebbe dovuto trovarsi dietro a Shakespeare era scomparsa. Minin ebbe un momento di soddisfazione. «Sono venuto qui mentre eri
in Germania. Ho perquisito a fondo.» Qualcuno rispose, perché Minin parlò rapidamente nella cornetta, spiegando la mancanza di collaborazione da parte di Arkady. Alzò gli occhi. «Fammelo vedere.» Arkady tirò fuori il quadro dalla borsa, estraendolo solo a metà dall'involucro di plastica. «C'è stato un errore» disse Minin nel telefono. «Non c'è nessun dipinto, solo una tela rossa.» Aggrottò la fronte. «È questo? È sicuro?» Porse la cornetta ad Arkady, che la prese solo dopo aver infilato di nuovo il quadro nella borsa. «Arkady?» «Max» rispose, come se non si vedessero da anni. «Mi fa piacere sentirti e sono molto contento che abbia portato con te il quadro. Abbiamo parlato con Rita; era sconvolta e convinta che l'avresti consegnato alla polizia tedesca. Avresti potuto startene a Berlino. Che cosa ti ha convinto a venire qui?» «Sarei rimasto, ma in galera. La polizia cercava me, non Rita.» «Vero. Borya ti aveva incastrato. E sono sicuro che anche ai ceceni piacerebbe sapere dove sei. Sei stato molto furbo a tornare.» «Dove sei?» chiese Arkady. «Dato che la situazione è quella che è, preferisco non dirlo in giro. In tutta franchezza, mi preoccupano Rodionov e i suoi amici. Spero che abbiano la fermezza necessaria a risolvere subito questa faccenda, perché più tempo fanno passare più sarà sanguinosa. Tuo padre avrebbe già spazzato via i difensori della Casa Bianca, non è vero?» «Sì.» «Ho sentito che vuoi fare una specie di scambio con il quadro. Di cosa si tratta?» «Un biglietto British Airways per Londra e cinquantamila dollari.» «Un sacco di gente cerca di lasciare la città. Ti posso dare qualsiasi somma in rubli ma la valuta straniera non si trova, attualmente.» «Passo il telefono a Minin.» Non appena ebbe ceduto la cornetta, Arkady prese un coltello seghettato dal cassetto accanto al lavello. Mentre Minin riferiva ogni suo gesto, aprì la finestra e tirò fuori il quadro dalla borsa. Le bolle di plastica scoppiettarono mentre Arkady segava l'involucro. «Aspetta!» disse Minin ridando la cornetta ad Arkady. Max rideva. «Ho capito il concetto. Hai vinto.» «Dove sei?»
«Ti ci porta Minin.» «Posso seguirlo. Ho la macchina.» «Meglio che gli parli io» disse Max. Minin ascoltò cupo, quindi riportò il telefono nel corridoio. «Non devi farmi da guida» disse Arkady. «Basta che mi dici dov'è.» «Stasera ci sarà il coprifuoco. Meglio che andiamo tutti insieme, nel caso mettano dei blocchi stradali.» Kim scoprì i denti in un ghigno. «Muovetevi. Voglio tornare indietro e trovare la ragazza con lo scooter.» Era la prima volta che apriva bocca, e non era quello che Arkady voleva sentire. «Abbiamo visto Polina» disse Minin. Il tono era da giudice, sebbene la lingua indugiasse un istante sulle labbra. «Sei ridotto di merda. Si direbbe che ti sei rotolato per terra. Non ti hanno trattato mica tanto bene in Germania.» «Viaggiare logora» spiegò Arkady. Passando la borsa da una mano all'altra si tolse la giacca sporca. La schiena della camicia era nera di sangue rappreso e rossa di sangue fresco. Kim inspirò con un sibilo. Dall'armadio, Arkady scelse una giacca spiegazzata ma pulita, quella che aveva indossato al funerale di suo padre. Dalla tasca tirò fuori l'eredità: il revolver, un'arma d'epoca con il cane e il calcio curvi come apostrofi. C'erano anche i quattro proiettili, spessi come pepite d'argento. Con un braccio infilato nel manico della borsa, aprì il cilindro e lo caricò. «Quante volte te l'ho detto, Minin? Non controllare gli armadi e basta, controlla anche i vestiti» disse. Minin e Arkady aspettarono in cortile mentre Kim andava a prendere la moto. Il cielo era scuro. La luce dei lampioni e la pioggia rendevano più intenso l'azzurro della chiesa e davano un'untuosità color pastello alle finestre. Arkady si chiese se la televisione quella sera avrebbe trasmesso il programma dell'ipnotizzatore. «Ho una vicina che mi prende la posta e mi mette la roba da mangiare in frigo. Non c'erano né posta né cibo» disse. «Forse sapeva che eri via» rispose Minin. Arkady lasciò aleggiare l'involontaria ammissione di Minin. Le grondaie della chiesa erano ostruite come al solito e l'acqua traboccava in cascatelle luminose. «Viveva al piano di sotto» disse. «Mi sentiva sempre camminare in casa e probabilmente ha sentito te.» I lineamenti di Minin apparivano e scomparivano sotto la tesa del cappello. «Perché non dici almeno che ti spiace?» chiese Arkady. «Aveva il mal di
cuore. Forse non volevi spaventarla.» «Ha interferito.» «Scusa?» «Si è messa di mezzo. Lei sapeva di essere malata. Io no. Non mi assumo responsabilità per le conseguenze delle sue azioni.» «È il tuo modo di dire che ti dispiace?» Minin appoggiò la canna dello Stechkin sulla borsa, all'altezza del cuore di Arkady. «È il mio modo di dire di piantarla.» «Ti senti escluso?» chiese Arkady addolcendo il tono. «Ti sto privando di qualcosa? Per il fatto che fanno la rivoluzione senza di noi?» Minin tentò di stare zitto, ma si agitò con l'ardore di un lanciere. «Sarò sul posto al momento dell'azione.» Kim arrivò sulla moto e li seguì sotto il portico del vicolo. Quando giunsero alla macchina, Minin balzò sul sedile accanto ad Arkady. «Non ti lascio più tagliare la corda. E non voglio andare in moto con quel pazzo furioso.» Arkady valutò le possibili alternative. Se rifiutava di andare, non avrebbe trovato Albov. E poi aveva condotto Minin al punto di rottura. «Tieni la sinistra sempre in vista» ordinò. Minin fece come gli aveva detto. Il selettore dello Stechkin era vicino alle nocche. Arkady allungò la mano e spostò la levetta da automatico a sicura. «Tieni la sinistra sempre in vista» disse. Il cambio della Zhiguli era manuale. Arkady sistemò la borsa accanto al piede sinistro e posò la Nagant in grembo. Kim li precedeva lungo la Tverskaya, tenendosi sulla corsia centrale, quella delle auto ufficiali. La pioggia teneva lontana la gente dai marciapiedi. In Piazza Pushkin incrociarono una folla diretta al palazzo del parlamento con un gran spiegamento di bandiere. Molti erano ragazzi, naturalmente, ma c'era anche un numero straordinario di persone dell'età di Arkady, e forse più anziane, uomini e donne ancora bambini all'epoca di Kruscev, gente che aveva respirato l'ossigeno inebriante di quella breve stagione di riforme ma che non aveva detto nulla quando i carri armati sovietici avevano invaso Praga. Da allora vivevano nella vergogna. Era questa l'essenza del collaborazionismo. Il silenzio. Indossavano berretti di lana sui capelli ormai radi, ma avevano miracolosamente scoperto di avere una voce. A Piazza Majakovskij il traffico era fermo per lasciar passare dei carri
diretti al palazzo del parlamento lungo la circonvallazione Sadovaya. «La divisione Taman» disse Minin, in tono di approvazione. «Sono i più duri. Arriveranno fino alla scalinata.» Ma Mosca era un palcoscenico così vasto che la maggior parte della gente pareva non essersi accorta che fosse in corso un colpo di stato. C'erano coppie che andavano mano nella mano al cinema. Un chiosco alzò la serranda e si formò subito una coda di clienti indifferenti alla pioggia. Procedettero sull'asfalto lucido. Tverskaya divenne Leningrad Prospekt, che a sua volta divenne la strada per Leningrado. Kim filava davanti a loro. A quella velocità, almeno, non c'era pericolo che Minin gli sparasse. «Prendiamo la strada per l'aeroporto?» chiese. «Ti stai facendo distanziare» disse Minin. «Non voglio perdermi i fuochi artificiali.» Lungo il lago Chimki ci fu una calma improvvisa, una zona buia tra le luci della città, la monotonia delle gocce di pioggia sull'acqua. Apparve una fila di stretti rettangoli di luce: altri carri che procedevano a passo d'uomo. Dietro si scorgeva la striscia di foschia della tangenziale. La motocicletta iniziò a emettere una scia di scintille, come se stesse trascinando la marmitta sull'asfalto. La bomboletta che Arkady aveva fissato ai tubi di scappamento conteneva un terzo di gas propano, che si espandeva duemilacento volte. Infiammata, ardeva come un saldatore a gas. Le fiamme incanalate dalle fiancate di plastica e spinte dalle prese d'aria sboccavano sopra la ruota posteriore in getti di fuoco che parevano sospingere la moto. Arkady vide Kim guardare nel retrovisore, poi sulle fiancate e finalmente sotto, dove l'intera carrozzeria si stava incendiando come una meteora intorno ai calzoni e agli stivali. La moto ondeggiò da una corsia all'altra. L'impulso, pensò Arkady, di lasciarsi dietro le fiamme. La strada incrociava un ramo del lago; Kim uscì di carreggiata. «Ferma! Ferma la macchina!» Minin premette il mitra contro la testa di Arkady. La motocicletta toccò un guardrail e rotolò come una palla di fuoco. Kim rimase aggrappato per tutta la slittata, poi la moto rotolò di nuovo, e il casco venne scagliato lontano. Mentre Arkady accelerava, Minin premette il grilletto. Lo Stechkin non sparò. Minin si ricordò della sicura e cambiò mano, ma Arkady impugnò la Nagant e gliela puntò contro. «Fuori.» Rallentò fino a quindici chilometri all'ora, sufficienti a stordire Minin quando fosse saltato. «Buttati.» Arkady si piegò, aprì la portiera destra e spinse fuori Minin, che però si
aggrappò alla carrozzeria, premendo contro il finestrino. Ruppe il vetro con lo Stechkin, mise dentro i gomiti e puntò. Arkady schiacciò il freno. Minin sparò e il finestrino dietro Arkady esplose. La portiera sbatté e il cappello di Minin volò via. Lontano, alle loro spalle, la moto bruciava. Davanti alla macchina apparvero le luci del cavalcavia della tangenziale. Arkady spalancò la portiera con un calcio e con il piede sinistro premette l'acceleratore a tavoletta. L'inerzia di Minin e la resistenza dell'aria sospinsero la portiera all'indietro. Minin riprese a sparare. Arkady sterzò sulla banchina e strisciò contro la spalla del cavalcavia. Il buio sotto la rampa era incredibilmente silenzioso. Quando la Zhiguli uscì dall'altra parte, lo sportello di destra pendeva come un'ala rotta e Minin era scomparso. Arkady non aveva più nessuno che lo guidasse, ma ormai sapeva con certezza quasi assoluta di essere sul punto di tornare in un luogo conosciuto. Tolse i frammenti di vetro dalla borsa. Il vento entrava dalla portiera sbilenca per uscire dai finestrini rotti. Arkady si ricordò che le automobili sovietiche erano in continua evoluzione, dotate di sempre minori comfort. Era al volante dell'ultimo modello. 38 Quando Arkady aveva attraversato il villaggio per la prima volta, aveva visto le donne vendere fiori sul ciglio della strada. Non quella sera. Il luogo sembrava abbandonato, le finestre buie, come se le case stesse cercassero di nascondersi. I girasoli ondeggiavano sotto la pioggia. Una mucca spaventata dai fari scappò in un orto. Sulla strada l'acqua si andava raccogliendo nei solchi lasciati dai cingoli. I carri armati avevano sconvolto il fango fino a renderlo quasi liquido; nei punti in cui due carri avevano proceduto affiancati, staccionate e alberi da frutta erano stati abbattuti. La Zhiguli aveva la trazione anteriore. Arkady procedette in prima come se stesse pilotando un motoscafo. I campi all'altro lato del villaggio erano pianeggianti e la via era più diritta ma in condizioni peggiori. Mezzo chilometro più avanti, la banchina di destra era stata rovinata dai cingoli. Sulla strada erano rimasti blocchi di fango simili a mattoni, mostrando la manovra effettuata dai carri per salire sulla strada: facendo muovere un cingolo e tenendo l'altro fermo come perno. Poteva assomigliare a una parata militare, pensò Arkady, salvo il
fatto che partiva da un campo di patate e che era stata organizzata per il minor numero di spettatori possibile. Il resto della strada era abbastanza liscio da consentirgli di usare solo gli anabbaglianti. I campi si estendevano uno accanto all'altro, con colori che andavano dal grigio al nero. Sotto la pioggia, la strada assomigliava a una sopraelevata tra specchi d'acqua. Questa volta a guidarlo non c'era alcun falò. Passando accanto alle stalle prima di entrare nel cortile del kolkhoz "La Via Leninista", vide i trattori arrugginiti e le mietitrici attendere come oggetti di scena, scorse il garage dove aveva scoperto l'auto del generale Penyagin, il macello, il magazzino pieno di merci. Nel centro del cortile, la fossa di calce nella quale aveva trovato Jaak e Penyagin era stata gonfiata dalla pioggia. Arkady scese, infilò il revolver sotto la giacca dietro la schiena e sollevò la borsa all'altezza del torace. A ogni passo le scarpe gli si riempivano di un liquido lattiginoso, miscuglio di acqua piovana e di calce. Sul lato opposto dell'aia, al di là del granaio e del magazzino, si scorgevano due fari. Quando fu più vicino vide che l'automobile era una Mercedes e che i fari illuminavano un uomo che usciva da uno dei bunker di comando, quello che nella sua prima visita era chiuso da un lucchetto. Borya Gubenko faticava sotto il peso di una cassa di legno piatta, rettangolare. Aveva le scarpe piene di fango e anche gli orli del soprabito di cammello erano infangati. Issò la cassa sul pianale del camion, lo stesso da cui era uscita la radio a onde corte di Jaak. Max sistemò la cassa contro le altre già in piedi sul fondo. «Per poco non ci trovavi più» disse. «Stavamo facendo i bagagli.» Borya non sembrava altrettanto contento. Era fradicio, i capelli gli arrivavano fino alle sopracciglia come se avesse giocato a calcio per un giorno intero sotto la pioggia. Guardò alle spalle di Arkady. «Dov'è Kim?» «Kim e Minin hanno avuto problemi di traffico» rispose Arkady. «Ne ero sicuro» disse Max. «Sarei stato deluso se ce l'avessero fatta. Comunque, lo sapevo che saresti venuto.» «Ce ne sono degli altri da prendere.» Borya diede sia ad Arkady che a Max un'occhiata severa e arrancò di nuovo verso il bunker. La cassa appena caricata portava dei timbri sbiaditi: "MATERIALE PER SOLA CONSULTAZIONE" e "ARCHIVI DEL MINISTERO DELL'INTERNO DELL'URSS - RISERVATO". «Irina come sta?» chiese Max. «È felice.»
«Quello che avevo dimenticato a proposito di Irina era questo suo impulso al martirio. Come poteva resisterti?» Max sembrava divertito e leggermente provato. «Non ho avuto la possibilità di salutarla come si deve a Berlino perché Borya era di gran fretta. Non è un sentimentale. Quando si diventa magnaccia, lo si rimane per sempre. È ancora lì dietro alle sue puttane e alle slot-machine. Vuole cambiare, ma la mentalità dei criminali è così limitata. I russi non cambiano.» «Dov'è Rodionov?» chiese Arkady. «Sta tenendo la procura allineata con il Comitato di Emergenza. Il comitato è una tale collezione di culi di pietra e di ubriaconi che al loro confronto Rodionov brilla. Naturalmente il Comitato vincerà, perché la gente riconosce sempre gli schiocchi di frusta. Il guaio è che questo colpo è così inutile. Avrebbero potuto essere tutti ricchi. Adesso torneremo a un sistema in cui si è costretti a contare le briciole.» Arkady indicò le casse con un cenno del capo. «Quelle non sono briciole. Perché le portate via, visto che il Comitato vincerà?» «Nell'ipotesi altamente improbabile che l'attacco fallisca, la gente scoprirà molto in fretta da dove sono venuti i carri. Se arrivassero qui, entrerebbero nei bunker e noi perderemmo tutto.» Arkady guardò nella direzione verso cui era andato Borya. «Mi piacerebbe vedere.» «Perché no?» Max saltò giù dal camion, contento di rispondere alla sua richiesta. Lo spazio dentro il bunker era ridotto, pensato per far sopravvivere una dozzina di uomini all'olocausto nucleare, e farli vivere come scimmie intorno a un generatore per inviare messaggi radio a truppe ormai fulminate sul campo di battaglia. Il generatore, che scoppiettava come una Trabi, alimentava le luci rosse di emergenza. Borya stava coprendo un dipinto con una tela cerata. «È ermetico» spiegò Max. «Abbiamo dovuto sbarazzarci dei contatori di radiazioni. Del resto non funzionavano.» Fece muovere il raggio della torcia elettrica. L'occhio registra una miniera con vene di malachite, lapislazzuli e oro serpeggianti per terra. Nel bunker i colori erano ancora più luminosi. Alcuni dei dipinti erano imballati, ma la maggior parte no; il raggio illuminò una tela coperta con le strisce primarie di Matiushin, dai colori freschi e vividi come il giorno in cui erano stati dipinti. Max proiettò il raggio su una palma di Sarian, sui cigni di Vrubel, sui soli radianti di Iuon, su una mucca angelica di Chagall. Un or-
co di Lissitzky era sovrapposto agli schizzi erotici di Annenkov. Sopra un caleidoscopio della Popova c'era un gallo da combattimento di Kandinsky. Arkady provò la sensazione di essere entrato in una miniera di immagini, come se fosse stata sepolta una cultura. Max era disposto a condividere il proprio orgoglio. «Questa è la più importante collezione di avanguardia russa esistente, oltre a quella della Galleria Tretjakov. Ovviamente, il ministero non sapeva che cosa stesse confiscando, perché la milizia non ha il minimo senso estetico. D'altra parte, ce l'avevano quelli a cui hanno rubato le opere ed è questo che conta, no? Dapprima la Rivoluzione confiscò tutte le collezioni private. Erano gli stessi rivoluzionari a volere i quadri più d'avanguardia. Poi Stalin purgò i suoi vecchi amici e la milizia fece una seconda mietitura di opere d'arte. E continuò a mietere, da Kruscev a Breznev, nascondendo tutto nelle cantine del Ministero. È così che si formano le grandi collezioni. Riconosciamo a Rodionov i suoi meriti perché quando gli è stato dato il compito di ripulire gli archivi del Ministero ha riconosciuto Red Square. Da lì è arrivato a ritrovare tutto ciò che vedi, opere di alto livello, anche se non della classe di Red Square. Ha avuto anche la capacità di rendersi conto che, se fosse riuscito a far uscire il quadro, aveva comunque bisogno di una persona più sofisticata per metterlo sul mercato. L'hai con te?» «Sì. E tu hai i soldi e il biglietto?» rispose Arkady. Borya si guardò in giro con l'occhio esperto di chi sa quanto possono essere complicate le transazioni. «Qui si sta stretti. Ci serve più spazio.» Max aprì la strada verso il macello. La torcia illuminò i blocchi, i tritacarne e i recipienti per lo strutto alti fino alla vita. Il maiale era sempre appeso all'uncino ed emetteva un lezzo di gas di palude. Max gli offrì una sigaretta. «Non sono sorpreso di vederti. Quel che mi riesce difficile credere è che tu sia disposto a stringere un accordo. Semplicemente, non è cosa da te.» «Invece sono qui, e questo è il quadro» disse Arkady. «Questo è quello che dici. Mi sembra che cinquantamila dollari siano tanti, considerato che non lo puoi vendere a nessun altro. Non hai il certificato di origine dell'imballo Knauer.» «Avevi accettato.» «Stasera è particolarmente difficile mettere insieme i soldi» disse Max. Borya guardò la pioggia all'esterno. «Prendi il quadro.» «Hai sempre fretta» disse Max. «Possiamo risolvere questa storia da persone intelligenti.»
«Ma cos'avete, voi due?» chiese Borya. «Non capisco.» «Renko ed io abbiamo un rapporto esclusivo. Siamo praticamente già soci.» «Come ieri notte a Berlino? Quando sei sceso dall'appartamento hai detto che Renko e la donna non c'erano. Comincio a pensare che avrei dovuto salire io. Adesso che ci penso, sono stato io a fare tutto il lavoro.» «Non dimenticare Rita» gli ricordò Arkady. «Deve avere sopraffatto Rudy.» L'espressione corrucciata di Borya si trasformò in un sorriso. «Rudy voleva entrare nel business dell'arte e noi gliel'abbiamo permesso. Pensava che arrivasse qualcuno da Monaco con un quadro favoloso da fargli autenticare. Non sapeva che tipo era Rita perché non aveva una vita sessuale tanto attiva.» «A differenza di Borya» disse Max. «Alcune persone lo definirebbero promiscuo. Come minimo, bigamo.» «E così Rita gli ha portato un quadro» spiegò Borya. «L'ha dipinto Max. Ha detto che si trattava di un effetto speciale, come al cinema.» «E Kim» intervenne Max «ha aggiunto quella sua bomba incredibilmente rozza perché Borya gli aveva ordinato di bruciare tutto quello che c'era nella macchina.» «Con il sangue Kim è capace di fare qualsiasi cosa» osservò Borya. «Che vita ha avuto Borya» disse Max. «Rita e Kim. La TransKom sarebbe potuta diventare una vera società multinazionale, se solo ci fossimo tenuti lontano dalle puttane e dal gioco d'azzardo. Lo stesso vale per il Comitato di Emergenza. Avrebbero potuto essere autentici miliardari, ma non potevano tollerare nemmeno la minima riforma. È come avere un socio con la sifilide all'ultimo stadio, quando attacca il cervello. Adesso tentiamo di salvare quel che possiamo.» «Avevo un amico che si chiamava Jaak, un investigatore. L'ho trovato qui, dentro una macchina. Cosa è successo?» chiese Arkady. «Una scelta di tempo sbagliata» spiegò Borya. «Ha trovato qui Penyagin. Il generale stava controllando le trasmissioni nell'altro bunker e il tuo investigatore gli ha chiesto come mai c'erano un reparto di carri e delle truppe nei campi. Credeva che si sarebbe ripetuta la storia dell'Estonia, che ci sarebbe stato un colpo di stato, e stava tornando a Mosca per dare l'allarme. È stata una fortuna che fossi qui. Stavo controllando una spedizione di videoregistratori nel magazzino e l'ho fermato prima che salisse in macchina. Ma Penyagin era terrorizzato.»
«A Borya non piacciono le critiche dall'alto» intervenne Max. «Penyagin dirigeva le indagini criminali» disse Borya. «Qualche cadavere doveva averlo pur visto.» «Era un uomo da scrivania» osservò Arkady. «Immagino. Comunque, era previsto che le indagini le facesse Minin, ma tu sei arrivato prima.» Borya fissò la fossa della calce, e disse, come un uomo che non crede alla propria fortuna: «Non riesco a credere che tu sia tornato qui». «Dov'è Irina?» chiese Max. «A Monaco» mentì Arkady. «Lascia che ti dica dove penso che sia» replicò Max. «Temo che sia tornata con te e che sia andata alla Casa Bianca, dove probabilmente verrà uccisa. Il Comitato sarà anche una banda di nullità del Partito, ma i soldati conoscono il loro mestiere.» «Quando attaccheranno?» chiese Arkady. «Alle tre, in piena notte. Useranno i carri. Sarà una faccenda rapida ma sporca e non saranno in grado di risparmiare i giornalisti, nemmeno volendolo. Sai quale sarebbe la vera ironia? Se questa volta fossi io a salvare Irina.» Lasciò passare qualche istante. «Irina è qui. Non negarlo. Brilli ancora, un pochino. Non ti avrebbe lasciato andare senza di lei.» Stranamente Arkady non riuscì a negarlo, per quanto una bugia sarebbe stata molto utile. Come se una parola potesse farla scomparire. «Adesso sai quel che volevi sapere?» chiese Borya a Max, che annuì. «Vediamo il quadro.» Strappò la borsa di tela e la aprì mentre Max muoveva la torcia sull'involucro di plastica. «Esattamente come ci aveva detto Rita.» Max sollevò il quadro. «È pesante.» «È il quadro» protestò Borya. Max aprì l'involucro. «È legno, non tela, e il colore è sbagliato.» «È rosso» osservò Borya. «Rosso e basta» disse Max. Ad Arkady pareva uno dei migliori tentativi di Polina - un cremisi vibrante, invece che rosso scuro, con una pennellata più omogenea. «A me pare un falso, ma la tua opinione qual è?» Max puntò il raggio della torcia dritto negli occhi di Arkady. Con un calcio alle gambe Borya falciò Arkady; quindi, con lo stesso slancio, si fece sotto e lo colpì al torace. Arkady rotolò nel buio. Disteso sul fianco, liberò la Nagant dalla cintura. Più rapido di lui, Borya estrasse
una pistola e fece fuoco, colpendo il pavimento e spruzzando Arkady di schegge di cemento. Arkady sparò. Max, rimasto in piedi nel buio dietro la torcia elettrica, si ritrovò a reggere uno scudo fosforescente di un bianco così intenso da illuminare l'intero macello. Il quadro di Polina si era incendiato quando il proiettile di Arkady l'aveva attraversato. Borya socchiuse gli occhi, abbagliato. Quando capì che cosa era successo, si voltò nuovamente verso Arkady e sparò quattro rapidissimi colpi. Arkady rispose al fuoco e Borya cadde sulle ginocchia, tra le pieghe morbide del soprabito. Sul petto apparve una rosa rosso vivo. Vacillò, si raddrizzò e allineò l'occhio con il mirino. Lo sguardo ondeggiò. Cadde in avanti, appoggiando le mani sul pavimento e tenendo sempre stretta la pistola, nel tentativo di evitare al mondo di girare. Borya scrollò il capo, si rilassò e si allungò sul pavimento, come per parare un rigore. Il quadro sul pavimento emanava una luce bianca che si esauriva contro il soffitto in un fumo tossico. Una manica di Max era in fiamme. Per un attimo rimase inquadrato nel telaio della porta; poi corse via e l'apertura tornò buia. Il locale si riempì di una nube chimica che faceva bruciare gli occhi. Le fiamme correvano lungo i canaletti di scolo. Arkady sentiva una fitta al torace, ma non gli pareva di essere ferito. Il calcio di Borya gli aveva piegato le ginocchia e sentiva le gambe intorpidite. Si trascinò sul pavimento per recuperare la giacca e la pistola di Borya, un piccola TK ormai scarica. Si trascinò fino alla porta, si alzò, e uscì barcollando appoggiandosi al muro. Al di là del bagliore che usciva dal macello e dei fari, l'aia era buia. La superficie della fossa parve fremere, ma avrebbe potuto essere un effetto della pioggia. Nessun segno di Max, nemmeno il fumo. La Mercedes accese i fari e l'ombra di Arkady balzò oltre la fossa. Fece un passo all'indietro, rischiò di scivolare, si fermò e sparò l'ultimo colpo della Nagant, sebbene avesse gli occhi così pieni di lacrime da riuscire a malapena a vedere la propria mano. I fari scartarono di lato, attraversarono rapidi l'aia, imboccarono la strada che conduceva al villaggio passando tra le stalle. Le luci posteriori ondeggiarono fra le staccionate fino a scomparire. Camminando su un piede, Arkady riuscì a raggiungere il predellino del camion. Gli pareva di avere ancora le ginocchia fuori posto. Sbottonò la camicia e vide lo stomaco segnato dalle schegge di cemento, come se fosse stato impallinato. Desiderava una sigaretta.
Abbottonò la camicia e infilò la giacca, poi tolse le chiavi dal cruscotto e chiuse gli sportelli posteriori. Raggiunse zoppicando il bunker e chiuse anche quello per evitare che ci piovesse dentro. Sotto gli ultimi bagliori del fuoco attraversò barcollando l'aia fino alla Zhiguli. L'auto, con i finestrini senza vetri e i parafanghi accartocciati, aveva l'aria di un rottame abbandonato. Max aveva accumulato un certo vantaggio. Ma la Zhiguli era fatta per le strade russe. 39 La radio non riceveva nessun segnale, come se Arkady stesse facendo la traversata dell'Antartide. Nell'Antartide però avrebbe visto meglio. La neve rifletteva la luce, i campi di patate la assorbivano. Con i campi di patate, l'uomo non aveva bisogno di cercare buchi neri nell'universo. Giunto sulla strada principale, la gamba gli si era talmente irrigidita che non capiva nemmeno se la frizione fosse premuta. La tangenziale era una fila stellata di luci. Riprovò ad accendere la radio. Ciajkovskij, ovviamente. E l'avviso che era in vigore il coprifuoco. Spense la radio. L'aria che entrava dai finestrini aperti gli dava la sensazione di tornare sulla terra. Sulla strada per Leningrado, i blindati fermavano i pedoni ma lasciavano passare le automobili; lunghi tratti di traffico scarso e strade vuote si alternavano agli improvvisi fasci incrociati dei riflettori e ai lenti mezzi militari in avanzata lungo la circonvallazione. La Zhiguli, con la sua portiera sbilenca e tutto il resto, non attirò l'attenzione. Di notte, andando in auto ci si rendeva conto che Mosca era una serie di anelli concentrici e che la maggior parte della città somigliava a una serie di orbite di luce nel vuoto. Il metro e gli autobus non funzionavano ma la gente cominciava a riapparire dal buio, singolarmente o a gruppi di dieci, venti persone dirette a sud. A un incrocio le truppe erano assenti, a un altro si ammassavano. Nel distretto di Krasnaya Presnya, via Belovaya era bloccata dai mezzi corazzati. Arkady parcheggiò e si unì alla folla sul marciapiede. Un flusso costante di uomini e di donne si riversava in direzione del fiume. Alcuni parevano conoscersi, poiché si sentiva un mormorio sommesso. Ma per la maggior parte la gente taceva, come se ognuno volesse risparmiare il fiato o come se il fiato stesso, visibile sotto la pioggia, fosse una comunicazione suffi-
ciente. Nessuno faceva osservazioni né guardava la camicia insanguinata di Arkady. Con suo sollievo, la gamba funzionava. Arkady si lasciò trascinare dagli altri. Il ritmo dei passi aumentò; si ritrovò a correre in mezzo alla folla lungo una via laterale, bloccata in fondo da autocarri dell'esercito. Il tendone di uno di essi venne sollevato e i civili si aiutarono a salirvi, come se stessero facendo un'ascensione. Oltre gli autocarri, l'ampio lungofiume di Krasnaya Pressnya descriveva una curva tra il fiume e la Casa Bianca. Il parlamento era un palazzo relativamente nuovo, una scatola di marmo alta quattro piani con due ali che parevano galleggiare alla luce delle migliaia di candele che la gente reggeva in mano. Il gruppo di Arkady si strinse in fila indiana tra gli autobus e i bulldozer messi a formare una barricata. Lungo il percorso ascoltò tutte le voci. Il Cremlino era circondato da carri pronti a muoversi lungo Kalinin Prospekt verso la Casa Bianca. Intorno al Bolshoi stazionavano truppe antisommossa. Il Comitato stava facendo arrivare sul lungofiume bombole di gas. Alcuni commando avevano trovato delle gallerie che comunicavano con la Casa Bianca. Un elicottero da combattimento sarebbe atterrato sul tetto. A un segnale segreto, gli agenti del Kgb presenti all'interno erano pronti a mitragliare i difensori. Sarebbe avvenuto come in Cina o in Romania, forse anche peggio. La gente si raccoglieva davanti a piccoli fuochi accesi con materiale di fortuna e intorno a candele votive su improvvisati altarini di cera. Erano persone che in tutta la vita non erano mai andate a una manifestazione non ufficiale. Eppure ora si erano spinti fin lì. Non c'erano molte possibilità di raggiungere la Casa Bianca, perché il ponte sul fiume era chiuso da barricate. Arkady riconobbe Max tra la gente proveniente da Kalinin Prospekt. Da lontano non pareva che lo scontro l'avesse ridotto troppo male. Teneva una mano infilata nella tasca della giacca, ma si muoveva con una sicurezza che spingeva la folla a fargli largo. A un angolo della Casa Bianca, un carro armato venuto a difenderla era inghirlandato di fiori. L'equipaggio era costituito da ragazzi con lo sguardo vuoto della determinazione e della paura. La torretta puntava verso Kalinin Prospekt, da dove Arkady sentì arrivare raffiche di armi automatiche. Gli studenti suonavano la chitarra e cantavano quel tipo di canzoni lacrimose, piene di betulle e di neve, che di solito facevano diventar matto Arkady. Attorno a un altro fuoco, un gruppo di rocker si corroborava con un nastro heavy metal. Vecchi veterani si tenevano a mani unite e gonfiavano i nastrini sul petto. Un battaglione di spazzine, in giaccone e sciarpa
neri, si allungava come una fila di testimoni. Arkady fece attenzione a non perdere di vista Max, che sembrava sapere meglio di lui da che parte andare. Evitò una barricata fatta con travi di legno, materassi, cancellate di ferro e panche. La stavano costruendo uomini con valigette diplomatiche e donne con borse della spesa, venuti direttamente sulla linea del fronte dall'ufficio o dai fornai. Una ragazza con un impermeabile scalò l'improvvisata palizzata per legare il tricolore russo alla tavola più alta. Polina guardò in basso senza vedere Arkady tra la folla. Aveva le guance rosse, i capelli sciolti, come se stesse cavalcando la cresta di un'onda. L'amico dell'aeroporto si arrampicò dietro di lei, con più prudenza, dato che erano ripresi gli spari. Max si portò sulla scalinata della Casa Bianca. Cercando di stargli dietro, Arkady notò che era stato abbozzato un piano difensivo. Dietro le barricate, le donne avevano formato un anello esterno che i soldati avrebbero dovuto rompere per primo. Poi venivano le truppe d'assalto dei cittadini disarmati, una massa umana che i cannoni ad acqua o le truppe corazzate avrebbero dovuto far sloggiare. Dietro di loro, uomini più giovani e più robusti erano organizzati in squadre di un centinaio di persone. In fondo alla scalinata, i veterani dell'Afghanistan avevano preso posizione divisi in gruppi di dieci. Ancora più in alto si trovava un cordone di uomini con armi in spalla e passamontagna neri. In cima alla scalinata i flash lampeggiavano intorno alle aste dei microfoni e alle telecamere. «Tu?» Un massiccio miliziano afferrò Arkady per un braccio. «Mi spiace.» Arkady non lo riconobbe. «La settimana scorsa per poco non mi tiravi sotto. Mi hai beccato a prendere dei soldi.» «Sì.» Arkady ricordò. Era successo dopo il funerale. «Vedi, non sono solo uno che sta in mezzo alla strada a fare l'elemosina.» «No, certo. Chi sono quelli con il passamontagna?» «Un misto: guardie private, volontari.» All'uomo però interessava Arkady. Gli disse nome e cognome, pretese che Arkady lo ripetesse e gli strinse la mano. «Non si può dire di conoscere davvero un'altra persona fino a un momento come questo. Non mi sono mai sentito così sbronzo, e pensare che non ho bevuto una goccia.» Sui volti era scesa un'espressione generale di stupore, come se tutti avessero trovato individualmente il coraggio di far cadere una maschera indossata per tutta la vita e di mostrare il proprio vero volto. Insegnanti di mez-
za età, muscolosi camionisti, consunti apparatchiki e studenti imbranati vagavano con un'espressione consapevole negli occhi. Come se conoscessero tutti gli altri. E tra tutti questi russi, neanche una bottiglia. Nemmeno una. I veterani dell'Afghanistan con una fascia rossa al braccio pattugliavano il perimetro. Molti indossavano l'uniforme da combattimento e il berrettino da deserto; altri portavano sacche piene di bottiglie molotov. Ognuno aveva detto la sua su come fossero andati in Afghanistan, come fossero diventati tossicomani e avessero perso la guerra. Erano quelli che avevano perso gli amici nella polvere di Khost e di Kandahar, che avevano combattuto durante la lunga ritirata sulla strada del passo di Salang ed erano riusciti a evitare di tornare in patria in un'anonima cassa di zinco. Sembravano molto esperti, quella sera. Max pareva avere i capelli e un orecchio bruciacchiati. Si era cambiato la giacca, ma sembrava alquanto in forma. Si fermò accanto ad alcuni fedeli raccolti intorno a un prete che benediceva dei crocifissi alla base della scalinata; poi si voltò e vide Arkady. Un altoparlante annunciò: «L'attacco è imminente. Spegnete tutte le luci. Chi ha la maschera antigas si prepari a indossarla. Chi non ce l'ha si copra il naso e la bocca con stoffa bagnata». Le candele scomparvero. Nel buio improvviso si sentì l'agitazione di migliaia di persone che infilavano maschere e si legavano sciarpe e fazzoletti sul viso. Tutt'altro che scoraggiato, il prete non smetteva di benedire attraverso la maschera antigas. Max era sgusciato via. L'altoparlante proseguì: «Preghiamo i giornalisti di non far scattare i flash!». Ma dalla porta della Casa Bianca uscì qualcuno e la reazione alla sommità della scalinata fu una scarica di lampi e di spot. Arkady vide Irina tra i giornalisti e Max che saliva verso di lei. Il lungofiume era buio, ma la scena al centro era rischiarata come un set cinematografico. La gradinata riversava luce e giornalisti che gridavano in italiano, inglese, giapponese e tedesco. Non c'erano lasciapassare ufficiali, ma i giornalisti erano professionisti abituati al pandemonio e i russi erano abituati al disordine. Max venne bloccato a metà della scalinata da due uomini col passamontagna. Metà di un sopracciglio era scomparsa e sul collo aveva una chiazza di pelle lucida, ma sembrava ugualmente a posto e padrone di sé. Ai suoi fianchi i cameramen salivano e scendevano di corsa le scale. Si mise a discorrere con le guardie, mostrando una fiducia che riusciva a rivelarsi au-
torevole in qualsiasi situazione, e mostrava la sua capacità di aggirare qualsiasi ostacolo. «...mi potete aiutare» Arkady lo sentì dire avvicinandosi. «Stavo venendo qui per unirmi ai miei colleghi di Radio Liberty quando la mia auto è stata deliberatamente fatta uscire di strada. È esplosa, un uomo è rimasto ucciso e io sono stato ferito.» Si voltò e indicò Arkady. «Ecco l'uomo che guidava l'altra macchina. Mi ha seguito.» Le guardie avevano tagliato delle fessure per gli occhi in un berretto da sci che contrastava con gli abiti lucidi. Uno era tarchiato e l'altro minuto, ma entrambi avevano un fucile a canne mozze che tenevano distrattatamente puntato in direzione di Arkady. Arkady non aveva nemmeno la pistola del padre e ormai era così esposto che ritirarsi era impossibile. «Non è un giornalista. Chiedetegli il tesserino» disse Arkady. Max prese in mano la situazione come il regista di un film. E sembrava proprio di essere su un set: gradini di marmo bagnati, riflettori, le luci fiabesche dei traccianti tra le nuvole. «Il tesserino è bruciato con la macchina. Non ha importanza: qui c'è una dozzina di giornalisti pronti a garantire per me. Comunque, credo di conoscere questo personaggio. Si chiama Renko, è uno della banda del procuratore Rodionov. Chiedetelo a lui, il tesserino.» Due paia di occhi neri fissarono Arkady attraverso la maschera. Arkady fu costretto ad ammettere che Max aveva scelto bene il momento; lì la sua identità era la sua condanna. «Sta mentendo» disse. «La sua macchina non è ridotta a un rottame? Il mio amico non è morto?» Nel clamore della gradinata il sussurro di Max era ancora più efficace. «Renko è un tipo pericoloso. Chiedetegli se è vero che ha ammazzato qualcuno. Vedete, non può negarlo.» «Chi era il tuo amico?» chiese la guardia minuta. Sebbene non avesse un volto a cui associarla, ad Arkady pareva di aver già sentito quella voce. Poteva essere un uomo della milizia, come l'addetto al traffico alla base della scalinata, oppure una guardia del corpo privata. «Borya Gubenko, un uomo d'affari» rispose Max. «Il famoso Borya Gubenko?» La guardia sembrava conoscere quel nome. «Era tuo amico?» Max fu rapido a rispondere. «Non amico, ma Borya si è sacrificato per consentirmi di venire qui e la verità è che Renko l'ha brutalmente ucciso e ha tentato di uccidere anche me. Siamo qui, circondati dalle telecamere di tutto il mondo. Stasera il mondo ha gli occhi puntati su questa scalinata e
voi non potete permettere che un agente della reazione come Renko si avvicini indisturbato. La cosa più importante è toglierlo di mezzo. Se uno di voi scivolasse e per sbaglio gli sparasse un colpo nella schiena, per il mondo non sarebbe una gran perdita.» «Io non faccio niente per sbaglio» gli assicurò la guardia. Max si spostò di lato per continuare la salita. «Come ho detto, ho dei colleghi qui.» «Lo so che ce li hai.» La guardia si levò la maschera. Era Beno, il nipote di Makhmud. Il volto era scuro quasi come la maschera, ma illuminato da un sorriso. «Ecco perché siamo venuti, nel caso tu avessi tentato di raggiungerli.» La guardia tarchiata afferrò Max per un lembo della giacca. «Cercavamo anche Borya» disse Beno, «ma se a lui ha pensato Renko possiamo concentrarci su di te. Cominceremo a chiederti di quei miei quattro cugini morti davanti al tuo appartamento di Berlino.» «Renko, di cosa sta parlando?» chiese Max. «E poi parleremo di Makhmud e di Ali. Vedrai che nottata» disse Beno. «Arkady» implorò Max. «Ma dato che qui tra un'ora la faccenda si farà pericolosa» disse Beno «andremo a discutere da qualche altra parte.» Max si divincolò liberandosi dalla giacca e scese di corsa in diagonale i gradini. In fondo scivolò sulla cera, schiantò la linea dei veterani, si rimise in piedi e si aprì la strada nel cerchio di fedeli stretti intorno al prete. Il ceceno tarchiato gli corse dietro. Beno fece un cenno a un gruppo tra la folla e indicò la direzione che Max aveva preso. In camicia bianca era facile da seguire. Beno guardò Arkady. «Rimani? Sarà sanguinoso.» «Ho degli amici.» «Portali via.» Beno tornò a infilarsi il passamontagna e aggiustò i buchi sugli occhi. Scese un gradino. «In caso contrario... buona fortuna.» Si tuffò nella folla. Arkady salì i rimanenti gradini fino alle luci in cima e arrivò proprio mentre usciva un portavoce, protetto da guardie in giubbotto antiproiettile. Attorniato dalle telecamere, il portavoce rimase fuori lo stretto necessario per annunciare che erano stati notati dei cecchini sui palazzi circostanti. Rientrò chinandosi, ma i giornalisti restarono fuori per verificare la notizia. Irina era comparsa insieme al portavoce, ma era rimasta fuori. «Sei venuto» disse.
«Ti ho detto che sarei venuto.» Irina aveva gli occhi infossati per la fatica e illuminati dall'eccitazione. «Stas è dentro, al secondo piano. È in contatto con Monaco. Non hanno ancora tagliato le linee. Sta trasmettendo proprio in questo momento.» «Dovresti essere con lui.» «Vuoi che vada?» «No, ti voglio con me.» Altri traccianti salirono in cielo mentre l'altoparlante insisteva inutilmente chiedendo un oscuramento totale. Riapparvero le sigarette insieme alle maschere antigas... un perfetto oscuramento russo, pensò Arkady. Si udivano delle motovedette avvicinarsi sul fiume, poi le luci di un convoglio apparvero sulla sponda opposta. Le donne della prima linea avevano cominciato a cantare e qua e là la folla seguì ondeggiando. Al buio pareva la superficie di una prateria mossa dal vento. «Aspettiamo insieme a loro» disse Irina. Scesero la scalinata, superarono l'anello dei veterani e una fila di candele appena accese. Altri veterani in carrozzella erano arrivati ed avevano fatto passare delle catene tra i raggi delle ruote. Le donne li riparavano sotto gli ombrelli. Il loro arrivo... quella sì, pensò Renko, che doveva essere stata una parata. «Continua a camminare» disse Irina. «Non ero ancora scesa fra la gente. Voglio vedere.» La gente stava seduta, o camminava lentamente come a una fiera di paese. Arkady era sicuro che in seguito ognuno avrebbe avuto un ricordo diverso. Uno avrebbe detto che l'atmosfera intorno alla Casa Bianca era silenziosa, tesa, carica di determinazione; un altro avrebbe ricordato un'atmosfera da circo. Se fossero sopravvissuti. Per tutta la vita Arkady aveva evitato marce e manifestazioni. Era la prima alla quale veniva di sua volontà. Sospettava che lo stesso si potesse dire degli altri moscoviti intorno a lui: degli operai edili che costituivano le truppe interne disarmate e dalla barba lunga; degli apparatchiki che avevano deposto le borse per prendersi per mano e formare una catena, così numerosa da racchiudere la Casa Bianca in almeno cinquanta anelli; delle dottoresse che, chissà come, dai magazzini vuoti degli ospedali erano riuscite a recuperare delle bende. Sentiva il bisogno di vederli tutti in volto. Non era il solo. Un prete si spostava lungo una fila impartendo l'assoluzione. Notò alcuni pittori che disegnavano ritratti a matita bianca su cartoncino nero, distribuendoli poi
in giro come regali. Il mistero non sta nel modo in cui moriamo ma in quello in cui viviamo. Il coraggio che abbiamo alla nascita si accumula, si raggrinzisce, scompare. Anno dopo anno diventiamo sempre più soli. Eppure, tenendo Irina per mano, in quel momento, in quella notte, Arkady si sentiva capace di smuovere il mondo. Qualcuno gli mise in mano un pezzo di carta. Guardò il proprio viso: lo conosceva, era quello con cui era nato. Un rumore crebbe come un vortice nella pioggia. Sopra di loro un elicottero fece vibrare l'aria e lanciò un bengala che scese verso terra, come un fiammifero in un pozzo. Ringraziamenti Devo molto ai consigli e alle informazioni che mi sono stati dati a Mosca da Vladimir Kalinichenko, Alexander Stashkov, Yegor e Chandrika Tolstyakov; a Monaco da Rachel Fedoseyev, Jorg Sandl e Nougzar Sharia; a Berlino da Andrew Nurnberg e Natan Federowskij. Un'assistenza generosa mi è stata inoltre fornita da Nan Black e Ellen Irish Smith, e il coraggio da Knox Burger e Katherine Sprague. Ancora una volta, Alex Levin ha fatto da bussola. Gli errori sono tutti miei. FINE